I Distretti Industriali in Italia quale Modello di
Transcript
I Distretti Industriali in Italia quale Modello di
COP Schilirò 7-07-2008 10:12 Pagina 1 Università Cattolica del Sacro Cuore CENTRO DI RICERCHE IN ANALISI ECONOMICA E SVILUPPO ECONOMICO INTERNAZIONALE I Distretti Industriali in Italia quale Modello di Sviluppo Locale: Aspetti Evolutivi, Potenzialità e Criticità Daniele Schilirò € 3,00 PP Schilirò 7-07-2008 10:12 Pagina 1 Università Cattolica del Sacro Cuore CENTRO DI RICERCHE IN ANALISI ECONOMICA E SVILUPPO ECONOMICO INTERNAZIONALE I Distretti Industriali in Italia quale Modello di Sviluppo Locale: Aspetti Evolutivi, Potenzialità e Criticità Daniele Schilirò Luglio 2008 PP Schilirò 7-07-2008 10:12 Pagina 2 Daniele Schilirò, Dipartimento DESMAS ‘Vilfredo Pareto’, Università degli Studi di Messina, [email protected] [email protected] www.vitaepensiero.it All rights reserved. Photocopies for personal use of the reader, not exceeding 15% of each volume, may be made under the payment of a copying fee to the SIAE, in accordance with the provisions of the law n. 633 of 22 april 1941 (art. 68, par. 4 and 5). Reproductions which are not intended for personal use may be only made with the written permission of AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], web site www.aidro.org Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web www.aidro.org © 2008 Daniele Schilirò ISBN 978-88-343-1713-6 Abstract Il saggio si articola su tre argomentazioni. La prima riguarda le caratteristiche del modello di sviluppo locale basato in Italia sui distretti industriali e la loro crescente importanza per l’intero sistema economico, gli aspetti evolutivi e la relativa metamorfosi dei distretti, le loro potenzialità e alcune considerazioni sulle criticità. In proposito si afferma che ogni riflessione sul tema dei distretti non può prescindere dall’analisi dei contesti sociali e culturali, delle istituzioni e del territorio. La seconda argomentazione riguarda la capacità competitiva e, quindi, la vitalità del modello italiano di sviluppo industriale basato sulle PMI incastonate nei distretti industriali e sulle medie imprese più strutturate, e fondato sulle specializzazioni manifatturiere, sull’innovazione e sull’internazionalizzazione. La tesi che questo saggio vuole sostenere, in sintonia con Fortis e Quadrio Curzio (2006), è che tale modello, rappresentato in modo emblematico dal “Made in Italy”, è un sistema forte e dinamico che ha dimostrato nel tempo e dimostra ancora di costituire un paradigma di perdurante competitività, seppur frenato a livello sistema-paese da innumerevoli e cronici «lacci e lacciuoli». La terza argomentazione riguarda la questione del come e perchè replicare i «distretti industriali» in una regione a sviluppo ritardato come la Sicilia, dove appare evidente la necessità di «trasformare» il capitale umano in capitale sociale e dove è necessario realizzare alcune pre-condizioni di natura infrastrutturale ed istituzionale senza le quali lo sviluppo non può sussistere. 3 Abstract in inglese The essay focuses on three main topics. The first one concerns the characteristics of the model of local development in Italy, based on the industrial districts, and the increasing weight of these districts in the economic system. Moreover, the evolution and the transformation of the industrial districts is analyzed, emphasizing their points of strength and of weakness. One proposition that derives from this analysis is that any theoretical study on industrial districts must take into account the analysis of social and cultural environments, of institutions and of territory. The second topic regards the competitiveness of this Italian industrial development model, based on PMI that belong to the industrial districts and on medium enterprises, which is founded on the specialization of productions, on innovation and internationalization. The proposition maintained in this essay, in accordance with that expressed in Fortis and Quadrio Curzio (2006), is that such a model of industrial districts, well represented by the so called “Made in Italy”, is a strong and dynamic system which has shown good performances and it is still representing a paradigm of lasting competitiveness, even if it is restrained by many external chronic constraints. The third topic concerns the issue of how and why to replicate the «industrial districts» in Sicily, which is a region not enough developed, where it seems clear the necessity of transforming the human capital into social capital, and also where some necessary pre-conditions for the development, regarding the infrastructures and the institutions, must be carried out . 4 INDICE 1. Introduzione 7 2. I Distretti Industriali 9 3. I Distretti Industriali e il Made in Italy 12 4. La Metamorfosi dei Distretti 17 5. É importante replicare in Sicilia i distretti industriali? 21 6. Conclusioni 29 Riferimenti Bibliografici 31 Elenco Quaderni Cranec 33 5 1. Introduzione* Una prima argomentazione di questo lavoro riguarda le caratteristiche del modello di sviluppo locale basato in Italia sui distretti industriali e la loro crescente importanza per l’intero sistema economico, gli aspetti evolutivi e la metamorfosi dei distretti, le loro potenzialità e alcune riflessioni sulle criticità. L’Italia ha conosciuto nel dopoguerra un processo di industrializzazione diffusa che si è accentuato alla fine degli anni settanta e che ha riguardato anche e soprattutto regioni e territori che non appartenevano al cosiddetto «triangolo industriale», il nostro paese è così diventato un sistema economico con una notevole diversità strutturale e territoriale, e caratterizzato dalla presenza di molteplici specializzazioni localizzate. Tale processo è stato interpretato, il più delle volte, come effetto delle rilocalizzazioni di imprese di grandi dimensioni, in particolare del Nord-Ovest, o, semplicemente, come una forma di decentramento produttivo. In ogni caso, si è sminuita l’importanza di quel movimento di trasformazione dell’organizzazione produttiva caratterizzato, nel suo complesso, da esplosioni di imprenditorialità locale con una forte adattabilità congiunturale e, spesso, con una maggiore efficienza produttiva, che hanno dato vita a modelli di sviluppo diversificati. Giacomo Becattini (2000, 2007) e, parimenti, Giorgio Fuà (1983) sono stati coloro i quali si sono opposti con convinzione alla visione tradizionale dello sviluppo industriale che parte dal «centro» e si dirama verso le «periferie» e che tende a negare o comunque a limitare l’importanza economica dei distretti industriali e della «terza Italia», costituita da reti locali di migliaia di piccole e medie imprese, settorialmente specializzate e in grado di assicurare specifici tipi di prodotto finito o semi-lavorato. In tale ‘visione alternativa’ il distretto industriale diventa il luogo teorico-pratico e lo strumento interpretativo che permette di spiegare lo sviluppo locale; infatti nei distretti le connessioni tra relazioni economico-produttive e relazioni socioculturali sono inseparabili. Inoltre, la diversificazione dei sentieri di sviluppo industriale fra i diversi territori e fra i differenti settori del sistema produttivo stanno a rappresentare un modello di industrializzazione più com* Questo saggio rientra nel progetto di ricerca “Dinamica strutturale: profili tecnologici e organizzativo-istituzionali” finanziato dall’Università Cattolica (Linea di finanziamento D.1. anno 2006) e coordinato dal Prof. Alberto Quadrio-Curzio. Ringrazio Fulvio Coltorti per aver letto il saggio e per le Sue preziose osservazioni. L’autore è comunque il solo responsabile delle opinioni espresse e di eventuali errori contenuti nel saggio. 7 plesso e variegato, che rispecchia modelli socio-culturali, storicamente radicati e, allo stesso tempo, in continua evoluzione. In questa nuova rappresentazione, più complessa, del modello di sviluppo industriale locale basato sui distretti la domanda ha un ruolo cruciale. Si è andata infatti affermando una domanda più differenziata, personalizzata, che sceglie non solo razionalmente ma anche emozionalmente, e dove la scelta di una tipologia di prodotto deve spesso rivelare anche prestigio sociale. La domanda diventa più frammentata e variabile, mentre il prodotto standardizzato perde terreno. Torna in auge, in un certo senso, la visione pre-marginalista dei bisogni: i beni che si consumano devono avere una dimensione culturale; ciò rende importante la materia prima, la lavorazione, il design. Tale argomentazione porta quindi ad affermare che, ogni riflessione sul tema dei distretti non può prescindere dall’analisi dei contesti sociali e culturali, delle istituzioni e del territorio. Un’altra tesi importante, già sostenuta da Marco Fortis e Alberto Quadrio Curzio (2006), che facciamo nostra, è che il modello italiano di sviluppo industriale basato sulle piccole e medie imprese incastonate nei distretti industriali e sulle medie imprese più strutturate (“Colonne”), fondato sulle specializzazioni manifatturiere, sull’innovazione e sull’internazionalizzazione, è un sistema vitale e dinamico, che riesce a mantenere un ruolo di rilievo in Europa e nel mondo con la sua elevata capacità ad esportare i suoi prodotti. Tale modello distrettuale ha dimostrato nel tempo di costituire un paradigma di perdurante competitività, seppur frenato a livello di sistemapaese da innumerevoli e cronici «lacci e lacciuoli» (peso della burocrazia, fiscalità eccessiva, carenze nelle infrastrutture, ecc.). Di conseguenza, è sbagliato cercare nei distretti industriali e nelle specializzazioni tradizionali la causa di alcune (vere) fragilità strutturali del sistema Italia. Anche se siamo tra coloro che non credono che la preziosa risorsa dei distretti industriali possa da sola essere sufficiente a garantire il successo nelle sfide economiche e tecnologiche future caratterizzate dai processi di globalizzazione; l’Italia ha pertanto bisogno anche di grandi imprese industriali (“Pilastri”), che possono essere complementari ed interrelarsi positivamente con le realtà distrettuali, ed ha bisogno di rafforzare soprattutto le “reti”. Infine, vi è la questione riguardante il come e perché replicare i distretti industriali in una regione a sviluppo ritardato come la Sicilia, dove appare evidente la necessità di «trasformare» il capitale umano in capitale sociale e dove è necessario realizzare alcune pre-condizioni senza le quali lo sviluppo non può sussistere. 8 2. I Distretti Industriali Il termine “distretto industriale” nasce con Alfred Marshall (18421924). Gli studi di Marshall rappresentano una pietra miliare a partire dalla quale il distretto industriale inizia ad essere considerato un concetto socioeconomico. Marshall aveva notato come la co-presenza di imprese operanti nello stesso settore e nella stessa area creasse un’ “atmosfera industriale” in grado di sostenere e favorire il rafforzamento dell’industria locale. Questo lo spinse a ritenere che la dimensione locale avesse un ruolo fondamentale sull’organizzazione dell’industria e nello sviluppo economico. Inoltre, il distretto industriale marshalliano si basava sull’importanza delle economie esterne nella comprensione dello sviluppo delle agglomerazioni di piccole e medie imprese, in cui produttori, fornitori e clienti interagiscono in modo costante. Questa idea è stata re-interpretata successivamente nella letteratura sui distretti in un’ottica di learning, dove l’elemento centrale riguarda la prossimità degli attori nell’attività economica che comporta appunto quei benefici legati alle economie esterne. Tale linea di ricerca è stata approfondita soprattutto da Giacomo Becattini, che ha avuto il merito di riorganizzare le fondamentali intuizioni di Marshall in un quadro interpretativo organico applicandole all’analisi dei distretti in Italia. Secondo Becattini il distretto industriale è definito essenzialmente «come un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali»1. E ancora «il distretto…è la forma concreta, definita su due dimensioni – l’industria e il territorio – del principio dei rendimenti crescenti all’ampliarsi della domanda, in ambiente concorrenziale»2. La stretta relazione che si instaura nel distretto fra comunità ed imprese è il fattore chiave che spinge all’innovazione, alla conoscenza, alla qualità. Le caratteristiche determinanti del distretto industriale nella concezione di Becattini sono3: i) un’attività dominante di natura industriale; l’attività deve configurare una specializzazione in una determinata produzione di beni. ii) Una comunità locale costituita da una comunità di persone e da un parallelo sistema istituzionale; la comunità delle persone deve incorporare 1 Becattini (1989), p. 112. Becattini (2007), pp. 231-232. 3 Becattini (1989), pp.113 e ss. 2 9 un sistema “abbastanza omogeneo” di valori che si è venuto formando nel corso del tempo e che deve esprimere incentivi all’attività imprenditoriale e all’introduzione di innovazioni; tale sistema di valori viene diffuso e trasmesso attraverso il sistema istituzionale, ovvero il mercato, l’impresa, la famiglia, le amministrazioni pubbliche, le associazioni politiche, sindacali e private. iii) Una popolazione di imprese, ciascuna delle quali specializzata in una singola fase (o in poche fasi) del processo produttivo tipico del distretto, il quale si configura come un “caso di realizzazione localizzata di un processo di divisione del lavoro”. iv) La specializzazione del distretto consiste in imprese che appartengono prevalentemente ad uno stesso settore industriale, definito in modo da comprendere quelle che Marshall chiamava ‘industrie ausiliarie’, come le imprese che producono macchinari o che prestano servizi ad altre imprese, e che si configura come filiera o settore verticalmente integrato. Questi dunque i tratti fondamentali del modello distrettuale, che si rivela essere un sofisticato concetto di sistema locale, sintesi di storia, cultura sociale ed organizzazione industriale, dove le economie esterne svolgono un ruolo cruciale e i costi di transazione sono sufficientemente bassi, e in cui si riscontra una combinazione diffusa di versatilità, qualità e innovazione. Quindi nell’interpretazione di Becattini il distretto industriale consiste in una nuova unità di analisi in quanto rappresenta un’entità economica a metà strada tra la singola impresa e l’intero settore, che tiene conto dei luoghi produttivi, delle comunità produttrici nelle loro specializzazioni e despecializzazioni. Un altro aspetto importante e peculiare dei distretti industriali è la combinazione tra competizione e collaborazione (‘co-petizione’) tra imprese. Spiega Fortis4 che all’interno del distretto la competizione tra le imprese è assai forte e seleziona le aziende migliori e più efficienti. Ma, nello stesso tempo, le imprese dei distretti industriali spesso collaborano fra loro a progetti comuni come, ad esempio, ad iniziative per la promozione all’estero dei prodotti del distretto. L’importanza del territorio per l’analisi dei distretti industriali e, più in generale, dei processi di industrializzazione è stata sottolineata soprattutto da Carlo Trigilia5. La considerazione di tale fattore ha certamente arricchito l’interpretazione dello sviluppo industriale, in quanto ha consentito di valutare la forza produttiva dei ‘contesti territoriali’ riuscendo così a spiegare 4 Fortis, I distretti produttivi e la loro rilevanza nell’economia italiana: alcuni profili di analisi, in Fortis-Quadrio Curzio (2006), p. 120. 5 Trigilia (2005). 10 meglio, anche ex post, perché in certe aree lo sviluppo si è verificato ed in altre no. Trigilia ha insistito inoltre sulla centralità delle politiche territoriali nei nuovi scenari geo-economici e l’ha ricondotta al modo con il quale si dispiegano i processi innovativi. La fertilità dei territori, quindi, è funzione diretta della loro capacità di creare beni collettivi locali che aumentano la competitività delle imprese, sia perché ne abbassano i costi sia perché possono accrescere la loro capacità di innovazione. Tutto questo, però, non costituisce un semplice prodotto delle tradizioni civiche, ma dipende dalla cooperazione intenzionale fra enti locali, istituzioni e imprese, e tale cooperazione è in grado di produrre economie esterne materiali e immateriali. Così, la visione di Trigilia, che riprende concetti e aspetti già presenti nelle analisi di Becattini sui distretti, vede la produzione come un processo intrinsecamente localizzato, dove ciascun territorio mobilita nella produzione la propria conformazione naturale, la propria storia, la propria cultura, la propria organizzazione sociale, e tali risorse hanno comunque una loro specificità e sono differenti da quelle che possono essere mobilitate in altri luoghi e territori. Il contesto ambientale, sintesi di una storia umana e naturale, costituito dall’insieme dei fattori locali, che forniscono a sua volta al sistema delle imprese il lavoro, l’imprenditorialità, le infrastrutture materiali e immateriali, la cultura sociale e l’organizzazione istituzionale, è quindi cruciale. In questa analisi dello sviluppo locale Becattini parla di processo di produzione circolare6, riproponendo l’idea dello schema di riproduzione di Quesnay, che mette in relazione gli aspetti tecnici ed economici con quelli sociali, culturali e istituzionali, dove la produzione delle merci include la riproduzione sociale dell’organismo produttivo (valori, conoscenze, istituzioni, ambiente sociale) che serve a perpetuarlo. Infine, in questa rappresentazione teorica dello sviluppo locale per distretti la domanda assume un ruolo sempre più cruciale. Una domanda legata soprattutto ai diversi livelli di reddito e alle diverse sensibilità culturali di chi la esprime e che diventa espressione di una società dove le emozioni, le sensazioni, l’estetica sono sempre più i parametri di riferimento delle scelte di consumo. Le analisi interpretative sui distretti industriali da parte di Becattini e di altri studiosi, molti dei quali a lui vicini, hanno avuto un notevole successo sul piano teorico, la loro applicazione a livello empirico, però, non si è rivelata affatto agevole, sia perché componenti essenziali della teoria dei distret6 Becattini (2000), p. 96. Sul processo di produzione circolare si veda anche Schilirò (2006). 11 ti sono costituiti da fatti impalpabili, ma cruciali come, ad esempio, la qualità dei flussi informativi, sia per la mancanza nei dati censuari di una corretta classificazione territoriale idonea a cogliere la realtà dei distretti industriali. A quest’ultimo problema si è trovata, in parte, una soluzione attraverso la definizione di “sistemi locali di lavoro” (SLL)7, che vengono classificati come quei sistemi locali che posseggono certe caratteristiche (ad esempio, in termini di incidenza di occupazione manifatturiera) in misura superiore a determinate soglie. 3. I Distretti Industriali e il Made in Italy I distretti industriali rappresentano la caratteristica specifica principale del sistema produttivo italiano, che si differenzia per tale peculiarità dai sistemi produttivi dei paesi ad avanzato livello di sviluppo. Elementi fondanti dei nostri distretti sono senza dubbio: il dinamismo delle piccole e medie imprese, che li costituiscono e che sono diretta espressione di una imprenditorialità vivace e diffusa, la loro presenza capillare sul territorio, in particolare nelle aree del Nord e del Centro, ma anche in alcune zone del Sud (in particolare in Abruzzo, Puglia, Basilicata), le loro specificità territoriali. I distretti italiani si caratterizzano per la loro specializzazione produttiva nei settori tradizionali (come, ad esempio, il tessile-abbigliamento, le pellicalzature, il legno-mobilio, ecc.) e nella meccanica leggera; essi sono quindi strettamente legati al cosiddetto “Made in Italy”, ovvero ai prodotti di un complesso di settori fortemente associati all’immagine del nostro paese nel mondo quale essa appare attraverso i media. Fortis (1998) ha individuato le componenti principali di questo insieme di prodotti che costituisce il “Made in Italy”, esse sono: i beni ad uso ripetuto, non di vasta serie, per la persona; i beni ad uso ripetuto del complesso arredo-casa; i prodotti alimentari che fanno parte della «dieta mediterranea»; gli apparecchi meccanici e le macchine specializzate o beni strumentali e collaterali derivati da tali specializzazioni manifatturiere, che si sono anch’essi affermati nei mercati mondiali. In Italia attualmente vi sono circa 156 sistemi manifatturieri specializzati censiti dall’ISTAT8, che si concentrano prevalentemente nelle «4 A» 7 E’ la soluzione proposta da Sforzi e dall’Istat. Si veda Signorini (2000), pp. XIVXV. 8 ISTAT (2005), dove si fa riferimento ai dati del 14° censimento generale della popolazione del 2001. In tale censimento i distretti industriali corrispondono, per le 12 del “Made in Italy”9: Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Automazionemeccanica, Alimentari-bevande, che coinvolgono soprattutto imprese piccole e medie, da cui dipende il 90,7% dell’occupazione ed il 77,6% delle esportazioni. I distretti industriali trainano infatti le aree dove l’export è più forte, Signorini (2000) parla, in proposito, di “effetto distretto” sulla capacità di esportare. Inoltre, le province italiane con la quota di esportazioni più elevata sono spinte sui mercati esteri proprio dall’alta specializzazione produttiva e dalla ricerca di mercati più estesi. I distretti industriali manifatturieri censiti dall’ISTAT sono territorialmente così ripartiti: 42 nel Nord-Est, 39 nel Nord-Ovest, 49 nel Centro Italia e 26 nel Mezzogiorno. La ripartizione settoriale, che riguarda la specializzazione dei distretti, è invece la seguente: 45 distretti nel tessile e abbigliamento, 32 per i beni per la casa, 20 nella pelletteria e calzature, 38 nella meccanica, 21 in altri settori manifatturieri incluso l’alimentare. Nell’insieme dei distretti industriali si concentra un quarto dell’occupazione italiana e, in particolare, i sistemi manifatturieri specializzati individuati dall’ ISTAT occupano quasi 2 milioni di addetti, il che significa una media di circa 12.800 addetti per sistema manifatturiero specializzato. Per ciascun di tali sistemi si tratta di una dimensione, in termini di occupazione, pari ad una grande impresa. Nei distretti le imprese operano dividendosi tra loro i compiti, alla stregua delle grandi imprese, ma con una flessibilità maggiore, utilizzando il contesto territoriale in cui sono inserite; inoltre, i distretti sono caratterizzati dall’integrazione orizzontale delle piccole e medie imprese che li compongo. Il distretto industriale, quindi, esprime la possibilità per una concentrazione geografica di numerose imprese specializzate di dimensione piccola o media, di organizzare la produzione in modo efficiente come in una grande impresa. Ciò è reso possibile dai flussi di economie esterne che si generano localmente fra le imprese e che derivano dall’insieme di conoscenze, valori, comportamenti tipici e istituzioni attraverso i quali la società locale agisce sull’organizzazione della produzione. Noi condividiamo la tesi di Marco Fortis e Alberto Quadrio Curzio (2006) secondo cui i distretti industriali manifatturieri specializzati, costituiti da piccole e medie imprese e caratterizzati da un forte radicamento nel territorio, che rappresentano di fatto il “Made in Italy”, sono ancora trainanmodalità con cui sono individuati, ai Sistemi Locali del Lavoro (SSL), che presentano caratteristiche distrettuali e hanno natura prevalentemente manifatturiera. 9 Si veda la riclassificazione delle principali specializzazioni distrettuali del “Made in Italy” fatta dalla Fondazione Edison per l’anno 2001 in M. Fortis e M. Carminati, I distretti industriali nella concretezza economica e normativa: i «campioni territoriali» dell’Italia, in Quadrio Curzio - Fortis (2007), pp. 97-115. 13 ti per l’economia italiana. Il “Made in Italy” dimostra ancora oggi di mantenere un ruolo di rilievo in Europa e nel mondo, come del resto ha dimostrato per un lungo periodo storico. Anzi di costituire nel suo insieme un paradigma di perdurante competitività con elementi forza e punte di eccellenza straordinarie. L’analisi dei dati statistici elaborati dalla Fondazione Edison e condotta da Marco Fortis10 sta a dimostrare che l’Italia, grazie ai distretti del “Made in Italy” è il primo esportatore netto europeo di moda, arredocasa, prodotti in metallo e meccanica strumentale. Anche i recenti dati ISTAT sull’export confermano che la sorprendente crescita delle esportazioni avviene proprio negli stessi settori di forza del “Made in Italy” (meccanica, beni per la persona, beni per la casa). Nel 2006, infatti, l’avanzo commerciale con l’estero delle «4 A» del “Made in Italy” ha raggiunto il livello di 92 miliardi di euro, e nel 2007 tale avanzo è cresciuto ancora raggiungendo ben 113 miliardi di euro11. Questa crescita delle esportazioni si è indirizzata verso i paesi emergenti come la Russia e altri paesi dell’est europeo, l’America Latina, e, per l’Europa, soprattutto la Spagna. Inoltre i dati ISTAT12 per classe dimensionale di impresa per l’anno 2005 mostrano la seguente ripartizione: a) per le piccole imprese (fino a 49 addetti) il totale delle esportazioni risulta pari a 73,2 miliardi di euro con un saldo esportazioni-importazioni di +3,9 miliardi; b) per le medie imprese (da 50 a 499) addetti il totale delle esportazioni risulta pari a 111,7 miliardi di euro con un saldo di +14,6 miliardi, di queste medie imprese quelle con un saldo più favorevole sono quelle medie imprese con meno di 100 addetti; c) per le grandi imprese (da 500 e oltre) addetti il totale delle esportazioni risulta pari a 93,9 miliardi di euro con un saldo negativo di 12,2 miliardi. Infine, l’incidenza media delle esportazioni sul fatturato è andata aumentando negli ultimi anni, soprattutto per le medie imprese localizzate nei distretti, le quali mostrano una propensione all’export superiore a quella delle imprese localizzate in altre aree. Le fonti di competitività dei distretti industriali del “Made in Italy” sono basate sulla flessibilità nell’organizzazione del lavoro, sulla qualità del lavoro, sulla capacità di acquisizione, adattamento e diffusione delle tecnologie, sul design e la qualità del prodotto, sul marketing e i servizi dopo la vendita. Tuttavia la recente crisi di molti distretti, le loro difficoltà nella competizione internazionale, la 10 M. Fortis, L’economia italiana nel nuovo scenario competitivo mondiale: il ruolo del settore manifatturiero, in Fortis - Quadrio Curzio (2006), pp.70-77. 11 A. Quadrio Curzio, Prefazione. Un successo delle “2i”: innovazione e internazionalizzazione, in Cainelli (2008), p. 11. 12 ISTAT (2006). 14 creazione di sistemi produttivi più concentrati e complessi, e la difficoltà di replicare i distretti industriali in contesti nuovi, ha provocato una riflessione critica sui distretti industriali italiani da parte di molti studiosi. Per coloro i quali credono ancora nella validità del modello dei distretti industriali di origine marshalliana il problema che viene posto è quello dell’esigenza di trasformare le imprese di ogni sistema produttivo specializzato in un sistema di imprese “a rete”, dove con tale termine si intende una struttura indivisibile di interdipendenze (interazioni, relazioni, connessioni) che modifica in quantità e qualità, le prestazioni dei soggetti in essa inseriti. Ovviamente, per caratterizzare un sistema “a rete” di distretto industriale marshalliano contano la dimensione delle imprese, le relazioni tra imprese, gli orientamenti verso l’interno e verso l’esterno della “rete” da parte delle imprese. Le motivazioni per la scelta della soluzione “a rete” riguardano, anzitutto, il fatto che l’esistenza e il buon funzionamento di “reti” tra i diversi attori (imprese, istituzioni locali, università ed enti di ricerca, banche ed intermediari finanziari) appare un aspetto cruciale per lo sviluppo e la competitività, in quanto concreta espressione del capitale sociale, cioè di quell’importante risorsa costituita dal tessuto relazionale in cui individui e istituzioni interagiscono sulla base di rapporti fiduciari, norme, interessi e obiettivi condivisi. In secondo luogo, perché è la conoscenza il fattore che sempre più bisogna veicolare all’interno dei sistemi produttivi ed esportare sui mercati esteri. Infatti, ci ricorda Enzo Rullani (2004), oggi bisogna fare i conti con l’internazionalizzazione invisibile, che non è fatta solo di esportazioni e di investimenti diretti all’estero (Ide), ma principalmente di conoscenza e quindi di “reti di imprese”, di investimenti in comunicazione, in logistica, in sistemi di garanzia verso il cliente. Non è allocando fattori immobili, ma propagando conoscenza da un luogo all’altro che la nuova internazionalizzazione crea valore. Lo sviluppo dei distretti è nella sostanza connesso allo sviluppo dell’economia basata sulla conoscenza, che dipende soprattutto dalla ricerca, dalla qualità del capitale umano, dall’esistenza e dall’efficienza delle “reti” e dalla capacità di creare “imprese a rete”. I distretti costituiscono “un’economia in movimento”, che riesce ad emergere adattandosi sia alle mutate condizioni esterne ed anche rielaborando continuamente i suoi fattori interni, primo fra tutti l’innovazione nelle sue molteplici forme, ovvero non solo la tecnologia, ma anche l’organizzazione commerciale, la riorganizzazione interna del lavoro, l’upgrading del capitale umano, la trasmissione di “conoscenza tacita”, i rapporti con il sistema creditizio. Oggi i fattori strategici su cui devono puntare le piccole e le medie imprese sono soprattutto: la ricerca, l’innovazione, la qualità del capitale uma15 no, fare squadra, la dimensione, le regole, il brand ed anche la finanza innovativa. Di questi fattori l’aspetto dimensionale è molto importante per competere nell’epoca della globalizzazione, poiché la crescita dimensionale delle imprese, che non implica necessariamente la grande dimensione, si accompagna a maggiori investimenti in nuove tecnologie materiali e immateriali ed a un maggior impiego di manodopera qualificata, da cui spesso segue un’accresciuta capacità di allargare i mercati di sbocco delle esportazioni e soprattutto di investimenti per penetrarli con una presenza più diretta e meno volatile. In un contesto in cui il progresso tecnologico corre a ritmi elevati comportando una forte riduzione del ciclo dei prodotti, mentre la globalizzazione ha ampliato enormemente i mercati, il modello delle piccole imprese e delle medie imprese, se incastonate nel sistema dei distretti, può ancora risultare valido e vincente per l’economia italiana, come testimoniano i vari studi che sottolineano la capacità d’internazionalizzazione e di innovazione delle imprese che fanno parte dei distretti. Tuttavia è necessario considerare la loro multiforme composizione, la multidimensionalità che deriva dallo sviluppo peculiare e territoriale che li rende diversi gli uni dagli altri. La diversità dei distretti industriali influenza i processi di innovazione, perché l’innovazione dipende anche, e in larga misura, dalle caratteristiche specifiche del settore produttivo in cui essa si sviluppa, ovvero l’innovazione segue in modo molto netto sentieri differenti a seconda del settore produttivo e dal contesto istituzionale in cui si realizza. Vieppiù l’innovazione è legata ai processi di internazionalizzazione13. Un numero crescente dii studiosi di economia delle imprese e di organizzazione industriale ha quindi messo in evidenza l’importanza delle specificità settoriali, della varietà dei processi di innovazione e, più di recente, del ruolo dell’internazionalizzazione. Gli studi empirici in generale hanno ampiamente confermato la relazione fra settori e fattori come la conoscenza, le tecnologie, i processi produttivi, la domanda, la popolazione di imprese eterogenee e le istituzioni. Tali studi hanno anche confermato che i settori differiscono in modo molto netto in diversi di questi fattori sopra citati. Le varie analisi sostengono che l’innovazione è l’elemento strategico che le imprese hanno per competere sui mercati. In secondo luogo, l’innovazione segue percorsi differenziati e specifici a seconda del settore in cui si sviluppa. In terzo luogo, l’innovazione si sviluppa attraverso la diffusione di conoscenza (codificata e tacita) e attraverso meccanismi di apprendimento. Questi processi sono 13 Bonaccorsi (2008). 16 fortemente facilitati dall’esistenza di reti di imprese e da reti di comunità scientifiche e di ricerca. In terzo luogo, il sistema economico non è una realtà statica, ma si trova in condizioni di continua trasformazione, per cui anche i settori cambiano e modificano i loro confini, e le imprese per competere devono cogliere questi cambiamenti e attuare una vera e propria innovazione di sistema. Inoltre, l’innovazione dipende in larga misura dagli investimenti in R&D e in capitale umano, ma sono altresì importanti altri fattori quali l’organizzazione, la finanza, le istituzioni e le policy. Infine, l’innovazione e l’internazionalizzazione sono fra loro legate e si rinforzano a vicenda, in quanto la maggior rotazione del portafoglio prodotti delle imprese, che viene loro imposta dall’agguerrita concorrenza internazionale, innalza i costi fissi determinando la ricerca di mercati più estesi, e ciò, da un lato, spinge in alto il rischio, ma, nello stesso tempo, alza il rendimento del capitale. 4. La Metamorfosi dei Distretti Il distretto produttivo tradizionale, che ha svolto fino a poco tempo fa un ruolo importante di trascinatore dello sviluppo dell’economia italiana, appare un sistema fortemente legato alle attività di trasformazione manifatturiera, e questo di per sé non è un aspetto negativo, ma a volte mostra di essere un pò lento nel riposizionarsi rispetto alle profonde trasformazioni che stanno caratterizzando l’economia mondiale. La globalizzazione ha infatti messo a dura prova la tenuta dei distretti industriali manifatturieri, provocando inevitabilmente dei rimescolamenti nei processi di produzione e di sviluppo, ed accentuando l’importanza del rapporto tra attività economiche e territorio. Inoltre, il modello operativo-organizzativo dei distretti non è più prerogativa dei sistemi produttivi locali con caratterizzazione strettamente manifatturiera, ma si è diffuso in molti altri settori: agro-alimentare, high tech, turismo, cultura, ecc. Questa inevitabile metamorfosi è parte di un più ampio processo di mutamento strutturale dell’economia, che comporta processi di selezione, e tende a un modello di economia basata sulla conoscenza, dove ricerca ed elevati ritmi di innovazione, integrazione dei mercati, upgrading del capitale umano, sistemi a rete, sono fra gli elementi che lo caratterizzano, e richiede un nuovo approfondimento sui temi dello sviluppo locale. In Italia si vive da diversi anni in una fase di bassa crescita economica ed anche di transizione politico-istituzionale, di cui però non si è ancora riusciti a stabilire un epilogo chiaro e ben definito. Il sentiero di sviluppo industriale italiano, fortemente caratterizzato dalla presenza e dal contributo dei 17 distretti, è apparso a molti osservatori caratterizzato da varie criticità: anzitutto, la dimensione media delle imprese troppo piccola rispetto a quella degli altri paesi (sia dell’Unione Europea sia extra-europei). In secondo luogo, la scarsa intensità di Ricerca e Sviluppo (R&S), l’Italia è infatti fra i paesi europei che destinano una quota molto modesta alla ricerca (1,16% del PIL), lontana da quel 3% fissato dall’Agenda di Lisbona, anche se nei distretti vi è molta ricerca tecnologica informale non rilevata dalle statistiche. In terzo luogo, la vulnerabilità energetica che dovrà comportare una necessaria diversificazione delle fonti e dei fornitori. In proposito la Commissione Europea ha stabilito che per l’Italia la quota di energia da fonti rinnovabili debba raggiungere il 17% entro il 2020, in realtà siamo ancora lontani da questo obiettivo. In quarto luogo, la concorrenza asimmetrica (e sleale) della Cina e di altri paesi emergenti. A queste criticità si potrebbero aggiungere: un utilizzo tuttora relativamente contenuto delle nuove tecnologie ITC soprattutto nelle piccole imprese, il basso grado di istruzione di molti imprenditori, l’esigua presenza di imprese italiane nei settori strategici ad alta tecnologia, il posizionamento di molte imprese distrettuali in settori a tecnologia medio-bassa, e soprattutto il peso eccessivo di un settore tradizionale come il tessile, dai dati Istat risultano infatti ben 45 distretti appartenenti a questo settore. Un settore, quello tessile, che subisce la forte concorrenza delle imprese cinesi e dei paesi asiatici, le quali in genere hanno costi molto più bassi. Inoltre in Italia il settore tessile nel suo insieme ha un peso in termini di quota di prodotto e di occupazione sproporzionato rispetto ad altri settori più innovativi, e molte delle imprese tessili non appartengono al circuito di qualità del “Made in Italy”. Negli anni Novanta, tuttavia, in alcune realtà distrettuali riguardanti regioni del Nord Italia (Emilia - Romagna, Lombardia, Veneto) la riorganizzazione territoriale della produzione ha causato la diminuzione nel numero dei distretti, accompagnata spesso da una crescita dimensionale delle imprese, soltanto nel Mezzogiorno si è avuto invece un sensibile aumento nel numero dei distretti. Un altro elemento di trasformazione della realtà dei distretti riguarda il ruolo delle medie imprese manifatturiere. Tali imprese sono cresciute numericamente e soprattutto la loro importanza è aumentata all’interno dei distretti industriali. Nel 2005 le medie imprese sono 4085 (considerando i dati per regione e per sistema produttivo locale basati sulle singole società, e non l’aggregato che considera i gruppi plurilocalizzzati), di queste imprese circa il 40% risultano incastonate nei distretti. In realtà, il rapporto con le aree distrettuali è più stretto di quanto sembri, dato che il 90% delle medie imprese ha sede nelle aree del Nord Ovest e del Nec, dove sono localizzati 18 gran parte dei distretti, che i settori del “Made in Italy” coprono tre quinti del valore aggiunto, e che per le imprese di questa dimensione i benefici dell’agglomerazione distrettuale possono essere acquisiti anche con la semplice “prossimità” territoriale14. Inoltre lo sviluppo di tali imprese è avvenuto soprattutto per vie interne. Esse presentano delle caratteristiche inaspettate come: i) una maggiore redditività a fronte di un minore capitale investito; si riscontra infatti fra le medie imprese una relazione inversa fra capitale investito rendimento dello stesso; ii) una più alta produttività del lavoro a fronte di un più basso rendimento di capitale investito; ciò è dovuto al tipo di mercato rilevante per la media impresa, che è un mercato di nicchia il quale limita le economie di scala, promuovendo invece la flessibilità e la capacità di differenziare il prodotto; iii) una solidità della struttura finanziaria15. Il modello aziendale delle medie imprese italiane risulta così fondato: basso uso di capitale, elevato contenuto contestuale del lavoro impiegato, radicamento sul territorio da cui viene derivato il core business, esaltazione dell’innovazione di prodotto e, nel caso dei beni strumentali, del servizio al cliente, come mezzo per creare nicchie all’interno di mercati vasti e per differenziare beni che vengono collocati di solito presso fasce di clientela a reddito elevato. Molte imprese manifatturiere italiane incastonate nei distretti, sia piccole, sia soprattutto medie sono però riuscite negli ultimi cinque anni a mutare “pelle” non senza difficoltà e spesso con ristrutturazioni difficili, non potendo più beneficiare della scorciatoia delle svalutazioni competitive, ma hanno dovuto imparare a competere con un cambio della propria moneta (l’euro) forte e spesso sfavorevole. Inoltre, diverse imprese di successo hanno avuto la capacità di creare “nicchie” di mercato importanti, puntando sulla qualità dei loro prodotti, sul brand e posizionandosi su fasce di mercato medio-alte senza per questo dover rinunziare alla loro specializzazione produttiva in settori tradizionali. Vieppiù essendo il mercato ormai di dimen14 Mediobanca-Unioncamere (2008), p. XXXII. Si veda inoltre op.cit. l’Allegato 2 pp. LXXXIII-LXXXV per una classificazione delle Medie Imprese per distretto e specializzazione con dati (2005) su fatturato, export, dipendenti, numero di imprese. 15 F. Coltorti, Le medie imprese italiane: una risorsa cruciale per lo sviluppo, in Fortis-Quadrio Curzio (2006), p. 344-346. Inoltre i dati relativi al 2003 mostrano che le medie imprese in Italia impiegano meno capitale guadagnando margini di profitto più elevati, in parte perché beneficiano di un costo del lavoro più basso, ma anche per la capacità di spuntare prezzi relativamente più elevati; Coltorti (2006), pp. 668672. 19 sione globale o mondiale queste “nicchie” sono diventate importanti e imponenti in termini di valore, di fatturato, di export e di profitti. Un altro elemento che ha caratterizzato la metamorfosi dei distretti industriali è la riorganizzazione societaria che ha portato alla diffusione del “gruppo distrettuale”, ossia di un’architettura giuridico-organizzativa di gruppi di imprese giuridiche con sede legale nell’area distrettuale e operanti in una delle diverse fasi della filiera produttiva del distretto16. Marco Fortis sostiene quindi che non sono i distretti ad essere in crisi, ma spesso lo sono i settori manifatturieri in cui i distretti operano: tessile, mobili, calzature, ecc. Le difficoltà che l’Italia sta attraversando, principalmente a causa della concorrenza cinese, non sono avvertite nella stessa misura anche nel resto d’Europa, perché gli altri paesi europei hanno abbandonato molti settori manifatturieri o ampie parti di essi, in cui l’Italia invece é ben presente e mostra, pur tra le difficoltà, vitalità e voglia di competere cercando di trasformarsi per adeguarsi alle mutate condizioni dei mercati. In particolare, la forza della concorrenza cinese è dovuta anche ad un cambio particolarmente sfavorevole per l’Italia e questo incide in misura significativa sulle capacità delle nostre imprese a competere ad armi pari. Sul fronte dell’innovazione è giusto precisare che non è vero che nei distretti si fa poca innovazione, perché l’innovazione, in particolare l’innovazione di prodotto, è stata costante nei distretti industriali in tutti questi anni, mentre è stata carente in altri settori. Infatti l’innovazione di prodotto delle piccole e medie imprese è stimolata da una domanda sempre più differenziata ed esigente nei contenuti tecnici e culturali ed è basata sul design, mentre l’innovazione di processo è fondata su conoscenze tacite, difficilmente codificabili e trasferibili in un brevetto con la conseguente facile imitazione da parte di imprese concorrenti. Quindi la critica secondo la quale nei distretti industriali si fa poca innovazione è da respingere, perché è la qualità del prodotto, la sua (spesso) evidente bellezza e questa inesauribile creatività che costituiscono il segno distintivo della vitalità innovativa di molti distretti in Italia e delle loro imprese. Infine, la trasformazione dei distretti produttivi ha condotto a collaborazioni fra imprese di settori diversi, e questo ha permesso un più elevato tasso di innovazione. Di conseguenza, in alcune realtà produttive si è imposto un modello diverso da quello del distretto tradizionale a singola vocazione produttiva, un modello nuovo di tipo intersettoriale e multiforme, dove anche le Università, in alcuni casi, svolgono un ruolo significativo. Tutto ciò ci fa capire essenzialmente due cose: anzitutto che il processo di meta16 Cainelli (2008), p. 50. 20 morfosi dei distretti è già in atto da tempo e sta conducendo a soluzioni nuove rispetto alla morfologia classica dei distretti industriali, e che questo processo, certamente complesso e spesso condizionato da vincoli di natura macroeconomica, richiede costi economici e sociali non indifferenti; esso tuttavia va incoraggiato e, se è necessario, governato con interventi mirati. In secondo luogo, che il sistema produttivo italiano basato sui distretti industriali è tuttora forte e dinamico ed è caratterizzato da un’intensa attività innovativa. La metamorfosi dei distretti, dovuta soprattutto alla globalizzazione, sta provocando dei cambiamenti significativi nei processi di sviluppo ed ha fatto emergere l’importanza ed un nuovo modo di concepire il rapporto fra attività economiche e territorio. La prossimità territoriale che caratterizza le imprese distrettuali tende oggi a far apparire il territorio spesso come un’ancora che dà vantaggi economici, piuttosto che una radice culturale e sociale comune, così le imprese tendono a chiedere reti più lunghe per competere e per superare i confini del territorio. Inoltre, avverte Trigilia (2005), per cogliere appieno le potenzialità e i processi evolutivi dei distretti industriali in questa nuova fase di mercati globali bisogna reperire risorse per le politiche di sviluppo dal basso, ma prima ancora, occorre una buona governance da parte delle varie istituzioni che devono essere dotate di un capitale umano di qualità. Il bilancio poco esaltante dei patti territoriali e della programmazione negoziata, che hanno spesso evidenziato l’assenza di progetti organici e coerenti, deve servire da monito e da esperienza; tuttavia una accresciuta capacità di intervento dei governi locali, se attuata in modo efficace, costituisce un requisito determinante per lo sviluppo. In generale le politiche per l’innovazione, la costruzione di reti di relazioni con le università ed i centri di ricerca pubblici e privati, gli investimenti in nuove tecnologie richiedono un insieme di interventi di natura diversa rispetto a quelli dello sviluppo non programmato prevalente nella storia dei distretti in Italia. 5. É importante replicare in Sicilia i distretti industriali? L’esperienza dei distretti ha messo in evidenza negli ultimi anni le difficoltà delle imprese ad aprirsi nuovi varchi nei mercati e la difficoltà di alcune imprese a tenere il passo con l’adozione di nuove tecnologie e, più in generale, con l’innovazione, cosicché è affiorata la tesi di poter fare a meno del modello dei distretti e delle esperienze di politiche industriali di stampo territoriale sin qui attuate. La risposta che diamo a questa tesi di abbandonare l’esperienza dei distretti è negativa, e le condizioni alle quali i distretti 21 devono adeguarsi nell’attuale scenario della competizione globale vanno chiarite e precisate. Bisogna anzitutto riconoscere il progressivo allentamento dell’impronta auto-contenuta nella sfera operativa delle produzioni distrettuali che si scompongono e si ricompongono su orizzonti geografici più ampi, spesso internazionali, basti pensare al fenomeno della delocalizzazione, e, quindi, riconoscere alcuni aspetti importanti inerenti alla metamorfosi stessa dei distretti, come i citati ‘contesti territoriali’, le specificità dei diversi settori e i cambiamenti dei loro confini, i complessi meccanismi di trasmissione della conoscenza e del trasferimento tecnologico, l’affermarsi delle reti di imprese e di comunità scientifiche, i mutamenti strutturali della domanda. Tuttavia non bisogna dimenticare le conoscenze accumulate e le tradizioni consolidate nella manifattura di prodotti di alta qualità dove l’Italia ha raggiunto livelli di eccellenza, come ad esempio, il distretto della motoristica in Emilia, le imprese dell’automotive in Lombardia e Veneto fortemente internazionalizzate, il distretto del tessile, della rubinetteria e delle valvole in Piemonte. Inoltre, Giacomo Becattini ha più volte insistito sul ruolo cruciale del capitale sociale17 che, a suo giudizio, costituisce l’architrave più importante che sostiene tutta l’impalcatura della competitività dei distretti, in quanto esso è il collante che lega le imprese e tutti gli attori del distretto, e che porta con se la partecipazione motivata dei lavoratori, minori asimmetrie tra clienti e fornitori, la stretta relazione tra reputazione ed il rispetto degli impegni negli affari, e posizioni di rilievo nelle agende politiche locali. Questa complessa architettura socio culturale trasforma in produttività e competitività il di più di coesione sociale e fa la vera differenza tra un distretto industriale e un semplice aggregato territoriale di imprese. Quindi, per replicare l’esperienza dei distretti bisogna in qualche modo creare o riprodurre il capitale sociale, tenendo anzitutto conto della multidimensionalità dello sviluppo, che ovviamente non riguarda soltanto la dimensione tecnologica e la conquista di quote di mercato, ma anche la dotazione e la qualità delle infrastrutture materiali ed immateriali, la reputazione e l’efficienza delle istituzioni, i legami di fruttuosa collaborazione fra mondo delle imprese ed università e centri di ricerca, ecc., ed in secondo luogo tenendo in considerazione la contemporaneità e i valori che la contraddistinguono. L’esperienza dei nostri distretti non va comunque dispersa, ma valorizzata e sviluppata, anche se le condizioni per realizzarla oggi devono tener conto delle esigenze di adeguamento dell’offerta del nostro apparato produt17 Sul significato e l’importanza del capitale sociale si veda Putnam (2004). 22 tivo alla nuova domanda interna e internazionale e alle sfide dei nostri competitors vecchi e nuovi. Certamente il sistema di relazioni e le competenze adeguate di tutti gli attori che operano nei distretti creano quel capitale sociale diffuso che rende il territorio più adatto a recepire e a sviluppare questo importante e dinamico sistema produttivo di imprese specializzate. L’attività normativa è stata una delle cause principali della diffusione dell’idea di distretto industriale negli anni Novanta, infatti in quegli anni si va tardivamente affermando la visione di “industrializzazione per distretti” come un tratto originale del capitalismo italiano. Dopo la legislazione degli anni Novanta, in particolare con l’emanazione della legge 371/1991, che introduceva il concetto di distretto industriale e lo definiva forse in maniera un po’ rigida, e della legge 140/1999 che faceva rientrare la definizione di distretto industriale nel più ampio concetto di sitema produttivo locale, è tornato negli anni più recenti l’interesse per i distretti da parte delle istituzioni politiche, creando, tuttavia, qualche sovrapposizione di competenze fra Stato e Regioni. Ad esempio, la Lombardia, che è una regione importante dal punto di vista della geografia economica dei distretti industriali in Italia, in cui si trovano 27 dei 156 distretti industriali manifatturieri censiti dall’Istat nel 2001 e in cui sono occupati un totale di ben 603.000 addetti circa, è stata la prima regione ad introdurre una politica di sviluppo organica per i distretti industriali con la legge regionale del 22 febbraio 1993, Interventi per lo sviluppo e l’innovazione delle piccole imprese in attuazione della legge 371/1991. Successivamente, in seguito all’adozione della legge 140/1999, l’impianto normativo e amministrativo dei distretti industriali è stato aggiornato con la legge regionale del 5 gennaio 2000, n.1. sul Riordino delle Autonomie18. Un’altra regione sono le Marche, che è uno dei territori simbolo dello storico modello NEC di Giorgio Fuà. Anche questa regione ha conosciuto un significativo sviluppo locale basato sulla “industrializzazione per distretti”. La regione Marche ha applicato attraverso vari decreti regionali sia la legge 371/1991 che anticipato la legge 140/1999, individuando nel 1999 26 aree “a valenza distrettuale” coerenti con le reali situazioni produttive locali. Non si è cercato, quindi, di creare i distretti mediante dei decreti, bensì si 18 Per un quadro dettagliato della legislazione regionale sui distretti industriali si veda l’Appendice del saggio di M. Fortis e M. Carminati, I distretti industriali nella concretezza economica e normativa: i «campioni territoriali» dell’Italia, in Quadrio Curzio - Fortis (2007), pp. 138-157. 23 è voluto riconoscere, incentivare ed eventualmente regolamentare realtà produttive distrettuali già in essere, cogliendo delle opportunità normative e valorizzando un capitale sociale fortemente radicato e strutturato nel territorio. Anche l’Abruzzo ha seguito l’esempio delle Marche e, sebbene sia una regione del Mezzogiorno, dagli anni Novanta non fa più parte delle regioni a sviluppo ritardato, ovvero delle regioni dell’Obiettivo 1, individuate in base a dei parametri fissati dalla Commissione Europea, grazie ad uno sviluppo locale che passa anche attraverso l’ industrializzazione per distretti. L’interesse per i distretti è divenuto di grande attualità negli ultimi anni anche in Sicilia che è invece una regione a sviluppo ritardato. L’isola ha uno straordinario patrimonio di storia, natura, cultura e identità territoriali. Tutto ciò costituisce un insieme di requisiti importanti per lo sviluppo dei distretti, ma da soli tali requisiti non sono sufficienti. E’ necessario infatti coniugarli con i saperi, la ricerca, l’innovazione attraverso delle capabilities specifiche e mantenendo, allo stesso tempo, la coesione sociale. Si tratta in qualche modo di realizzare un processo di trasformazione del capitale umano in capitale sociale. Solo così è possibile replicare l’esperienza positiva dei distretti e farne uno strumento stabile per lo sviluppo. Gli elementi di criticità che ostacolano lo sviluppo locale basato sulla industrializzazione per distretti in Sicilia sono anzitutto l’individualismo, che spesso caratterizza i comportamenti degli imprenditori siciliani, e che rende difficile lo sviluppo del capitale sociale e la creazione di sistemi a rete. Inoltre, il tessuto produttivo in Sicilia è composto prevalentemente da microimprese, molte delle quali posizionate in settori a media e bassa tecnologia. Questa caratteristica del sistema produttivo siciliano contrasta con i processi di creazione di grandi bacini di capitale umano e tecnico nei Paesi ad alto potenziale demografico, come ad esempio la Cina, l’India, che hanno costi di produzione molto bassi. Per vincere la sfida nell’attuale fase della globalizzazione è necessario per le imprese siciliane aggregarsi, integrarsi e fare sistema, innovare, puntare sulla qualità dei prodotti, e crescere in un’ottica di internazionalizzazione. I distretti sono appunto una opportunità, perché possono costituire delle aree integrate dove imprese di dimensioni diverse operano nello stesso comparto ed essere, allo stesso tempo, delle aree specializzate in cui si generano conoscenze e competenze con effetti di spillover su tutto il territorio, e dove le istituzioni collaborano e dialogano con il sistema delle imprese, e, più in generale, dove un po’ tutti attori sociali con le loro identità, le loro esperienze e le loro competenze vengono coinvolti; tutto ciò crea sviluppo e favorisce la capacità competitiva delle imprese. 24 La Regione Siciliana è stata fra le ultime a legiferare sui distretti. Nel dicembre 2004 con la legge 17 all’art. 56 ha stabilito che l’Assessore regionale per la Cooperazione avrebbe adottato con proprio decreto i criteri per il riconoscimento dei distretti produttivi, interpretati come cluster di imprese, affinché gli stessi potessero assumere il ruolo di referenti prioritari per le politiche di programmazione e sviluppo della Regione e quindi essere beneficiari finali di risorse comunitarie, statali o regionali. Il 1 dicembre 2005 l’Assessore regionale per la Cooperazione emana quindi un decreto che stabilisce i criteri di individuazione e le procedure di riconoscimento dei distretti produttivi, nonché le modalità di attuazione degli interventi previsti dal patto di sviluppo distrettuale, regolamentato dall’art. 5 dello stesso decreto. In particolare, l’art. 2 del decreto definisce il distretto produttivo come cluster di imprese caratterizzato dalla compresenza di agglomerati di imprese che svolgono attività simili secondo una logica di filiera, verticale o orizzontale, ed anche di un insieme di attori istituzionali aventi competenze ed operanti nell’attività di sostegno all’economia locale19. Per costituire il distretto produttivo l’art. 3 stabilisce i requisiti che il sistema delle imprese deve possedere; fra questi vi è quello relativo al numero di imprese che ogni distretto deve comprendere che non può essere inferiore a cinquanta, e il requisito relativo al numero di addetti che non può essere inferiore a centocinquanta, tutto ciò riguarda imprese operanti in aree che già presentino un’ elevata densità imprenditoriale, anche attraverso sistemi di specializzazione integrata come i consorzi di imprese. Vi è inoltre il requisito riguardante la capacità di innovazione tecnologica, comprovata dai relativi processi di produzione o dalla presenza di imprese leader nei singoli settori, nonché dalla presenza di istituzioni formative specifiche o centri di documentazione sulla cultura locale del prodotto e del lavoro. L’art. 4 stabilisce invece quali altri soggetti possono concorrere alla formazione del distretto produttivo, oltre le imprese con sede nella regione, fra cui, ad esempio, gli enti locali territoriali, le Università, la Regione siciliana, le Associazioni di categoria. Gli altri articoli del decreto (artt. 5 – 14) riguardano sostanzialmente il patto di sviluppo distrettuale e i relativi criteri di finanziamento da parte della Regione. 19 Tale definizione fa riferimento alle leggi 317/1991 e 140/1999, e agli artt. 367-372 della legge 266/2005 (Legge Finanziaria 2006) in cui si introduce la figura istituzionale del “distretto produttivo” quale soggetto dotato di autonoma personalità giuridica. 25 ter’21. Concentrarsi sull’impresa leader comporta quindi un cambiamento nel modo di concepire il distretto produttivo. Tuttavia, se in alcuni settori l’esistenza di un’impresa leader determina che le altre imprese, di solito di piccole dimensioni, si polarizzano intorno ad essa, e ciò costituisce una soluzione necessaria dettata, ad esempio, dalle economie di scala di cui gode l’impresa leader, in altri settori questo non avviene e l’esistenza di un’eventuale impresa leader non giustifica la necessità di concentrare gli incentivi su di essa, ma è molto più opportuno distribuirli sulla rete di imprese. Enzo Rullani sostiene proprio la tesi dell’importanza del modello basato sulla “rete di imprese” piuttosto che quello basato sull’impresa leader, perché nell’economia basata sulla conoscenza nessuna impresa, neanche l’impresa leader di grande dimensione può far da sola per produrre, innovare, fare utili; bisogna invece creare un sistema, costituito da una pluralità di soggetti, che mobiliti un insieme di energie, risorse, capitali, know how, cosicché in un ambiente reso favorevole anche la piccola impresa è capace di innovare e di crescere senza sostegni artificiali. Infine, in questa concezione di “sistema a rete” conta la riproduzione socio-culturale del processo produttivo distrettuale. Un’ultima considerazione riguarda il numero pletorico di 23 distretti produttivi riconosciuti e ammessi al finanziamento da parte della Regione Siciliana. E’ evidente che tutto ciò non è espressione di efficienza dimensionale e spesso nemmeno di specializzazione produttiva, ma soprattutto tale proliferazione di distretti non tiene conto, se non in modo trascurabile, delle economie esterne, ovvero di quel fattore che costituisce invece la base della logica economica delle imprese a costituirsi in distretti. In conclusione la Sicilia deve dotarsi di realtà produttive significative nel campo industriale e dei servizi e lo strumento delle reti di imprese e dei distretti può costituire un’opportunità, purché si diano dei contenuti produttivi di qualità, basati sull’innovazione e in grado di competere sui mercati internazionali, ma sono altresì necessarie alcune pre-condizioni per lo sviluppo come degli interventi mirati a garantire la sicurezza e la legalità nel territorio, che tutelino gli investimenti delle imprese e promuovano più in generale la cultura della legalità e della trasparenza. Un altro tipo di interventi necessari, anch’essi pre-condizione dello sviluppo, riguardano la realizzazione di infrastrutture, in particolare le infrastrutture di trasporto come la modernizzazione delle ferrovie e di alcuni importanti vie di comunicazio21 Per una discussione sulle differenze fra cluster di imprese e distretto industriale si veda Becattini (2007) pp. 236-237. 28 ne. E’ altresì importante il potenziamento e il miglioramento delle reti: dall’energia elettrica, al gas, alla rete idrica, all’ITC, allo smaltimento dei rifiuti. Solo attraverso la realizzazione di queste fondamentali pre-condizioni la Sicilia potrà avviarsi verso un processo virtuoso di sviluppo, altrimenti questa regione sarà destinata alla marginalità e a convivere con nodi strutturali mai risolti come quello emblematico della disoccupazione giovanile e la conseguente fuga dei cervelli. 6. Conclusioni Lo scopo di questo lavoro è stato quello di concentrare l’attenzione sui distretti industriali costituiti prevalentemente da imprese piccole e da medie imprese, e sull’industrializzazione diffusa che ha in ciascun territorio un punto di forza e di identità. Allo stesso tempo, si è cercato di non negare l’importanza della grande impresa nel processo di crescita e di sviluppo industriale dell’economia italiana, anzi si è colto con disagio l’esigua presenza di “Pilastri” industriali. In quest’ottica, si sono analizzate le caratteristiche del modello di sviluppo locale basato in Italia sui distretti industriali, perché tali sistemi specializzati di produzione hanno significative potenzialità e sono ancora trainanti per l’economia italiana, come dimostrano i recenti dati sulle esportazioni, nonostante alcune criticità e le difficoltà che incontrano nella competizione internazionale, dovute alle nuove condizioni dei mercati imposte dalla attuale fase della globalizzazione, di cui la concorrenza asimmetrica della Cina è uno degli elementi di maggiore instabilità. I distretti industriali godono ancora di alcuni vantaggi a livello micro in termini di efficienza e flessibilità legati alla diffusione dello spirito imprenditoriale, alla specializzazione produttiva, alla condivisione di alcuni codici di comportamento e alla qualità dei flussi informativi che si possono realizzare solo all’interno di collettività ben definite e auto-contenute. L’analisi svolta ha evidenziato alcuni aspetti evolutivi nell’organizzazione produttiva dei distretti ed ha individuato nell’innovazione e nell’internazionalizzazione i fattori chiave per la competitività delle imprese distrettuali, che si confrontano con una crescente apertura dei mercati. Tuttavia per continuare ad innovarsi e per internazionalizzarsi e crescere le imprese dei distretti hanno bisogno di capitale umano qualificato e quindi di uno stretto collegamento fra imprese e Università ed inoltre di scuole professionali, ma anche di infrastrutture nei trasporti e, in particolare, di collegamenti ferroviari adeguati alle esigenze del territorio, di depuratori per salvaguardare l’ambiente, di piattaforme logistiche, di servizi telematici. Tutte 29 cose molto concrete e specifiche che solo politiche di intervento mirate a livello nazionale e locale possono assicurare. Queste nostre argomentazioni danno ulteriore credito alla tesi, peraltro sostenuta da Marco Fortis e Alberto Quadrio Curzio (2006), che il modello italiano di sviluppo locale di industrializzazione per distretti basato sulle imprese piccole e medie ed anche sulle medie imprese più strutturate (“Colonne”), e fondato sulle specializzazioni manifatturiere, sull’innovazione e sull’internazionalizzazione è un sistema tuttora vitale e dinamico, che, anzi, ha dimostrato nel tempo una competitività forte e durevole, e che riesce ad esportare con successo una quota rilevante del suo fatturato. Anche se tale modello di sviluppo risente, in varia misura, della bassa crescita, dei recenti forti rialzi nei prezzi delle materie prime che inevitabilmente si riflettono sui mercati dei prodotti e delle varie forme di concorrenza asimmetrica, esso soprattutto soffre per le oggettive difficoltà che riscontra a livello di sistema-paese, dovute alle innumerevoli carenze nelle infrastrutture materiali e immateriali, all’inefficienza dei servizi, ai ritardi e alle complicazioni normative della burocrazia, al peso della fiscalità. Quanto affermato sopra se da un lato costituisce una rassicurazione sulla bontà del modello distrettuale, dall’altro lascia comunque aperta la questione della specializzazione produttiva delle imprese e dei distretti industriali italiani, che peraltro sono quasi, anche se non completamente, assenti in alcuni settori strategici, dinamici e fortemente innovativi quali l’informatica, le biotecnologie, le nanotecnologie, solo per citarne alcuni, che rendono il sistema industriale italiano nel complesso un po’ più debole e per taluni aspetti con criticità maggiori rispetto ai paesi industriali nostri concorrenti. Infine, si è posta la questione di come e perché replicare i distretti industriali in una regione a sviluppo ritardato come la Sicilia. L’analisi ha messo in evidenza la necessità di “trasformare” il capitale umano in capitale sociale e di realizzare alcune pre-condizioni di natura infrastrutturale e istituzionale senza le quali la creazione dei distretti quale punto di riferimento dello sviluppo locale non può pienamente realizzarsi. 30 Riferimenti bibliografici Becattini G. (1989), Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico, Stato e Mercato, n. 25, pp.111-128. Becattini G. (2000), Il Distretto Industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico, Rosenberg & Sellier, Torino. Becattini G. (2007), Il Calabrone Italia. Ricerche e Ragionamenti sulla Peculiarità Economica Italiana. Il Mulino, Bologna. Bellanca N., Dardi M. , Raffaelli T. (a cura di) (2004), Economia Senza Gabbie. Studi in Onore di Giacomo Becattini, Il Mulino, Bologna. Bonaccorsi A. (2008), Anatomia dei processi di innovazione nelle medie imprese italiane, Relazione al Convegno Mediobanca-Unioncamere “Le Medie Imprese Industriali Italiane 1996-2005”, Milano, 15 Febbraio 2008. Cainelli G. (a cura di) (2008), L’Internazionalizzazione del Sistema Industriale Italiano. Una Sfida Vincente delle PMI e dei Distretti Italiani. Economy-Mondadori, Milano. Cainelli G., Zoboli R. (eds.) (2004), The Evolution of Industrial Districts, Physica-Verlag, Heidelberg. Coltorti F., (2006), Il capitalismo di mezzo negli anni della crescita zero, Economia Italiana, n.3, pp. 665-687. Foray D. (2004), The Economics of Knowledge, MIT Press, Cambridge (Mass.). Fortis M., (1998), Il Made in Italy, Il Mulino, Bologna. Fortis M., Quadrio Curzio A. (a cura di) (2006), Industria e Distretti. Un Paradigma di Perdurante Competitività, Il Mulino, Bologna. Fuà G. (1983), L’industrializzazione nel Nord Est e nel Centro, in G. Fuà e C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione Senza Fratture, Il Mulino, Bologna. ISTAT (2005), Distretti Industriali e Sistemi Locali del Lavoro 2001, Roma. ISTAT (2006), Annuario Commercio estero e attività internazionali delle imprese, Roma. Mediobanca-Unioncamere, Le Medie Imprese Industriali Italiane (19962005), Milano-Roma, 2008. Nelson R.R. (1995), Recent Evolutionary Theorizing About Economic Change, Journal of Economic Literature, n.1. 31 Quadrio Curzio A., (2004), Conclusioni. Distretti, pilastri, reti: quale futuro per un’Italia europea?, in AA.VV., Distretti, Pilastri, Reti. Italia ed Europa, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, pp. 319-29. Quadrio Curzio A., Fortis M. (eds.) (2005), Research and Technological Innovation, Physica-Verlag, Heidelberg. Quadrio Curzio A., Fortis M. (a cura di ) (2007), Valorizzare un’ Economia Forte. L’Italia e il Ruolo della Sussidiarietà, Il Mulino, Bologna. Porter M.E. (1990), The Competitive Advantage, Free Press, New York. Putnam R.D. (2004), Capitale Sociale e Individualismo, Il Mulino, Bologna. Rullani E. (2004), Economia della Conoscenza, Creatività e Valore nel Capitalismo delle Reti, Carocci, Roma. Schilirò D. (2005), Economia della conoscenza, istituzioni e sviluppo economico, in A.Lopes, M.Lorizio, F.Reganati (a cura di), Istituzioni e imprese nello sviluppo locale, Carocci, Roma, pp. 337-349. Schilirò D. (2006), Teorie circolari e teorie verticali della dinamica economica strutturale: verso uno schema di carattere generale, Economia Politica, n. 1, pp. 51-79. Schumpeter J.A. (1942), Capitalism, Socialism and Democracy, Harper, New York; trad. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano, 2001. Signorini F.L. (a cura di ) (2000), Lo Sviluppo Locale: Un'Indagine della Banca d'Italia sui Distretti Industriali, Meridiana Libri, Corigliano Calabro. Trigilia C. (2005), Sviluppo Locale. Un Progetto per l’Italia, Editori Laterza, Bari. 32 CENTRO DI RICERCHE IN ANALISI ECONOMICA, ECONOMIA INTERNAZIONALE E SVILUPPO ECONOMICO Working Papers (*) 1994 Alberto Quadrio Curzio La Banca d’Italia dal 1914 al 1936 1994 Alberto Quadrio Curzio Tre livelli di governo per l’economia italiana 1994 Alberto Quadrio Curzio e Roberto Zoboli Linee di recente sviluppo dell’arco alpino ristretto 1994 Giuseppe Colangelo Optimal durability with buyer’s market power 1994 Giuseppe Colangelo Vertical organizational forms of firms 1994 Giuseppe Colangelo Exclusive dealing may foster cross-collusion 1994 Piergiovanna Natale Pricing strategies: a brief survey 1994 Piergiovanna Natale Posted vs. negotiated prices under asymmetric information 1994 Roberto Zoboli The Alps in the economic and ecological systems of Europe 1994 Daniela Feliziani Organizzazione e regolamentazione degli orari di lavoro nei paesi industrializzati 1995 Maddalena Baitieri Sistemi di ricerca e innovazione tecnologica (*) Si tratta della nuova serie dei Quaderni Cranec iniziata nel 1994. In precedenza, dal 1978 al 1994, sono stati stampati n. 45 quaderni. 33 1995 Maddalena Baitieri Sviluppo tecnologico e tutela dell’ambiente e della vita 1995 Piergiovanna Natale Rapporto di lavoro: una reimputazione 1996 Alberto Quadrio Curzio e Fausta Pellizzari Risorse, prezzi e rendite ambientali. Un’analisi uniperiodale 1997 Alberto Quadrio Curzio Italy and the European Monetary Union. Why Italy is on the border line? 1998 Giulio Cainelli e Claudio Lupi The choice of the aggregation level in the estimation of quarterly national accounts 1999 Deborah Grbac Sulla globalizzazione del sistema economico con particolare riferimento all’economia lombarda e milanese 1999 Marco Fortis PMI, Distretti industriali e liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica 2000 Deborah Grbac Transnational and inter-regional cooperation and macroeconomic flows, a case-study. Mitteleuropea 2000 Alberto Quadrio Curzio Dalle istituzioni economiche nazionali a quelle continentali e sovranazionali. Applicazioni del principio di sussidiarietà 2001 Floriana Cerniglia e Massimo Bordignon L’aritmetica del decentramento: devolution all’italiana e problemi connessi 2001 Fausta Pellizzari Environmental resources, prices and distribution 2001 Massimo Visconti Misure della performance d'impresa e indicatori di bilancio: un paradigma ancora valido? 34 2001 Marco Fortis e Alberto Nodari Un marchio di qualità AVR per la produzione italiana di rubinetteria e valvolame: uno strumento per la valorizzazione e la promozione del made in Italy 2002 Floriana Cerniglia Distributive politics and federations 2003 Floriana Cerniglia La riforma del titolo V della Costituzione e i nuovi rapporti finanziari fra Stato ed autonomie locali: una valutazione quantitativa 2003 Floriana Cerniglia Decentralization in the public sector: quantitative aspects in federal ad unitary countries 2003 Giuseppe Colangelo, Gianmaria Martini Relazioni verticali e determinazione del prezzo nella distribuzione di carburanti in Italia 2003 Floriana Cerniglia (con M. Bordignon e F. Revelli) In search of yardstick competition: a spatial analisys of Italian municipality property tax setting 2003 Alberto Quadrio Curzio Europa: crescita, costruzione e Costituzione, Working Paper Cranec-Diseis (Dipartimento di economia internazionale, delle istituzioni e dello sviluppo) Working Papers edited by Vita&Pensiero (**) 2003 Daniele Schilirò Teorie circolari e teorie verticali della dinamica economica strutturale: verso uno schema analitico di carattere generale 2003 Fausta Pellizzari Esternalità ed efficienza. Un’analisi multisettoriale (** ) Questa nuova linea di quaderni ha avuto inizio nell’autunno del 2003 grazie a un accordo con l’Editrice dell’Università Cattolica. 35 2003 Alberto Quadrio Curzio Europa: crescita, costruzione e costituzione 2003 Fausta Pellizzari Regolamentazione diretta e indiretta in un modello multisettoriale 2004 Mario A. Maggioni e Teodora E. Uberti La geo-economia del cyberspazio. Globalizzazione reale e globalizzazione digitale 2004 Moshe Syrquin Globalization: too Much or is too Little? 2005 Giovanni Marseguerra Il “capitalismo familiare” nell’era globale: la Sussidiarietà al servizio dello Sviluppo 2005 Daniele Schilirò Economia della Conoscenza, Dinamica Strutturale e Ruolo delle Istituzioni 2005 Valeria Miceli Agricultural Trade Liberalization and the WTO Doha Round 2005 Valeria Miceli EU Agricultural Policy: the Concept of Multifunctionality and Value Added Agriculture 2006 Floriana Cerniglia La spesa pubblica in Italia: articolazioni, dinamica e un confronto con altri Paesi 2006 Mario Nosvelli Distretti e tecnologia: il caso di Lumezzane 2006 Monica Carminati La legislazione italiana e regionale sui distretti industriale: situazione ed evoluzione 2007 Letizia Romeo Le fondazioni di sviluppo: una realtà con un forte potenziale 36 2007 Daniele Schilirò Knowledge, Learning, Networks and Performance of Firms in Knowledge-Based Economies 2008 Rosario La Rosa Infrastrutture e sviluppo. Premesse per un’analisi del settore turistico in Sicilia 2008 Francesco Salsano – Teodora Erika Uberti I sistemi elettorali e la politica fiscale: il caso italiano dal 1861 ai giorni nostri 2008 Fausta Pellizzari Scarcity, Innovation and Sustainability 37 finitodistampare.qxp 01/07/2008 12.58 Pagina 1 Finito di stampare nel mese di luglio 2008 da Gi&Gi srl - Triuggio (MI) COP Schilirò 7-07-2008 10:12 Pagina 1 Università Cattolica del Sacro Cuore CENTRO DI RICERCHE IN ANALISI ECONOMICA E SVILUPPO ECONOMICO INTERNAZIONALE I Distretti Industriali in Italia quale Modello di Sviluppo Locale: Aspetti Evolutivi, Potenzialità e Criticità Daniele Schilirò € 3,00