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RASSEGNA STAMPA
giovedì 19 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio 24.it del 18/11/15
Nasce un nuovo movimento per la pace
di Daniele Biacchessi
Solo poche ore dopo gli attentati di Parigi, in tutte le capitali europee e nelle città italiane in
migliaia sono scesi in piazza contro ogni forma di violenza, contro la guerra. E' un
movimento nato in modo spontaneo, inizialmente non organizzato, che in queste ore ha
trovato maggiore forza grazie al sostegno di partiti e associazioni del volontariato,
sindacati: tra gli altri Acli, Arci.
La prima uscita pubblica del movimento si è tenuta il 17 novembre a Roma, al centro
Frentani. E' nato un appello, un piano d'azione dal basso, che coinvolgerà scuole, circoli,
luoghi di lavoro, parrocchie, centri di aggregazione.
Il movimento si renderà visibile il 29 novembre, a Roma, quando la già annunciata Marcia
per il Clima in concomitanza con Cop 21 a Parigi, si trasformerà in una vera e propria
marcia per la pace.
Nel corso della trasmissione del 18 novembre intervista telefonica a Francesca
Chiavacci, presidente nazionale Arci
http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/nasce-nuovo-movimento-pace-124141gSLAKMc2QB
Da Popolis del 19/11/15
Cinema indipendente in tour
Arci e Ucca (l’Unione dei circoli cinematografici Arci) lanciano “L’Italia che non si vede, una
rassegna itinerante del cinema reale”. Dieci film d’autore saranno distribuiti e diffusi nei
prossimi mesi nelle piccole sale e nei circoli culturali presenti in più di 40 città italiane.
Una rassegna organizzata per “rendere popolare” la produzione cinematografica
indipendente del nostro Paese, dove il termine popolare si declina nel tentativo di rendere
accessibile anche nei piccoli centri, in provincia e nelle periferie, una serie di opere che
spesso faticano ad “uscire” dai festival in cui vengono ospitate o dal panorama dei circoli
metropolitani d’éssais, perché più fragili e meno attrezzate a competere sul mercato.
“L’italia che non si vede vuole” è anche un pretesto per creare e ri-creare degli spazi:
spazi di confronto e di dibattito, e perché no, anche di denuncia. Spazi in cui sia possibile
parlare di una società e di un cinema che cambia – come sottolinea il filosofo Jacques
Rancière in un suo celebre testo – dopo lo sconvolgimento dei “rapporti tra significare e
mostrare che ha investito l’arte di raccontare storie”.
Perché come sottolinea il presidente di UCCA Roberto Roversi, il film è un evento
collettivo e l’occasione per produrre lo spazio di condivisione di un’esperienza particolare.
Spazi ed esperienze di cui, in questo momento più che mai, la società necessita.
Le dieci pellicole in programma, equamente distinte tra documentari ed opere di finzione,
hanno partecipato ai maggiori festival internazionali europei , sono: “Arianna” di Carlo
Lavagna, “Cloro”, di Lamberto Sanfelice, “Genitori”, di Alberto Fasulo, “Gitanistan”, di
Pierluigi De Donno e Claudio Giagnotti, “La Bella Gente”, di Ivano De Matteo, “Lei disse sì”
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di Maria Pecchioli, “Memorie”, di Danilo Monte, “Napolislam”, di Alberto Pagano, “Short
skin” di Duccio Chiarini e “La Vergine Giurata”, di Laura Bispuri.
Giunta alla sua quinta edizione, “L’Italia che non si vede” fa del cinema un “una potenza
comune”, l’esperienza di un attraversamento, con dieci storie che raccontano di diritti
negati e di riscatti, d’integrazione, d’identità di genere e di disabilità.
Per la prima volta saranno distribuiti anche i cortometraggi frutto delle attività del
laboratorio napoletano FILMap dell’Arci Movie di Ponticelli e della Produzione Cinemaniaci
di Piacenza. Narrare la complessità e creare nuovi spazi per l’immaginario, dunque, per
fare dell’immagine un filo teso sul caos del reale, ma anche la cifra di una pratica di
resistenza, un “esercizio di rottura”.
http://www.popolis.it/litalia-che-non-si-vede/
del 19/11/15, pag. 7
«Il papa più radicale della Fiom»
L'incontro a Genova. Maurizio Landini e monsignor Luigi Bettazzi a
confronto sull’encliclica «Laudato si’». Il leader delle tute blu elenca
cosa è peccato per Francesco: «La guerra, la violenza, l’abbandono dei
poveri, lo sfruttamento della natura»
Riccardo Chiari
GENOVA
Il Cap, Circolo autorità portuale, se lo sono acquistato con le loro forze. Sono i «vecchietti»
che hanno lavorato all’Autorità portuale prima delle privatizzazioni degli anni ’90, e che ora
tengono viva, sotto l’egida dell’Arci, una struttura polivalente che risale al 1946, ai primi
giorni della ricostruzione dopo le devastazioni della guerra. Oggi i soci sono più di 4mila, in
una realtà attiva a 360 gradi che Danilo Oliva offre subito al segretario dei metalmeccanici
Cgil: «Landini, qui sei a casa tua per la coalizione sociale».
Anche di coalizione sociale si parla. Ma partendo dall’idea, intrigante, dell’Arci Cap e della
Comunità di San Benedetto al Porto di mettere a confronto Maurizio Landini e Luigi
Bettazzi sull’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Per il vescovo emerito di Ivrea, 92
anni né dimostrati né sentiti, è un compito facile. «Ma sono curioso — e sorride — di
sentire cosa pensa Landini». Che se la cava bene. Anche perché l’enciclica l’ha letta, con
attenzione.
Si parla di «Misurarsi con il mondo, una necessità al tempo della globalizzazione».
Argomento sempre di estrema attualità. «La crisi culturale, economica, politica — apre
Walter Massa dell’Arci — ci dice una cosa in particolare: il mondo che abbiamo conosciuto
è passato e non tornerà, certamente non in quelle forme e in quei modi». Qualcosa però
non torna: «Quella di Bergoglio è una enciclica pochissimo discussa — osserva Luca
Borzani, che guida la Fondazione Palazzo Ducale — non è entrata nel sistema della
comunicazione. Eppure propone una sfida culturale e politica per tutti, credenti e non.
Chiama a un’azione comune di fronte al collasso ambientale e sociale che stiamo vivendo,
provocato da una cultura basata sul consumo e dal dominio del ’mercato’. Che altro non è
che una esasperata ricerca del profitto, a qualsiasi costo».
Luigi Bettazzi approfondisce: «Laudato si’ è una enciclica laica. Il primo che scrisse una
cosa del genere fu papa Giovanni con la ’Pacem in terris’. Con l’idea di fondo che il mondo
voleva la pace, e rivolgendosi ’a tutti gli uomini e le donne di buona volontà’. Questo
proprio nel momento in cui la crisi nucleare Usa-Urss era sul punto di non ritorno». Dalla
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storia alla cronaca: «Ci sono sessanta milioni di persone in fuga dalle loro terre, a causa di
guerre, dittature e carestie. Emigrano perché li abbiamo sfruttati, prima con le colonie e
oggi con altre forme di coercizione. Siamo i difensori della libertà, così ci piace descriverci.
Ma non può essere la libertà di fare quello che si vuole».
Landini esordisce e strappa sorrisi: «Mi sono accorto che c’è qualcuno più radicale della
Fiom. Qualcuno che per giunta ha scritto un documento dove non c’è nemmeno una
parola in inglese, cosa che oggi va tanto di moda». Poi entra nel merito: «E’ una enciclica
rivolta a tutti. Perché è la ’casa comune’ che è a rischio. Il modello di capitalismo
finanziario che oggi domina il mondo sta mettendo in discussione il futuro di tutti». Con
meccanismi puntualmente denunciati da Jorge Bergoglio: «Cosa è peccato? — segnala
Landini — Nell’enciclica è peccato la guerra, la violenza, l’abbandono dei poveri, lo
sfruttamento della natura. Ce lo raccontavano in modo diverso quando da bambini
andavamo in parrocchia». Applausi, sentiti.
Da Laudato si’ arriva anche un assist a un’analisi cara alla Fiom: «Produrre: cosa e
perché, con quali tecniche, e con quale sostenibilità sociale e ambientale. Progettare e
pensare dei prodotti che fin dall’origine siano a impatto zero o quasi. Qui l’enciclica
richiama a un dibattito onesto, non precostituito. E il messaggio che ci vedo è la necessità
di un cambio, di una crescita della politica. Che sia in grado di affrancarsi dal capitalismo
finanziario. Perché, e Bergoglio lo ricorda, l’ingiustizia non è invincibile. Però sul piano dei
valori oggi il capitalismo finanziario ha vinto. Se non ci fosse il papa, chi avrebbe il
coraggio di scrivere cose del genere?»
Il filo del ragionamento del segretario Fiom porta infine alla coalizione sociale: «Cosa
vogliono dire oggi destra, sinistra, centro? Per quelli della mia età hanno un significato. Ma
per i più giovani, quelli che con governi di destra, di centro e di sinistra sono stati costretti
a pagare per lavorare? Per loro queste parole non vogliono dire più nulla. La coalizione
sociale non si rivolge solo a una parte, non vuole chiudere in un recinto. Vuole costruire
percorsi in cui si ritrovino, senza costrizioni, le tante realtà che già oggi lavorano, bene, nei
loro ambiti d’azione».
Appuntamento sabato a Roma dunque. Pensando anche alla tragica attualità degli ultimi
giorni: «Papa Francesco è stato l’unico che ha fatto una manifestazione contro la guerra in
Siria. E sabato manifesteremo contro il terrorismo e contro la guerra. Perché bombardare
è un errore: Isis è quello che è perché è stato fatto ricorso alle armi, nel mondo
musulmano è una minoranza. Piuttosto è necessario mettere tutti intorno a un tavolo,
compresi i paesi arabi. E fare lavoro di intelligence, per togliere l’acqua dove Isis nuota».
(Genova) del 19/11/15, pag. VI
“No a guerre ‘religiose’ e a una
globalizzazione che ha tolto le speranze”
Maurizio Landini e monsignor Bettazzi insieme all’ex Cap “Ripartire dal
lavoro, il precariato cancella la politica”
WANDA VALLI
RIPARLARE di globalizzazione, di come ha cambiato l’umanità, di come ha tolto speranze
e messo in primo piano nuovi, enormi, problemi. E poi di lavoro, di giovani che non
credono più alla politica, che non distinguono tra destra e sinistra perché le loro vite da
precari non glielo fanno capire. E’ forse la prima volta che si riparla la globalizzazione
dopo i giorni del G8 di Genova. Accade ieri pomeriggio, al circolo Cap di via Albertazzi
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dove, per volontà della Comunità di San Benedetto, dell’Arci, di palazzo Ducale, si trovano
a confronto, intorno all’enciclica “Laudato sì”, laici come Maurizio Landini, segretario
generale della Fiom o Luca Borzani, storico e presidente dell’Associazione Palazzo
Ducale e personaggi della chiesa che ne hanno vissuto la storia recente. E’ il caso di
monsignor Luigi Bettazzi che si offrì ai rapitori di Aldo Moro come ostaggio. E che ora,
presentato da Walter Massa, parte dall’enciclica per spiegare e capire come la vivono i
laici. Intanto i fatti di Parigi, restano sullo sfondo con quella domanda che si infiltra nei
cuori di tutti o quasi: è giusto provare a dichiarare guerra? E’ il modo per battere il
terrorismo chiudersi nella paura? Maurizio Landini non crede alla guerra, non crede che la
paura possa servire. E spiega: «Bisogna evitare di fare quello che i terroristi vorrebbero,
chiudersi in casa, ridurre gli spazi della democrazia». Non è la strada giusta, Landini lo
ripeterà sabato nella manifestazione convocata a Roma. Adesso spiega:«Sono convinto
che ci saranno tanti delegati musulmani insieme a noi, perché non è vero che esiste un
unico fronte». Incalza: «bisognerebbe chiedersi chi compra il petrolio dell’Isis, chi fornisce
a loro le armi e capire che sono state altre guerre sbagliate a dar forza all’Isis, sono state
le divisioni dentro il mondo arabo».
Monsignor Bettazzi sulla strage di Parigi è convinto che «abbiano strumentalizzato la
religione. E’ qualcuno che vuole mostrare la sua potenza, ma per me è un po’ difficile
capire chi si uccide in nome della religione e uccide anche molta altra gente ». Fra poco
Roma avrà il Giubileo, c’è da avere paura? «Il Giubileo è di tutte le parrocchie, non è
obbligatorio raggiungere Roma, chi lo fa si muova con prudenza, ma le porte della chiesa,
come dice il papa, sono sempre aperte». L’enciclica, conferma, parla a tutti, credenti e
laici, dell’importanza dell’ecologia che tutela l’ambiente, del dovere di un riequilibrio tra
Paesi ricchi e non. Davvero sembra di tornare ai tempi del G8 di Genova, ragiona Luca
Borzani. Perché l’enciclica »propone a tutti una profonda sfida culturale, di grande
impegno, con un’azione comune di fronte al disastro ambientale». E una consapevolezza:
. Per questo l’enciclica illustra «un nuovo modello di sviluppo» e così, sottolinea Borzani,
arriviamo «al punto più alto di riflessione sul tema della globalizzazione, dopo il G8».
Maurizio Landini pensa a «un messaggio di speranza, che pone il problema di un nuovo
modello di società». Un messaggio radicale. Dice: «per l’enciclica il peccato è la guerra,
l’abbandono dei poveri, la strage della natura». Si arriva alla politica per contrastare . Sarà
difficile soprattutto per i giovani. Landini: «Per loro destra, sinistra, centro che cosa
vogliono dire? Sono e restano precari e disillusi». Con il rischio che si affermi un modello
sociale autoritario.
Da il FattoQuotidiano.it del 18/11/15
Attentati Parigi, Piccardo: “Estremisti in
Italia? Cani sciolti. Noi musulmani lavoriamo
ogni giorno per la pace”
Il fondatore del Coordinamento delle comunità islamiche in Italia
risponde alle accuse di scarsa incisività di fronte alle stragi dei jihadisti.
"I nostri giovani sono impegnati nel sociale. Se sentissimo qualcuno
fare proclami violenti lo denunceremmmo in questura". La questione
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moschee a Milano e le divisioni interne. Maryan Ismail (Pd):
"Oscurantisti"
di Luigi Franco
“I nostri giovani sono impegnati nel sociale. E da anni facciamo un lavoro quotidiano di
educazione all’interno della comunità islamica”. Davide Piccardo (nella foto), fondatore del
Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano (Caim) e figlio di Roberto, storico
leader dei musulmani prima a Imperia poi a livello nazionale, ne è convinto. Dice di essere
stanco di sentire appelli ai musulmani che vivono in Italia a fare di più contro il terrorismo.
L’ultima dichiarazione in tal senso è di uno di loro: “I comunicati stampa di condanna non
sono più sufficienti, i musulmani devono scendere in piazza – ha detto il deputato del Pd di
origine marocchina Khalid Chaouki dopo gli attentati di Parigi -. Serve una risposta
culturale dal basso e su questo non è stato fatto abbastanza finora”. Parole che per
Piccardo sono “un ritornello trito e ritrito. Dichiarazioni di qualcuno che non frequenta la
comunità e non conosce il lavoro che facciamo ogni giorno per diffondere il valore
autentico del messaggio dell’Islam, che è un messaggio di pace”.
Il deputato Pd Khalid Chaouki esorta i musulmani d’Italia a fare di più. “Accuse ritrite, non
conosce comunità”
A Milano, come in altre città, all’indomani degli attentati del 13 novembre a Parigi molti
musulmani sono scesi in piazza per manifestare contro gli attacchi terroristici, che hanno
visto all’opera jihadisti nati in Francia e in Belgio. Poco più di un anno fa, dopo una
fiaccolata contro la violenza a cui parteciparono diverse associazioni islamiche, in piazza
Affari fu addirittura bruciata una bandiera dell’Isis. Prese di posizione ufficiali a cui si
aggiungono attività di volontariato: tra i primi ad attivarsi per aiutare il comune a gestire
l’emergenza dei profughi arrivati in stazione Centrale dalla Siria c’erano i Giovani
musulmani d’Italia, associazione che raggruppa soprattutto immigrati di seconda
generazione nati nel nostro Paese.
Se la stessa comunità islamica sente il dovere di svolgere un lavoro di educazione
quotidiano, non vuol dire che il rischio di una degenerazione è attuale? “E’ lo stesso rischio
connaturato nella natura umana – risponde il coordinatore del Caim -. Tutti noi rischiamo
di essere prepotenti, violenti, devianti. All’interno della comunità diamo un’educazione per
prevenire questi fenomeni. È la stessa cosa che fa la Chiesa o che fanno le organizzazioni
che sono attive nel sociale”. Risposta diplomatica, di circostanza? “Io non ho paura che
qui accada quello che è successo a Parigi – dice Piccardo -. In Italia finora non abbiamo
mai avuto attentati, abbiamo una realtà tranquilla e sotto controllo in cui vivono persone
perbene e pacifiche”.
Rischio estremismo anche in Italia? “Connaturato a natura umana, ma noi preveniamo con
l’educazione”
I fenomeni di estremismo, secondo Piccardo, da noi sono molto rari: “Si tratta di cani sciolti
che operano soprattutto su Internet”. Un legame, quello con la Rete, sottolineato anche
dallo studioso Lorenzo Vidino nella sua ricerca sul jihadismo autoctono in Italia. Come nel
caso di Mohammed Jarmoune, un giovane di origini marocchine cresciuto nel Bresciano,
che nel 2013 è stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per aver diffuso materiale
jihadista a fini di terrorismo. “Cani sciolti”, li ritiene Piccardo, che però ammette “la
presenza marginale di un problema di conservatorismo e letteralismo religioso”.
Un’interpretazione sbagliata dell’Islam, che potrebbe per esempio portare un giovane a
sostenere che la musica sia da vietare: “In questo caso – spiega il fondatore del Caim –
agiamo sul piano culturale, gli spieghiamo perché la sua visione non è condivisibile. Ma
questo è un fenomeno diverso dall’estremismo violento, per affrontare il quale confidiamo
nelle forze dell’ordine. Così se sentissimo qualcuno dire che gli occidentali vanno uccisi
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perché sono miscredenti, lo denunceremmo subito in questura. Ma non ci siamo mai
trovati di fronte a una situazione del genere”.
“E’ importante avere una moschea a Milano: i violenti non operano alla luce del sole”
Piccardo lo ribadisce più volte: “Dalle nostre realtà non sono mai venuti fuori pazzi e
assassini. I nostri centri sono alla luce del sole, sono l’ultimo posto dove può operare un
estremista violento”. Proprio per questo – sostiene – è importante che i musulmani
abbiano luoghi di culto riconosciuti: “La religione fai da te non va bene, bisogna avere una
guida. Per questo è importante avere a disposizione una moschea”. A Milano il comune ha
aperto un bando per assegnare tre aree ad altrettante associazioni religiose. In base alla
graduatoria provvisoria due dovrebbero essere destinate ai musulmani: l’ex Palasharp
all’Associazione islamica di Milano, aderente al Caim, e gli spazi di via Esterle alla Casa
della cultura musulmana di via Padova 144, un’associazione non aderente al Caim
fondata da Asfa Mahmoud, insignito in passato dell’Ambrogino d’oro in quanto anima
dialogante dell’Islam milanese.
Le divisioni interne. Maryan Ismail (Pd): “Il Caim non dà garanzie di un luogo di culto
trasparente”
Ma ora il bando rischia di saltare. Proprio in questi giorni, infatti, sull’assegnazione alla
Casa della cultura è arrivata una sospensiva del Tar dopo il ricorso di un’associazione
islamica che invece aderisce al Caim. I musulmani, a Milano e nel resto d’Italia, sono
tutt’altro che uniti dietro un’unica voce. Il piano moschee della giunta Pisapia ha subito
critiche anche dall’interno dello stesso mondo islamico: Maryan Ismail, cittadina italiana e
somala e membro della segreteria milanese del Pd, giudica quelle del Caim di Piccardo
posizioni oscurantiste che “non garantiscono la nascita di un luogo di culto trasparente,
dove ci siano parità di genere e separazione tra religione e politica”.
Accuse a cui Piccardo risponde così: “Abbiamo partecipato a un bando pubblico con il
sostegno di realtà come Arci, Emergency, Comunità di Sant’Egidio e Fondazione
Feltrinelli”. Come risponde all’ex magistrato e deputato di Scelta civica Stefano
Dambruoso, che in passato ha sottolineato la vicinanza del Caim con l’Alleanza islamica
d’Italia, associazione messa in black list dagli Emirati arabi: “Questa notizia è frutto di
un’indiscrezione, non c’è mai stata evidenza di tale lista. E in ogni caso sarebbe una lista
stilata da un Paese che non è democratico”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/18/attentati-parigi-piccardo-estremisti-in-italia-canisciolti-noi-musulmani-lavoriamo-ogni-giorno-per-la-pace/2230966/
Da il Centro (Teramo) del 18/11/15
Una veglia per le vittime di Parigi
Commemorazione domani alle 19 davanti alla prefettura
TERAMO. Anche Teramo si schiera con Parigi, commemorando le vittime delle stragi di
venerdì scorso, con un'iniziativa che si svolgerà domani alle 19 in largo San Matteo, di
fronte alla prefettura. "Teramo avec Paris. Contro le barbarie, per l'accoglienza e la
solidarietà" è promossa dalle sezioni teramane di Arci, Emergency, Amnesty, Cgil e Auser,
con la partecipazione dell'Udu, dell'associazione "Detto tra noi" e delle Snoq ("Se non ora
quando?") Teramo.
«Commemoriamo le vittime di Parigi contro ogni barbarie terroristica e contro chi
promuove la logica dello scontro di civiltà», ha fatto sapere in una nota Giorgio Giannella,
presidente del comitato provinciale dell'Arci, «Siamo al fianco del popolo francese colpito
così duramente, dei popoli che combattono l'incubo dell'Isis senza quartiere e di chi
promuove politiche di accoglienza e di integrazione. Ricordiamo anche tutte
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le vittime civili degli almeno ultimi 25 anni di politiche di guerra dei governi occidentali».
Solidarietà al popolo francese è stata espressa anche dal Comune, che sul municipio ha
sistemato una cascata di luci blu, bianche e rosse. (c.d.g.)
http://ilcentro.gelocal.it/teramo/cronaca/2015/11/18/news/una-veglia-per-le-vittime-diparigi-1.12470358
Da Umbria 24 del 18/11/15
Terni, i sindacati manifestano solidarietà al
popolo francese e invocano integrazione e
pace
La comunità musulmana condanna pubblicamente ogni forma di
estremismo, terrorismo e violenza. Romanelli: «Che la vita sociale
continui», Tasso: «Crediamo in un mondo migliore»
di Mar. Ros.
«Non ci sono bandiere, siamo qui per riaffermare un principio fondamentale: un atto di
terrorismo non può minare la nostra speranza in un mondo migliore, abbiamo tutti il diritto
di crederci». Si limita a dire questo al megafono il segretario provinciale della Cisl
Celestino Tasso, tanto basta per inquadrare il motivo di una manifestazione, è l’eco degli
attentati di Parigi.
Terrorismo Le principali sigle sindacali(Cgil, Cisl e Uil) si sono date appuntamento sotto la
prefettura in viale della Stazione a Terni e dietro lo striscione ‘Contro il terrorismo, per la
pace’ c’era anche la comunità musulmana. «Questa delegazione rappresenta una volontà,
di pace, giustizia, integrazione e solidarietà tra i popoli– queste le parole del segretario
Cgil Attilio Romanelli –, noi siamo convinti – ha aggiunto – che questi atti non rispecchino
alcuna cultura, nessun credo, nessuna tradizione e non possiamo rispondere con la
violenza ecco il perché di questa manifestazione in accordo con le Acli, l’Arci e la Caritas.
Il segnale è chiaro: vogliamo impegnarci contro il terrorismo econtro chi vuole incutere la
paura. Vogliamo che siano frequentate le piazze, che si continui ad andare allo stadio e a
ristorante, che la vita sociale continui».
Parigi I musicisti dell’istituto Briccialdi hanno intonato la Marsigliese. L’imam Mimoun El
Hachmi è tornato a ripetere quanto già dichiarato a Umbria24: «L’uomo è il fratello
dell’uomo, lo ha fatto Dio e per questo è sacro, la morte è un’arma di Dio e noi non
possiamo uccidere in nome di Dio, uccidere è il peggiore peccato. Condanniamo ogni atto
di violenza».
http://www.umbria24.it/terni-i-sindacati-manifestano-solidarieta-al-popolo-francese-einvocano-integrazione-e-pace/378700.html
Da Adn Kronos del 18/11/15
Sicilia: nasce il comitato per le emergenze
climatiche
Palermo, 19 nov. (AdnKronos) - Nasce in Sicilia il comitato promotore per la conversione
ecologica per contribuire alla soluzione delle emergenze climatiche. Il suo battessimo
ufficiale sarà lunedì 23 novembre, durante la conferenza stampa convocata a Villa
Niscemi, a Palermo per illustrare i suoi obiettivi in vista della Conferenza sul Clima in
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programma a Parigi dal 30 novembre all'11 dicembre. Tra le tante iniziative, il comitato si
occuperà di contribuire, in maniera partecipata, alle necessarie modifiche al piano
energetico e al piano rifiuti della regione. Un percorso, scaturito dall'appello lanciato da
AnciSicilia, movimenti e associazioni nei mesi passati e che ha già portato a numerose
adesioni. Fra queste, AnciSicilia, Ampi, Arci Sicilia, Cepes, Cgil Sicilia, Erripa Achille
Grandi, Federconsumatori Sicilia, Fiom Sicilia, Forum Siciliano dei Movimenti per l’acqua e
i beni comuni, Lega Consumatori Sicilia, Legambiente Sicilia, Liberambiente,
Primalepersone, Primo Piano News e Zero Waste Sicilia.
Da il Tirreno (Prato) del 18/11/15
Prato seconda in Italia per numero di slot
machine
Si stima che potrebbero esserci circa 3.000 "malati" di scommesse e
gioco d'azzardo. Undici associazioni chiedono al Comune regole più
severe per arginare il fenomeno
di Azelio Biagioni
PRATO. E’ allarme ludopatia a Prato, che risulta essere la seconda città italiana per
numero di slot machine (in rapporto alla popolazione) installate in 238 esercizi e 40 sale
giochi. In Italia la percentuale dei giocatori patologici oscilla tra lo 0,5 e il 2% della
popolazione, di conseguenza a Prato si stima che gli affetti da questa malattia vadano da
900 a 3.500. Ecco allora che bisogna correre ai ripari per arginare questo fenomeno,
spesso non considerato come una malattia e preso sottogamba.
“Il Comune – spiega l’assessore Simone Mangani - stava lavorando ad una modifica del
regolamento sulle sale giochi che ora è in stand by in quanto undici associazioni del
territorio hanno aperto un tavolo partecipativo proprio per chiedere all’amministrazione
comunale un impegno per rivedere le norme e cercare di contrastare questa piaga”. E se a
livello regionale la distanza delle sale giochi dai luoghi sensibili (come scuole o ospedali) è
di 500 metri a Prato si abbassa a 200 metri e senza nessuna limitazione di orario, quindi
chi vuole può restare aperto anche 24 ore su 24. L’intento è quello di stringere le maglie
del regolamento comunale che attualmente sono troppo larghe.
primo appuntamento del tavolo partecipativo è per sabato 21 novembre: alle ore 10 a
Palazzo Buonamici si terrà un convegno sul gioco d’azzardo che vuole essere l’evento
iniziale del tavolo per la modifica del regolamento comunale sul gioco d’azzardo. Poi, alle
12 “Slot mob” all’Ermes Caffè in via Nistri, uno dei locali che ha detto no alle macchinette
mangia soldi. “La ludopatia – spiega Fabrizio Pellini dell’associazione Polis – è una vera e
propria dipendenza e quando le persone si rivolgono al Sert si sono già rovinate.
Attualmente i soggetti in cura sono più di cento. Quello su cui puntiamo è la prevenzione
quindi la riduzione dell’offerta del gioco. Serve una modifica al regolamento comunale che
sia più restringente nell’apertura di nuove sale giochi, inoltre è necessaria una campagna
di sensibilizzazione per far capire a quali conseguenze può portare la ludopatia”.
Tre le categorie più a rischio: i giovani, i disoccupati e gli anziani perché vedono nelle slot
machine una prospettiva di fortuna economica. Marco Gabbiani, psicologo e
psicoterapeuta, è convinto che se diminuiscono le offerte (meno sale giochi) calano le
“tentazioni”. Una quarantina i soggetti affetti da ludopatia in carico al Centro di solidarietà
che per bocca di Laura Lucarini tuona contro le sale giochi anche per bambini, quelle che
pur non dando soldi fanno incollare i più piccoli davanti ai monitor. Nicoletta Ulivi
dell’Opera Santa Rita spiega che non vuole demonizzare il gioco ma che bisogna
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informare per avere consapevolezza dei rischi nei quali si può incappare. Infine, il
consigliere comunale Gabriele Alberti nella veste anche di consigliere del circolo Arci di
Casale racconta l’esperienza di come dal suo circolo siano state tolte le macchinette che
portavano un certo introito: “Ma questa – dice - è stata una scelta in linea con le nostre
idee”. Il timore di Alberti è quello che la ludopatia abbia in città ricadute ben peggiori
rispetto al fenomeno della tossicodipendenza e per questo bisogna mettere in campo gli
strumenti per una soluzione al problema.
http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2015/11/18/news/prato-seconda-in-italia-pernumero-di-slot-machine-1.12468157
Da ZeroOttoNove.it del 18/11/15
Baronissi, inaugurato sportello d’ascolto
Baronissi. Inaugurato ieri mattina, presso il centro Alessia di Acquamela, lo sportello di
ascolto e supporto per i cittadini e le famiglie bisognose di assistenza sociale
Inaugurato ieri mattina lo sportello di ascolto per i cittadini e le famiglie che hanno bisogno
di supporto, orientamento, assistenza. Lo sportello è ubicato ad Acquamela presso il
centro polifunzionale Alessia, una struttura confiscata alla camorra.
Baronissi
Alla cerimonia erano presenti il primo cittadino di Baronissi, Gianfranco Valiante, il vice
sindaco Anna Petta, l’assessore alle politiche sociali Emanuela Migliore, e le
rappresentanti delle associazioni coinvolte ARCI e CIF.“Attiviamo un servizio di altissima
civiltà e apertura verso il territorio e i cittadini, diamo a Baronissi questa nuova struttura,
uno sportello di ascolto a supporto per tutti, indistiamente loro posizione sociale. – dichiara
Valiante. “Lo sportello avrà 2 grosse funzionalità: una di ascolto e un’altra di attivazione
pratica delle problematiche, nell’assoluto rispetto della privacy degli individui coinvolti.”
Anna Petta ricalca le parole del sindaco:“Questo sportello vuole essere un nuovo tassello
di solidarietà, accoglienza e comprensione che l’amministrazione comunale fornisce, e si
premunisce di fornire, ogni giorno ai suoi cittadini”. Lo sportello sarà aperto ogni martedì
dalle 17.00 alle 19.00 e giovedì dalle 10.00 alle 12.00: i cittadini saranno accolti con
assoluta discrezione e nel pieno rispetto della privacy da psicoterapeuti, avvocati,
sociologi, mediatori familiari e culturali.
Il servizio è promosso in collaborazione con le associazioni CIF e ARCI e con la
Commissione Pari Opportunità. Conclude la conferenza l’assessore Migliore: “La famiglia
è la prima istituzione sociale, istituiamo questo sportello per tutelare essa e i singoli
individui, per fornire un sopporto concreto ai nostri concittadini, nel rispetto totale della
persona. Lo sportello ha anche l’ambizione di diventare un centro anti violenza,
direttamente collegato con il numero verde nazionale”.
http://www.zerottonove.it/baronissi-sportello-centro-alessia/
10
ESTERI
del 19/11/15, pag. 10
Juncker: “Fuori dal Patto di stabilità le spese
per la sicurezza”
Il pugno di Hollande “Chiudiamo le frontiere” Sarkozy: “Ha fatto poco”
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI.
La risposta di François Hollande contro la minaccia terroristica si muove anche sul piano
politico. Il presidente ha lanciato ieri un nuovo segnale all’elettorato di destra. «Le frontiere
della Francia resteranno chiuse », ha detto il leader socialista, precisando che la
sospensione di Schengen – cavallo di battaglia del Front National di Marine Le Pen – è
fatta nel rispetto dei Trattati.
Hollande ha anche chiesto più controlli sui profughi in arrivo per evitare che i terroristi
possano infiltrarsi tra i rifugiati. Per la prima volta, il presidente ha parlato di un rischio di
attentatori nascosti tra i richiedenti asilo, proprio come da tempo ripete l’estrema destra.
La Francia, ha continuato, vuole dare solidarietà, ma «chi entra sul territorio europeo non
deve porre rischi per i nostri Paesi».
Le stesse richieste, Parigi le farà anche al consiglio straordinario dei ministri degli Interni
previsto domani. L’annuncio di Hollande per ora non è stato commentato a Bruxelles, ma
Jean-Claude Juncker ha aperto a nuova flessibilità sui bilanci pubblici: gli esborsi per
sicurezza e antiterrorismo non saranno conteggiati come ordinari, e quindi verranno
esclusi dal Patto di Stabilità. «A spese straordinarie risposta straordinaria», ha detto il
presidente della Commissione.
La svolta del governo socialista è stata abbozzata già lunedì nel discorso di Hollande al
Congresso di Versailles, quando ha spiegato di voler modificare la Costituzione con una
sorta di Patriot Act, come fece George Bush dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Le misure
annunciate non convincono però Nicolas Sarkozy che accusa Hollande di aver perso
tempo negli ultimi dieci mesi. «Dopo l’attacco di gennaio contro Charlie Hebdo si sono
tratte tutte le conseguenze necessarie? La risposta è no», ha spiegato il leader dei
Républicains in un’intervista a Le Monde.
«Il governo non ha calcolato l’effetto dell’intervento militare in Siria sul piano della
sicurezza », mentre avrebbe invece dovuto «rafforzare il dispositivo antiterrorismo ».
Sarkozy chiede anche la «creazione di una commissione di inchiesta» per far luce su
quanto accaduto e trarne le conseguenze.
La sortita di Sarkozy può anche essere letta in chiave di politica interna al fronte
conservatore. Da venerdì l’altro pretendente per il centrodestra alle presidenziali del 2017,
Alain Juppé, si è schierato con decisione a fianco del presidente Hollande dicendo
esplicitamente che adesso «la Francia ha bisogno di unità». Il presidente può intanto
contare sul sostegno dei francesi: secondo un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano Le
Parisien il 70% dei cittadini approva la sua azione dopo gli attacchi del 13 novembre. Dato
in parte rovinato dalla gaffe del suo portavoce, che lo ha rilanciato su Twitter proprio
durante il blitz della polizia a Saint-Denis. E cancellato in tutta fretta, ma quando era già
finito in pasto alla Rete.
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del 19/11/15, pag. 11
«Spese di sicurezza fuori dal Patto Ue»
Il capo della Commissione Juncker apre alla flessibilità. Soddisfazione
di Renzi: una nostra richiesta
DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES L’emergenza terrorismo, esplosa con gli attentati a Parigi di venerdì scorso,
porta verso un allentamento degli impegni di bilancio del patto di Stabilità e di crescita
dell’Unione Europea. Francia, Italia e altri Paesi membri potrebbero ottenere maggiore
flessibilità di spesa per investire di più nella sicurezza dei cittadini. Lo ha annunciato il
presidente lussemburghese della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che guida
l’istituzione Ue delegata proprio al controllo dei bilanci nazionali.
«Stiamo affrontando gravi atti terroristici — ha dichiarato Juncker a Bruxelles —. La
Francia, così come altri Paesi, deve avere a sua disposizione mezzi supplementari. Penso
che questi non dovrebbero essere trattati come spese ordinarie nel patto di Stabilità». Da
Roma il premier Matteo Renzi ha apprezzato l’apertura dell’ex premier lussemburghese e
ha rivendicato di aver chiesto l’esclusione delle spese per la difesa al vertice Nato nel
2014, ottenendo un no. «Figurarsi se uno sta attento allo zero virgola sulla sicurezza — ha
commentato Renzi —. E quello che vale per la Francia varrà anche per l’Italia». La
Commissione europea sostanzialmente intende accogliere la richiesta arrivata da Parigi. Il
presidente Francois Hollande e il primo ministro Manuel Valls, nei giorni successivi agli
ultimi attentati nella capitale francese, avevano anticipato che consideravano prioritario
spendere tutto il necessario per la sicurezza dei cittadini e che non potevano quindi
rispettare l’impegno con Bruxelles a tornare nel 2017 sotto il 3% nel rapporto tra deficit e
Pil. Valls ha detto esplicitamente che i vincoli di bilancio sarebbero stati «notevolmente
superati» e che l’Ue avrebbe dovuto «comprendere». Fonti vicine all’Eliseo hanno fatto
trapelare impegni nell’antiterrorismo non lontani dal miliardo di euro.
Già martedì scorso, il commissario Ue per gli Affari economici, il socialista francese Pierre
Moscovici, annunciando le valutazioni della Commissione sulle bozze delle leggi di
bilancio nazionali per il 2016, aveva affermato che «una cosa chiara nella situazione
attuale è che in questo momento terribile la tutela dei cittadini, la loro sicurezza, in Francia
e in Europa è la priorità». Moscovici aveva promesso una interpretazione «intelligente»
delle regole del patto di Stabilità, che consentirebbe anche all’Italia di ottenere più
facilmente il via libera alla legge di bilancio per il 2016 nonostante i richiami di Bruxelles
soprattutto sull’alto debito e sul deficit.
La flessibilità collegata alle spese per l’antiterrorismo si aggiungerebbe a quella chiesta dal
governo Renzi per affrontare la crisi economica (con riforme e investimenti) e l’emergenza
migranti, su cui la Commissione si è riservata di decidere in primavera. Il rischio è che il
rinvio degli impegni con l’Ue possa far sottovalutare la difficile situazione dei conti pubblici
dell’Italia .
Ivo Caizzi
12
del 19/11/15, pag. 10
Hollande e lo stato d’emergenza «Giusto
restringere le libertà»
Si teme il peggio: il governo ha autorizzato l’acquisto massiccio di
antidoti ad armi chimiche letali
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI Hollande comincia a parlare davanti ai 2000 sindaci di Francia riuniti al Palazzo
dei congressi pochi istanti dopo che il blitz delle forze dell’ordine a Saint Denis si è
finalmente concluso. Il commando dei terroristi era pronto a entrare in azione per altri
attacchi. Il presidente della Repubblica allora non ha esitazioni: «Lo stato di emergenza
giustifica una restrizione temporanea delle libertà», spiega il capo di Stato.
Una vita a sinistra, un’elezione presidenziale vinta contrapponendosi agli eccessi «legge e
ordine» dell’avversario di destra Sarkozy, e ora Hollande viene paragonato a George W.
Bush, che dopo l’11 settembre fece ricorso al Patriot Act.
La violenza inaudita della battaglia di Saint Denis fa dire al presidente che «è evidente
ancora una volta che siamo in guerra». Hollande approfitta della platea per dire ai sindaci
che l’aumento della sicurezza deve essere assicurato in modo capillare, su tutto il territorio
francese, invitando la polizia locale a rifornirsi di armi negli stock della polizia nazionale.
«Attribuisco una grande importanza alla partecipazione dei sindaci di Francia», ha detto
Hollande, in particolare per fare rispettare lo stato di emergenza quanto al divieto di
circolazione nei luoghi definiti «sensibili» e la protezione di alcuni edifici. Il progetto di
riforma dello stato di emergenza arriva questa mattina all’Assemblea e sarà venerdì
pomeriggio al Senato: i parlamentari di tutti gli schieramenti approveranno in maggioranza
la sua estensione da 12 giorni a tre mesi, fino a febbraio 2016.
La svolta sulla sicurezza di Hollande arriva mentre il Paese è sotto choc per gli attentati e
anche per i continui allarmi. In più, si diffonde la paura che il prossimo attacco dell’Isis
possa essere ancora più spettacolare e atroce: i terroristi potrebbero fare ricorso in
Francia alle armi chimiche che lo Stato Islamico già utilizza in Siria. All’indomani delle
stragi di venerdì 13, in grande discrezione è stato pubblicata sul Journal Officiel
un’ordinanza del ministero della Sanità che autorizza l’acquisto massiccio, lo stockaggio e
la somministrazione di «solfato di atropina 40 mg/20 ml PCA», rivela il Figaro . Cioè,
l’antidoto per armi chimiche letali come il gas sarin.
Accanto alla «restrizione delle libertà personali», Hollande ha annunciato comunque che la
Francia terrà fede ai suoi impegni sui rifugiati. «C’è chi ha cercato di mettere in relazione
l’afflusso dei rifugiati con gli attentati di venerdì — ha detto Hollande —. Ma, come
promesso, ne accoglieremo 30 mila nei prossimi due anni». Le due esigenze, protezione
dei francesi e umanità per chi fugge dalle guerre, non si escludono a vicenda.
Oltre alla svolta sulla sicurezza, in queste ore il presidente Hollande ha operato anche una
cambio radicale di politica internazionale. Vladimir Putin, da personaggio infrequentabile, è
diventato assieme a Barack Obama il caposaldo della «coalizione unica» che la Francia
vorrebbe creare per sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq.
Ancora all’inizio di ottobre Hollande chiariva che «Putin non è nostro alleato in Siria»; ieri il
presidente ha annunciato che martedì 24 novembre andrà a Washington per incontrare
Obama, e giovedì 26 sarà a Mosca per parlare al leader russo. La Francia non ha invocato
finora l’articolo 5 della carta Nato per non imbarazzare l’alleato americano, restio a inviare
truppe in Siria. Ma allora, Hollande si aspetta la collaborazione di Obama per coinvolgere
Putin in una grande e definitiva alleanza contro lo Stato Islamico.
13
Stefano Montefiori
del 19/11/15, pag. 7
L’esercito in strada: tornano i fantasmi
dell’Algeria anni 60
L’Armée de terre schierata come nel 2005 per i disordini nelle banlieue e
nel 1995 per le bombe del Gia nel metrò
di Stefano Citati
Un convoglio di camion dai cassoni telonati con soldati seduti dentro risale rue de la
République diretto verso rue du Corbillon. Altri uomini in mimetica sono dislocati sul
perimetro esterno della zona rossa attorno all’appartamento preso d’assedio dalle truppe
speciali. Parigi si sveglia con l’esercito nelle strade, non solo le pattuglie di 9 uomini che
sorvegliano a turno sotto i piloni della Torre Eiffel o la discreta presenza davanti agli edifici
istituzionali. Non ci sono solo 3 mila agenti di rinforzo alla “città-martire” come l’ha definita
ieri mattina Hollande venuti da tutta la Francia; da ieri l’Armée de terre è dispiegata in
alcune aree della Ville Lumière. Scene già viste nella regione parigina, a iniziare dal
dipartimento identificato nelle targhe automobilistiche con il 93, quello di Sanit Denis,
divenuto un numero di paura e cattivi ricordi.
È un ritorno al passato quando, dieci anni fa sempre in autunno, gli scarponi dei soldati
rimbombavano nelle vie strette proprio di Saint Denis e in altre banlieue, soprattutto quelle
del settore nord-orientale della Grand Paris, le più turbolente, come Clichy sous Bois, il
sobborgo dove si era accesa la scintilla della rabbia dei giovani arabi di seconda
generazione dopo la morte accidentale di un ragazzino braccato dalla polizia. Per
settimane nelle notti di violenza che si erano estese a gran parte delle banlieue della città
di Francia, migliaia di auto, cassonetti, esercizi commerciali dati alle fiamme, i soldati
avevano dato man forte alle forze di sicurezza tricolori. Anche allora era stato decretato lo
Stato di emergenza, prolungato per 3 mesi, esattamente come si appresta adesso a
votare il Parlamento su richiesta di Hollande. Il presidente era Chirac, il ministro
dell’Interno Sarkozy, che era stato criticato per aver definito i giovani ribelli delle periferie
racaille, feccia.
Piazzati attorno agli obiettivi sensibili, come gli ingressi del metrò, con il dito sul grilletto, i
soldati ritornano sui luoghi del terrorismo d’Oltralpe. Vent’anni fa, era estate, reparti
dell’Esercito erano stati dispiegati in missione di pattuglia e controllo proprio nelle viscere
di Parigi, nelle gallerie della rete metropolitana per sventare ulteriori attacchi dinamitardi.
“La città si era bloccata, si era tornati all’atmosfera degli anni 70-80, dell’insicurezza
costante, quando al terrorismo di casa nostra si era mescolato quello delle fazioni
estremiste mediorientali. Ora tutto ritorna di nuovo”, ricorda un signora che abita ancora
poco lontano dalla zona degli attacchi del 1995.
I terroristi del Gia, i gruppi estremisti salafiti algerini, avevano esportato la guerra civile che
insanguinava l’ex colonia francese. Erano i predecessori ideologici e materiali degli attuali
combattenti sunniti legati al Califfato siro-iracheno. Bombole del gas imbottite di schegge
metalliche erano state fatte saltare tra l’altro nella frequentatissima stazione sotterranea di
Saint Michel nel V arrondissement, davanti all’Île de la Cité poche decine di metri dalla
cattedrale di Notre Dame e dal palazzo di giustizia del Quai des Orfèvres, dove Simenon
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ha ambientato le inchieste di Maigret (che era fatto abitare nel boulevard Richard-Lenoir
nei pressi dei luoghi presi di mira dai jihadisti del 13/11). Proprio dall’altra parte dall’isola
maggiore di Parigi, sul Pont Neuf, era avvenuto il massacro di manifestanti algerini del 17
ottobre 1961. La guerra d’Algeria era nella sua fase finale, il prefetto di Parigi Papon (che
sarà condannato decenni dopo per le connivenze con il regime filo-nazista di Vichy) aveva
instaurato il coprifuoco solo per i “francesi musulmani originari d’Algeria”; nonostante
questo migliaia di loro erano sfilati in silenzio sul Lungosenna. La polizia li aveva caricati,
massacrati a manganellate e gettati nel fiume. I morti furono tra i 200 e i 300. Ufficialmente
solo 3.
del 19/11/15, pag. 1/2
I pericoli della stretta
Massimo Villone
Nella proposta di Hollande di modificare la Costituzione vediamo il dilemma storico delle
democrazie sotto attacco. Come reagire senza negare la propria ragion d’essere?
Hollande chiede di modificare la Costituzione con la previsione di uno stato d’emergenza.
La Costituzione francese già prevede che il Presidente della Repubblica possa assumere
poteri straordinari (art. 16). Ma presuppone a tal fine una interruzione del funzionamento
dei poteri costituzionali, che non c’è. Prevede anche la possibilità di uno stato di assedio
(art. 36), definito in dettaglio dal Code de la défense, che però trasferisce poteri all’autorità
militare. E dunque Hollande ritiene necessaria una ulteriore e diversa copertura
costituzionale.
In realtà già è previsto in Francia anche uno stato di emergenza, con la legge n. 55–385
del 3 aprile 1955, e successive modificazioni. Dichiarato dal Consiglio dei ministri per 12
giorni, prorogabili con legge, attribuisce al ministro dell’interno e ai prefetti poteri
amplissimi, tra cui chiudere temporaneamente luoghi di incontro, proibire assemblee e
riunioni, autorizzare perquisizioni, vietare la circolazione o il soggiorno, controllare tutti i
mezzi di informazione, stabilire coprifuoco, posti di blocco, controlli sulle persone in
apposite «zone di protezione». La proposta di legge ora presentata (18 novembre 2015, n.
3225) cancella i soli controlli sull’informazione. Tutto il resto rimane, senza alleggerimenti.
E si proroga di 3 mesi lo stato di emergenza dichiarato il 14 novembre, che scade il 26.
È un regime di drastici limiti a libertà e diritti. Cosa può ancora volere Hollande, oltre che
puntare a un recupero di consensi? A una prima valutazione: intestare il potere
direttamente a se stesso; consentire una più lunga durata; ulteriormente comprimere le
garanzie individuali, ad esempio con la detenzione o altre limitazioni della libertà per lunghi
periodi senza intervento del giudice; sottrarre i poteri — con l’inserimento in Costituzione
— al controllo giudiziario, costituzionale e ordinario.
Si è detto che Hollande vuole il suo Patriot Act. In realtà, vuole di più. È l’inserimento in
Costituzione che fa la differenza. Negli Stai uniti, il dibattito che ha fatto riconsiderare le
leggi post-torri gemelle ha tratto alimento dalla contestazione, anche giudiziaria, della
violazione delle garanzie costituzionali di diritti e libertà. I — pochi, e per un’opinione
diffusa ancora insufficienti — limiti allo spionaggio di massa introdotti con il Freedom Act
del 2 giugno 2015 avrebbero visto la luce in un contesto costituzionale modificato? E i 112
che l’American Civil Liberties Union ci dice ad ottobre 2015 ancora detenuti a
Guantanamo, avrebbero miglior sorte se la Costituzione consentisse di mantenerli in cella
senza processo? L’esempio americano ci dice che la Costituzione è importante perché
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non solo difende la persona, ma anche offre fondamento e ragioni al controllo sociale e
alla formazione di un’opinione pubblica consapevole.
Hollande cita il rapporto della Commissione Balladur, istituita nel 2007 da Sarkozy. Ma la
Commissione costituzionalizzava lo stato di emergenza nell’ambito di un equilibrio
complessivo. Nelle conclusioni elencava tra le priorità adottate «émanciper le Parlement et
lui reconnaître un rôle effectif de contrôle de l’action du Gouvernement; conférer et
garantir des droits nouveaux aux citoyens». Dunque, rafforzare parlamento e diritti. Si
prevedeva che lo stato di emergenza fosse in Costituzione solo menzionato, per essere
poi disciplinato con legge organica.
Hollande coglie certo un punto quando non vede prossima la fine della minaccia
terroristica. Il termine di 12 giorni attualmente previsto dalla legge 55–385 può essere
breve. Ma perché non limitarsi a una legge che lo prolunghi, o introduca forme semplificate
di proroga? Inoltre, è spesso emerso che i protagonisti di atti di terrorismo erano già noti
agli apparati di sicurezza. Tale sembra essere oggi il caso, ad esempio, della cellula
scoperta in Belgio, per la quale addirittura si sospettano scambi inconfessabili tra terroristi
e apparati di sicurezza. Questo suggerisce che una migliore intelligence può valere molto
più che una compressione generalizzata di diritti e libertà.
Oggi e nel futuro, una risposta al terrorismo la sinistra deve saperla dare, se non vuole
essere travolta dalla richiesta popolare di sicurezza. Nessun appeasement, nessuna
tolleranza, ma con punti fermi. Che sulle garanzie di libertà e diritti non si facciano passi
indietro. Che i poteri di qualunque autorità non siano mai sottratti a limiti e controlli. Che in
particolare il controllo di costituzionalità e quello giudiziario siano salvaguardati
nell’ampiezza e nell’incisività. Che si perseguano politiche inclusive e dialogo interculturale
con la comunità di fede islamica, per rafforzarne gli anticorpi contro il veleno del
terrorismo.
Una sinistra deve ricordare che la Costituzione non è solo un regolamento di confini tra
poteri, e tra individuo e autorità. È anche l’identità di un popolo e di un paese, in cui resta
l’essenza della democrazia. Bisogna sempre diffidare delle modifiche sulla spinta
dell’emergenza. Le reazioni che vediamo — inclusa quella di Hollande — vengono dal
sangue di molti sparso a Parigi. Ma anche le Costituzioni possono venire dal sangue di
molti. È il caso della Costituzione francese, e della nostra. Il sangue di oggi chiede risposte
forti e univoche. Il sangue di ieri memoria e rispetto.
del 19/11/15, pag. 1/6
L’esperimento fallito di Saint-Denis
dove l’integrazione è solo apparente
I primi segnali già nel 2001 allo Stadio durante Francia-Algeria
Cesare Martinetti
La dicevano «città gemellata con la Storia», che fosse quella dei re di Francia che qui
hanno la loro tomba, o quella del partito comunista che ne aveva fatto la sua cittàlaboratorio fin dai lontani Anni Venti. O, come hanno cominciato a dire gli urbanisti passato
il 2000, la «banlieue monde», luogo di sperimentazione di insiemi sociali, talvolta anche
ammirata dalla destra come fu per Chirac, un’utopia realizzata con le abitazioni sociali in
pieno centro, a due passi dalla grande cattedrale gotica, dove sbuca il metrò numero 4, la
linea viola, che in meno di mezz’ora porta nel cuore della tout-Paris, a Saint-Michel.
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Saint-Denis insomma non è un posto qualunque e tutte queste definizioni che ne hanno
punteggiato la storia a poche ore dal blitz contro gli amici e i sostegni degli assassini che
hanno colpito a morte la notte del 13 novembre, sembrano sconvenienti iperboli. Specie
adesso che la prima kamikaze donna nella storia di Francia, proprio qui, si è fatta
esplodere. Ma paradossalmente è invece la dimostrazione che da Saint-Denis passa
l’aggiornamento, la sincronizzazione con il contemporaneo, tanto più dolorosa quanto più
reale.
E allora bisogna fare un passo indietro e tornare alla sera dimenticata del 6 ottobre 2001.
Era un sabato. L’aria era tiepida. La Rer B, la stessa linea di metrò di banlieue che porta al
Charles-de-Gaulle dopo aver attraversato tutta Parigi, era stranamente semivuota. Ma
appena scesi alla stazione La Plaine-Stade de France, eravamo precipitati in un altro
mondo: c’era musica, c’erano colori, odori, fumi, l’aria intera vibrava percorsa da
percussioni che venivano da lontano. Sul viale dello stadio barbecue con spiedini «halal»
aggiungevano sapore all’insieme dei sensi. In quale periferia africana ci trovavamo?
Lo «Stade de France»
Lo stadio, il meraviglioso Stade de France, l’immensa astronave da incontri ravvicinati,
diventato tempio del calcio francese, dove appena tre anni prima i «bleus» di Zinedine
Zidane avevano conquistato la prima coppa del mondo contro il Brasile, era stracolmo. Ma
i colori non erano il bianco-rosso-blu della nazionale francese, bensì il bianco-verde con
una macchia rossa della bandiera algerina. Ecco, quella sera si celebravano i - quasi - 40
anni dell’indipendenza dell’Algeria. Una partita di calcio amichevole, uno di quei tentativi –
non sempre felici – di surrogare la politica con lo sport. Doveva essere una serata di
amicizia e di storica riconciliazione: mai le due nazionali si erano incontrate sul campo di
gioco. E c’erano voluti 40 anni perché ciò accadesse. Doveva essere una festa: si è
trasformata nel suo rovescio. E nessuno l’aveva previsto.
Tutto era precipitato prima ancora che si cominciasse a giocare, al momento degli inni
nazionali. Canti e boati per quello algerino. Ma quando sono partite le prime note della
Marsigliese è come se in un momento la storia di Francia si fosse capovolta. Ottantamila
fischi hanno coperto la musica della banda della guardia repubblicana mentre sui
maxischermi sfilavano impietriti i volti dei giocatori in maglia blu, quasi tutti immigrati.
Zidane, Thuram, Desailly... gli eroi di quella nazionale «blanc-black-beur» (di bianchi, neri
e arabi) che aveva costruito l’ultima retorica pop mitizzando la vittoria ai mondiali ’98 come
la prova di un modello riuscito, quello dell’integrazione alla francese.
Di colpo, in quello stadio, precipitava un’illusione. Il primo ministro socialista Lionel Jospin,
pallido come un morto, rimase al suo posto (e per questo venne poi seccamente
rimproverato dal presidente Chirac) per non peggiorare le cose. Ma da quel momento tutto
è cambiato. La pacifica e festosa invasione di campo che interruppe il match dopo un
quarto d’ora di gioco nella ripresa fu l’inevitabile conseguenza dei fischi: i ragazzi di SaintDenis si erano presi simbolicamente ciò che la Francia aveva loro negato, la magica
pelouse dello Stade era una rivincita storica.
Una catena di eventi
Di qui alla rivolta delle banlieues del 2005, alle raffiche di kalashnikov nella redazione di
«Charlie Hebdo» di gennaio, alla decimazione dei rappresentanti di una generazione
libera nella platea del Bataclan («Bande d’enculés», dicevano alle loro vittime i killer
mentre sparavano ridendo), c’è un filo e non si può nasconderlo. Eppure questa città di
centomila abitanti che è stata governata da sindaci modello, per ultimo Patrick Braouezec,
un’icona della gauche, non è certo un ghetto: i servizi sociali sono un modello. L’attuale
sindaco, Didier Paillard, è l’ultimo comunista a capo di una grande città francese ed è stato
il solo a organizzare un referendum per dare il voto agli stranieri. Ma evidentemente ci vuol
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altro. E che la police, sulle tracce dei killer islamisti, sia finita proprio qui incontrando la
prima kamikaze donna, non può essere un caso.
del 19/11/15, pag. 12
Domani nei 2.500 luoghi di culto francesi, con la preghiera, si leggerà un
testo di adesione alla Costituzione
Il patto delle moschee contro il terrorismo
“Ora giuriamo fedeltà ai valori repubblicani”
GIULIANO FOSCHINI
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI.
Lo chiamano Abdullah. Ha 40 anni, ed è studente dell’università islamica. Ieri mattina
quando la polizia ancora teneva sotto assedio il quartiere dove vive e studia da Imam da
quasi due anni; quando i suoi amici raccoglievano nelle case i cocci delle esplosioni della
notte e i bambini dei palazzi vicini, come per esempio i figli di Gregory, cominciavano ad
affacciarsi nel cortile, increduli di questo giorno di scuola saltato. Mentre tutte le televisioni
del mondo avevano gli obiettivi aperti su di loro, in quel momento Abdullah si è messo in
un angolo.
E ha cominciato a pregare. Con il Corano stretto tra le mani. «Allah non avrebbe voluto
nulla di tutto questo. Allah non perdonerà nulla di tutto questo», spiega, affannandosi a
tratti anche in un italiano dignitoso, «sono stato nel vostro paese per quasi due anni
spiega». Perché prega? «Non potrei fare nient’altro. Solo a Dio possiamo affidarci per
trovare una spiegazione a quello che sta succedendo. Questi ragazzi», lo dice e indica la
strada dove si è fatta esplodere stamane Hasna Autboulahcen insieme con una persona,
o forse con due, «hanno ucciso o comunque volevano uccidere degli innocenti, uomini e
donne che non avevano alcuna responsabilità. Non ci può essere alcun Dio che voglia che
qualcuno muoia per niente».
Eppure, dicono, che lo fanno proprio in nome del libro che Abdullah tiene stretto per le
mani. «Ci sono tre motivi che possono aver spinto quelle persone a fare quell’immonda
carneficina. Il primo è che sono matti. Il secondo è che sono nervosi, esasperati, arrabbiati
per quello che sta accadendo in Medioriente dove vivono parenti, amici. E dove
continuano ad arrivare bombe che uccidono civili. Il terzo è che qualcuno li paga per quello
che hanno fatto. In nessuna delle tre soluzioni, come vedete, c’entra la religione».
Per questo Abdullah domani sarà per strada, a Parigi, nella grande manifestazione che la
Grande Moschea di Parigi, la Gmp, ha organizzato alle 14: «Siamo tutti a Parigi!» è il
motto, appeso da ieri sulle porte di tutte le moschee della città. L’obiettivo è far promettere
a tutti i musulmani fedeltà a tutti i valori repubblicani. «La mobilitazione e la raccolta dei
cittadini sono una necessità e la migliore risposta a chi vuole infondere il veleno della
discordia e del sospetto nella comunità» spiega Dalil Boubaker, il rettore della Grande
moschea.
Che avrà al suo fianco il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo. «Chiediamo — ha detto
Boubaker — a tutti i cittadini musulmani e ai loro amici di venire domani per la grande
preghiera per dimostrare il loro profondo attaccamento a Parigi e alla Repubblica, davanti
alla grande Moschea », che è il simbolo dell’Islam in Francia. Non a caso è intervenuto
anche il Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), l’organo di rappresentazione di le
2.500 moschee del paese che ha invitato, per voce del suo presidente, Anwar Kbibech,
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«tutti i musulmani a pregare per la Francia». «Di fronte all’orrore e l’indignazione suscitata
dalla barbarie sanguinaria che ha colpito il paese — ha detto l’imam Boubaker — l’unica
risposta è andare in piazza ». E così come accadde dopo la strage di Charlie Hedbo, è
attesa una grande mobilitazione da parte dei fedeli: alla mosche dell’XI arrondisment, a
pochi passi dal teatro Bataclan, una di quelle considerate dal governo francese come
potenzialmente pericolosa perché recentemente frequentata da elementi radicali, ieri sera
già organizzavano gli striscioni da portare alla manifestazione. Anche perché in questo
frullatore di storie, lutti, emozioni, capita che accadano anche delle cose incredibilmente
belle. Clementine e Anais, le sorelle di Guillaume Le Dramp, una delle vittime, hanno
deciso di incontrare la comunità musulmana di Cherbourg, la loro città di provenienza.
«Siete francesi come noi. Ed è giusto che siamo qui, ora, a piangere Guillaume con voi.
Vogliamo dimostrare alla gente che noi familiari delle vittime, siamo qui con voi, perché
vogliamo l’integrazione. Nostro fratello aveva tanti amici di diverse nazionalità e religioni.
Molti dei nostri amici sono musulmani. E ora stanno soffrendo con noi».
del 19/11/15, pag. 1/30
Sono i barbari ad avere paura
ADRIANO SOFRI
PARLIAMO ora della paura che hanno, non di quella che fanno. Non per qualche siringa
rinvenuta: un doping sta nel conto anche dei professionisti di stragi. A Parigi, forse,
qualcuno di loro ha avuto paura, ha cercato di prendere tempo coi suoi quando già
sguazzava nel sangue del Bataclan, si è fatto (o è stato fatto) esplodere fuori dallo stadio.
SEGUE A PAGINA 30
SENZA nemmeno procurarsi una vittima. Tempo fa, un video dell’Is mostrava un suo
ragazzo alla partenza con l’autobomba, che d’improvviso si metteva a lacrimare per
nostalgia della vita. Poi i suoi caporali lo carezzavano e ammonivano, e andava a
esplodere. Ma c’è altro che gli episodi personali. Vediamo.
Tutto è cominciato con la loro onnipotenza. Ne siamo stati sbigottiti e annichiliti. Quella, cui
non eravamo pronti, era l’onnipotenza della ferocia. Le decapitazioni al coltello eseguite
alla telecamera senza battere ciglio. Occorre tempo, addestramento, esercizio, per fare
dei combattenti. Avevamo preferito non accorgerci di quanto tempo, esercizio e
addestramento avessero investito per fare dei tagliagola. Ne era pieno da anni l’oriente più
o meno vicino. Come una lunga serie di prove, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Pakistan alla
Nigeria, e finalmente la prima, recitata sotto le luci di scena, coi costumi, il trucco, il gran
pubblico, tutto a posto. Abbiamo avuto una paura terribile. Lo spettacolo del terrore ha una
storia antica, ma gli mancava la perfezione della scena planetaria. E questi nuovi attori
avevano estirpato da sé, come in una resezione chirurgica, due organi essenziali
dell’umanità civile: il rispetto della morte e il pudore, la lentissima conquista della riluttanza
e della ripugnanza verso il sacrificio umano consumato immergendo le mani nel sangue e
nelle viscere. Uomini così neri, così spietati e sicuri della propria brutalità, così avidi di
morte.
Qualcosa del genere devono aver provato i nostri antenati estenuati dalla raffinatezza e
dalla decadenza al rumore dell’arrivo dei barbari, e non avevano i video. Hanno avuto
paura i peshmerga, agosto 2014, tradendo la loro epopea di veterani e il loro nome di
pronti alla morte. Scapparono, a Sinjar, e abbandonarono gli inermi affidati loro.
(Resistettero i curdi siriani e turchi, per i quali la condanna a combattere non si era mai
interrotta). Un’onta umiliante per quei petti di cicatrici e di medaglie. La lunga inerzia delle
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potenze, occidente e Russia, oltre che a calcoli loschi di convenienze e sragioni di stato, fu
anche il frutto di quella paura animalesca, dunque umanissima. Il Terrore funzionava, cioè
terrorizzava. Contro di loro, nella viltà internazionale, rosicchiava un’altra qualità umana,
forse la più irriducibile benché spesso spregevole: l’abitudine. Impresari di una compagnia
di giro che rischiava la caduta d’ascolti, i programmisti del Califfo escogitavano tormenti
sempre più lambiccati, una pirotecnia barocca dell’efferatezza: bambini carnefici, gabbie di
uomini bruciati a fuoco lento, annegati ad acqua lenta, crocifissi, decollati, squartati, la
gamma dei supplizi di una superstizione laureata in anatomia. Servivano ad alimentare
l’affluente del reclutamento internazionale, al grande pubblico arrivavano sempre meno.
Intanto qualcuno trovava la forza e la lucidità per reagire. Non esistono uomini invincibili,
barbari o no.
Quando fu troppo — Erbil e Bagdad avevano il fiato sul collo, ezidi e cristiani sterminati, le
bambine passate da canaglia a canaglia — gli americani decisero che un argine andasse
elevato, che qualcosa bisognasse fare. “Qualcosa”, nella contemporanea arte della guerra
(!), è il ricorso alla supremazia dall’alto dei cieli — ancora per poco. Beninteso, senza i
riluttanti caccia e droni americani il califfato non avrebbe incontrato alcun ostacolo. Con la
protezione, misurata, da quel cielo, donne e uomini di Siria hanno tenuto e ripreso
Kobane, la prima sconfitta spettacolosa degli uomini neri. Poi sono venuti i riscatti dei
peshmerga, attorno a Kirkuk e ora, il giorno prima di Parigi, con la battaglia di Sinjar. A
Sinjar si batteva il nerbo dell’armata nera, a difesa di un simbolo prezioso, e delle vie di
comunicazione fra le due “capitali”, Raqqa e Mosul. Gli uomini neri erano già scappati a
sud di Kirkuk, ora sono scappati a Sinjar. Su quei fronti curdi vi sentirete dire solo la frase
orgogliosa: “Adesso sono loro che hanno paura dei peshmerga”.
Ieri fonti clandestine e coraggiose parlavano della fuga disordinata e spaventata degli
uomini neri sotto i bombardamenti di Raqqa, e addirittura di donne affacciate a capo
scoperto a salutarla. Non so se sia vero, e a che punto. Ma si deve pensare che il terrore
esportato a Parigi e in ogni altra nostra contrada non sia l’espansione di un’avanzata
onnipotente, ma piuttosto il contraccolpo di una difficoltà: piccola, perché minima è finora
la forza messa in campo contro il preteso califfato in Iraq e in Siria. È facile l’onnipotenza
di chi, tuta nera e coltellaccio, non trova resistenza: è ovvio, ma l’avevamo dimenticato. A
quel nostro sbigottimento apparteneva ancora l’idea che il coraggio sia legato al disprezzo
della morte. L’idea di tutti gli inni. L’idea che ci trattiene dal chiamarli vigliacchi perché si
mostrano avidi di morire. Ma è un’idea assurda e resuscitata dal panico: la civiltà non è
altro che la progressiva consapevolezza che il vero coraggio sia un frutto della ragionevole
paura e dell’amore per la vita. La civiltà è tanto più progredita quanto meno è pronta a
menare le mani, su un’autostrada o su un campo di battaglia. E se non spinge la dolcezza
del vivere fino al suicidio, diventa lei invincibile. È questo il punto cui siamo. (Uso la prima
persona plurale. Chi siamo “noi”? Quelli che la sera vanno al bar Bataclan in bicicletta). Li
abbiamo lasciati gonfiarsi a dismisura, e non ci sono scorciatoie: siamo in un tempo
nuovo, che chiede umani nuovi o rinnovati. Winston Churchill era un personaggio buffo se
non ridicolo quando prese in mano le cose. Ma il punto cui siamo è quello in cui gli uomini
neri fanno meno paura e hanno più paura.
del 19/11/15, pag. 16
L’estrazione e la vendita dell’oro nero è l’elemento fondamentale per far
funzionare il Califfato 40 mila barili al giorno fruttano ai jihadisti 500
milioni l’anno. Per questo, dopo i pozzi, Washington e Mosca hanno
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iniziato a colpire anche i camion-cisterna che portano benzina. Per
svuotare il canale di finanziamento dell’Is
Bombe sul petrolio dello Stato Islamico la
guerra di Usa e Russia al tesoro di Al
Baghdadi
MAURIZIO RICCI
PRONTI A COLPIRE
Un militare dell’esercito russo al lavoro su un caccia nella base di Latakia, in Siria, da dove
partono i bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico
SE è guerra, lo Stato Islamico va colpito dove fa più male. Cioè nella cassa.
Dunque, bombe sulla benzina dei jihadisti. Da domenica, il comando strategico Usa ha
alzato il livello della campagna aerea contro il Califfato, allargando i bombardamenti dalle
infrastrutture petrolifere alle autobotti che lo distribuiscono, colpite oggi dai caccia russi.
Una scommessa politicamente e psicologicamente azzardata, che ha l’obiettivo di
svuotare il più potente canale di finanziamento del regime di Al Baghdadi, ma che può
avere conseguenze non immediatamente prevedibili sulla popolazione delle aree
occupate. Il bollettino ufficiale parla di 116 camion distrutti, una cifra cospicua, anche se
non decisiva per quello che è il pilastro del sistema petrolifero del Califfato. Più importante,
probabilmente, per sconvolgere il business dei jihadisti, è l’aspetto psicologico: l’annuncio
che l’impunità è finita e qualsiasi camion fermo ai giacimenti o diretto alle raffinerie può
essere attaccato.
Il petrolio è stato, fin dall’inizio, l’elemento fondamentale per far funzionare il Califfato,
dando ad Al Baghdadi e ai suoi uomini una fonte indipendente di finanziamento della loro
amministrazione. Non è l’unica fonte di soldi. Il tesoro principale dei jihadisti è quello che
hanno trovato nelle banche di Mosul e degli altri territori occupati. L’intelligence americana
valuta i fondi nelle casseforti delle banche fra 500 milioni e un miliardo di dollari. Poi ci
sono gli introiti del traffico di schiave, di reperti archeologici e di ostaggi. Più i finanziamenti
diretti in arrivo dai paesi del Golfo, valutati circa 40 milioni di dollari. Ma solo il petrolio
assicura un flusso costante e sempre nuovo di soldi.
Deir al-Zour, la regione petrolifera dell’Est siriano ai confini dell’Iraq, ha una potenzialità
produttiva di 400 mila barili di greggio al giorno, mentre altri 100 mila barili potevano
arrivare dal nord iracheno, nell’area di Mosul, presto occupato dagli uomini di Al Baghdadi.
Briciole, rispetto ai migliori giacimenti iracheni, quelli nell’area di Bassora, nel sud, ad
esempio, capaci di pompare milioni di barili. Ma i jihadisti non avevano bisogno di pensare
in grande. Del resto, non avrebbero mai avuto le capacità tecniche per estrarre mezzo
milione di barili. All’inizio, sono probabilmente riusciti a pompare fino a 50 mila barili al
giorno in Siria, soprattutto dai due campi più importanti, al Tanak e al Omar e, al massimo,
altri 30 mila in Iraq. Buona parte di questo greggio veniva avviato, con mezzi di fortuna,
asini compresi, verso la Turchia, al terminale petrolifero di Ceyhan, dove veniva mischiato
con il greggio proveniente da fonti legittime. E’ quanto ha fatto per anni il regime di
Saddam. Con un prezzo di mercato di 100 dollari a barile, i jihadisti potevano spuntare 40
dollari per il loro greggio, sul mercato nero. Nei momenti migliori, il traffico clandestino ha,
probabilmente, portato nelle casse del Califfato fino a 3 milioni di dollari al giorno.
Poi, l’implosione del mercato del petrolio e la guerra hanno ridimensionato queste cifre.
Con il crollo del prezzo del barile a poco più di 40 dollari, il greggio jihadista difficilmente
può spuntare più di 10-20 dollari sul mercato nero. Con- temporaneamente, i
bombardamenti americani e le difficoltà di manutenzione hanno severamente intaccato le
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potenzialità produttive. Gli esperti valutano che la produzione del Califfato si aggiri oggi sui
40 mila barili, il grosso di origine siriana. E che il canale delle esportazioni si sia
fortemente ridotto. Ma, nelle peculiari condizioni politico-militari di quell’area della
Mesopotamia, questo ha un’importanza relativa. Di fatto, l’Is può vendere il suo greggio, in
condizioni di monopolio, nella regione che controlla, ma anche ai suoi nemici: il regime di
Assad, i ribelli anti-Assad della Siria del nord, financo i curdi a est di Mosul. Essendo il
petrolio più disponibile, spesso l’unico, nella regione, il prezzo può essere fuori mercato:
fino a 40 dollari a barile - appena sotto il prezzo dei mercati internazionali - per il greggio
migliore di al Tanak e al Omar. Gli esperti calcolano che questo flusso porti oggi
l’equivalente di un milione, un milione e mezzo di dollari al giorno nelle casse del Califfato.
In prospettiva, un tesoro di 4-500 milioni di dollari l’anno. Il comando Usa spera ora di
ridurre rapidamente questo tesoro ad un quarto, da 40 a 10 milioni di dollari al mese.
L’Is gestisce, però, solo in parte il traffico. I jihadisti hanno il controllo diretto dei giacimenti
e quello, diretto o indiretto, di alcune delle maggiori raffinerie. Ma il trasporto del greggio
verso queste raffinerie e le molte piccole e piccolissime, quasi casalinghe, è assicurato da
centinaia di operatori indipendenti. Chi ha potuto girare nelle aree controllate dall’Is dice
che, fuori dai giacimenti, ci sono code fino a 6 chilometri di camion che aspettano di poter
riempire le loro cisterne. Bombardandole, gli americani mettono in crisi un ingranaggio
cruciale del sistema di potere del Califfato e dei suoi rapporti con la popolazione civile. Gli
studiosi sottolineano che lo Stato Islamico, quando vuole impadronirsi di un’area, usa una
tecnica precisa: distrugge le strutture e le istituzioni preesistenti, crea il caos, per
presentarsi, poi, come garanzia di ordine e sicurezza, quando la vittoria militare è arrivata.
In questo modo si guadagna una qualche forma di consenso nella popolazione.
Sconvolgere i rifornimenti di benzina, in un’area in cui quasi tutto funziona con generatori a
petrolio, significa, dunque, far saltare il tassello cruciale del nuovo ordine. Quasi una forma
di assedio che punta a far traballare il consenso dei jihadisti, nel momento in cui il regime
incontra le prime difficoltà. Esperti come Olivier Roy sottolineano, infatti, che l’Is ha
praticamente esaurito lo spazio di espansione territoriale. Inoltre, sta, probabilmente,
finendo di svuotare le casse delle banche e vede restringersi sempre più gli incassi facili
del petrolio.
del 19/11/15, pag. 12
Chi in Europa aiuterà la Francia
Londra è l’unica che valuta di unirsi ai raid Da Paesi come l’Italia
soccorso su altri fronti
Il Regno Unito è l’unico Paese che potrebbe associarsi ai bombardamenti in Siria ordinati
dal presidente François Hollande. Tutti gli altri 26 soci dell’Unione Europea non sembrano
pronti a partecipare in modo diretto ai raid anti-Isis.
Al governo francese, tutto sommato, va bene così. La terza potenza nucleare nel mondo
vuole mantenere il pieno controllo delle operazioni, senza dover sottoporre ogni decisione
al via libera degli alleati. Bisogna riconoscere grande lucidità politico-diplomatica ai vertici
dello Stato francese nel momento più tragico. Hollande e il premier Manuel Valls hanno
deciso di attivare per la prima volta nella storia «la clausola di mutua difesa» prevista
nell’articolo 42 comma 7 del Trattato di Lisbona. Eccola: «Qualora uno Stato membro
subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a
prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso». Una formula volutamente
vaga, frutto di uno dei tanti sofferti compromessi che hanno dato vita al Trattato in vigore
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dal primo dicembre 2009. Proprio la Francia e il Regno Unito sono le nazioni che più
hanno ostacolato la costruzione di una vera difesa europea.
Parigi avrebbe potuto invocare l’articolo 5 del Trattato fondativo della Nato che impone «a
ciascun Stato membro» di correre in soccorso di un alleato aggredito. Oppure avrebbe
potuto attivare l’articolo 222 del testo complementare, il Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea. Quest’ultima norma sembra la più calzante, poiché prevede
un’azione di sostegno collettivo al Paese vittima di un attacco terroristico.
Si può discutere a lungo sugli aspetti giuridici (una passione mai sopita a Bruxelles), ma la
sostanza è molto chiara. Se Hollande si fosse rivolto alla Nato avrebbe dovuto concordare
ogni iniziativa militare con gli altri 27 alleati, dagli Stati Uniti alla Turchia. Per lo stesso
motivo, a Parigi, si è scartata l’ipotesi della «solidarietà antiterrorismo». In questo caso il
coordinamento delle operazioni si sarebbe spostato sempre a Bruxelles, ma nelle sedi
delle istituzioni Ue.
Ora, invece, sarà Hollande e solo Hollande a decidere che cosa, dove e quando dovranno
colpire i caccia Rafale, senza dover mediare con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan
o dover trascinare la riluttante cancelliera Angela Merkel. E sarà Hollande e solo Hollande
a stabilire di che cosa ha davvero bisogno la Francia. Il presidente e i suoi ministri
avvieranno nei prossimi giorni i bilaterali con i principali partner. Al momento, dunque, si
può ragionare solo sulla base di indiscrezioni.
L’Armée francese può contare su circa 300 mila militari. I generali sono in grado di inviare
all’estero 30 mila soldati nel giro di 48 ore. Il problema è che l’attivismo in politica estera
ha già portato al dislocamento di oltre 13 mila unità nel mondo. Tremila divise nel Mali; 2
mila nella Repubblica Centrafricana; 2 mila a Gibuti, nel Corno d’Africa. Poi ci sono le
forze impegnate con la Nato (Kosovo), quelle in ambito Onu (Libano) e così via.
Per prima cosa, dunque, Hollande chiederà ai Paesi più grandi dell’Ue di alleggerire
l’impegno francese sugli altri scacchieri. La Germania potrebbe inviare truppe
supplementari nella Repubblica Centrafricana, per esempio. L’Irlanda ha fatto sapere ieri
che è pronta a spedire un contingente in Mali. Alla Spagna potrebbe essere chiesto di fare
altrettanto. Il ministro della Difesa italiana Roberta Pinotti ha gia aperto a un rafforzamento
della missione in Iraq, dove sono presenti 600 militari impegnati nell’addestramento dei
poliziotti iracheni e dei combattenti Peshmerga. Il governo di Parigi potrebbe sollecitare
l’Italia a rafforzare il contingente in Libano, avvicendando i reparti francesi.
Gli altri partner, in particolare Belgio, Olanda e, ancora Germania e Italia, saranno
chiamati a una più stretta condivisione delle attività di intelligence. Anche se il vero
ostacolo da superare è il dualismo tra servizi segreti e polizia tipico proprio della Francia.
Nelle prossime settimane il ministro dell’interno transalpino, Bernard Cazeneuve, spingerà
i colleghi europei a potenziare il cosiddetto «Schengen 2»: cioè una banca dati da
alimentare, in particolare, con le informazioni sugli spostamenti di cittadini europei (e non)
da e verso il Medio Oriente. Inoltre potrebbero essere monitorati anche i voli interni alla
stessa Unione Europea.
Misure sufficienti? La verità è che in Europa solo il premier britannico, il conservatore
David Cameron, lancerebbe i Tornado all’assalto dell’Isis, affiancando l’aviazione
francese, come accadde, tra l’altro, in Libia nel 2011. Secondo i sondaggi il 60 per cento
dell’opinione pubblica lo appoggerebbe. Ma le forze politiche in Parlamento ragionano
come nel resto dell’Unione Europea. Anche nel partito del premier, molti pensano che non
si possa più bombardare solo perché «something must be done», qualcosa deve essere
comunque fatto.
È ancora vivo il ricordo del post-Afghanistan, del post-Iraq. I deputati vogliono sapere qual
è il piano per costruire una nuova Siria. Hollande dovrà convincere anche loro.
Giuseppe Sarcina
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del 19/11/15, pag. 13
Vittime decuplicate dal 2001
Solo il 2,6% è in Occidente
Re Abdullah: l’Isis ha ucciso 100 mila musulmani. Ma i peggiori sono i
Boko Haram
Giordano Stabile
C’era il mondo di prima dell’11 settembre 2001, e di prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003,
dove i morti all’anno in attacchi terroristici erano meno di tremila. Nel 2014 hanno superato
i trentamila. La Terza guerra mondiale combattuta «a pezzetti», come l’ha definita Papa
Francesco. Il termine è stato ripreso ieri da re Abdullah di Giordania. Una Terza guerra
mondiale «contro l’umanità». Scatenata principalmente dal terrorismo islamista e che fa
vittime soprattutto musulmane. Negli ultimi due anni, ha detto Abdullah, l’Isis ha «ucciso
centomila musulmani».
L’indice del 2014
Una cifra approssimativa ma che dà l’idea del momento drammatico che stiamo
attraversando. Un conto più dettagliato delle vittime in attacchi terroristici è tenuto dal
Global terrorism index (Gti). L’ultimo rapporto è sul 2014: oltre 13 mila attentati, 32 mila
morti e 67 Paesi colpiti. È stato l’anno record dalla caduta delle Torri Gemelle, che
probabilmente sarà superato di nuovo nel 2015. Viviamo in un mondo sempre più insicuro,
adesso anche in Europa, nonostante gli investimenti senza precedenti nel settore della
sicurezza e dell’Intelligence, 53 miliardi all’anno. Dal 2001 gli attacchi sono decuplicati.
La geografia
La geografia del terrore è concentrata in Nord Africa e Medio Oriente. Il 78 per cento delle
vittime riguarda cinque Paesi: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. Nel 2014 in Iraq
ci sono state 9929 vittime, in Nigeria 7512, in Afghanistan 4505, in Pakistan 1760, in Siria
1698, nello Yemen 654, in Libia 429. Poi vengono India (416), Thailandia (156), Cina
(133). Gli Stati occidentali arrivano per ultimi.
Il peggior attentato
Il Global terrorism index tiene conto solo degli attentati, di qualsiasi matrice. Ma le decine
di migliaia di vittime della guerra civile in Siria, in gran parte in operazioni militari, non sono
incluse. Sempre nel 2014 l’attentato più sanguinoso è avvenuto a Badush, in Iraq, a
giugno: 670 persone uccise. Il numero di vittime di attacchi in Europa, America del Nord e
altri Paesi di cultura europea, nel 2014, è pari a solo il 2,6 per cento del totale. Il 70 per
cento di questi attacchi è portato a termine da «lupi solitari».
Il gruppo più sanguinario
Boko Haram è l’organizzazione terroristica più spietata. Nel conteggio del Gti ha causato
6.644 morti, e ha superato anche l’Isis (6.073 morti). Poi i taleban (3.477 vittime). Anche
se non è un’organizzazione terroristica, il gruppo dei pastori Fulani, etnia a maggioranza
musulmana che combatte i rivali cristiani Berom, arriva al quarto posto con 1.229 vittime,
tra Nigeria e Repubblica Centrafricana. Quinti gli Al-Shabaab, con 1.021 morti in Gibuti,
Etiopia, Kenya e Somalia.
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del 19/11/15, pag. 5
Un arsenale Usa per i Saud
Stati uniti. 1,29 miliardi di dollari di armi alla monarchia waabita che ha
sostenuto l’Is
Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi
Un altro arsenale Usa per la monarchia waabita. È la «compensazione»
dell’amministrazione Obama dopo lo storico accordo con l’Iran.
Ma anche l’Italia – sull’onda della recente visita ufficiale di Renzi a Riyad – rifornisce
militarmente l’Arabia Saudita come dimostra il cargo partito da Cagliari Elmas alla volta
della base di Taif con la stiva zeppa di bombe come le MK84 e Blu109 che i sauditi hanno
sganciato nello Yemen.
Washington si preoccupa di proteggere le riserve di petrolio in Medio oriente. Il 16
novembre il Dipartimento di Stato ha approvato la «possibile» fornitura di 1,29 miliardi di
dollari di materiale bellico all’Arabia saudita. Formalmente, spetta al Congresso entro 30
giorni autorizzare il trasferimento delle armi: un consenso che appare più che scontato.
Tanto più che il ministro saudita degli esteri Adel al-Jubeir ha già espresso soddisfazione
soprattutto perché arriveranno anche ordigni con tecnologia satellitare, in grado di colpire
con «precisione chirurgica» gli obiettivi a lungo raggio.
Così le forze armate saudite si confermano migliori «clienti» del commercio di armi: nel
2014 l’Arabia Saudita ha speso il 17% del bilancio (80,8 miliardi di dollari) a beneficio del
ministero della difesa. È un «mercato» che non lascia certo indifferente anche la nostra
Finmeccanica, con al vertice Giovanni De Gennaro e Mauro Moretti.
La luce verde Usa è scattata dal Defense Security Cooperation Agency (Dsca): manca
solo il nulla osta defintivo alla consegna delle «attrezzature». La lista è lunga e dettagliata.
Viene «segnalata», tanto per cambiare, dal sito Wikileaks già attivo sul fronte della
pubblicazione dei «Saudi Cables» più confidenziali. Decine di migliaia di ordigni destinati
all’aviazione militare dello stato islamico in versione alleata: dalle 5.020 bombe a guida
laser modelli Gbu 10 e Gbu 12 alle 2.300 Blu 117 per «uso generale» da 2.000 libbre di
peso, dalle 1.500 «Penetrator Warheads» alle 10.200 spolette del tipo Fmu-152.
Ma nel pacchetto bellico made in Usa c’è un po’ di tutto, a dimostrazione che il supporto
logistico, oltre che politico, è pieno e incondizionato. La specifica del Dipartimento di Stato
contiene «adattatori, meccanismi di fusione, girelle, link di supporto e connessione insieme
a pubblicazioni tecniche, come manuali di sistema, ingegneria e mezzi di trasporto a
supporto del trasporto aereo». Strumenti per fare la guerra e affrontare «le minacce nella
regione» richiesti nel dettaglio dai militari sauditi qualche mese fa. Elenco mirato e
soppesato sull’attuale scenario in Medio Oriente, che include a peno titolo la guerra di
Riyad (finora a bassa intensità e per procura) nello Yemen contro i pasdaran di Teheran.
Ufficialmente «l’acquisto serve a rifornire la Royal saudi air force (Rsaf) impoverita a causa
del ritmo operativo elevato in più operazioni antiterrorismo. E queste munizioni
ricostruiscono le riserve di guerra dell’Arabia e forniscono opzioni per rischi futuri» come è
scritto nel preliminare.
Il documento riporta senza troppi fronzoli diplomatici anche il motivo di base della chiusura
dell’affare che «contribuirà a sostenere forti relazioni militari tra gli Stati Uniti e l’Arabia
Saudita e a migliorare l’inter-operabilità per affrontare le minacce regionali e
salvaguardare le maggiori riserve di petrolio del mondo». È lo stesso «combustibile» che
arricchisce le casse di Daesh e l’«interoperatività» degli Usa è diretta al regime che
(insieme agli altri regni del Golfo) finanzia la galassia dell’Isis.
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Un paradosso letale? Per niente, secondo l’amministrazione americana, che anzi
ribadisce: «Fornendo questi articoli per la difesa gli Usa sostengono le missioni di difesa
dell’Arabia e promuovono la stabilità nella regione».
Del resto, il governo di Washington ha già approntato il nuovo «rifornimento» per Israele:
3.000 missili Hellfire (destinati ad elicotteri o droni), 250 missili aria-aria a media gittata,
4.100 bombe convenzionali. La novità riguarda però le 50 bombe BLU-113 super
penetrator: ideate appositamente per bersagli come i bunker corazzati, sono in grado di
perforare sei metri di muratura blindata. Sembrano perfette nel caso in cui Israele
mettesse nel mirino le basi sotterranee nucleari dell’Iran…
L’aviazione dell’Arabia Saudita impegnata nella guerra nello Yemen otterrà presto dieci
elicotteri Seahawk MH-60R armati e 38 missili Hellfire. Un ulteriore “affare” visto che Riyad
ha già acquistato armi dagli Usa per ben 90 miliardi di dollari dal 2010 al 2014.
L’unica vera preoccupazione, nero su bianco, di Washington sono giusto i possibili «effetti
negativi della vendita sulla prontezza difensiva degli Usa», ma la Dsca assicura che non
c’è alcun rischio. Al contrario solo vantaggi: «Sostenere le capacità militari saudite
scoraggia attori ostili, aumenta l’operabilità militare tra Usa e Arabia e ha un impatto
positivo sulla stabilità dell’economia globale».
Economia puntellata, dunque. Anche se la regione — dalla Siria all’Iraq, dall’Afghanistan
alla Palestina — rimane instabile e abbondantemente fuori controllo mentre le bombe
colpiscono l’Europa. Ma tant’è, per l’amministrazione del democratico Barack Obama
«l’acquisizione convoglia direttamente l’impegno degli Stati Uniti di sostenere operazioni di
combattimento».
Con buona pace della guerra al terrorismo.
del 19/11/15, pag. 34
Più che la guerra a uno Stato che non esiste l’unica alternativa per
combattere l’Is è una strategia a lungo termine che riduca lo scontento
dei giovani musulmani figli degli immigrati in Europa. Il
fondamentalismo trova strada nella loro frustrazione Bisogna creare
leggi e condizioni favorevoli alle vite di ragazzi di nome Ahmed o Fatima
Buruma. Spegniamo il fuoco sacro dei
terroristi
IAN BURUMA
La foto di copertina del numero di febbraio di “Dabiq”, il mensile dell’Is, mostra il volto
sorridente di un ragazzo belga di nome Abdelhamid Abaaoud, noto anche come Abu Umar
al-Bajiki.
In mimetica, imbraccia fiero e compiaciuto un mitragliatore. Oggi è l’uomo sospettato di
essere la mente della furia omicida di Parigi. L’atteggiamento spavaldo, da macho, di Abu
Umar nella fotografia, mi ricorda in qualche modo un killer rivoluzionario di qualche tempo
fa, oggi rinchiuso in un carcere francese: Carlos Ramírez Sánchez, alias “ lo Sciacallo”.
Carlos si macchiò di numerosi rapimenti e omicidi negli anni Settanta e Ottanta nel nome
del popolo palestinese e della rivoluzione mondiale.
Abu Umar parla a nome di un nuovo tipo di rivoluzione, di un immaginario califfato
islamista. Dato che viviamo nell’era di Internet, il suo genere di violenza rivoluzionaria può
diffondersi più rapidamente rispetto all’epoca di Carlos. Ma a quanto sappiamo di
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quest’ultimo e possiamo intuire di Abu Umar, entrambi coniugano una grande causa
rivoluzionaria a una forma letale di narcisismo: uccidere è sexy.
L’attrazione esercitata dalla guerra santa dell’Is, promossa su infiniti siti web, tweet e altri
social media, è facile da comprendere.
Come Carlos, Abu non è cresciuto nell’indigenza o in condizione di oppressione. Nato da
genitori marocchini, ha frequentato una buona scuola di Bruxelles e, da studente, aveva
fama di ragazzo allegro e spensierato. Qualunque sia il motivo o la persona che lo ha
convertito alla violenza rivoluzionaria, l’Islam politico che professa è una forma estrema di
fanatismo religioso, senza dubbio, ma non si può comprenderlo a dovere leggendo con più
attenzione il Corano, così come la sete di sangue di Carlos non si può ricondurre alla
semplice lettura del Capitale. I rivoluzionari sanguinari sono tendenzialmente affascinati da
un culto di morte. La grande maggioranza dei musulmani non subisce questo fascino.
Definire “scontro di civiltà” gli omicidi di Parigi è assurdo. Implicherebbe da parte
dell’“Occidente” una guerra santa contro L’Islam, ovunque esso sia, proprio quello che i
brutali propagandisti dell’Is gradirebbero. Anche la dichiarazione di guerra all’Is per bocca
di François Hollande appare poco indovinata. Si può dichiarare guerra a uno Stato, non a
una tattica (il “terrorismo”) o a una causa globale. Bombardare i territori nelle mani dell’Is
in Iraq e in Siria può avere senso o meno sotto il profilo militare, ma non ridurrà il fascino
sanguinario che l’Islam rivoluzionario esercita su uomini come Abu Umar. Probabilmente
lo accrescerà, perché li conferma nella loro grandiosa convinzione di combattere una
“guerra contro l’Occidente”.
La forza di un movimento rivoluzionario come l’Is sta nella sua fluidità, nella capacità di
apparire d’incanto ovunque l’autorità politica sia crollata e bande armate, rivoluzionarie,
semplicemente criminali o entrambe le cose, siano in grado di sottomettere le persone con
il terrore. A creare tanta violenza selvaggia a Madrid, Amsterdam, Londra, Bruxelles, e
Parigi è un connubio letale tra le ideologie che emergono dalle guerre civili in Medio
Oriente e i giovani frustrati o semplicemente annoiati, in Occidente. Finché esisterà questo
legame il problema non sarà risolto. L’unica alternativa resta una strategia a lungo termine
che riduca lo scontento dei giovani, in particolare i figli e le figlie degli immigrati. Significa
che bisogna creare leggi e condizioni favorevoli all’occupazione dei giovani di nome
Ahmed o Fatima. Significa maggiore integrazione delle minoranze nelle scuole. Nulla di
tutto ciò produrrà effetto immediato, ma parlare di guerra può solo rallentare un processo
che deve necessariamente aver luogo. Sappiamo cosa attrae una pericolosa minoranza di
giovani come ragione di morte. Bisogna assolutamente offrire loro una superiore ragione
di vita.
del 19/11/15, pag. 8
Alle radici del radicalismo
La fede islamica è un’espressione della protesta delle masse contro lo
stato di oppressione economica. Ma è anche lo strumento delle classi
dominanti per affermare il loro primato sociale
Fulvio Lorefice
I recenti attentati di Parigi si inseriscono in una fase di transizione verso un nuovo ordine
egemonico internazionale. Ai mutamenti dei rapporti economico-sociali e statuali in atto si
accompagna la crescente rilevanza della variabile religiosa. A dispetto della
modernizzazione e dei processi di secolarizzazione che avevano segnato il Novecento, la
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religione è un fattore di influenza politica nei paesi del cosiddetto Occidente e di
mobilitazione in quelli in via di sviluppo. Una tendenza precorsa dall’Iran, la cui rivoluzione
nel 1979 fu essenzialmente estranea alle logiche della guerra fredda.
Sulla scorta di questo evento i movimenti religiosi dell’area mediorientale, orientatisi nel
frattempo in senso insurrezionale, divennero progressivamente una forza politica influente,
raccogliendo consensi fra le classi medie e gli intellettuali. Gli sciiti, in minoranza rispetto
ai sunniti in quasi tutta la regione, iniziarono a mobilitarsi per affermare i propri diritti politici
e sociali.
Sul versante sunnita all’islamizzazione dal basso, promossa dai Fratelli Musulmani, si
contrapponevano già da alcuni anni formazioni radicali che propugnavano
un’islamizzazione dall’alto attraverso la lotta armata. Nel panorama progressista arabo
non mancavano, inoltre, i movimenti politici che già in precedenza avevano indicato alle
masse degli oppressi il socialismo quale «mezzo per l’attuazione dei valori morali
progressisti dell’Islam» (Hadj, 1964).
La religione, sullo sfondo della disfida ideologica della guerra fredda, rappresentò pertanto
il teatro di uno scontro propriamente politico tra forze progressiste e forze conservatrici,
tanto nel cosiddetto Occidente quanto nel cosiddetto Oriente.
La rivoluzione iraniana, in questo senso, sembra rappresentare il turning point dopo il
quale a prevalere furono le fazioni conservatrici dell’Islam politico, a danno delle correnti
modernizzatrici ispirate a un nazionalismo laico, anticoloniale e socialisteggiante.
La vittoria dell’Ayatollah Khomeini, repentinamente sbarazzatosi dei comunisti del Tdeh,
rappresentò un duro colpo non solo per gli Stati uniti, sostenitori del defenestrato Scià di
Persia, ma anche per la stessa Unione sovietica: l’invasione dell’Afghanistan da parte
dell’Armata rossa fu anche una risposta ai timori di contagio della rivoluzione islamica. Dal
luglio 1979, cinque mesi prima dell’intervento sovietico, l’amministrazione Carter aiutava
segretamente i movimenti politico-religiosi che si opponevano al regime filo-sovietico di
Kabul: si trattava, secondo la celebre espressione di Zbigniew Brzezinski, di «dare ai
sovietici il loro Vietnam». La riscossa delle nazionalità non russe e il fermento religioso,
presagiva Hélène Carrère d’Encausse, furono non a caso tra i fattori che avrebbero
portato alla disgregazione dell’Unione sovietica.
Con l’estinzione del campo socialista si assisté alla fine dell’ordine internazionale della
guerra fredda. Nelle società occidentali, complice l’attentato alle Twin Towers, la questione
religiosa fu al centro dei dibattiti sia a livello interno che a livello internazionale. La lettura
dei fenomeni politici non di rado si caratterizzò, con particolare riguardo per il mondo
arabo, per l’assoluta preminenza assegnata all’elemento religioso: la — presunta —
predisposizione all’autoritarismo da parte delle società mediorientali, venne sostenuto,
scaturiva infatti dalla presenza dell’Islam. Da queste tesi al vaticinio del prossimo scontro
di civiltà il passo fu breve.
Si iniziò, quindi, a parlare, con riferimento al protagonismo della religione nelle relazioni
internazionali, di «risveglio religioso», «ritorno del sacro» e «rivincita di Dio». Si tratta, e si
trattava, in realtà di un fenomeno ambivalente, dal momento che su scala globale è in
corso tanto un processo di «desecolarizzazione» quanto un processo di
«secolarizzazione»: in termini quantitativi è, tuttavia, il primo a prevalere (Berger, 1999).
In questo quadro l’attenzione degli analisti di politica internazionale si è soprattutto
focalizzata sulla relazione tra la crescente instabilità internazionale e il ruolo politico delle
religioni. Il fenomeno religioso è stato pertanto esaminato in termini prettamente
sovrastrutturali.
Ogni religione, quale fenomeno che attiene al mondo delle idee, riflette in modo mediato
ed imperfetto determinati caratteri ed esperienze sociali. È utile a questo proposito
sottolineare che, risalendo alle origini, il tratto principale della presunta predicazione di
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Gesù era quello dell’avvento del regno di Dio che avrebbe portato alla punizione dei
malvagi, identificati con i potenti ed i ceti dominanti del tempo.
Le prime generazioni cristiane tradussero in fede e speranza religiosa il malcontento nei
confronti di un’oppressione economica e sociale basata sulla schiavitù che li aveva
sottomessi al predominio imperiale di Roma. Il cristianesimo era, dunque, un movimento di
oppressi e tale rimase fino al IV secolo.
La religione, osservava Donini, «non offre soltanto un’immagine deformata di quel che gli
uomini pensano o fantasticano sui loro rapporti con la natura e con la società, ma ci
permette spesso di cogliere nel vivo la protesta contro stato di subordinazione, forme
iniziali di insofferenza e di lotta che hanno segnato il passaggio ad aperti moti di rivolta».
L’indagine storica, sociologica ed etnologica contribuisce pertanto alla comprensione dei
bisogni sociali e delle ragioni che determinano la massiccia adesione a credenze religiose.
Se, quindi, sembra innegabile il ruolo che l’Islam ha avuto e ha nella fisionomia politicoculturale delle società medio orientali, è lo studio delle condizioni economiche e sociali di
quell’area il terreno sul quale le ricerche su questi complessi fenomeni presentano oggi le
maggiori lacune.
A non essere debitamente posta in luce, tanto nelle analisi quanto nelle interpretazioni
degli eventi, è la condizione di oppressione sociale ed economica vissuta da questi popoli.
La fede islamica, non è pleonastico affermare nel clima pre-illuministico nel quale viviamo,
rappresenta una espressione della protesta delle masse contro tale stato, ma è anche lo
strumento attraverso cui le locali classi dominanti tentano di affrancarsi dal dominio
economico occidentale per affermare il proprio primato sociale.
In assenza di un’opzione politica coerentemente progressista e laica per migliaia di
subalterni europei, asiatici ed africani, il radicalismo islamico, in ultima istanza,
rappresenta un modello politico, sociale e ideologico, alternativo a quello in cui vivono.
del 19/11/15, pag. 19
«C’è tanta frustrazione Dietro lo scontro
religioso si cela la questione sociale»
Tariq Ramadan: «Ci si chiede: perché si piangono solo i morti di
Parigi?»
«La mia sensazione è che dopo vent’anni niente sia cambiato. Si fanno gli stessi discorsi
di Bush dopo l’11 settembre». Tariq Ramadan esce dall’ennesima conferenza ed è quasi
senza voce: difficile fare sentire la sua, in queste ore di raffiche e di bombe. Criticato in un
certo Occidente, che l’ha spesso considerato troppo morbido coi fondamentalisti.
Attaccato da un certo Islam, che non accetta la sua identità di musulmano europeo
integrato — è nato in Svizzera e insegna a Oxford — e l’accusa di toccare gl’intangibili
valori islamici. Io tocco le menti e non l’Islam, è la sua risposta di sempre: «Ma capisco
che questa sia una discussione infinita…».
Sono almeno quindici anni che parliamo d’Islam moderato. Prima della partita della
Turchia, in quel minuto di fischi, è stato zittito per sempre?
«Quei fischi non hanno molto a che vedere con questioni religiose. C’è una Turchia che
manifesta contro la violenza e la subisce. Ma c’è un Sud del mondo dove ci si chiede:
perché si piangono solo i morti di Parigi? E la Siria, il Libano? Perché non si fa un minuto
di silenzio anche per loro?«.
Per la verità, un mese fa il minuto c’è stato. E lo stadio ha fischiato anche quello…
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«Io non giustifico, sia chiaro. Ma questo non è estremismo: è una frustrazione che affiora.
E con cui bisogna fare i conti».
Perché né l’Islam, né l’Occidente hanno prodotto leader capaci d’un dialogo?
«Perché è un contenzioso storico che dura da secoli. Questioni enormi che non si
cancellano in tempi brevi. Ma vorrei chiarire: dopo questi attacchi, il problema non è
l’integrazione religiosa in Occidente, non è lo scontro fra laicità e religione. In Francia,
l’integrazione s’è conclusa da tempo. L’Islam è una religione occidentale ed europea. Il
problema è nella giustizia sociale. Una società multietnica si costruisce giorno per giorno,
non solo stando uniti nel dramma».
Non starà dicendo che i terroristi sono solo vittime della società?
«Non ho detto questo. È chiaro, c’è un’interpretazione religiosa di questi temi sociali. C’è
una grave responsabilità dell’Islam fanatico, l’esigenza di un’autocritica, minoranze che
non c’entrano col Corano. Ma questi estremisti vanno più su Internet che nelle moschee. E
sia i fondamentalisti, sia i nazionalisti hanno interesse a eludere il problema sociale e a
buttarla sullo scontro religioso».
Molti riaprono i libri di Oriana Fallaci e le danno ragione postuma.
«Sono le reazioni di chi cade nella trappola della divisione. Di chi non guarda alla grande
maggioranza dei musulmani che oggi s’oppone a questa violenza. I francesi di
confessione musulmana non hanno problemi coi valori dell’umanesimo. Il problema, non
solo dei musulmani, è che la Francia non sostiene i valori che ci tengono uniti. Non lo fa in
Siria, in Iraq, con le petromonarchie del Golfo. Il loro problema non è la laicità: è l’esercizio
del potere. Non bisogna cadere nelle strumentalizzazioni di chi ha interesse a dividere».
L’Europa comincerà ad affrontare in modo autonomo le questioni mediorientali?
«Quel che vedo è il contrario del buon senso. Hollande sfodera la stessa politica di Bush:
bombarda. Qual è la sua visione europea sulla Siria? Non c’è: E sul conflitto israelopalestinese? Non c’è. La politica europea entra in un momento di disimpegno di quella
americana. Però manca d’una visione internazionale. È in piena contraddizione con se
stessa. Chi sono i francesi? Quelli che sostenevano la democrazia dei popoli e
contemporaneamente Ben Ali o Gheddafi? È questo che nel mondo musulmano non si
riesce a capire. Non è possibile appellarsi ai valori dell’umanesimo universale, quando ci si
occupa di casa propria, e nello stesso tempo agire in questo modo se si va sulla scena
internazionale».
Putin ce l’ha, una strategia?
«Di sicuro. Si è mosso in anticipo, fa pesare il suo grande ruolo. Fa il suo gioco».
È arrivato il momento di tenersi Assad, rimpiangendo Gheddafi e tutti gli altri?
«Il primo responsabile del terrorismo in Siria è Assad. Se ne deve andare. Non si può
stare né coi terroristi, né con lui».
E poi?
«E poi ci dev’essere una transizione democratica. Come s’è fatto altre volte nella storia e
con altri Paesi. Non è facile, lo capisco, ma è l’unica strada».
Francesco Battistini
del 19/11/15, pag. 39
Contro la jihad il bellicismo non basta, bisogna capirne a fondo le
strategie comunicative. Scoprendo che alla base della propaganda non
c’è solo marketing, ma un vero e proprio storytelling: una mitologia a
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base di personaggi come “il cavaliere eroico”, simile a videogame come
“Call of Duty”. È questa rappresentazione della realtà che va smontata
Salmon. Come si batte la narrazione del
Terrore
CHRISTIAN SALMON
Ancora una volta il terrorismo ha colpito a Parigi. Ma stavolta è stato un atto di
rappresaglia contro l’impegno militare francese in Siria. Secondo varie testimonianze, nella
sala
da concerto del Bataclan i terroristi avrebbero dichiarato: «La colpa è di Hollande. Non
doveva intervenire in Siria». È dunque in nome del barbaro principio della responsabilità
collettiva, rovesciando su un intero popolo le responsabilità degli atti dei suoi
rappresentanti — principio applicato su vasta scala dai nazisti, ma anche dalle potenze
coloniali nelle guerre d’indipendenza — che i terroristi hanno massacrato 129 persone.
L’azione di Daesh non è altro che un crimine di ispirazione fascista, ed è a questo titolo
che va condannata. Tuttavia Hollande non ha esitato a saltare il fosso con una scelta
semantica e simbolica forte, definendo l’attentato del 13 novembre un «atto di guerra». Il
che giustificherebbe nuovi bombardamenti oltre a misure di sicurezza a suo tempo
proposte dalla destra, e lo stato d’emergenza per 3 mesi, prorogabili con una revisione
costituzionale; in breve, un “patriot act” alla francese.
In un editoriale, il Guardian ha però ricordato alcuni fatti evidenti che smontano il cieco
bellicismo di tanti. “Se anche lo Stato islamico avesse realmente fatto una dichiarazione di
guerra con quei massacri, ciò non significa che la Francia debba restituirgli il
“complimento”. Dichiarare guerra all’Is vorrebbe dire infatti concedergli lo status che va
cercando, conferendogli la dignità di uno Stato”. Il quotidiano inglese spiega come questo
tipo di reazione sia ereditata dagli Usa, e cita la politica di Bush dopo l’11 settembre
definendo quelle decisioni “disastrose”.
Bisogna dunque agire su altri terreni e poiché il terreno dell’Is è anche quello della
propaganda, va contrastata proprio questa narrazione rivolta ai giovani. Secondo un
rapporto del Centro di Prevenzione contro le derive settarie dell’Islam in quasi il 91% dei
casi il metodo di reclutamento privilegiato dai jihadisti è Internet.
Contrariamente ai luoghi comuni sul ruolo degli imam radicali, il passaggio non avviene più
automaticamente attraverso le moschee. Il rapporto riferisce che «a volte i giovani
partono, o si apprestano a partire per la Siria senza aver mai partecipato alle preghiere»; e
spiega il modo in cui i reclutatori digitali riescono a creare «uno spazio virtuale sacro» e
personalizzato. Grazie alla loro perizia nell’uso di Internet riescono effettivamente a
«proporre offerte su misura, in grado di far presa su giovani molto diversi tra loro».
L’universo dei videogiochi, cui ricorrono anche gli americani per il reclutamento di
volontari, è un eccellente strumento di desocializzazione, addestramento e assuefazione
alla violenza, che può indurre a passare all’azione e a partire verso un teatro di operazioni
reali. Secondo Tony Corn, membro del think tank repubblicano Hoover, nella nuova
situazione strategica creata da Internet e dai videogiochi «i dilettanti continuano a parlare
di “messaggio”, mentre per i professionisti della lotta antiterrorismo si tratta di narrazioni».
I reclutatori di Daesh hanno messo a punto alcuni grandi miti: il modello del “cavaliere
eroico” destinato ai ragazzi, la partenza per una “causa umanitaria” proposta alle giovani
idealiste, il “portatore d’acqua” per chi è alla ricerca di un leader, il videogioco di guerra
Call of duty rivolto ai giovani attratti dall’azione violenta e animati da un desiderio di
onnipotenza. Fin dal 2005, in un articolo intitolato Storytelling e terrorismo, due esperti del
“Center for Contemporary Conflict” avevano affermato che si deve tener conto delle
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«storie raccontate dai terroristi ». Secondo questi autori «la nascita, la maturazione e la
trasformazione delle organizzazioni terroristiche si basano su narrazioni che vanno
decodificate per definire una strategia per minarne l’efficacia». La demolizione del mito
fondatore di Al Qaeda presupponeva, per esempio, la capacità di proporre un «mito
alternativo, una storia migliore di quella proposta dai mangiatori di miti».
Serve coraggio per affrontare d’urgenza questo compito, piuttosto che accontentarsi di
“sorvegliare e punire”.
© Christian Salmon Traduzione di Elisabetta Horvat
del 19/11/15, pag. 42
La natura dell’antico regime musulmano non ha nulla a che fare con
quella del sedicente Stato islamico di oggi Quella di Parigi è una
narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di orientale. È una
proiezione mediatica della nostra idea dell’infedele
Perché l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione
dell’islam
Silvia Ronchey. La fiction occidentale del
Califfato
SILVIA RONCHEY
«Se guardi ciò che Maometto ha portato di nuovo, troverai solo cose cattive e disumane,
come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava». La
radice dell’idea tanto distorta quanto ormai vulgata sulla natura intrinsecamente violenta
della religione islamica e sulla barbarie della sua tradizione bellica, che trapela dalla
pubblicistica specialmente americana, sta forse nelle parole che Benedetto XVI citò nel
2006 a Ratisbona, chiamando tendenziosamente in causa l’imperatore bizantino Manuele
II, rappresentante dell’impero che nel medioevo più a lungo e più da vicino aveva
conosciuto l’ecumenismo egualitario, ispirato alla predicazione di Maometto e a espliciti
brani del Corano, che contraddistingueva il califfato ommayade, abbaside, fatimida, poi il
sultanato selgiuchide e osmano. Nel pacifico dialogo con il direttore della madrasa di
Ankara, nel 1391, il basileus Manuele affermava che «la conversione mediante violenza è
cosa irragionevole e contraria alla natura di Dio», ma si riferiva sottilmente alla Quarta
Crociata, che nel 1204 aveva “deviato” su Costantinopoli scagliando sul ricco impero una
razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla
conquista turca. Un modello di guerra santa cristiana perpetrata da eserciti cristiani che
portavano nel nome di Dio devastazioni e massacri di massa.
Non solo la natura dell’antico califfato – cui la propaganda dell’Is oggi rinvia con la stessa
tendenziosa attualizzazione ideologica con cui poteva rifarsi Mussolini alla Roma di
Augusto – non ha nulla a che fare con quella del sedicente stato islamico di al-Baghdadi.
Non solo la sovrastruttura religiosa che invoca non rispecchia quella dell’antico islam a
livello scritturale, dottrinale, storico. Ma il comportamento dell’islam nelle sue guerre
califfali è il contrario esatto di quello che abbiamo visto, in una sorta di aberrante trailer,
nell’atroce regia degli attentati di Parigi. L’immagine del barbaro musulmano che il copione
vuole offrirci, coerente con le sanguinarie performance con cui l’Is ha scandito la sua
avanzata in oriente, mirante a indurre nell’occidente un delirio collettivo, porta le nostre più
profonde paure al parossismo nel momento in cui ci restituisce non tanto un’immagine di
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sé quanto quella sedimentata dal tempo nel nostro inconscio sociale: un’immagine
propagandistica creata nel medioevo, nella sua storiografia confessionale in particolare
papista, e ripresa acriticamente a partire dall’11 settembre da una propaganda globale che
ha insinuato l’”intrinseca negatività” della religione musulmana. Quella di Parigi è una
narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di fondatamente orientale, ma è
essenzialmente costruita con materiali occidentali. È una riverberazione mediatica della
nostra idea dell’infedele islamico come barbaro sterminatore storicamente ancora meno
legittima di quella del cristiano come crociato specularmente propalata nel 2001 dal
fanatico proclama urbi et orbi di Osama Bin Laden, quando, pochi giorni dopo l’11
settembre, lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello “contro i crociati americani”.
Lo spettacolo sacrificale di Parigi è un uso mistificato di una narrazione fittizia dell’islam:
della sua fiction, concepita per produrre orrore mettendo in scena un dramma che ha
l’insensatezza incalzante dell’horror occidentale, che coinvolge il giovane pubblico dello
stadio e del teatro, che avvera nel sangue il suo plot e lo amplifica riecheggiandolo
nell’utenza mediatica totale.
Quella di Parigi è un’autentica autodemonizzazione. Più che riuscita, se ha spinto Obama
a proclamare che l’Is è il diavolo. Affermazione giusta e perfino salutare se intesa a livello
psicologico, perché è appunto questo, il male assoluto, che l’Is vuole rappresentare.
Molto pericolosa e ingiusta se rischia di immedesimare quel diavolo nella religione e nella
tradizione che falsamente l’Is sostiene di rappresentare. Nella fantasia di sé come
incarnazione dell’islam che con la sua strategia comunicativa vuole diffondere è deviante,
accecante, ambiguo, delusivo e già in questo autenticamente diabolico, secondo la
tradizionale accezione patristica cristiana del diavolo, in greco diabolos, l’obliquo, il
mistificatore, il tentatore che nel deserto usa le nostre stesse visioni e fantasie. Contro
l’entificazione del diavolo, la sua identificazione nell’uno o nell’altro ente reale, si sono
battuti due millenni di teologia cristiana, da Agostino in poi. Nel discorso più profondo di
ogni religione, il demonio, il maligno, è l’ingannatore che agisce in noi. Se l’Is descrive e
oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam, il fanatismo dell’Is realmente
rappresenta il diavolo, ma attraverso lo specchio capovolto della nostra fragilità: la
vulnerabilità all’ideologia, la semplificazione della verità storica, la censura, o autocensura,
della sua e nostra complessità.
del 19/11/15, pag. 9
Siamo in guerra contro noi stessi
Analisi. I giovani suicidi che hanno ammazzato altri ragazzi erano
cittadini europei, generati dalle nostre periferie. Sì ai valori repubblicani.
Ma quante armi servono per difendere il nostro potere di acquisto? E
quanta energia?
Raffaele K. Salinari
Etienne Balibar si chiede dalle colonne del manifesto (martedì 17 novembre) contro chi
siamo in guerra, Tonino Perna (sempre sul manifesto del 17) ci ricorda che le bombe non
hanno mai sconfitto il terrorismo, come l’esercito non ha mai debellato la mafia. Se
proviamo a rispondere alla prima domanda e seguire la logica della seconda affermazione,
arriviamo a delle conclusioni forse paradossali ma estremamente vere, cioè che siamo in
guerra contro noi stessi e che continuare a farci la guerra non risolverà i nostri problemi.
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Siamo in guerra contro noi stessi perché i ragazzi che si sono suicidati ed hanno
ammazzato altri ragazzi, erano cittadini europei, francesi o belgi poco importa. Sono i
ragazzi generati dalle nostre periferie, i figli di quei luoghi eccentrici rispetto allo splendore
artificiale di uno stile di vita che viene proposto come autentico mentre irradia solo la luce
nera della disperazione esistenziale di un vuoto riempito di merci. Ma mentre qualcuno
può accedere a questa reificazione del proprio essere e far finta di divertirsi, all’interno
delle «libertà repubblicane», altri questa stessa reificazione non se la possono permettere,
se ne sentono esclusi, ed il loro vuoto viene colmato dal fanatismo omicida-suicida sotto
forma di un malinteso credo religioso.
È dunque l’alterità, cioè il rispecchiamento tra vittime e carnefici, che bisogna interrogare
per capire come risolvere questo grumo che crea il terreno di coltura dell’intolleranza
reciproca, della perversa alternanza dei ruoli, della possibilità che anche gli innocenti
diventino carnefici per il solo fatto di vivere in un modo che sembra impossibile da
praticare ad un‘altra parte dell’umanità.
Forse, prima di seguire la coazione a ripetere — attentati, bombe, attentati – dovremmo
allungare lo sguardo sulle nostre città ordinate e splendenti, quelle che vogliamo tanto
accanitamente difendere dall’altro, e chiederci su cosa sono edificate, dove pescano le
loro radici. Ci troveremmo allora confrontati con un sottosuolo fatto della stessa materia da
cui il terrorismo plasma le sue vittime-carnefici, gente che si suicida uccidendo. È un
errore di prospettiva dire che il terrorismo è di «matrice islamica» poiché la matrice è la
nostra stessa civiltà escludente ed ineguale che l’ha prodotta. Noi ne siamo i detentori
materiali e simbolici e l’abbiamo esportata e moltiplicata tutte le volte che lo abbiamo
ritenuto opportuno per alimentare il nostro stile di vita alienato ed alienate. L’islam oggi,
come altri fanatismi altrove, sono solo l’impronta di quella matrice, non il suo stampo. Il
fanatismo religioso è solo uno dei geni imprigionati nella bottiglia che incautamente
abbiamo liberato perché potessero esaudire i nostri insani desideri.
Le ideologie integraliste si limitano dunque a colare nella matrice da noi creata quella
stessa materia che rappresenta lo scarto della nostra vita sopra le righe: le vite in eccesso,
che tracimano, che non possono essere accolte nel supermercato globale perché servono
più da escluse che da incluse, spesso più da morti che da vivi. Non è questa l’essenza
della biopolitica?
D’altra parte non abbiamo sempre dimostrato con i fatti che in realtà i valori repubblicani
non sono veramente per tutti? Sarebbe d’altronde possibile praticarli come facciamo
adesso se fossero realmente disponibili per tutta l’umanità? Quanto costa mantenerci in
vita? Quante armi ci vogliono per difendere il nostro potere di acquisto? Quanta energia?
Ma questa drammatica evidenza oggi è palese non solo a distanza, nelle periferie
impoverite del mondo dove nemmeno è pensabile avere il più basico dei diritti umani,
quello all’esistenza, ma anche molto vicino a noi, nel nostro stesso corpo europeo, nelle
nostre stesse banlieue.
Ecco perché alla fine della storia siamo noi i nostri nemici perché, come nella favola il
Genio si ribella al suo liberatore, così i fanatici che abbiamo foraggiato si sono ribellati a
noi ed oggi ci ripagano organizzando l’esclusione sociale dei nostri territori forgiandone
armi umane pronte a morire pur di lasciare una traccia nelle nostre vite narcotizzate. E
dunque, come in quel racconto dell’orrore in cui l’assassino alla fine si accorge che il
coltello che lui credeva puntato verso l’avversario è invece direttamente a contatto col suo
stesso cuore, meglio puntare lo sguardo su noi stessi, riaprire le porte alla costruzione di
una società inclusiva, eliminare i picchi intollerabili degli sprechi, contrapporre le diversità
alle diseguaglianze. E ricordarsi, contro ogni razzismo, di quel proverbio arabo che dice:
un albero non si giudica dalle radici ma dai frutti.
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del 19/11/15, pag. 10
Lo spirito bastardo della République
Intervista . L’ostilità verso l’«altro» anche se nato e cresciuto in Francia
e l’idea di una nazione di razza bianca si sovrappongono e convivono
con i valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Intervista a Pascal
Blanchard, uno dei massimi studiosi della storia coloniale e francese
Guido Caldiron
La strage di Parigi avviene in un clima particolare per la Francia. Il paese è attraversato da
anni da una angoscia identitaria e da nuove fratture, sia sociali che culturali, che
sembrano aver finito per mettere in discussione gli stessi valori della République. Dopo
aver lavorato a lungo sulla memoria coloniale e sull’ombra che qul passato mai veramente
elaborato proietta ancora oggi sulla società transalpina, lo storico Pascal Blanchard,
ricercatore del «Laboratoire Communication et Politique» del Cnrs di Parigi e uno tra i
maggiori specialisti della storia dell’immigrazione nel paese, ha curato opere ed
esposizioni dedicate alla presenza araba, africana e asiatica nella Ville Lumiere, ha
pubblicato recentemente un’opera, Le grand repli che intende rispondere sul piano
dell’analisi come quello della proposta politico-culturale al progressivo richiudersi su se
stesso del paese.
Molti dei temi che sono al centro del suo lavoro, dalla mancata assunzione del
passato coloniale fino alla ricerca di una nuova identità da parte dei giovani francesi
figli o nipoti degli immigrati arabi o africani, sembrano rappresentare lo scenario
che fa da sfondo ai fatti di questi giorni. La strage compiuta dagli jihadisti non potrà
che rendere tutto ancora più difficile. Quale è la situazione nel suo paese?
Penso che la crisi che attraversa la Francia vada al di là della tragedia che ha colpito
Parigi. Piuttosto, proprio questi fatti rappresentano uno degli aspetti più visibili e
drammatici della situazione del paese: il fatto stesso che dei giovani francesi abbiano
scelto di raggiungere le fila degli jihadisti per poi decidere di portare la morte e il terrorismo
laddove sono nati, la dice lunga di quanto grave sia la crisi. Solo che in questi casi si
rischia sempre di non guardare al modo in cui i fenomeni hanno preso piede.
La Francia della paura e dell’odio, del sospetto e del pregiudizio ha infatti preso da tempo
il posto di quella del vivere insieme. Stiamo dimenticando ogni giorno di più gli ideali e le
idee che abbiamo appreso dalla Rivoluzione francese, come i diritti dell’uomo e il fatto di
aprire le nostre porte agli stranieri. E questo si avverte anche sul piano culturale. Da un
lato, gli intellettuali di destra, i «neoreazionari» hanno inaugurato tutto un vocabolario per
descrivere quello che considerano come «il declino» della Francia e la perdita della sua
grandeur. Evocano «il paese dei bei tempi andati», in cui tutti stavano al loro posto, le
donne in cucina e gli indigeni nelle colonie, quando non parlano apertamente, l’ha fatto di
recente un’esponente del centro-destra, del fatto che questo sarebbe un paese «di razza
bianca». Dall’altro, gli intellettuali di sinistra che hanno affrontato per primi e in modo utile il
tema del meticciato e della contaminazione tra le culture, non sembrano più in grado di
farsi sentire e forse anche di comprendere ciò che sta accadendo, fino a pensare che
l’integrazione dei giovani delle ultime generazioni dell’emigrazione postcoloniale sia fallita,
quando in realtà è proprio il passato coloniale che struttura ancora oggi i rapporti umani,
sociali, territoriali. Il radicalismo jihadista partecipa a questa etnicizzazione dei rapporti
sociali, dando voce all’odio per la Francia e per l’Occidente di una parte dei giovani figli
dell’immigrazione.
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Lei ha spiegato come i simboli e il profilo della République non rappresentino più
tutti i suoi cittadini. Anche a causa dell’estendersi delle diseguaglianze sociali, che
hanno reso ancora più marcate le differenze culturali che attraversano la società
francese, per i giovani maghrebini, neri e musulmani è sempre più difficile
identificarsi con Marianne. Dunque, cosa fare?
Il problema è proprio questo: l’identità dell’«altro», di colui che non risponde ai canoni
tradizionali della cultura, dell’origine, oggi perfino della religione, non sembra trovare
spazio nel modo in cui la République si pensa e si rappresenta. Credo siano due i fattori
decisivi che hanno caratterizzato il processo che ha portato a questo stato di cose.
Il primo riguarda il fatto che non si è mai davvero superato il passato coloniale del paese
che ha finito per mescolarsi con il profilo stesso delle sue istituzioni. Penso al refrain sui
«nostri avi Galli» che viene impartito anche agli studenti le cui famiglie sono originarie
proprio di quello che fu il vasto impero di Parigi o all’accento sulle politiche di
assimilazione che hanno guidato il sistema educativo e culturale. A questo si deve
aggiungere che la Francia, in quanto culla dei diritti dell’uomo, dei valori di libertà,
uguaglianza e fraternità che dai tempi della rivoluzione non hanno mai cessato di essere
diffusi ai quattro angoli del mondo, ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con tutto
ciò.
I valori della République nata dalla presa della Bastiglia hanno infatti convissuto per più di
due secoli con l’idea dell’inferiorità dell’«altro» che dominava il suo spazio coloniale, con
l’idea che quel dominio fosse giustificato anche dal colore della pelle e che, a differenza di
quanto accaduto ad esempio negli imperi britannico o giapponese, Parigi inseguiva
l’utopia della piena assimilazione culturale dei cittadini dei paesi colonizzati. Così, ancora
oggi se si parla con un giovane che appartiene alla seconda o alla terza generazione
dell’immigrazione senegalese o algerina, ci si rende conto che essere il discendente di un
indigeno delle colonie, significa per molti versi, anche se si è nati e cresciuti in Francia,
non avere la stessa storia del resto dei cittadini francesi. In altre parole, non si è mai voluto
costruire una memoria comune, scrivere una storia che fosse il «frutto di storie», intese in
senso plurale come rappresentanza della diverse componenti del paese, in modo da
impedire che la narrazione pubblica della République non si discostasse troppo dal suo
volto quotidiano, soggettivo e privato. È questo il lavoro decisivo che resta ancora da fare.
Nel frattempo che i valori repubblicani attuino, per così dire, la loro riforma, non
sarebbe sufficiente che si prendesse atto dell’esistenza di una dinamica
comunitaria, se non di una prospettiva multiculturalista, in seno alla società
francese?
Lei ha ragione, ma affermare questo in Francia equivale a riconoscere quella crisi dei
valori della République che in molti, specie tra i rappresentanti politici e nel mondo
intellettuale, si ostinano a negare. Personalmente credo che la Francia sia una società
multiculturale a cui il sistema del multiculturalismo, per come lo conosciamo oggi, vada
però stretto. Il punto non è però quello di cercare il «modello» sociale adatto per il paese,
ma di affrontare i problemi che sono già sul terreno. Ho qualche dubbio a contrapporre le
forme di multiculturalismo che regolano la vita collettiva negli Stati Uniti o in Gran Bretagna
e il cosiddetto modello repubblicano francese, il cui vero limite è che ha smesso di
funzionare perché non ha preso atto delle trasformazioni e delle modifiche profonde che
sono intervenute nella nostra società.
Paradossalmente in Francia si parla di comunità si fa riferimento alla Bretagna o alla
Corsica, ma si esita a farlo per descrivere le molteplici identità fiorite nel paese con il
passare del tempo. A questo si deve aggiungere che il nostro è l’unico paese al mondo
che continua a promuovere, almeno sulla carta, l’integrazione di chi viene da altre realtà
culturali. Da ciò la difficoltà che si registra in modo sempre più drammatico nel definire un
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nuovo percorso che assicuri allo stesso tempo, da un lato, l’espressione della diversità
come di un pieno diritto di cittadinanza di ciascuno e, dall’altro, l’unità nazionale di un
paese e di un popolo. In questo momento, nel paese si fronteggiano coloro che sembrano
rifarsi ancora all’esperienza coloniale e che ritengono che in base al colore della pelle o
alla fede religiosa un individuo possa o meno essere considerato a tutti gli effetti francese
e chi ritiene invece che l’idea stessa di cittadinanza non abbia nulla a che fare con le
nozioni di razza o cultura. Oggi, queste due prospettive si contrappongono in modo
radicale perché, per alcuni, il fatto stesso che la società francese possa aprirsi alle
differenze significa che si sta avviando verso il declino e, in ultima istanza, verso la sua
fine.
A scorrere le biografie degli assalitori del Bataclan viene da pensare che dieci anni
sopo la grande rivolta delle banlieue il sogno di trasformazione di alcuni giovani
delle periferie si è trasformato in un incubo di morte e autodistruzione. È così?
Proprio perché ho studiato a lungo l’immagine stereotipata dell’indigeno delle colonie che
si è imposta in Francia, praticamente fino ad oggi, rifuggo dalla generalizzazioni anche
quando riguardano i giovani delle attuali periferie urbane. Non esiste uno solo «giovane
delle banlieue», ma milioni di ragazzi che nascono e crescono in questi quartieri e che
seguono diverse traiettorie scolastiche, lavorative, politiche e culturali.
Non si può racchiudere questa molteplicità nelle scelte di qualche migliaia di giovani che si
sono avvicinati al radicalismo islamico e al terrorismo, andando a combattere in Siria o
compiendo attentati in Europa. È una parte ultraminoritaria del mondo giovanile dei
quartieri popolari, come della comunità dei fedeli musulmani — che per altro segnalo
essere composta in Francia al 30% da convertiti che non provengono da famiglie di
tradizione islamica. La stragrande maggioranza ha continuato a vivere la propria vita e
sono moltissimi coloro che sono ancora impegnati in attività sociali nei loro quartieri.
Piuttosto, ciò che colpisce nelle vicende di questi giovani jihadisti è come sia spesso la
ricerca spasmodica di un’identità a caratterizzare il loro percorso: qualcosa che ha che
fare con un profondo malessere interiore, con il rapporto non risolto con la Francia come
con se stessi. Molti di costoro sembrano non saper più chi sono e non a caso la scelta di
integrare lo Stato islamico o altre simili organizzazione terroriste equivale in molti casi ad
annullare la propria individualità nel contesto di una guerra dove la ricerca della morte è
considerata come il bene supremo.
Gli scaffali di Pascal Blanchard
Storico, documentarista e ricercatore del Cnrs, Pascal Blanchard è uno dei maggiori
studiosi dell’epoca coloniale. Responsabile scientifico della mostra «Exhibitions.
L’invention du sauvage», ha realizzato i documentari «Paris couleurs» (France 3) e «Noirs
de France» (France 5). Co-direttore della raccolta «Un siècle d’immigration des Suds en
France» (Gra), ha dedicato diverse opere alla storia delle comunità immigrate, realizzando
opere considerate già dei classici come «Le Paris arabe. Deux siècles de présence des
Orientaux et des Maghrébins en France», «Le Paris asie» e «La France noire. Trois
siècles de présences», tutti pubblicati da La Découverte. Per lo stesso editore parigino
sono usciti «La fracture colonial» e «Le grand repli», scritto insieme ai colleghi Nicolas
Bancel e Ahmed Boubeker, un volume che affronta la grande crisi sociale e culturale che
attraversa la Francia.
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INTERNI
del 19/11/15, pag. 6
L’allerta dei servizi Usa all’Italia «San Pietro e
Duomo nel mirino»
Dal capo della polizia richiesta ai questori: rafforzare la vigilanza.
Dossier su 5 nomi
ROMA
Gli Stati Uniti allertano i servizi segreti italiani su possibili attacchi nelle chiese e nei luoghi
simbolo. L’Fbi specifica di aver ricevuto informazioni che riguardano piani di attacco contro
basiliche di Roma, ma anche in altre città. In particolare indica San Pietro, il Duomo di
Milano e il Teatro alla Scala, sempre nel capoluogo lombardo, come possibili obiettivi.
Inserisce nel dossier anche cinque nomi di cittadini arabi. E per questo il governo
americano dirama anche un allerta specifico per i propri connazionali sul sito internet
dell’ambasciata: evitate i luoghi di culto e di aggregazione a Roma, Milano, Torino e
Napoli.
Sale l’allarme, e il capo della polizia, Alessandro Pansa, dirama una nuova richiesta ai
questori per il rafforzamento delle misure di vigilanza. Si moltiplicano le segnalazioni, gli
avvisi provenienti dagli apparati di intelligence di mezzo mondo. Nella maggior parte dei
casi si tratta di informative generiche, ma nulla può essere sottovalutato, soprattutto a
pochi giorni dall’inizio del Giubileo.
Il report degli 007 americani arriva ieri mattina. Parla di una «fonte», si concentra sulla
possibilità che 5 fondamentalisti dell’Isis stiano progettando un attentato contro un basilica.
Si parla di San Pietro, ma non solo. Da venerdì scorso, subito dopo il massacro di Parigi, a
Roma è stato potenziato il dispositivo di sicurezza con l’impiego in strada di mezzi e
uomini di polizia, carabinieri e guardia di Finanza, soprattutto si è deciso di anticipare
l’impegno dei soldati già previsti per i controlli durante l’Anno Santo. E così sono diventati
2.000 i militari per 140 possibili obiettivi.
Allerta dell’ambasciata
L’avviso del pericolo ai propri cittadini il governo degli Stati Uniti ha deciso di darlo
ufficialmente con una relazione sul sito dell’ambasciata. Quanto alta sia la preoccupazione
si è capito ieri sera, quando l’intera area che circonda la sede diplomatica di Washington
in via Veneto, è stata chiusa per un pacco sospetto. La scelta di fornire indicazioni precise
su 4 città, lascia intendere che alcune notizie ottenute dall’ intelligence potrebbero essere
state ritenute più attendibili di altre. E dunque al Viminale si è deciso che dovessero avere
un seguito. In particolare è stato infatti notato che le indicazioni di pericolo riguardano
soltanto Roma, Milano, Torino e Napoli e ciò ha contribuito a decidere di rendere subito
operativa la risposta all’eventuale minaccia. Si tratta, precisano fonti del governo, di
segnalazioni oggetto di attenta valutazione «senza enfatizzazioni ma anche senza
sottovalutazioni, come sempre accade sulle informazioni da Paesi amici e alleati».
I limiti ai voli
Domani i ministri dell’Interno saranno a Bruxelles per il vertice straordinario chiesto dal
governo francese. In quella sede saranno esaminate le istanze del ministro Bernard
Cazeneuve che sollecita misure di massimo controllo soprattutto per quanto riguarda i voli.
Una posizione che trova d’accordo numerosi Stati, prima fra tutti l’Italia. In particolare si
vuole far entrare subito in vigore la direttiva per l’accesso al codice Pnr dei passeggeri in
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modo da poter ottenere in tempo reale anche le informazioni più riservate su tutti i
viaggiatori e così bloccare preventivamente i «sospetti». E si cercherà di introdurre la
verifica obbligatoria di coloro che rientrano negli Stati Schengen anche se si tratta di
cittadini Ue. Una «schedatura» che gli stessi apparati di sicurezza ritengono fondamentale
per poter effettuare gli accertamenti preventivi. Provvedimenti finora rinviati in nome della
tutela della privacy e adesso più vicini all’approvazione.
Fiorenza Sarzanini
del 19/11/15, pag. 6
Renzi: leggi speciali per gli 007
Sicurezza. Passa alla Camera la modifica della legge sui servizi di
sicurezza. Astensione di SI. Nel decreto sulle missioni all’estero,
copertura da intelligence per i corpi speciali. Su disposizione del
premier
Eleonora Martini
ROMA
«La sfida per noi europei è quella di allargare ulteriormente la democrazia a livello
continentale. Dobbiamo garantire sicurezza ai nostri concittadini senza rinunciare alle
libertà conquistate, affrontare il fanatismo e l’estremismo con assoluta fermezza, e
promuovere il dialogo fra le culture e la tolleranza». È un messaggio chiaro, quello del
capo dello Stato Sergio Mattarella che da Firenze (dove si stanno predisponendo misure
straordinarie per blindare l’Assemblea parlamentare della Nato che si svolgerà il 26 e 27
novembre) risponde indirettamente a uno dei passaggi più delicati del discorso di Hollande
ai sindaci francesi.
E però, mentre l’allerta sale anche nel nostro Paese (ieri sera scattato l’allarme dell’Fbi per
il rischio attentati a San Pietro, al Duomo e alla Scala di Milano) e si mettono in campo
misure di sicurezza straordinarie in particolare per l’anno giubilare (il premier Renzi
annuncia un «investimento ulteriore» sulla sicurezza ma anche per «il recupero delle
periferie» nella legge di stabilità 2016), si fa sempre più concreto anche il rischio di
restringere il campo dei diritti democratici.
In questa direzione va per esempio l’articolo 7 bis, con cui la maggioranza ha emendato il
decreto per il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero, approvato ieri dalla Camera
(con 345 sì, 5 no e 26 astenuti, tra cui Sinistra italiana) che consente al premier di disporre
una copertura da “007” ad alcuni corpi speciali impegnati all’estero in operazioni «che
coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale».
E nella Capitale, il piano del questore approvato ieri dal Comitato per l’ordine e la
sicurezza che disegna la mappa dei presidi militari straordinari distribuendo i primi 700
uomini trasferiti ad hoc — stazioni ferroviarie, linee metropolitane, aeroporti, stadi e altri
luoghi di aggregazione — predispone anche, come ha annunciato il prefetto Franco
Gabrielli, «un potenziamento dei sistemi di intercettazione e, nelle condizioni che lo
consentiranno, anche di abbattimento di droni e ultraleggeri» che sorvolino l’area
metropolitana durante l’Anno santo. Perché ogni volo a bassa quota sui cieli di Roma sarà
interdetto, anche se in ogni caso per qualunque ulteriore disposizione l’ultima parola è
riservata sempre al premier Renzi.
Ed è proprio sul ruolo del presidente del consiglio che sta una delle perplessità
manifestate dai deputati di Sinistra Italiana durante la conversione in legge del decreto
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missioni: «Pur comprendendo la necessità di offrire maggiore strumenti all’intelligence di
intervenire dove è necessario per contrastare il terrorismo — spiega il capogruppo alla
Camera di Sinistra italiana-Sel, Arturo Scotto — non siamo d’accordo con la modifica della
legge 124 sui servizi segreti prodotta dall’articolo 7 bis del decreto, per questo ci siamo
astenuti».
La sinistra aveva chiesto di modificare sostanzialmente due punti: «Il ruolo del premier che
secondo la norma può “emanare disposizioni per l’adozione di misure di intelligence” —
precisa Scotto — e la qualificazione di quali siano le forze speciali dell’esercito che
debbono e possono intervenire in situazioni di estrema insicurezza per il nostro Paese
attraverso operazioni di copertura. Non vorremmo — conclude — che si ripristinasse
surrettiziamente una sorta di Servizio segreto militare». In ogni caso, è previsto per oggi
alla Camera il voto conclusivo sul decreto che autorizza la spesa — 350 milioni di euro in
totale — nell’ultimo trimestre dell’anno per le missioni italiane in Afghanistan, Libano e in
altri paesi dell’Asia e del Medio Oriente, ma anche per le attività della «coalizione
internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh».
D’altronde è sugli “007” che il premier Renzi punta per trovare il giusto «equilibrio» tra la
sicurezza e «il coraggio di non rinchiudersi e di non rinunciare alla nostra identità». Anche
se, afferma intervistato da SkyTg24 appena qualche ora prima che le strade di Roma e di
Milano si riempissero di polizia per l’allarme scattato dopo la segnalazione dell’Fbi, al
momento non ci sono «rischi concreti» per l’Italia. In ogni caso, però, gli strumenti migliori
sono quelli preventivi», dice. Di sicuro, il presidente del consiglio esclude categoricamente
«una modifica costituzionale» come quella proposta in Francia per partecipare alla guerra
di coalizione contro Daesh. Eppure Renzi ammette: «Il tema non sono i poteri speciali
come negli anni del terrorismo ma non escludo modifiche normative. Se l’intelligence può
avere qualche arma in più al proprio arco è bene darla».
Tutto sotto controllo, dunque. E annullare il Giubileo «non esiste proprio», ribatte Renzi
alla giornalista di Sky Tg24: «Il Papa è sempre Papa e non è che finito il Giubileo va ad
Avignone come sette secoli fa. Siamo orgogliosi che Roma ospiti il Vaticano, siamo grati a
Papa Francesco anche per l’azione in politica estera, a partire dal ruolo molto importante
che ha avuto su Cuba».
E non è una questione di costi: per il segretario del Pd è «giusto, sacrosanto» che «il patto
di stabilità non si deve applicare alle spese della difesa», come ha sancito ieri anche Jean
Claude Juncker annunciando la flessibilità per le spese eccezionali antiterrorismo.
«Figurarsi se uno sta attento allo zero virgola sulla sicurezza — conclude il premier Renzi
— Quello che vale per la Francia varrà anche per l’Italia».
del 19/11/15, pag. 8
Nel duello Lotti-Minniti s’infila Gabrielli
I Servizi italiani ballano (ma non troppo)
La strategia degli 007 italiani - Tra controllo del territorio e lotte di
potere
Qual è lo stato dell’arte dei Servizi italiani, dopo i fatti di Parigi? La prima sorpresa nel
Palazzo, in questa fase, è che adesso sono in tanti a parlare bene di Marco Minniti, ex
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lothar dalemiano che da sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha una carica così
definita: “Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica”.
Il democrat calabrese Minniti si occupa di Servizi e lo fa sin dai tempi dei governi D’Alema.
Dopo tre lustri, è ancora l’uomo del centrosinistra incaricato di dare una guida politica
all’intelligence. Qualche giorno fa, un altro ex dalemiano, già deputato del Copasir,
Peppino Caldarola lo ha pubblicamente investito come l’unico “capace ed esperto”,
rispetto al ministro dell’Interno Angelino Alfano e al braccio destro di Matteo Renzi a
Palazzo Chigi, Luca Lotti, che da una vita vorrebbe soffiare la delega dei Servizi a Minniti.
Dice una fonte a contatto quotidianamente con l’intelligence: “Anche chi non gli è amico,
deve riconoscere che Minniti ha riportato serenità negli apparati, dopo le vicende
tumultuose di questi anni, ed è un culo di pietra riservatissimo”.
Fatta la premessa, il quadro non è poi così tanto nero, almeno a detta di chi parla: “Noi
italiani siamo bravi nella fase difensiva sul territorio, il blitz a Merano contro una cellula
jihadista è partito da una segnalazione degli 007, il resto lo hanno fatto i Ros. A differenza
della Francia, poi, abbiamo alcune situazioni oggettive favorevoli: da noi non ci sono le
banlieue e le mafie in genere si rifiutano di vendere armi ai terroristi per obiettivi nel nostro
Paese”. L’analisi, ovviamente, va inquadrata in una situazione di grave emergenza, che ha
fatto alzare tutti i livelli di allerta per la difesa dei luoghi sensibili e l’individuazione di cellule
come quella di Merano. Ed è qui che però s’innesta la decisiva variabile politica.
In questa fase finale di novembre si chiuderà la sessione di bilancio al Senato per la
manovra e a quel punto il premier dovrebbe avere mano libera per un rimpasto di governo
determinato soprattutto da due fattori: la nascita del gruppo filorenziano di Denis Verdini e
le minacce di esodo dall’alfaniana Ncd. E tra i nomi dei nuovi ministri che si fanno c’è
anche quello di Minniti. Una mossa che potrebbe favorire l’ascesa di Lotti alla delega dei
Servizi e consentire così il controllo pieno del renzismo sull’intelligence. L’unica
controindicazione è data dal ruolo che lo stesso Lotti ricopre a vari livelli nel governo e nel
giglio magico del premier. Dalla delega all’Editoria alla gestione del rapporto con Verdini,
fatto di tanti dossier su appalti e nomine. Riuscirà a dedicarsi solo ai Servizi, come fa
Minniti? Oppure sceglierà il modello lettiano, nel senso di Gianni, con un pericoloso
cumulo di potere, pericoloso soprattutto per lo stesso amico Renzi?
Ecco quindi avanzare una terza ipotesi nel duello tra Minniti e Lotti: quella di Franco
Gabrielli, prefetto di Roma e aspirante capo della Polizia. Gabrielli ha già diretto l’Aisi (l’ex
Sisde) e contribuì a smantellare la rete del generale Mori (che al Foglio ha dato una feroce
intervista sullo stato dell’intelligence italiana). Proprio ieri Gabrielli si è detto pronto a
bombardare i droni sospetti sul Vaticano. Sarà lui il nuovo riferimento degli 007 se Minniti
sarà promosso-rimosso?
del 19/11/15, pag. 12
“Jihadisti barbari assassini”, lo strappo sul
web dell’imam di Monfalcone
CORRADO ZUNINO
ROMA.
Un milione di visualizzazioni su Internet. E i contatti crescono ancora. L’imam del Nord-Est
che definisce “assassini e barbari” gli stragisti di Parigi e dice “quelli non sono musulmani”
trova un’attenzione da star e un consenso in tutta Italia, anche fuori. È Abdelmajid Kinani e
guida uno dei due centri islamici di Monfalcone, il Darus Salaam di via Duca d’Aosta:
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2.500 musulmani, un quinto dei residenti. Imam Kinani si è fatto intervistare dal “Piccolo”
nell’azienda agricola Bennati, a San Canzian d’Isonzo, Gorizia, dove lavora: «Devo dare
un futuro ai miei tre figli». La videointervista è esplosa nei computer e nei tablet: «Una
condanna semplice non basta», ha detto, «è arrivato il momento che noi dimostriamo che
l’Islam non ha alcuna relazione con queste fazioni, che gli assassini a sangue freddo non
fanno parte dell’Islam come storia, religione, educazione».
Ieri sera, sceso dal palco di Duino, dove aveva parlato a ragazzi francesi e giordani del
Collegio del mondo unito, l’imam Kinani ha detto a “Repubblica”: «Ho espresso il mio
parere, e lo ribadisco. Quello che è successo a Parigi non solo non è una cosa da
musulmani, ma non è una cosa umana. Capiamo cosa provano oggi i familiari delle
persone uccise a Parigi, in Siria abbiamo perso centomila musulmani. Ma non c’è una
guerra di civiltà in corso, solo qualcuno che prova a innescarla. Per combattere questo
sentimento infernale serve la famiglia e serve la scuola, ai nostri giovani dobbiamo mettere
amore nel cuore».
L’imam che viene dal Marocco ha interpretato, probabilmente senza saperlo, il pensiero di
molti italiani moderati e conservatori. Ha detto, infatti: «Noi musulmani dobbiamo dare di
più ed essere parte attiva per integrarci. Siamo ospiti e dobbiamo prendere iniziative per
farci conoscere. Purtroppo non parliamo tanto». Ora Abdelmajid Kinani ha paura, «queste
mie parole hanno preso un’e- co inaspettata», e la polizia si deve occupare di lui. Già.
Nessuna guida spirituale in Europa aveva dichiarato: «I giovani che fanno questa fine»,
alludendo ai kamikaze, «non hanno nessuno scopo religioso, sono usati da altre menti per
fare la guerra tra religioni». Ha raccontato di aver passato la notte insonne dopo “quel
venerdì” e, lavoratore del Nord-Est, ha voluto rassicurare gli italiani: «Qui non si arriverà
mai a una situazione francese». Gli immigrati nel Nord-Est «sono gente semplice che ha la
testa occupata a trovare un lavoro», gente con la povertà addosso «che deve guadagnare
un pezzo di pane per la sua famiglia, pagare l’affitto, nelle loro menti non c’è spazio né ci
sono le forze per poter pensare ad altro».
L’imam Kinani, attraverso i suoi figli in età da scuola elementare, conosce le difficoltà di
una vita nel Nord-Est, accresciute dopo il 13 novembre.«Quando il più grande torna da
scuola racconta: “Papà, gli altri bambini mi dicono sei musulmano, sei un assassino”. È
stressato e io devo spiegargli con pazienza, perché il giorno dopo i compagni ripetono: sei
musulmano, sei un assassino. Le persone di questo territorio ci devono giudicare per
quello che facciamo non per quello che hanno fatto lassù, quei barbari, a Parigi ».
del 19/11/15, pag. 15
Quell’urlo in carcere: «Allah akbar» Misure
più dure per 87 detenuti
Episodi sospetti dopo la strage. I musulmani reclusi sono 10 mila, la
ricerca di imam «affidabili»
Giovanni Bianconi
ROMA Nel carcere di Viterbo, a un detenuto di religione musulmana già segnalato come
incline alle sirene della propaganda estremista, sono state trovate cartoline raffiguranti
piazza Navona, Trinità dei monti e Fontana di Trevi, immagini che hanno acceso un
campanello d’allarme. A Pisa un altro recluso portato in infermeria ha avuto un diverbio
con il personale che lo stava curando e ha reagito dicendo: «Spero che vi accada quello
che è successo in Francia». A Parma sono stati sequestrati manoscritti in lingua araba
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considerati «meritevoli di attenzione», e così a Bolzano; a Spoleto, la notte del 13
novembre, dalla cella di tre tunisini s’è levato il grido «Allah akbar». Anche a Civitavecchia
qualcuno ha urlato quella frase, insieme a epiteti contro i francesi, mentre a Pisa un
detenuto ha indossato una maglietta con scritto «Parigi», destando qualche sospetto.
Sono alcuni degli episodi verificatisi nelle galere d’Italia all’indomani delle stragi del
venerdì 13, segnalati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alla Procura
nazionale antimafia e antiterrorismo. La mattina di sabato 14, prima ancora di partecipare
alla riunione dei Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza convocato d’urgenza, il
capo del Dap Santi Consolo ha diramato un «allertamento urgente» a tutti gli istituti per
sollecitare il personale «a proseguire nell’attività di osservazione per individuare eventuali
segnali di proselitismo e radicalizzazione». Senza trascurare «alcun segnale di pericolo»;
il che significa comunicare ogni fatto o comportamento, compreso il più apparentemente
irrilevante, che possa indicare «adesione anche indiretta ai tragici eventi» di Parigi, come
specificato ancora ieri.
Da tempo le carceri sono considerate il principale bacino da controllare nell’attività di
contrasto al terrorismo di matrice islamica. Per un semplice e banale motivo di numeri.
Secondo i dati aggiornati al 31 ottobre scorso, su un totale di 52.434 detenuti, 17.342 sono
stranieri. Uno su tre. Di questi, circa 10.000 provengono da Paesi di religione musulmana,
e in questa quota (il 20 per cento del totale) ce ne sono 7-8.000, distribuiti nei quasi 200
istituti, che partecipano alle preghiere collettive. Un universo dove si concentrano le
personalità e le storie più diverse, la propaganda radicale può attecchire più facilmente
che altrove. Agevolata dallo status e dalle condizioni di detenzione.
Per provare a controllare e contrastare questo rischio, l’Amministrazione penitenziaria ha
preso le sue contromisure. Per esempio applicando anche ai detenuti di fede islamica
classificazioni a cui corrispondono regimi più restrittivi, a seconda del grado di pericolosità.
I 29 reclusi accusati di terrorismo e reati connessi rientrano — al pari dei sovversivi
nostrani, anarchici e militanti No Tav coinvolti in attività di sabotaggio — nel circuito «Alta
sicurezza 2», subito sotto quello «As1» riservato ai mafiosi che provengono dal «41 bis».
Altri 58, non inquisiti per attività eversive ma soprattutto per traffico di droga, sono in «Alta
sicurezza 3», con restrizioni appena minori.
Il resto della massa s’immerge nel mare magnum della detenzione comune, e dunque il
controllo si sposta nei luoghi di aggregazione e di preghiera. A questo scopo il Dap ha
appena siglato un protocollo d’intesa con l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia,
per avere «una lista di persone interessate a prestare la propria opera di volontario nelle
carceri in qualità di ministri di culto (imam) e mediatori interculturali»; una sorta di sigillo di
garanzia su persone che possano gestire le preghiere che attualmente si recitano nelle 52
stanze adibite a moschea in altrettante prigioni, o in singole celle o locali improvvisati in
altri 132 istituti.
L’esperimento comincerà dagli otto istituti con la maggior presenza di musulmani: Verona,
Modena, Torino, Cremona, due a Milano, Brescia e Firenze. Contemporaneamente sono
state avviate le procedure per l’identificazione certa durante la detenzione, in modo da
procedere all’espulsione (quando necessaria) subito dopo il fine pena. Senza le lunghe
attese nei centri di accoglienza, altri luoghi a rischio «proselitismo e radicalizzazione».
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del 19/11/15, pag. 9
Leghistan, il jihad padano tra studenti, hacker
e coltelli
A nord del Po - Dalla Lombardia al Veneto, così nei Comuni del
Carroccio il Daesh recluta combattenti
di Davide Milosa
Da Milano a Padova. Da Inzago ad Arzegrande. Comune dopo Comune, il fronte del jihad
in Italia sta a nord del Po, in terra padana con casacca leghista. In quei paesi dove i
cittadini “perbene” si armano, sparano e (a volte) uccidono i ladri venuti dall’est. Applaude
il nuovo Carroccio di Matteo Salvini. Partito distratto che per raggranellare voti cavalca
l’emozione e dimentica la realtà con decine di persone che cedono al proselitismo del
Daesh (acronimo arabo dell’Islamic State). Italiani o stranieri (da anni residenti nel nostro
paese) che a un certo punto decidono di partire per combattere in Siria. Ragazzi e
ragazze, giovanissimi, agganciati in Internet, impigliati nella rete social del Daesh che gli
investigatori definiscono “carta moschicida”. Eccola allora, l’ultima fotografia del nuovo
Lombardo-Venistan per come emerge dagli atti d’indagine degli esperti dell’antiterrorismo
e dell’intelligence.
Milano, in quindici partiti per la Siria
Milano, zona Navigli con il trucco rifatto per Expo. Il giovane maghrebino serve ai tavolini
di uno storico locale dell’Alzaia. Ne ha girati tanti. Suo fratello, invece, spaccia droga nel
vicino suk di via Gola. Mazzette da dieci euro in tasca. Buona parte le invia in Siria per
sostenere il Califfato. Il fratello, invece, fa di più. A un certo punto decide di partire per la
Siria. Lascia Milano e la sua precarietà. Diventa un combattente. Morirà circa un anno fa
nei pressi di Raqqa.
“Non è l’unico – ragiona una fonte qualificata dell’intelligence – a Milano negli ultimi due
anni abbiamo notizia di almeno 15 persone che hanno deciso di andare in Siria a
combattere”. Uno di loro, mesi fa, ha lasciato il suo appartamento popolare di via Mar
Jonio in zona San Siro per diventare un foreign fighters. Quartiere per quartiere, dunque,
con una particolare attenzione per le aree toccate dalla linea 2 della Metropolitana
milanese. Una tratta che per gli esperti dell’antiterrorismo ha “priorità 1”. “Questo perché –
si ragiona – sia in partenza che in arrivo ha stazioni all’aperto e poi perché tocca zone ad
alta densità islamica”. E del resto il capoluogo lombardo è l’unico in Italia ad aver assistito
all’azione di un lupo solitario. Era il 2009 quando Mohamed Game, ingegnere libico, tentò
di farsi esplodere all’interno della caserma Santa Barbara di piazzale Perrucchetti. Nelle
ultime settimane, poi, secondo fonti dell’antiterrorismo, altri due combattenti lombardi sono
partiti. Attualmente in tutta la regione c’è un monitoraggio particolare su cinque persone.
“Significa che abbiamo intercettazioni sia telefoniche che telematiche”, spiega una
qualificata fonte investigativa. Per tutti attualmente non vi è iscrizione di reato. Il
monitoraggio però ha già fotografato alcuni indizi: una vita riservata tutta famigliare e
grande attività sul web. “In particolare – ci viene spiegato – guardano prediche jihadiste e
video di combattimenti”. Si osserva e si ascolta in attesa di capire “se le persone vogliono
partire o attivarsi qui in Lombardia”. Partire come ha fatto Maria Giulia Fatima Sergio, la
ragazza di origini campane, cresciuta a Inzago in provincia di Milano.
Fatima è in Siria da tempo e con lei avrebbe voluto anche i genitori, bloccati poco prima
della partenza dall’indagine del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. È il giugno
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scorso e dagli atti d’inchiesta, che corre veloce verso il processo, emerge la figura del
“coordinatore di volontari” pronti a partire per l’Islamic State. In mano gli investigatori
hanno un numero di telefono e un nome presunto. Ma soprattutto decine di tabulati da
ogni parte d’Europa, Italia compresa, di persone che vogliono partire e attendono
istruzioni.
La rete moschicida del Califfo nel nord-Est
Ben a nord del Po, il Veneto, più della Lombardia, rappresenta la terra di Leghistan. Oggi
sono in corso 15 indagini per terrorismo. Secondo un report della polizia francese Venezia
rappresenta una via d’ingresso in terra transalpina. I terroristi, confondendosi con i
migranti, potrebbero salire sul Thello, il treno che ogni giorno parte dalla Laguna per la
Gare de Lyon. Proselitismo. Anche nelle scuole. Nel luglio scorso il sistema informatico del
liceo scientifico Nievo di Padova è stato hackerato. Sulla home page del sito è comparsa
la scritta “Maroccan Islamic Union-Mail”. Fino all’estate scorsa, invece, Meriem Rehaily
19enne di origini marocchine, frequentava l’istituto De Nicola di Piove di Sacco, poi è
sparita nel nulla. Ai genitori ha detto: “Vado al mare con le amiche”. Secondo le indagini
dell’antiterrorismo è partita dall’aeroporto di Bologna per arruolarsi nell’Is. Partita anche la
tunisina di 18 anni, residente a Treviso, Sonia Khediri. Stessa strada seguita
dall’imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic che viveva a Longarone. Mesinovic è partito
alla fine del 2013 ed è morto ad Aleppo. Prima di arruolarsi aveva ascoltato le prediche
jihadiste dell’imam Hussein Bosnic. Nel nord-Italia il Daesh segue un fronte preciso: nuovi
combattenti e lupi solitari come il tunisino Lasaad Briki che progettava di colpire l’aeroporto
militare di Ghedi e su Twitter scriveva: “Siamo nelle vostre strade, i nostri coltelli sono
pronti alla macellazione”.
del 19/11/15, pag. 12
Le rinunce degli italiani nel dopo-Parigi
La ricerca Piepoli-La Stampa:il 50% dice che cambierà le proprie
abitudini per il timore di attentati Il sondaggista: “Rispetto all’11
settembre, oggi l’effetto è più forte”.E cresce la paura per il Giubileo
Marco Bresolin
Giovedì la morte di 43 persone in un attentato a Beirut è passata inosservata. Vittime che
si sono aggiunte a una terribile contabilità (32 mila morti solo nel 2014 tra l’indifferenza del
mondo). Ma è con gli attacchi di Parigi che è arrivata una scossa nell’opinione pubblica
italiana.
Questa volta è successo nella capitale europea a noi più vicina. È successo dietro casa.
«Domani potrebbe succedere da noi». Questo almeno pensa il 47% degli italiani, che vede
il nostro Paese un obiettivo decisamente a rischio, più di quanto non lo siano Inghilterra
(28%), Francia (22%) o un altro Paese «occidentale» extraeuropeo (10%). Certamente il
76% crede che questa scia di sangue non si fermerà e quasi sei italiani su dieci temono lo
scoppio di un nuovo conflitto mondiale.
Ma quello che più colpisce leggendo i risultati del sondaggio Piepoli per La Stampa è che
un italiano su due cambierà le proprie abitudini (27% poco e 23% molto). «La grande
differenza riscontrata con il dopo Torri Gemelle - spiega Nicola Piepoli - è che all’epoca gli
italiani pensavano “dopo questo attentato cambierà il mondo”. Oggi invece dicono “dopo
questo attentato cambierò le mie abitudini”. È prevalso il sentimento “siamo tutti europei”.
Siamo stati toccati esattamente come se fossimo francesi. ».
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Le vacanze all’estero (37%), le manifestazioni pubbliche (32%). E poi lo stadio (30%), i
concerti (29%) e gli aerei (27%): queste le attività che gli italiani annunciano di voler
ridurre o eliminare nel dopo-Parigi.
C’è poi il capitolo Giubileo. «Non va cancellato» dice il 78% degli intervistati, ma il 58%
degli italiani crede che una parte dei fedeli rinuncerà a parteciparvi. Anche se soltanto il
39% vede la possibilità di attentati, una percentuale che scende al 36% tra i cattolici e che
sale al 43% tra i non cattolici.
del 19/11/15, pag. 18
La mossa di Della Valle “A giugno il
movimento può entrare in politica”
“Noi Italiani non è né di destra né di sinistra, vogliamo far sentire la
voce dei delusi. Saremo come i 5Stelle”
TOMMASO CIRIACO
DIEGO DELLA VALLE
ROMA.
L’ultima parola Diego Della Valle la pronuncerà a giugno del 2016, quando deciderà se
trasformare la fondazione “Noi italiani” in una forza pronta a correre alle elezioni. Di certo,
però, l’imprenditore non esclude più il grande salto e vara una «macchina di solidarietà»
pronta ad essere convertita, all’occorrenza, in un vero e proprio partito. Per quanto si
sforzi di evitare fughe in avanti, insomma, traccia un percorso che assomiglia a una
discesa in campo in due step: «Partiamo con un movimento solidale - spiega mister Tod’s
a Otto e mezzo - già sperimentato a livello aziendale. Se saremo bravi a mettere insieme
tante persone che condividono questo progetto, a giugno potremmo diventare un
movimento d’opinione».
Foulard di seta nera attorno al colletto rialzato, camicia rosa e pochette bianca,
l’imprenditore torna in tv per fare chiarezza sul suo futuro: «È necessario - spiega - perché
ultimamente sono stato tirato per la giacca...». Si riferisce a Silvio Berlusconi, che ha
escluso un suo impegno in politica. Per smontare questa interpretazione, Della Valle
ricorre in modo martellante a una formula cara al berlusconismo delle origini: «Se saremo
tantissimi», ripete, «lanceremo un movimento capace di far sentire la voce dei cittadini
delusi ».
C’è un modello che mister Tod’s ha già in mente. Ed è quello che non t’aspetti: il
Movimento cinque stelle. Come i grillini, anche “Noi italiani” promette di infrangere gli
schemi tradizionali: «Partendo dalla gente, sono arrivati ad essere il secondo partito
d’Italia ricorda - E allora perché non si può rifare una cosa analoga, con persone né di
destra né di sinistra, ma che si occupano dei veri bisogni del Paese?». Com’è ovvio,
l’imprenditore prova a schivare i quesiti su un impegno diretto, ma alla fine è costretto ad
ammettere: «Se milioni di cittadini che oggi stanno zitti o non vedono alternative,
decideranno di darsi da fare con noi, allora passeremo alla seconda fase».
Serve molta pretattica per non bruciare le tappe. E infatti Della Valle non esclude alcuno
scenario: «Non siamo un partito, potremmo non diventarlo mai. Per adesso pensiamo alla
solidarietà. Come? Il modello è già pronto ». È preso in prestito dalle attività già
sperimentate tra i dipendenti delle sue aziende, assicura. E mira a coinvolgere il tessuto
produttivo. «Ci occuperemo di scuola, istruzione, sicurezza e sanità: quello che davvero
interessa agli italiani». Senza dimenticare opere di riqualificazione e restauro, sul modello
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di quello in corso al Colosseo. Dovesse trasformarsi in leader politico, l’industriale
dovrebbe fare i conti con i protagonisti dell’attualità. Per loro, come in passato, non
mancano critiche e accuse: «Alcuni hanno curriculum imbarazzanti. Qualcuno pensa di
essere padrone in casa propria, mentre gli italiani li considerano ospiti in casa d’altri». E il
premier? I toni sono meno ruvidi, per una volta: «Io e Renzi ci conosciamo benissimo. Su
alcune cose possiamo essere d’accordo, su altre no. Questo non vuol dire che c’è un
problema personale tra noi». Un primo passo “politico” Della Valle comunque lo accenna.
È quando gli chiedono un parere sulla candidatura di Alfio Marchini a sindaco di Roma.
«Conosco la sua famiglia - ricorda - è una persona solidale. Vedremo se saprà fare il
primo cittadino. Di certo vorrei esprimere opinioni, anche pesanti, su chi può essere
sindaco». Proprio con Marchini è in agenda un faccia a faccia riservato nei prossimi giorni.
del 19/11/15, pag. 18
Il centrodestra scarica Marchini. Meloni corre
a Roma
CARMELO LOPAPA
ROMA.
Le primarie che il centrodestra non ha mai amato sono state sepolte una volta per tutte.
Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si vedono per un’ora buona a Palazzo
Grazioli e decidono che i nomi dei candidati sindaci di Roma, Milano, Torino, Bologna e
Napoli li sceglieranno loro tre. A porte chiuse, altro che consultazioni. «Per la Capitale
avrei pensato a un imprenditore, fuori dai partiti tradizionali, Alfio Marchini secondo me ha
una marcia in più», ha subito tentato la fuga il Cavaliere, fingendo di ignorare il veto da
tempo opposto dalla Meloni.
Ed è a quel punto che la leader di Fratelli d’Italia si è impuntata. «Voi siete milanesi ma io
Roma la conosco. Come faccio a portare in giro per le periferie questo che gioca a golf e a
polo e frequenta i circoli bene? Ma vi è chiaro che è amico di Rutelli, che la sua famiglia da
sempre è di sinistra, che finanziava l’Unità e oggi la fondazione di D’Alema? Io ve lo ripeto:
non lo sosterrò mai. Avete un nome alternativo? ». Salvini la affianca: «Io la penso come
Giorgia, se lei si sfila e se dobbiamo decidere tutti insieme, allora dobbiamo cambiare
strada». Se la Meloni accettasse, lui non avrebbe difficoltà a sostenerla, incalza. Ecco,
appunto, ma lei accetta? La ex ministra della Gioventù nicchia, prende ancora tempo: «Io
preferirei evitare, se si trovasse un altro nome sarebbe meglio, detto questo...» Detto
questo, prima di accettare pretende garanzie. Soprattutto da Forza Italia, partito nel quale
pezzi importanti a Roma, da Tajani a Giro, sono già schierati con Marchini. Con
l’imprenditore - che per altro continua la campagna come nulla fosse, in piccoli ma affollati
teatri cittadini di quartiere - si schiererebbero anche Raffaele Fitto e Luciano Ciocchetti. A
Roma in favore di Giorgia Meloni si sta muovendo già una fetta dell’imprenditoria e delle
categorie vicina alla destra. La sua campagna potrebbe aprirsi il 7 febbraio: è passata la
sua proposta per dar vita a una nuova grande manifestazione di piazza (San Giovanni o
del Popolo) dopo Bologna.
A Milano invece il nome del direttore del Giornale Alessandro Sallusti, a dispetto delle sue
resistenze, è l’unico rimasto in circolo. Per il resto, tutto in alto mare. A Torino la Lega ha
lanciato il nome del notaio Alberto Morano, in contrapposizione al forzista Osvaldo Napoli.
Più una mossa per strappare la candidatura sulla quale Salvini punta davvero, quella di
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Lucia Borgonzoni. Sulle città importan- ti ad ogni modo decideranno loro tre insieme,
scrivono a fine incontro nella nota congiunta. Su quelle minori gli sherpa dei tre partiti.
Ma i gruppi di Forza Italia sono in piena fibrillazione. L’uscita di Diego Della Valle (ieri sera
in tv) e le voci di rivoluzione interna al partito stanno spingendo fuori parlamentari ormai
delusi e impauriti. L’ultima scossa, l’indiscrezione diffusa dal giornale online Lettera43
sulla nomina imminente di tre coordinatori nazionali scelti da Berlusconi: Vincenzo Gibiino
al Sud, Salvatore Cicu al centro e Andrea Mandelli al Nord. Notizia subito stoppata con
una nota ufficiale per evitare nuove fughe verso Verdini e Alfano. Quel che è vero è che al
posto del coordiantore siciliano Gibiino il Cavaliere accarezza la “pazza” idea di tornare al
Gianfranco Micciché del 61-0. Ad oggi fuori dai giochi, l’ex deputato ieri si aggirava tra
Camera e Senato con amici parlamentari.
del 19/11/15, pag. 14
Chiusa l’era Bruti, la politica allunga le mani
sulla Procura
Milano, la successione - Il Csm dovrà valutare le 10 candidature (5
quelle in pole) per il posto che fu di Francesco Borrelli e da ultimo di
Edmondo Bruti Liberati
di Gianni Barbacetto
Quella di Milano resta la Procura più importante d’Italia. Per la sua storia (dall’indagine
scippata su piazza Fontana ai processi a Michele Sindona e Roberto Calvi, da Mani pulite
alle inchieste sul terrorismo rosso, sulla mafia al Nord, su Silvio Berlusconi, sui rapporti tra
politica e affari, sul potere economico…). E per il fatto di essere piazzata nella regione più
ricca e attiva del Paese. Roma, d’accordo, non è più il porto delle nebbie del passato, ma
è sotto la Madonnina che scorrono gli affari più “pesanti” del Paese. Il procuratore
Edmondo Bruti Liberati ha lasciato libero il suo grande ufficio al quarto piano del palazzo di
giustizia e sono ufficialmente iniziate le trattative per trovare il suo successore. Il posto
dovrebbe spettare a un magistrato di Area (Magistratura democratica + Movimento per la
giustizia), “ma le correnti a Roma si parlano poco, in questo periodo”, dice un magistrato
che conosce gli equilibri del Csm. Certo è che la politica ha gli occhi puntati su Milano e
tifa per la continuità con la gestione Bruti, considerata “prudente” e apprezzata da Matteo
Renzi che ha avuto parole di elogio per la sua “sensibilità istituzionale”.
Nella lista dei dieci candidati che hanno fatto domanda al Csm ci sono tre magistrati di
Milano: Ilda Boccassini, Francesco Greco, Alberto Nobili. Gli altri sono il procuratore
aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e quello di Bergamo Massimo Meroni, il
procuratore di Trento Giuseppe Amato, quello di Novara Francesco Saluzzo, quello di
Nuoro Andrea Garau. Poi c’è il giudice della Corte penale internazionale Cuno Tarfusser e
si è infine aggiunto Giovanni Melillo, capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea
Orlando.
Se l’orologio potesse tornare indietro di cinque anni, tutto sarebbe più semplice: Milano è
una sede che ha sempre avuto il procuratore scelto tra i magistrati di Milano. Scegliere un
“esterno” sarebbe stato un affronto. La partita si sarebbe dunque giocata tra Boccassini,
Greco e Nobili. Oggi l’arrivo di un “papa straniero” è invece una possibilità concreta:
perché qualcosa si è rotto, nel quinquennio di Bruti. Il conflitto con l’aggiunto Alfredo
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Robledo (sul caso Ruby, sull’inchiesta Sea, sulle indagini Expo…) ha lasciato più d’una
ferita. Boccassini e Greco sono magistrati che hanno dimostrato sul campo grandi
capacità investigative, nel contrasto alla mafia la prima, alla criminalità economica il
secondo. Ma rappresentano la continuità con Bruti e più difficilmente – raccontano in
Procura – sarebbero in grado di far rimarginare le ferite. Così, per la prima volta, un
magistrato che viene da fuori potrebbe essere visto non come un “intruso” che umilia
Milano, ma come il “pacificatore” che fa ripartire l’ufficio. Chi, allora? Tarfusser esibisce
ottimi risultati organizzativi, ma raggiunti nella piccola sede di Bolzano, imparagonabile a
Milano. Saluzzo, quando era pm a Torino, fu addirittura indagato dai colleghi di Milano,
quando nel 2001 fu accusato di aver avvertito l’allora presidente di Telecom Roberto
Colaninno delle indagini in corso. Uno dei suoi accusatori, il pm Paolo Storari, è oggi a
Milano, nel pool antimafia. Uno dei favoriti è Melillo, che ha fatto molta attività “fuori ruolo”,
prima come consigliere giuridico della presidenza della Repubblica, ora come capo di
gabinetto del ministro della Giustizia. La sua nomina potrebbe essere dunque vista come
una sorta di “commissariamento” della Procura di Milano da parte della politica. Se il
procuratore non fosse nominato dal Csm ma eletto dai pm, probabilmente a Milano
vincerebbe Alberto Nobili, “interno” ma stimato da tutti e capace di pacificare l’ufficio dopo
la burrasca.
del 19/11/15, pag. 1/15
Una sinistra fuori le mura
Marco Revelli
Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel
lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio
dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.
Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo
emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine
Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche”
francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei
diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della
«proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono
degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina
l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il
compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma
l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente
degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse
originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini
contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul
percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello
continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto.
Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla
coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia
sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).
I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle
socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale
sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente
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— dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto
fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla
Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento
Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di
un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino
a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa
senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al
processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E
contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e
condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la
constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con
qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma,
non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.
Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime
amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte,
condivisa attivamente da tutte le realtà di sinistra, radicata nella storia sociale della città —
parlo di Giorgio Airaudo -, in grado di contendere con credibilità il consenso sia a un
centro-sinistra esausto, in debito di idee e di proposte, sia al Movimento 5 stelle,
costituendo un possibile esempio virtuoso in campo nazionale. Va d’altra parte in questa
direzione la formazione, alla Camera dei deputati, di una prima aggregazione, ancora
parziale ma significativa, di deputati di Sel e di ex Pd sotto il nome di Sinistra italiana, che
costituisce indubbiamente un fattore positivo, in grado di rendere più efficace l’opposizione
in Parlamento alle controriforme renziane e di dare visibilità al processo aggregativo, a
condizione di considerarla per quello che è: la nascita di un embrione di gruppo
parlamentare (l’ha detto bene Cofferati: «Al Quirino è nato un gruppo parlamentare, non
un partito»). E di non sovrapporla o identificarla tout court con il processo costituente del
«soggetto politico unitario e unico della sinistra», che è — e deve essere — molto più
ampio, necessariamente radicato nei territori e partecipato socialmente, caratterizzato da
tratti di radicale innovazione di forme, contenuti, facce e linguaggi, se vuole reggere la
sfida dei tempi (né considerazioni diverse si possono fare per il gruppo cui ha dato vita,
sempre alla camera, Civati).
Dico questo perché il momento è delicatissimo: per il contesto drammatico in cui ci si
muove, e per la fragilità dei processi al nostro interno. Ciò che avverrà nelle prossime
settimane e mesi ha il carattere di un’ultima chiamata. Un ennesimo fallimento non
sarebbe perdonato. La grande partecipazione alle occasioni pubbliche di questi giorni (a
Roma al Quirino e a Torino per il lancio della candidatura di Airaudo) ci dice che esiste
un’attesa ampia, per rispondere alla quale è indispensabile che la riuscita del processo
unitario sia e resti l’ obbiettivo prioritario di tutti e di ognuno, senza piani di riserva, furbizie
o espedienti di corto respiro, che non sarebbero compresi da nessuno. Ha perfettamente
ragione Carlo Galli quando, su questo stesso giornale, chiede un minimo di pulizia del
linguaggio (ci si astenga da espressioni gravide di disprezzo e di pigrizia nel capire come
«cosa rossa»). E scrive che «la sinistra di cui c’è bisogno» ha da essere «rossa e
realistica» — cioè capace di fare proprie, rinnovandole e rigenerandole nel contesto
attuale, le sfide del movimento operaio in una chiave non testimoniale (esattamente
l’opposto di una «cosa») -, «radicale e accorta, plurale e unitaria». E aggiunge che deve
mostrarsi capace di realizzare un’«accumulazione originaria di pensiero e di energia
politica» mettendo insieme molte eredità culturali.
Ma esattamente per questo non può chiudersi, proprio ora, in recinti ristretti. In ciò che
sopravvive «dentro le mura». Non può pensarsi — sarebbe mortale — come semplice
prolungamento di una parte di ciò che è stato, né come Federazione di frammenti di
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un’unità passata andata in frantumi, né tantomeno come somma di personalità – o
personalismi – in competizione per un’egemonia esangue. L’accelerazione in corso chiede
di uscire dalle mura, contaminarsi con ciò che c’è «fuori». Per riportare fra noi chi è uscito,
e conquistare chi non c’è mai stato. Ogni altra via ci consegnerebbe a percentuali di
consenso residuali, di cui non c’è spazio né bisogno.
Per questo l’incontro di gennaio dovrà essere davvero all’insegna di uno stile nuovo di
ragionare e di agire, preparato da un percorso – decine di assemblee, poi una carovana
dell’alternativa – nei territori, strutturato in modo tale da restituire la parola a chi in questi
anni l’aveva perduta o se l’è vista sequestrare, con un orizzonte compiutamente europeo e
trans-nazionale come appunto transnazionali sono le sfide politiche da affrontare.
Soprattutto dovrà essere un esercizio di pensiero.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 19/11/15, pag. 41
Troppo spesso dimentichiamo come la quotidianità del terrore, che noi
sperimentiamo sporadicamente, in tanti paesi, dalla Siria alla Nigeria, è
la realtà di ogni giorno. Così come il dramma dei rifugiati che arrivano in
Europa, in fuga dall’islamofascismo dell’Is e poi bersaglio dell’odio
xenofobo. Ecco perché è ancora necessario lottare per gli oppressi
Zizek. Ma i migranti sono vittime due volte
SLAVOJ ZIZEK
Certo, gli attentati terroristici di venerdì 13 a Parigi vanno condannati senza riserve, ma...
bando alle scuse, vanno condannati davvero, quindi non basta il patetico spettacolo
di solidarietà di tutti noi (persone libere, democratiche, civili) contro il Mostro musulmano
assassino. Nella prima metà del 2015, a preoccupare l’Europa erano i movimenti radicali
di emancipazione (Syriza, Podemos) mentre nella seconda l’attenzione si è spostata sulla
questione “umanitaria” dei profughi — la lotta di classe è stata letteralmente repressa e
rimpiazzata dalla tolleranza e dalla solidarietà tipiche del liberalismo culturale. Ora, dopo le
stragi del 13 novembre, questi concetti sono stati eclissati dalla semplice opposizione di
tutte le forze democratiche, impegnate in una guerra spietata contro le forze del terrore —
ed è facile immaginarne gli esiti: ricerca paranoica di agenti Is tra i rifugiati. I più colpiti
dagli attentati di Parigi saranno i rifugiati stessi e i veri vincitori, al di là degli slogan stile je
suis Paris, saranno proprio i sostenitori della guerra totale da entrambe le parti. Ecco
come condannare davvero le stragi di Parigi: non limitiamoci alle patetiche dimostrazioni di
solidarietà, ma continuiamo a chiederci a chi giova. I terroristi dell’Is non vanno “capiti”,
vanno considerati per quello che sono, islamofascisti, in antitesi ai razzisti europei antiimmigrati, due facce della stessa medaglia.
Ma esiste un ulteriore aspetto che dovrebbe farci riflettere — la forma stessa degli
attentati: un estemporaneo, brutale, sconvolgimento della normale quotidianità. Questa
forma di terrorismo, una turbativa momentanea, è caratteristica soprattutto degli attentati
nei paesi occidentali sviluppati, in contrasto con paesi del Terzo Mondo in cui la violenza è
realtà permanente. Pensiamo alla quotidianità in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano...
quando mai si manifesta solidarietà internazionale di fronte a qualche centinaio di morti in
questi paesi? Dovremmo ricordarci ora che noi viviamo in una “sfera” in cui la violenza
terrorista esplode di quando in quando, mentre altrove (con la complicità occidentale) la
quotidianità è terrore e brutalità.
I recenti attentati terroristici a Parigi al pari del flusso dei profughi, sono per noi un
momentaneo promemoria del mondo violento al di fuori della nostra sfera, un mondo che
in genere vediamo in televisione, remoto, distante, non come parte della nostra realtà. È
per questo che è nostro dovere acquisire piena consapevolezza della violenza brutale che
impera fuori dalla nostra sfera, non solo violenza religiosa, etnica e politica, ma anche
violenza sessuale. Nella sua straordinaria analisi del processo Pistorius, Jacqueline Rose
indica che l’omicidio della fidanzata va interpretato nel complesso contesto della paura che
i bianchi nutrono nei confronti della violenza dei neri nonché della terribile e diffusa realtà
della violenza contro le donne: «Ogni quattro minuti in Sudafrica una donna o una
ragazza, spesso adolescente, talvolta bambina — è vittima di stupri denunciati e ogni otto
ore una donna viene uccisa dal compagno». In Sudafrica questo fenomeno ha un nome:
“femminicidio seriale”.
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È un aspetto che non deve essere assolutamente considerato marginale: da Boko Haram
e Mugabe fino a Putin, la critica anticolonialista dell’Occidente si configura sempre più
come rifiuto della confusione “sessuale” occidentale e richiesta di tornare alla tradizionale
gerarchia sessuale. Sono ben consapevole che l’esportazione non mediata del
femminismo occidentale e dei diritti umani individuali può fare il gioco del neocolonialismo
ideologico e economico (ricordiamo tutti che alcune femministe americane hanno
appoggiato l’intervento statunitense in Iraq come mezzo per liberare le donne locali, con il
risultato esattamente opposto). Ma in ogni caso assolutamente rifiutare di trarne la
conclusione che gli occidentali di sinistra dovrebbero scendere a un “compromesso
strategico” tollerando in silenzio “il costume” di umiliare le donne e gli omosessuali a
beneficio della lotta anti-imperialista.
Quindi torniamo alla lotta di classe e l’unico modo per farlo è ribadire la solidarietà globale
degli sfruttati e degli oppressi. Senza questa visione globale la patetica solidarietà alle
vittime di Parigi è un’oscenità pseudo-etica.
del 19/11/15, pag. 3
E adesso i profughi rischiano di pagare le
atrocità dell’Isis
Europa. Venerdì vertice dei ministri degli Interni a Bruxelles
Carlo Lania
Le conseguenze degli attentati di Parigi rischiano adesso di ricadere pesantemente anche
sulle decine di migliaia di profughi che cercano ogni giorno di entrare in Europa, vittime
anche loro, seppure in maniera indiretta, dei terroristi dell’Is. Già in difficoltà nel ricollocare
i richiedenti asilo tra i paesi membri, l’Unione europea dovrà presto fare i conti con le
rinnovate resistenze di quei governi che finora si sono opposti alla sola idea di accogliere i
migranti all’interno dei propri confini e che utilizzano la tragedia francese per rafforzare il
loro rifiuto. Se si tratta di preoccupazioni eccessive oppure no lo si capirà venerdì
prossimo, quando a Bruxelles si terrà il consiglio Gai — il primo dopo gli attentati -, dove i
ministri degli interni dei 28 discuteranno di immigrazione e terrorismo.
Già il fatto che due questioni così cruciali per l’Europa vengano affrontate insieme non
induce all’ottimismo. In più i segnali che arrivano dai paesi dell’est, da sempre i più duri nei
confronti dei migranti, confermano che la discussione sarà a dir poco accesa. Il nuovo
governo nazionalista che si sta formando in Polonia ha infatti già annunciato di non voler
far fronte alla richiesta della Commissione europea di accogliere 7.000 migranti nei
prossimi due anni. «Non è solidarietà il tentativo di esportare il problema creato da altri
stati», ha detto la neo premier Beata Szydlo, con quello che sembra essere un chiaro
riferimento alla cancelliera Merkel. Più esplicitamente il futuro ministro per gli affari
europei, Konrad Szymanski, ha escluso «la possibilità politica di rispettare» gli impegni su
ricollocamento dei rifugiati. Analogo il messaggio inviato a Bruxelles dal parlamento
ungherese che due giorni fa, grazie anche ai voti degli estremisti del Jobbik, ha approvato
una legge che permette al governo di ricorrere presso la corte di giustizia Ue contro le
quote obbligatorie volute dalla commissione di Jean Claude Juncker. Ma più di tutti hanno
fatto esponenti dei governi ceco e slovacco, alimentando la paura generata dagli attacchi
di Parigi che tra i migranti si possano nascondere commando di terroristi: «Si è avverata la
brutta premonizione che nell’ondata di migranti lo stato islamico inviasse in Europa i suoi
combattenti con l’obiettivo di assassinare la nostra gente» ha detto il vicepremier ceco
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Andrej Babis. L’equazione profugo arabo = terrorista, sulla quale soffiano da giorni i
populisti di tutta Europa, è dunque destinata probabilmente a tenere banco venerdì a
Bruxelles. Un’equazione rafforzata dal ritrovamento sul corpo di uno dei terroristi uccisi a
Parigi, di un documento intestato a un profugo siriano registrato al suo arrivo a ottobre in
Grecia ma che con ogni probabilità è falso.
Come spesso accade, chi avrebbe tutto il diritto di gridare più forte — in questo caso
Parigi — è quello che invece si mostra più razionale. Finora le autorità francesi si sono
infatti limitate a chiedere a Italia e Grecia di rafforzare i controlli sui migranti, garantendone
l’identificazione. da parte sua Juncker ha invece avvertito Varsavia che non saranno
tollerate defezioni dal programma di ricollocamento: «La Polonia — ha detto — ha
l’obbligo di fare quello che il Consiglio ha deciso». I questo quadro per l’Unione diventa
sempre più decisivo il vertice con la Turchia che si terrà a fine novembre, primi di
dicembre a Bruxelles, durate il quale si tornerà a chiedere al presidente turco Recep
Tayyip Erdogan ha fermare i migranti evitando nuove partenze verso l’Europa.
Passati per forza di cose in secondo piano dopo la strage di Parigi, nel frattempo i migranti
continuano a decine di migliaia ad affollare i Balcani nonostante le temperature rigide.
Nelle ultime 24 ore ne sono arrivati 1.590 in Macedonia e 7.704 in Slovenia.
del 19/11/15, pag. 5
Dopo il panico ad Hannover. Riunione del consiglio di sicurezza
A Berlino possibile «effetto Isis»
sull’accoglienza dei migranti
francoforte
La Germania si sente nel mirino del terrorismo islamico. Il ministro dell’Interno, Thomas de
Maizière, che martedì sera ha preso la decisione di far evacuare, per quello che si è poi
rivelato un falso allarme bomba, lo stadio di Hannover dove avrebbe dovuto giocarsi la
partita di calcio Germania-Olanda, ha dichiarato ieri che altri attentati potrebbero avvenire
in Paesi europei. «Non può esserci una protezione assoluta o la sicurezza al 100% in una
società pluralistica come la nostra», ha detto, mentre si è scatenata una controversia sulla
sua mancata giustificazione della decisione e la sua frase sibillina: «Parte della risposta
farebbe sentire la popolazione insicura». Il capo dei servizi segreti interni, Hans-Georg
Maassen, ha detto che «se Isis potrà colpirci, lo farà». Lo stesso Maassen, che aveva
confermato che l’informazione che ha portato a evacuare lo stadio è venuta da servizi
esteri (si ritiene francesi, oltre che da fonti del Governo federale, ha affermato però che
non raccomanda la sospensione di altri eventi che attraggono grandi folle, come i
mercatini di Natale. La giornata calcistica della Bundesliga questo fine settimana
procederà secondo programma.
Il cancelliere Angela Merkel ha presieduto ieri una riunione del consiglio di sicurezza, cui
ha partecipato lo stesso de Maizière, ma ha cercato come sempre di ristabilire la calma.
Ha ammesso che «ci sono posizioni in conflitto fra sicurezza e libertà», ma ha puntato
soprattutto sulla sua delusione di tifosa, «come quella di altri milioni di tedeschi», per la
cancellazione della partita. E ha parlato di «decisione difficile, ma responsabile, dati i rischi
per la sicurezza». Negli ambienti dell’intelligence e della polizia si sottolinea che
segnalazioni come quella che ha portato alla decisione di martedì sera arrivano a
centinaia e che c’è l’esperienza per discernere quelle potenzialmente pericolose.
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I servizi segreti e le forze dell’ordine non sottovalutano comunque la sfida posta dal
terrorismo islamico. Sette persone sono state fermate e poi rilasciate ad Aquisgrana dopo i
fatti di Parigi. La polizia tedesca segnala che 750 islamisti di passaporto tedesco sono
partiti dalla Germania per le zone di guerra del Medio Oriente. Di queste, un terzo circa
sono ritornate in Germania e costituiscono una fonte di potenziale rischio. De Maizière ha
affermato che la risposta alla minaccia terroristica avverrà con la legislazione attuale, ma
che, se si rendesse necessario, non esiterebbe a proporne una più stringente. Il ministro
delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, aveva sostenuto nei giorni scorsi la possibilità
dell’uso dell’esercito.
Per dare un segnale che non si sottrae ai suoi impegni internazionali, il Governo ha
annunciato l’aumento di 130 soldati del contingente tedesco in Afghanistan, che vanno ad
aggiungersi agli attuali 850.
Il Governo è anche per ora compatto nel distinguere fra terroristi e rifugiati, ma la polemica
sulla politica delle porte aperte del cancelliere troverà nuova linfa negli attentati di Parigi,
dopo che già nelle settimane scorse c’è stato un revival della manifestazioni razziste di
Pegida e un balzo di consensi nei sondaggi, fino al 10%, della destra xenofoba di AfD,
oltre a una diffusa contestazione delle scelte della signora Merkel all’interno del suo stesso
partito. Secondo il “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, sulla questione il cancelliere va verso
un’inversione “a u”. Della quale peraltro finora non ci sono segnali concreti.
Alessandro Merli
del 19/11/15, pag. 5
“No, all’accoglienza”
Repubblicani contro i rifugiati
Marina Catucci
NEW YORK
Gli attentati di Parigi sono entrati nella campagna elettorale americana cambiandone
l’agenda, ed estremizzando le posizioni. I primi ad esprimersi sono stati i democratici il cui
dibattito, previsto per sabato sera, il giorno successivo all’attacco terroristico, ha cambiato
tema e si è concentrato su la sicurezza interna ed il pericolo Isis. I tre candidati, Clinton,
Sanders e O’Malley hanno espresso una posizione affine: «È importante riuscire a
decostruire il pensiero del proprio nemico, capirlo e anticiparlo ma in questo caso tutto ciò
è molto più difficile», ha spiegato Clinton, concordando con gli altri due sul fatto che l’unica
strada percorribile è quella di un lavoro coordinato di intelligence.
Immediatamente dopo, chiamati a rispondere sul problema dei rifugiati, i tre democratici in
corsa per la Casa bianca hanno concordato anche sul continuare ad accettare i 10.000
rifugiati siriani, come previsto da settembre, e come lo stesso Obama ha ribadito.
«Sbattere la porta in faccia ai rifugiati siriani sarebbe un tradimento dei nostri valori», ha
spiegato in risposta alle prime dichiarazioni dei repubblicani.
Non che tra quest’ultimi non ci siano contraddizioni, ma la risposta sull’accettare o meno i
rifugiati (specie se siriani) è unanime. Carson ha definito l’accoglienza di rifugiati una
sospensione dell’intelligenza, toni simili sono arrivati da Cruz, Fiorina, Huckabee, Rubio;
all’ovvio Trump, che stava creando un fittizio nemico messicano da sventolare, non è
parso vero di aver davanti uno spettro ben più concreto da utilizzare. Il conservatorismo
compassionevole è praticamente scomparso nel giro di dieci minuti e la posizione più
umanitaria è stata quella di Bush che ha proposto di accogliere almeno i rifugiati cristiani
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facendo una cernita religiosa. Il resto del partito non si è fatto attendere e ha dato man
forte ai propri candidati. 24 senatori di cui 23 repubblicani si sono distaccati dalla posizione
di Obama dichiarando che nei loro stati i rifugiati non metteranno piede. «Nemmeno
bambini di 5 anni orfani» ha tenuto a precisare Christie, senatore del New Jersey, lo stato
con la più grande comunità siriana negli Usa.
Gli stati che hanno chiuso le proprie frontiere ai rifugiati sono , Arizona, Arkansas, Florida,
, Idaho, Illinois, Indiana, Kansas, Kentucky Louisiana, Massachusetts, Maine, Michigan, ,
New Hampshire, New Jersey, Nebraska, New Mexico, North Carolina, Ohio, Oklahoma,
South Carolina, Tennessee, Texas e Wisconsin. Non pochi, ma tutto questo fiorire di
dichiarazioni che sembra una corsa a chi è più a destra, è una grande mossa
propagandistica. Si tratta di 10.000 rifugiati in un paese di 350 milioni di abitanti, con un
programma di accoglienza che privilegia i nuclei familiari con bambini ed opera dei
controlli severissimi facendo selezioni direttamente nei campi profughi, selezioni che
durano tra i 18 ed i 24 mesi. Inoltre si tratta di una legge federale, e per la struttura stessa
degli Usa se un profugo viene accolto in Connecticut nessuno può impedirgli di andare nel
vicino New Jersey, con buona pace del suo governatore.
Questa serie di dichiarazioni che continuano a rimbalzare tra democratici che si dicono
fermi e repubblicani che rilanciano con uguale e opposta fermezza mostra come gli
attentati di Parigi, di fatto, hanno estremizzato le posizioni dei due partiti con una corsa a
sinistra e a destra, con buona pace del centro che sembra non esistere più o non essere
più percepito come l’ago della bilancia.
Questo aspetto sta investendo tutti gli argomenti in campo, non solo la questione rifugiati e
sicurezza ma anche aborto, diritti civili, controllo delle armi, economia, sanità, istruzione e
se i democratici hanno ormai sdoganato come neutro se non addirittura positivo il termine
socialista, i repubblicani sono sempre più irrigiditi in posizioni di destra per niente
compassionevole e questa corsa elettorale, che sembrava scritta, torna ad essere in bilico,
perché una vittoria elettorale in un periodo storico come questo, non darebbe tranquillità a
nessuno.
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DONNE E DIRITTI
del 19/11/15, pag. 29
Il rapporto Il divario tra uomo e donna? Si
riduce (ma non nel lavoro)
L’Italia scala 28 posizioni nella classifica mondiale: ora è al 41° posto
di Luisa Pronzato
e Maria Silvia Sacchi
L’Italia scala posizioni nella classifica mondiale delle disparità tra uomini e donne. In un
anno è salita di ventotto posti nel Global Gender Gap, l’indice stilato dal World Economic
Forum che misura quanto (e cosa) manca per raggiungere la parità. Dieci anni fa eravamo
al 77° posto, oggi al 41°. Un buon segnale, dunque. Anche se non deve creare eccessive
illusioni. Resta, infatti, ancora molto da fare e i nodi sui quali è necessario intervenire sono
noti. Se si guardano le singole voci che compongono l’indice generale, si evidenzia che il
miglioramento è dovuto esclusivamente alla politica (vedi grafico), dove siamo saliti al 24°
posto nel mondo.
Il vero problema dell’Italia resta l’economia: il tasso di occupazione femminile e le
opportunità di lavoro per le donne. Non è un caso che su questo punto specifico, ma
fondamentale, il nostro Paese sia ancora in fondo alla lista: ben 111° su 145 Paesi
analizzati. Un primato negativo di cui si parla spesso ma che, interpretando i dati offerti dal
World Economic Forum, oggi potremmo modificare, volendolo fare.
Lo studio sottolinea come i divari di genere nazionali siano il risultato della combinazione
di diversi fattori — socioeconomici, politici e culturali — e «i governi hanno un ruolo di
primo piano nel determinare le politiche che riducono, o al contrario mantengono, il gap»,
commenta Klaus Schwab, ceo del World Economic Forum. L’Italia ha istituzioni ad alto
tasso femminile, sia nel potere legislativo sia nel governo del Paese, e deve decidere dove
intervenire.
A livello mondiale i modelli sono sempre quelli dell’Europa del Nord che occupano le prime
quattro posizioni, Islanda in testa, seguiti al quinto posto dall’Irlanda. Al sesto c’è il
Rwanda, analizzato soltanto da due anni e già in miglioramento, primo in assoluto al
mondo nell’occupazione femminile, che addirittura supera quella maschile. È anche il
Paese dove le donne hanno la maggior capacità di raggiungere posizioni di leadership.
Gli ambiti dove il divario si è molto ridotto sono salute e istruzione ma con delle polarità
molto forti: se quaranta Paesi hanno eliminato le differenze riguardo il benessere e le
aspettative di vita, nove invece sono sotto la media mondiale e le donne, più degli uomini,
soffrono la malnutrizione e si ammalano di malaria, tubercolosi, diabete. Venticinque sono
le aree che hanno raggiunto la parità nell’istruzione, ma in quasi altrettante le ragazze
hanno il 90 per cento di possibilità di studiare in meno dei ragazzi. Il miglioramento più
lento è stato, dovunque, proprio nel mondo del lavoro, solo il 3% dal 2006.
Nessuno Stato ha raggiunto la parità totale, coprendo ogni divario. Tuttavia, sottolinea il
rapporto, bisogna continuare a perseguirla perché per le nazioni comporta un aumento
della competitività. Tra le politiche per eliminare i gap il World Economic Forum cita la leva
fiscale. Anche se ce n’è una che davvero, secondo l’istituto, fa la differenza: le normative
sulla maternità e la paternità. «Congedi e strumenti che favoriscono la condivisione — dice
il rapporto — sono strettamente associati alla partecipazione delle donne all’economia e
sono quindi uno strumento importante per un uso più efficiente del capitale umano».
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Non è un caso che l’Islanda dal 2009 continui a essere al primo posto: maternità e
paternità sono del tutto uguali come giorni di assenza e retribuzione.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 19/11/15, pag. 12
Ambiente. Le richieste dell’industria e degli ecologisti mirano a
programmi che coinvolgano tutti i Paesi e tutti i settori
Le imprese: una strategia sul clima
Maccaferri (Confindustria): «Serve una politica di dimensioni più ampie»
I luoghi comuni dicono che escono solo dalle ciminiere dell’industria le grandi emissioni di
anidride carbonica, il gas accusato di scaldare il clima del mondo. Sono luoghi comuni. I
dati dicono ben altro e impongono una ricetta differente da quella usata finora, che pare di
scarsa efficacia nei risultati. Per esempio bisognerebbe condividere con tutto il mondo, e
non sempre nella solita Europa, i vincoli salvaclima. Per esempio bisognerebbe distribuire
su tutti, e non sempre sulla sola industria, gli impegni contro le emissioni.
Per questo motivo la Confindustria e il Kyoto Club, associazione delle aziende verdi,
hanno fatto il punto con un convegno sulle «opportunità per le imprese italiane legate agli
impegni sul clima al 2030» che si è svolto a Roma, al quale imprenditori ed ecologisti veri
hanno presentato testimonianze, cifre e suggerimenti su come affrontare il cambiamento
del clima del mondo.
Le cifre dicono che in Italia il mondo della produzione è quello che più degli altri ha tagliato
i fumi e ne ha subito i costi, e non a caso l’industria sta compiendo quella conversione
tecnologica ed etica verso la green economy che altri non fanno. Ma altri segmenti
economici e altri Paesi non fanno ciò che potrebbero, e vanno coinvolti.
Dicono ecologisti e imprese: nel negoziato mondiale contro i cambiamenti climatici che si
aprirà a fine mese alla Cop21 di Parigi, l’Europa e l’Italia devono ottenere misure di
riduzione delle emissioni che siano vincolanti per tutti i Paesi, e non solo per i primi della
classe targati Ue, altrimenti saranno solo spese per noi, vantaggi per i concorrenti
extraueropei e benefici zero per l’ambiente.
«L’industria italiana guarda ormai da molto tempo al tema della sostenibilità come una
opportunità piuttosto che come un vincolo», commenta Gaetano Maccaferri,
vicepresidente di Confindustria con delega all’ambiente e alla semplificazione. I successi
conseguiti finora nella riduzione delle emissioni si devono all’impegno delle imprese e
all’innovazione tecnologica, come dimostrano i risultati della ricerca scientifica nelle
energie rinnovabili, nell’efficienza energetica, nelle biotecnologie. «Occorre adottare una
politica di dimensioni ben più ampie di quelle attuali», dice; bisogna «includere anche la
pubblica amministrazione, che fino a oggi non ha espresso tutte le sue potenzialità». La
locuzione di Maccaferri (la pubblica amministrazione non ha espresso tutte le sue
potenzialità) è tenue rispetto alla pigrizia del sistema pubblico nel difendere l’ambiente e
nella sua solerzia a imporre invece obblighi ad altri. Se ci sono amministrazioni pubbliche
virtuose, al contrario basta pensare agli autobus di alcune città, all’abuso di auto camion
furgoni, ad alcuni uffici pubblici in condizioni imbarazzanti, al settore residenziale, a quelle
moltissime singole persone che — spesso pronte a sostenere con parole veementi la
difesa dell’ecologia — nei fatti non cambiano il modo di consumare.
«Siamo in attesa che il Governo definisca le linee guida della futura strategia nazionale
per lo sviluppo sostenibile», ricorda la direttrice generale della Confindustria, Marcella
Panucci. Ed ecco infatti l’ecologista e deputato Ermete Realacci con i numeri dei rapporti
GreenItaly e Relazione sullo stato della Green Economy; oppure le esperienze di Gianluigi
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Angelantoni (tecnologie per le rinnovabili), di Catia Bastioli (con le plastiche biodegradabili
della Novamont) oppure di Enrico Loccioni (la sua impresa di tecnologie per l’automazione
è un caso di studio nella sostenibilità). Questi casi di impresa sostenibile dimostrano che
l’ecologia è una scienza complessa alle cui conclusioni non si giunge guardando
dall’angolino personale del luogo comune.
Jacopo Giliberto
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 19/11/15, pag. 46
Save the Children
L’atlante dell’infanzia negata
MARINA CAVALLIERI
“Bambini senza” disegna la nuova mappa delle povertà minorili: la
fotografia spietata di un’Italia che trascura il proprio futuro, privando del
necessario gran parte delle nuove generazioni
Li possiamo chiamare “bambini senza”. Sono migliaia, ciascuno con la propria storia e
identità, ma tutti uniti da un filo invisibile: sono senza mensa scolastica, senza libri e senza
internet, non hanno cibo proteico e giochi a sufficienza, non vanno in vacanza, non
invitano gli amici a casa, non festeggiano il compleanno. Per capire come molti di loro
vivono basta sfogliare il sesto Atlante dell’Infanzia ( a rischio). Bambini senza. Origini e
coordinate delle povertà minorili, di Save the Children, l’organizzazione internazionale
indipendente che dal 1919 si dedica a difendere i diritti dei bambini. Sono 200 pagine di
analisi e dati, a cura di Giulio Cederna, con foto di Riccardo Venturi, da cui emerge una
mappa spietata. Migliaia e migliaia di bambini, adolescenti e ragazzi (il capitale umano più
prezioso che una società ha) stanno crescendo socialmente abbandonati, culturalmente
trascurati, vittime del cinismo degli adulti. Si può partire dalla povertà per capire le nuove
condizioni di vita, calcolando il progressivo impoverimento che c’è stato in questi anni in
cui la crisi ha consegnato migliaia di minori a una zona grigia. A preoccupare, infatti, oggi
non è solo la povertà assoluta, ma quella fascia sociale sempre più estesa fatta di famiglie
che ogni giorno arrancano. Un minore su 10 è in povertà assoluta (1.045.000 in totale), ma
sono molti i “bambini senza”: circa 1 su 20 non può fare affidamento su due paia di scarpe
(uno per stagione), non riceve un pasto proteico al giorno o non possiede giochi. Quasi un
bambino su 10 vive in famiglie che non possono permettersi di invitare a casa i suoi amici
per giocare o per mangiare, di festeggiare il suo compleanno, di comprargli libri
extrascolastici o abiti nuovi, né di farlo partecipare alle gite scolastiche. Un bambino su 7
non ha nemmeno a disposizione uno spazio per fare i compiti.
Così la scuola: dovrebbe essere il baluardo a difesa dei giovani, ma non riesce a fare da
scudo e a mantenere le promesse di protezione e formazione. Per la scuola dell’infanzia
spendiamo lo 0,46% del Pil, meno di un quarto dell’inarrivabile Svezia (1,85%), quasi la
metà della Francia (0,70%) e assai meno della Spagna (0,65%). Per la scuola primaria ci
fermiamo all’1,01%, meno della Francia (1,20%), della Spagna (1,15%), della Polonia
(1,50%) e di tutti i principali Paesi europei. E le carenze iniziano anche prima. A livello
nazionale la “presa in carico” da parte dello Stato dei bambini da 0 a 2 anni resta
lontanissima dall’obiettivo europeo del 33% e veri e propri baratri sono le distanze
territoriali, con tre regioni del Mezzogiorno inchiodate sotto il 5% (Calabria, Campania e
Puglia) e quattro regioni del Centro-Nord sopra il 20% . I nostri sono anche bambini senza
tempo pieno, una risorsa fondamentale perché alternativa alla strada nei quartieri difficili,
ma garantita in media solo dal 30% delle classi della primaria. E nel 40% degli istituti
scolastici principali non c’è il servizio mensa.
Bambini poveri anche in salute. L’Oms definisce l’obesità una vera e propria epidemia e in
Italia il 30,7% dei bambini (pari a circa 2 milioni) sono in sovrappeso a causa della cattiva
alimentazione, conseguenza della povertà. E poi i bambini senza cultura: quelli che non
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sono mai andati a teatro, al cinema, a vedere una mostra, un sito archeologico. I bambini
che nel 2014 non hanno mai letto un libro sono circa il 64% dei minori presi in esame nella
statistica di Save the Children. In totale sono circa 4.300.000 i minori vittime della
deprivazione ricreativo-culturale. La povertà culturale è come quella economica, si
trasferisce da una generazione all’altra: la classe sociale in Italia è un destino. È un
quadro impietoso quello dell’Atlante, con alcune prospettive di cambiamento. «Nonostante
tutti i “senza” dei bambini in Italia, registriamo qualche segnale in controtendenza»,
commenta Raffaela Milano, direttore Programma Italia di Save the Children. «La nuova
legge di stabilità avvia una misura organica sulla povertà minorile e un fondo sperimentale
per contrastare la “povertà educativa”, quella che blocca sul nascere le aspirazioni, i talenti
e le prospettive di futuro dei più piccoli. Sarà necessario, alla prova dei fatti, garantire vero
rigore nell’attuazione e nella valutazione di queste misure, per non ripetere errori del
passato».
I giovanissimi sono il capitale umano più prezioso della società, ma crescono abbandonati
a sé stessi, vittime dell’incapacità e del cinismo degli adulti Non si nutrono bene, non
possiedono giochi. Non hanno mai letto un libro né fatto una vacanza.
Peggio della loro, solo la vita dei piccoli migranti
del 19/11/15, pag. 44
Uno scrittore esplora le mappe del sesto rapporto presentato da Save
the children. E scopre che in molte parti d’Italia la pervasività del
crimine potrebbe essere contrastata con una diversa organizzazione
della scuola
Bambini «senza»
l’atlante dell’infanzia a rischio quel nesso tra le mafie locali e la
mancanza del tempo pieno
Paolo Giordano
Da bambino, come molti, avevo una predilezione per gli atlanti. L’idea della vastità, di
regioni del pianeta remote e irraggiungibili mi affascinava come poche altre. Poi, a forza di
guardarla, la forma delle terre emerse mi è divenuta familiare e forse ho perso un po’ di
gusto per le mappe. Sbagliando. Perché, mi accorgo oggi nello sfogliare il sesto «Atlante
dell’infanzia (a rischio)» compilato da Save the Children, esistono infinite prospettive sotto
le quali considerare la stessa porzione di mondo, infinite dalle quali considerare anche
l’Italia.
Per esempio, esiste la prospettiva troppo spesso trascurata dei bambini e dei ragazzi.
Avvalendosi di fonti diverse, l’atlante di Save the Children racconta attraverso cartine e
grafici sintetici la condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nel nostro paese, dalla parte
degli svantaggiati, dei «bambini senza». Bambini senza la possibilità di trascorrere almeno
una settimana di vacanza all’anno lontano da casa (1 su 3), senza libri adatti a loro sulle
mensole di casa (1 su 10), senza un paio di scarpe alternativo per il cambio di stagione (1
su 20).
La statistica, si sa, è frigida, i dati sono dati e l’emozione subentra solo al momento di
interpretarli. Sfogliando l’atlante, si può pensare che, almeno a livello medio, la condizione
dei minori nel nostro paese non sia critica oppure che lo sia eccome, dipende da quanto
ognuno di noi esige dallo stato in cui abita. Che il 10% dei bambini italiani viva in «povertà
assoluta» è tanto o poco, considerati il momento storico, la crisi lunga e deteriorante,
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l’infusione continua di stranieri nella nostra società, che hanno bisogno di tempo per
costruirsi uno status?
Che ognuno lo decida per sé. Tuttavia, ci sono degli aspetti incontestabili che emergono
dalla topografia dei «bambini senza». Il primo è un compendio ai risultati niente affatto
rosei dei più recenti test PISA, dove l’Italia non eccelleva, né nelle competenze di lettura
né in quelle matematiche. Fra il 31% (Bolzano) e il 76% (Campania) dei minori fra i sei e i
diciassette anni non è entrato in un museo durante tutto il 2014. Anche limitandosi al
campione «migliore», quello dei giovani bolzanesi, il dato è alto in assoluto. Dice
chiaramente che, laddove la scuola fallisce nella sua missione culturale, non c’è da
aspettarsi che a sopperire siano le famiglie.
Poi, neanche a dirlo, quasi in ogni studio si ripropone la spaccatura severa fra nord, centro
e sud. I bambini senza due paia di scarpe sono, a guardare meglio, «solo» uno su cinque
al nord, e quasi uno su due al sud. Riformulato così, il dato suona assai diverso.
Ma ciò che rende l’Italia ancora e chissà per quanto tempo un’anomalia nella schiera dei
paesi maggiormente industrializzati è la pervasività del crimine organizzato. Lo sappiamo,
eppure vederlo disegnato sulla geografia dell’infanzia provoca un dispiacere vivo. L’ombra
del crimine si allunga sulle mappe elaborate da Save the Children né più né meno di
quella di un orco. Le mafie costituiscono ancora l’anello inossidabile di una serie di circuiti
viziosi di degrado. Per citarne uno, basta considerare la correlazione, visibile a occhio, fra
le seguenti mappe: 1) quella che denuncia la bassa, pressoché nulla, offerta di classi a
tempo pieno in molte province del sud; 2) quella che mostra le percentuali di minori che
risiedono in comuni sciolti (più volte o indefinitamente) per mafia; 3) quella sui comuni che
almeno fino allo scorso anno si trovavano in dissesto finanziario. Il circolo vizioso è
facilmente riconoscibile: senza il tempo pieno a disposizione, i giovani sono esposti per più
tempo al rischio ambientale, alla «strada» (espressione che suona ridicolmente vecchia
ma non troppo peregrina per certe aree del nostro paese). Ciò provoca un aumento di
coloro che finiscono fra le maglie della criminalità organizzata, un aumento della
criminalità stessa e, pertanto, del rischio di «scioglimento» dei comuni nei quali i minori
risiedono. Gli scioglimenti aggravano i dissesti finanziari dei comuni, portando a un
peggioramento generale dei servizi, tra i quali l’offerta di classi a tempo pieno. E via da
capo.
Si possono costruire molti altri circoli di questo tipo, semplicemente a partire
dall’osservazione dei grafici di Save the Children. Per esempio, si può sostituire a una
delle mappe quella piuttosto scoraggiante sulla lettura o sull’obesità. Non è un esercizio
divertente ma è di certo istruttivo. Perché, una volta individuato un circuito, almeno una
domanda nasce sempre spontanea. Nella fattispecie: se sappiamo riconoscere che esiste
una causalità fra la penuria di classi a tempo pieno e le infiltrazioni delle mafie nella
politica locale, perché non siamo in grado di agire a livello centrale, e in modo decisivo,
per aumentare le classi a tempo pieno?
Non occorre eccedere in un bieco determinismo per accettare l’idea che, specie per i
bambini e gli adolescenti, l’ambiente, gli stimoli e il livello di benessere siano dirimenti per
il futuro. E, in ogni caso, esiste anche il presente a cui guardare, perché se a un individuo
è stata corrotta l’infanzia, è inutile pensare che potrà essere risarcito più avanti.
L’infanzia non è risarcibile, mai. Uno stato industrializzato può definirsi anche civile
soltanto in proporzione a quanto appiana le discrepanze fra le condizioni di partenza delle
sue generazioni più giovani. Proprio in questo – si ha l’impressione sfogliando il
documento – l’Italia perde terreno drasticamente.
L’atlante di Save the Children andrebbe adottato e discusso nelle scuole. Per iniziativa
personale di qualche insegnante, s’intende. Che sia di matematica, latino o disegno
tecnico non importa: le mappe tematiche hanno proprio la funzione di tradurre la
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complessità numerica in una percezione visiva quasi immediata, perfino emotiva. I ragazzi
sono spesso sensibili a questo genere di illustrazioni, più che ad altre maggiormente
discorsive.
Mostrare loro le mappe, a Lodi come a Vibo Valentia, nelle scuole elementari come nelle
superiori, consentirebbe a molti di comprendere meglio quale posizione occupano nella
geografia del nostro paese, meglio di sicuro che imparando a memoria elenchi sterili di
regioni e province e cereali coltivati. Magari, la consapevolezza susciterà in alcuni un
desiderio di compensazione, in un verso o in quello opposto, e magari, chissà, nel tempo
questo loro desiderio aiuterà l’Italia tutta a non essere più chiazzata di colori tanto diversi.
del 19/11/15, pag. 44
Oltre un milione in povertà assoluta
Mancanza di servizi, case, spazi ricreativi. Grasso: «A molti under 17
rubato il futuro»
Sono bambini «senza». Senza abbastanza cibo. Senza abbastanza scuola. Senza
abbastanza vestiti e scarpe. Senza affetto e attenzione. Senza casa. Senza Stato né soldi.
Un milione e 45 mila di loro è in uno stato di povertà assoluta. Ma sono anche bambini
«troppo». Troppo soli. Troppo dimenticati. Troppo vittime dei grandi. Con troppa violenza
intorno, troppa corruzione, illegalità e morte.
È impietosa la sesta edizione dell’Atlante dell’Infanzia (a rischio) realizzato da Save the
Children e presentato ieri al Senato. Una fotografia dura sui bambini italiani, la loro
condizione, economica e non solo. Duecento pagine di analisi e 62 mappe (anche online
www.atlante.savethechildren.it ). «Leggerlo non può che provocare un sentimento di
sconforto in ciascuno di noi» ha detto il presidente del Senato Piero Grasso. Duro già nel
titolo, Bambini senza. Origini e coordinate delle povertà minorili , curato da Giulio Cederna
con le immagini, spesso crude e dolorose, di Riccardo Venturi.
«Mi ha colpito la scelta del titolo — ha detto Grasso —, perché nell’immaginario collettivo
ad una giovanissima vita spetterebbe il diritto di avere tutto, di non essere privato di alcune
cose dal valore inestimabile come la speranza, la felicità, l’opportunità di coltivare i propri
talenti e realizzare i propri sogni». Invece agli under 17 fotografati dall’Atlante manca tutto
ciò, «a moltissimi è stato rubato il futuro», dalle mafie e dagli assassinii per esempio, dice
Grasso. Ma anche dalla mancanza di servizi, di famiglie (30mila i minori stranieri non
accompagnati arrivati in Italia), di case adeguate (un minore su quattro abita in abitazioni
fatiscenti), di spazi dove ritrovarsi, di scuole. «Troppi gli istituti chiusi per accorparli —
sottolinea l’assessora regionale alla Scuola della Calabria Federica Roccisano —: nella
Locride ci sono bambini che si alzano alle 5 per prendere il bus e andare a scuola a
chilometri di distanza: non è così che si garantisce l’obbligo scolastico». E allora, «come
fai a creare delle aspettative se gli chiudi la scuola?».
In tanti perciò la lasciano: la dispersione scolastica in Italia è intorno al 17%, con punte del
20% in Campania, del 24% in Sardegna e del 25% in Sicilia. E ancora una volta chi sta al
Sud sta peggio. E lì, proprio nelle regioni del Sud, denuncia Linda Laura Sabbadini,
direttrice del Dipartimento delle statistiche sociali dell’Istat, la situazione è più grave:
«Meno bambini e quindi meno futuro, un impoverimento dato dalla crisi ma anche
dall’emigrazione verso il Nord».
Dal 2009 l’Italia ha «perso» 75mila neonati. Ma, continua Alessandra Clemente, assessora
ai Giovani del Comune di Napoli: «Il nostro Paese che perde dei figli è così grave che
neanche la nostra lingua sa come definire questo fenomeno e io vedo troppi ragazzi che
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negli occhi non hanno un futuro ma hanno violenza nelle mani». E allora? «Seminare
l’impegno e ricreare la speranza». Save the Children ci prova con i suoi «punti luce» e
l’obiettivo di debellare la povertà educativa in Italia entro il 2030: già aperti 13 «punti» in 8
regioni, altri 3 apriranno domani. Già 4.500 ragazzi sono passati per questi centri
socioeducativi: «C’è un’alternativa alla povertà e all’illegalità — dice Valerio Neri, direttore
dell’associazione —: un cambiamento è possibile» .
Claudia Voltattorni
del 19/11/15, pag. 7
Il diritto allo studio torna in Toscana, Puglie e
Emilia
Migliaia di studenti potranno avere di nuovo accesso al diritto allo studio in Emilia
Romagna, Toscana e Puglia. In Emilia Romagna è stato approvato un piano straordinario
di borse di studio per gli esclusi. L’ente per il diritto allo studio e la regione hanno accolto
le istanze degli studenti che da mesi denunciano l’espulsione degli studenti aventi diritto a
causa della riforma per il calcolo dell’Isee. È stato inoltre aperto un bando straordinario
(dal primo al 23 dicembre), di 200 euro per la quota mensa più una quota monetaria fino a
2.000 euro per chi rientra nei parametri Isee di 24 mila e 126,80 euro e Ispe da 40 mila e
713,99 euro.
La regione Puglia ha riconosciuto l’esclusione degli studenti dalla graduatorie delle borse
generata dai nuovi parametri dell’Isee e ha confermato la volontà di voler intervenire a
favore degli esclusi con l’apertura di un secondo bando con soglie aumentate. La regione
intende rifinanziare il diritto allo studio con 5 milioni di euro. In Toscana sono stati
approvati gli indirizzi per una manovra straordinaria. La regione cerca di rimediare in
questo modo all’esclusione degli studenti. Le nuove borse di studio dovrebbero contenere
un contributo per l’affitto, i pasti gratuiti a mensa. Dovrebbe essere aperto agli studenti ex
borsisti, anche a quelli che non hanno presentato una domanda di borsa di studio. Le
soglie Isee e Ispep non sono ancora definite ma dovrebbero consentire il parziale rientro
degli esclusi. Una proposta sarà presentata alla conferenza regionale per ildiritto allo
studio.
Per gli studenti del coordinamento universitario Link — che hanno condotto questa
vertenza insieme a quelli dell’Udu — è un risultato significativo. «Mesi di discussione tra gli
studenti, confronto con le istituzioni, lavoro negli organi di rappresentanza e tante giornate
di mobilitazione hanno prodotto i primi, importantissimi risultati — sostiene Alberto
Campailla, di Link — Migliaia di studenti e di studentesse potranno avere di nuovo
accesso ai loro benefici di diritto allo studio, potranno continuare il loro percorso
universitario senza sentire addosso il costante ricatto dell’insostenibilità economica».
Ieri «Il manifesto» ha riportato la notizia di un emendamento presentato dal Pd alla Legge
di Stabilità. Si propone un finanziamento per il diritto allo studio pari ad un milione e mezzo
in tre anni. «È una cifra assolutamente insufficiente a coprire le attuali carenze del sistema
— sostiene Campailla — Solo un decreto di innalzamento delle soglie e un opportuno
rifinanziamento del fondo integrativo statale (Fis) possono dare una risposta definitiva a
questa emergenza».
Cosa farete, adesso, visto che qualche cambiamento lo avete ottenuto? «Noi non ci
scoraggiamo e andiamo avanti — risponde Campailla — Nelle prossime settimane
continueremo a lavorare tanto nei nostri atenei quanto a livello nazionale facendo
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pressione sul Ministero per ottenere delle risposte sostanziali. Tutto questo avviene grazie
all’ostinazione di tanti in una battaglia per rispondere alle necessità materiali degli studenti
e condivide un’idea universale di istruzione universitaria».
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/11/15, pag. 10
Sud, sicurezza, esodati: rinvio alla Camera
Verso bonus investimenti triennale al Mezzogiorno - Mini-ritocchi su
esodati e «opzione donna»
roma
Nuovi interventi per il Sud, una maggiore dotazione per le ex Province, qualche risorsa per
mini-ritocchi al capitolo previdenza.
È già pronto l’elenco delle materie su cui Governo e maggioranza hanno trovato l’accordo
per gli emendamenti alla Stabilità che verranno introdotti alla Camera. Un menù destinato
ad aprirsi con le maggiori risorse da destinare alla sicurezza e alla difesa, naturalmente,
su cui la riflessione è aperta ufficialmente dopo l’annuncio di ieri del presidente del
Consiglio, Matteo Renzi, intenzionato ad avvalersi dell’eventuale superamento per questo
addendum dei vincoli del Patto di stabilità e crescita.
La dote di riferimento per finanziare le nuove modifiche (al netto dei fondi per l’emergenza
terrorismo) dovrebbe restare nell’ambito dei 150 milioni messi a disposizione dal fondo
della presidenza del Consiglio per spese indifferibili e le politiche sociali. Avrebbe invece
bisogno di una dote specifica, e ben più consistente, l’intervento di sostegno al
Mezzogiorno. Su quest’ultimo punto perde quota la proroga della decontribuzione sui
nuovi assunti, a favore di un nuovo credito di imposta sul modello della “Visco Sud” da
finanziare pescando dal Fondo sviluppo e coesione (Fsc). Occorrerà ancora una
riflessione, anche perché la misura avrebbe un costo elevato, intorno agli 1,5 miliardi, da
reperire probabilmente utilizzando come anticipo risorse Fsc appostate per il 2017
nell’ordine di 3 miliardi.
Il “bonus” investimenti per il Sud, secondo le prime formulazioni dei tecnici, potrebbe avere
una durata triennale, sarebbe comunque di entità piuttosto contenuta (10%, al massimo
15%) e riguarderebbe nel complesso otto regioni: Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata,
Puglia, Molise, Abruzzo e Sardegna. Se la disponibilità finanziaria potrà essere reperita
mediante le risorse Fsc, andrà comunque congegnata la norma in modo da minimizzare
rischi di obiezioni e di allungamento dei tempi, da parte della Ue. Per questo la misura
verrebbe disegnata sulla base della Carta degli aiuti a finalità regionale, con un perimetro
molto preciso di investimenti agevolabili: creazione di un nuovo stabilimento o
ampliamento, diversificazione della produzione dello stabilimento per ottenere prodotti
nuovi o cambiamento fondamentale del processo produttivo.
L’impegno sugli investimenti al Sud metterà a questo punto nel cassetto altri interventi di
politica industriale che pure erano stati immaginati dal ministero dello Sviluppo economico
durante la preparazione della legge. In primo luogo il rafforzamento dell’attuale credito di
imposta per investimenti in ricerca e innovazione, che si sarebbe composto di due parti:
aumento del tetto annuo di beneficio per singola impresa e parziale passaggio dal calcolo
incrementale a quello sul totale degli investimenti effettuati.
Per tornare invece alla dote da 150 milioni del fondo di Palazzo Chigi, servirà a garantire
gli altri interventi. A partire dalle risorse ai nuovi enti di area vasta sia per completare
l’operazione di trasferimento del personale sia per garantire coperture alle funzioni sul
fronte della viabilità e dell’edilizia scolastica. Potrebbe esserci in extremis qualche
tentativo di riaprire il capitolo dei tagli alla sanità, nonostante l’accordo sul decreto salvaRegioni relativo ai fondi per i pagamenti arretrati. Alta l’ipotesi di correzioni su almeno due
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voci del “pacchetto previdenza”. La prima per cancellare i 3 mesi dell’aspettativa di vita nel
calcolo dei requisiti di età per le lavoratrici dipendenti e autonome che vorranno optare per
l’opzione donna avendo compiuto 57 o 58 anni entro la fine di dicembre. E sempre su
“opzione donna” si introdurrebbe poi un sistema di monitoraggio per verificare quanta
parte della dote assegnata (2,5 miliardi entro il 2020 per una platea di 36mila potenziali
beneficiarie) verrà utilizzata davvero. La seconda per modificare qualche data che esclude
dalla nuova platea di salvaguardati situazioni molto particolari e isolate. Alla Camera si
vorrebbe anche anticipare al 2016 l’allargamento della “no tax area” per i pensionati, ma i
limiti di spesa si farebbero subito troppo stretti.
Davide Colombo
Carmine Fotina
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