Il nostro paese

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Il nostro paese
Titolo del racconto Il nostro paese
Incipit di Edoardo Angelino
Quando il mare si ritirò, lasciò un altopiano piatto, coperto di terra rossiccia, disseccata dal
sole. E l'acqua, paziente, cominciò a lavorare. Piovve tantissimo, a tratti a dirotto, un diluvio,
ciuffetti d’acqua che si infittivano in disordine sul suolo crepato; a tratti più piano, goccioline
impalpabili; poi ancora uno scroscio squarciava la cortina di nebbia. Talvolta il grigio del cielo si
faceva più chiaro, quasi a promettere un accenno di sereno, poi di nuovo, dalle montagne, nuvoloni
neri e bassi da far buio a mezzogiorno, e giù altra pioggia. Con le sue dita liquide, senza fretta,
l'acqua scavava, trascinava via la tenera argilla, la modellava; girava attorno ai massi più duri, li
lisciava, li levigava con il suo fluire continuo. A poco a poco comparvero le rughe delle valli e
dettarono la via ai fiumi. L'acqua, sui pendii sempre più ripidi, scorreva veloce e leggera, creava
piccole cascate, gole strette e pozze sempre più profonde; nella pianura invece si srotolava
imponente e pigra: girava e rigirava senza una meta.
E con l'acqua fiorì la vita: erbe, fiori, piante. I fianchi delle alture si coprirono di verde e gli animali
abitarono i boschi e pascolarono nei prati sulle sponde dei fiumi.
Poi vennero i grandi freddi e l'acqua, tremenda, continuò il suo lavoro. Le gocce si fecero sempre
più larghe e leggere, iniziarono a volteggiare e divennero neve. Il verde del territorio fu cancellato,
l'orizzonte si fece bianco e non vi fu più estate. Con il vento impetuoso aguzzi aghi di ghiaccio
graffiarono con forza la terra. Affilate e gelide lame azzurre penetrarono anche nelle rocce più
resistenti, si gonfiarono e le frantumarono. Anno dopo anno i ghiacciai si ingigantirono, strisciarono
fino alla pianura e con il loro peso immane spianarono e arrotondarono il fondo delle vallate. Poi il
caldo tornò, il ghiaccio si sciolse e l'acqua riempì con i laghi le fosse scavate.
E, finalmente, il lavoro fu compiuto. Il fondo piatto emerso dal mare tanto tempo prima appariva
completamente cambiato. Si era trasformato in un mare di colline, colline a perdita d'occhio: colline
morbide, tondeggianti e coperte di verde, colline ripide e scoscese, rossastre, tagliate da lame di tufo
bianco. Tra di loro, nelle valli, scorrevano fiumi ampi e possenti, torrenti impetuosi, la pianura
rimasta, ricca di erbe, era punteggiata da laghi tranquilli. Sullo sfondo la debole luce del sole al
tramonto contornava la cerchia delle Alpi con le vette innevate. Poi, nel buio, sulle cime di quelle
colline comparvero luci, fuochi accesi in poveri ripari: i primi uomini incominciavano ad abitare
quei luoghi.
E continuarono il lavoro dell'acqua....
Proseguimento racconto Michela Conti
DIECIMILA ANNI DOPO
5 gennaio
Rinasco.
Il sole potente ci riscalda.
Da cubi perfetti e taglienti di ghiaccio, ci sciogliamo in gocce leggere e morbide d’acqua.
Lentamente, viscose come miele, scivoliamo per le cime aguzze della montagna.
A poco a poco altre gocce mi raggiungono.
Non siamo solo più io e le mie sorelle, ora siamo un torrente di montagna, fresco e sottile.
Ci sentiamo felici, anche se questo percorso è da anni che lo osserviamo, passive.
Calcoliamo il tempo in modo diverso dagli esseri umani, sappiamo di non morire mai, perciò siamo
diventate pazienti e silenziose.
Ah, se potessimo parlare! Quanto saprebbero gli umani…
Per ora ci limitiamo a scendere per la cascata che ci porterà alla centrale.
E’ stata costruita poco tempo fa, perciò non abbiamo ancora capito molto bene il nostro compito.
A quanto pare basta spingere con tutta la nostra forza una gigantesca turbina.
Al resto ci pensano gli uomini.
Non è proprio un’ impresa facile, però ci fidiamo degli esseri umani.
Vogliamo loro molto bene; senza dubbio sono gli animali che ci sono venuti meglio.
Tappa numero 1, superata.
Il cielo sta iniziando ad imbrunire e noi siamo stanchissime.
Senza che nessuna lo dica, come per un tacito accordo, ci addormentiamo una dopo l’altra e
scorriamo lentamente, cullate dalla corrente.
6 gennaio
Pronta per la pianura.
Durante la notte abbiamo praticamente trascorso tutta la parte del percorso in montagna.
Un po’ triste, perché so che sto per essere sfruttata di nuovo, mi faccio strada fra le altre gocce
ancora insonnolite per arrivare per prima alla tappa numero due.
La centrale termoelettrica.
Esiste già da diversi anni pertanto ho capito, ascoltando i discorsi degli uomini, come funziona.
In poche parole ci riscaldano così tanto da farci diventare incorporee, leggere come polvere.
Poi usano la nostra energia per mettere in rotazione una turbina simile alla precedente;
successivamente prendono il movimento delle pale e ne ricavano energia elettrica.
Intanto noi abbiamo superato la turbina e siamo arrivate dentro il condensatore, esauste.
A poco a poco la sensazione di leggerezza ci lascia e ritorniamo gocce.
Infine ci rilasciano nel fiume.
Nonostante la stanchezza dobbiamo andare avanti e compiere il nostro ciclo.
Il cielo è nuovamente diventato roseo.
E’ il tramonto: ora di dormire.
10 gennaio
Mi sveglio quando il sole è già alto in cielo e ci illumina come tante piccole lampadine.
Fortunatamente in questi giorni non c’è pericolo di pioggia: solitamente le gocce che ci
raggiungono con le acque piovane sono di pessimo umore!
Ci troviamo nella zona est della Pianura Padana.
Questo lo so perché mi piace ascoltare i contadini che coltivano le terre vicine a noi.
Con quel lieve accento simpatico, che marca e allunga l’ultima vocale delle parole.
Siamo le acque del Po.
Ci troviamo vicino alla tappa tre.
La peggiore.
In questo punto gli uomini rilasciano nel fiume litri e litri di scarti industriali e scorie inquinanti.
La puzza è del tutto insopportabile.
Svogliate e in pessima compagnia, raggiungiamo la foce.
In meno di un secondo percepisco già l’odore pungente e salato delle altre compagne, le gocce del
mare.
Chissà come dev’essere bello essere gocce salate, ma io sono nata per essere una goccia dolce e so
già che appena mi addentrerò nel mare, evaporerò.
Ed ecco avverare le mie previsioni.
Divento leggera come un fiocco di neve, volteggio verso l’alto, incorporea, finché non raggiungo le
nuvole.
Qui condenso e torno a essere una goccia.
E’ una bellissima sensazione che mi culla e mi fa addormentare.
15 gennaio
Mi risveglio.
Provo a muovermi, ma sento di essere bloccata.
Ma certo, ho dormito così tanto da perdermi il viaggio fino alla montagna e la discesa sotto forma di
neve!
Quanto maledico la mia pigrizia…
Sarà per la prossima volta.
E’ questo il bello di non avere mai una fine: c’è sempre una seconda chance.
Non vedo l’ora, nel prossimo viaggio, di vedere cos’ha costruito l’uomo.
Eh già, abbiamo fatto proprio un bel lavoro con lui, peccato però non aver avuto il tempo di
educarlo.
Giudizio dello scrittore Edoardo Angelino
Il racconto riprende lo stile dell'inizio proposto, dimostra buona conoscenza dei problemi ambientali
e dei fenomeni fisici e rende con garbo e ironia il ciclo dell'acqua.