Il tema della Pietas, all`interno della Storia della Filosofia, è sempre

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Il tema della Pietas, all`interno della Storia della Filosofia, è sempre
La Pietas come solidarietà e impegno
Il tema della Pietas, all’interno della Storia della Filosofia, è sempre stato vivo e presente con
significati strettamente legati all’ambiente socio-teoretico, di cui rifletteva comportamenti e
aspettative. Già nell’antica Grecia, Socrate, “il più sapiente di tutti gli uomini”1, è stato accusato di
asébeia, empietà, e di corruzione dei giovani. Come ben evidenzia Platone, le due accuse
potrebbero benissimo essere una sola, poiché il non credere negli dei della città costituisce pessimo
esempio per i giovani. Socrate, però, è innocente e le accuse sono solo strumentalizzazioni
politiche. Il tafano che molesta e stimola continuamente i cittadini, con l’ossessionante domanda
“
;” (“Che cos’è?”), deve morire. Il Logos, la ragione, non ha senso in una società corrotta e
intenta a celebrare se stessa. Queste sono le vere ragioni della condanna a morte di Socrate, che
voleva una convinta, autonoma e cosciente formazione del cittadino, non improntata, cioè, alla
scalata politica e all’arricchimento materiale. I sofisti erano accusati di “rendere forte il
ragionamento debole e di indagare le cose del cielo e di sotterra”, stessa accusa rivolta a Socrate da
Aristofane. Stando a questa, Socrate corrompeva i giovani in quanto insegnava loro a pensare in
modo diverso dalla tradizione, introducendo nuove divinità. Se, da una parte, empietà e corruzione
dei giovani rappresentano un inscindibile negativo rapporto dicotomico, dall’altra, eusébeia (pietas)
e formazione dei giovani ne determinano l’aspetto positivo. Tutto ciò, infatti, costituisce il nucleo
essenziale della riflessione cui il compianto prof. Franco Di Michele intendeva sottoporre
l’attenzione degli studenti di questo Liceo con una serie di proiezioni sul tema della pietas. La
pietas, cioè, era da intendere come rapporto intergenerazionale tra docenti e allievi, alla stessa
stregua di quanto avveniva nella ristabilita democrazia ateniese alla fine del secolo V a. C., quando,
dopo la sconfitta di Atene da parte di Sparta, il ripristino delle antiche istituzioni non poteva più
reggersi su valori ormai superati. Socrate intendeva che l’educazione dei giovani si costituisse
ancora sulle solide basi di valori intramontabili, al di là degli insegnamenti dei sofisti, basati su false
e inconsistenti premesse, ma finalizzati al raggiungimento di beni effimeri quali il potere e la
ricchezza. Compito delle istituzioni e della Scuola, in particolare, è quello di erigersi a maestri di
vita, dando a ciascuno i mezzi più adatti e idonei per affrontare, con impegno e consapevolezza, il
proprio futuro. Solo così scaturisce la significativa socratica ignoranza, appresa come coscienza del
sé e ricerca della verità, le quali escludono l’errore come scelta deliberata e propongono la virtù
come saggezza e conoscenza. L’impegno personale di Socrate nella vita sociale e politica di Atene e
nell’accettazione della sentenza di morte è l’espressione più tipica della pietas, che si manifesta in
tutto il suo fulgore quando il maestro rifiuta l’offerta di Critone, disposto a corrompere, con le
proprie “sostanze”, magistrati e carcerieri2. Ecco allora che la pietas è data soprattutto dal rispetto
della parola data e tutti i discepoli restano meravigliati per la serenità e la mitezza d’animo con cui
Socrate va incontro alla morte, facendo cose normalissime con ironia e ilarità. Tutta la Filosofia
antica ha sviluppato, nelle sue diverse realtà, questo atteggiamento. Il Cristianesimo, inoltre, ha dato
un senso nuovo, più marcato e autentico al termine pietas, inteso come sentimento di amore, di
fratellanza e di reciprocità. In questo contesto, però, non è il caso di dilungarsi, poiché tali aspetti
risultano estranei alla trattazione che ci eravamo imposti.
A questo punto, infatti, il rapporto si sposta sul piano della intersoggettività, intesa come
superamento del solipsismo e della transindividualità, atteggiamenti tipici, questi ultimi, di quasi
tutta la filosofia moderna che con Cartesio afferma il cogito (autoreferenza dell’Io nel costituirsi
dell’Egologia avversa alla relazionalità), ma che non si è mai posto il problema dell’alterità.
Immanuel Kant, dopo che David Hume aveva ritenuto la simpatia, o sentimento di socievolezza
(pietas), base della morale, superava tale difficoltà con la Critica della ragion Pura e con la
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2
Cfr.: PLATONE, Apologia di Socrate, traduz. Italiana a cura di M M. Sassi, Fabbri Editore, 23 b, Milano, 1994.
PLATONE, Critone, F. Fabbri Editore, , 45 b, Milano 1994.
Metafisica dei costumi, laddove il riconoscimento della dignità della persona umana è garantito
dall’appercezione trascendentale, sorta di “Io universale” del quale partecipa ciascun “Io
individuale”, e dalla stessa assolutezza, autonomia e universalità della legge morale. Sarà ancora
l’Idealismo logico hegeliano, nella Fenomenologia dello Spirito con il riconoscimento
dell’autocoscienza da parte delle altre e nella Filosofia dello Spirito Oggettivo, in particolare, con
l’affermazione dello Stato etico, a dissolvere il soggettivismo individualistico senza senso nel
primato della ragion di Stato. Altamente significativa in merito è la formazione pietistica di Kant e
di Hegel. Il Pietismo, come movimento o setta all’interno del protestantesimo ufficiale, affermava,
tra l’altro, la piena appartenenza dell’individuo alla collettività e ai “collegia pietatis” e/o
“filobiblica”. Al di là delle “cialtronerie” hegeliane, la schopenhaueriana etica della pietà, indica il
cammino di liberazione e di redenzione umana dal dolore della vita con la generosità, l’altruismo e
la solidarietà, come partecipazione alle sofferenze altrui (simpatia). Anche Karl Marx, contro la
categoria del singolo di Kierkegaard, sosterrà la storia e la coscienza di classe del proletariato al di
sopra dell’individuo impotente e isolato. Diversamente Nietzsche, contro la filosofia del gregge, pur
auspicando una universale palingenesi proiettata a generare un nuovo modello antropologico,
divulgherà il “pensiero forte” della morte di Dio, dell’Eterno ritorno, del nichilismo e
dell’übermensch, cui ogni individualità dovrà aspirare per affermare sé stessa e vivere gioiosamente
la vita. Particolare attenzione sull’argomento verrà posta, nel XX sec., dalla Fenomenologia di
Husserl e posthusserliana. Il disagio nel ripensare il Cogito e le stesse teorie dell’intersoggettività,
pongono quest’ultima nel rapporto irriducibile, ma non solo di natura teoretica, dell’incontro di un
io con un tu. Secondo Enrico Castelli, l’io richiederebbe un tu, ma al posto del tu incontra le cose,
le quali, a loro volta, si impongono con la tecnica che ci illude di disporre degli altri “al fine di
liberarci dalla tecnica altrui, per non essere sopraffatti dalle distruzioni della tecnica stessa, in
possesso di chi ha interesse di sorprenderci”3. In tali situazioni il tempo dell’altro appare veramente
esaurito. L’intersoggettività assume una connotazione teoreticamente tipica in Pantaleo
Carabellese, neoidealista e ultimo tra i metafisici laici, secondo la cui Critica del Concreto è
determinata da “quell’essere uno di quei molti che siamo noi”4, sottolineando così più l’aspetto
ontologico che quello ontico, come è, invece, proprio dell’Esistenzialismo heideggeriano.
Certamente tale soggetto unico, in quanto intersoggettivo, non è diverso da quello confessato da
Husserl, a garanzia del superamento del paradosso della soggettività5 che nel mondo vive le proprie
esperienze, solo in virtù del rapporto all’altro. L’io, cioè, appercepisce l’altro come proprio simile.
In Husserl il riconoscimento dell’altro avviene sul piano gnoseologico e non su quello etico, come
vorrebbe Levinas, pertanto, non è primordiale e originario, ma si costituisce come semplice
analogia rispetto al soggetto. In una società multietnica, quale la nostra, ove spesso gli altri sono
pregiudizievolmente considerati diversi a causa di contrapposizioni politiche, ideologiche, religiose,
culturali, razziali, nazionaliste, economiche o solo per esperienze difformi dalle nostre, la
reciprocità interpersonale è fortemente recuperata, mediante la relazionalità empatica, da Hedit
Stein, allieva di Husserl e martire della discriminazione nazista in quanto donna ed ebrea. Processo
quest’ultimo che porta non solo al riconoscimento dei valori dell’altro, ma soprattutto alla scoperta
della propria persona e, oggi, non è cosa da poco.
La dimensione in cui l’uomo rivela la propria essenza intersoggettiva e le proprie peculiarità è la
sfera politica, nella quale intrattiene le relazioni di reciprocità con gli altri. L’allontanamento, però,
dalla vita politica dell’uomo contemporaneo, secondo Hannah Arendt, e l’esclusione da ogni
partecipazione attiva alla vita comunitaria creano le condizioni di una moderna alienazione che è
alla base del costituirsi dei totalitarismi del Novecento. Il fine della politica è il bene comune,
l’impegno etico ad andare oltre ogni fine individuale, utilitaristico ed interessato, che ha prodotto la
perdita della libertà con le varie forme di totalitarismo. Solo con la Vita Activa, cioè, nella vita
3
ENRICO CASTELLI, Il tempo esaurito, Bocca, Bocca, Roma, 1954, pag. 51.
PANTALEO CARABELLESE, La Critica del Concreto, Signorelli, Milano, 1940, pag. 51.
5
Il paradosso della soggettività in Husserl è dato dalla pretesa della coscienza intenzionale del soggetto, che è parte del
mondo, a determinarsi come luogo in cui si costituisce il senso del mondo.
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politica, si può essere autenticamente per gli altri. Bisogna lottare per riappropriarsi della libertà e
tramutare in bene radicale l’esistentiva radicalità del male, che affonda le proprie radici
nell’antisemitismo, nel nazismo e nell’imperialismo e colonialismo. Quasi un assurdo, la banalità
del male è data dall’incapacità di pensare in modo autonomo e dall’essere esecutore di ordini
superiori. Su questo il nazismo ha costituito la sua forza e fortuna e la Arendt è stata fraintesa,
poiché non definiva banale il genocidio ma l’assenza di pensiero nei suoi esecutori6.
Un ulteriore tentativo di recuperare l’altro è portato avanti da Emmanuel Levinas, che intende
andare oltre il semplice aspetto ontologico (Dall’esistenza all’esistente) e pensare l’altro come
altrimenti. La natura propria dell’essere non è di carattere conoscitivo o teoretico ma etico; si
compie, cioè, nell’incontro dell’uomo con l’altro, non nella sua genericità bensì nell’atto concreto
delle diverse esperienze di vita, la quale trova il suo vero senso nell’essere per l’altro, nel
riconoscersi nel volto dell’altro. L’Io non è il soggetto astratto e puro dell’Idealismo, ma quella
fragile esistenza consegnata alla responsabilità e al rispetto degli altri. Per Marco M. Olivetti, il
volto dell’altro, così come espresso da Levinas, va ancora oltre la singolarità e lo percepisce,
nell’atto comunicativo, come “subsistema sociale”. In questa situazione il riconoscimento dell’ego
avviene tramite l’alter: “L’infante – etimologicamente colui che non parla – apprende a parlare
grazie a quell’atto comunicativo altrui che nell’attendere la risposta dell’infante lo costituisce
come soggetto parlante”7.
Il riconoscimento ed il recupero dell’altro, dopo aver esposto, secondo uno schema tipicamente
filosofico, il pensiero dominante in materia, nella realtà dell’esperienza individuale deve avvenire
con quel trasporto naturale che è tipico della socialità infantile, scevra da qualsiasi pregiudizio.
Solidarietà non significa solo fare elemosina, ma essere presenti laddove l’assenza implicherebbe
danno e difficoltà per gli altri.
Michele Ciliberti
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Per questi ultimi aspetti si suggerisce di consultare la bibliografia di Hannah Arendt ed in particolare le seguenti opere:
Le origini del totalitarismo, Vita Activa, La banalità del male, tutte edite in traduzione italiana dalla Feltrinelli, Milano.
7
MARCO M. OLIVETTI, Analogia del soggetto, Laterza, Bari, 1992, pag 213.