La città dei bambini

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La città dei bambini
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Dello stesso autore
in altre nostre collane:
Guida al giornalino di classe
«Universale Laterza»
Se i bambini dicono: adesso basta!
«i Robinson/Letture»
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Francesco Tonucci
La città dei bambini
Un modo nuovo di pensare la città
Editori Laterza
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© 1996, 1997, 2005,
Gius. Laterza & Figli
Nella «Economica Laterza»
Prima edizione 2005
Edizioni precedenti:
Nei «Robinson»
Prima edizione 1996
Seconda edizione, con una Prefazione
di Norberto Bobbio, 1997
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel gennaio 2005
Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
CL 20-7551-2
ISBN 88-420-7551-5
È vietata la riproduzione, anche
parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche
ad uso interno o didattico.
Per la legge italiana la fotocopia è
lecita solo per uso personale purché
non danneggi l’autore. Quindi ogni
fotocopia che eviti l’acquisto
di un libro è illecita e minaccia
la sopravvivenza di un modo
di trasmettere la conoscenza.
Chi fotocopia un libro, chi mette
a disposizione i mezzi per fotocopiare,
chi comunque favorisce questa pratica
commette un furto e opera
ai danni della cultura.
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A Federico, mio nipotino, e a tutti i nipoti
perché sono loro il nostro futuro.
A tutti noi nonni,
perché sappiamo dedicare la parte più libera
e disinteressata della nostra vita
a costruire il futuro dei nostri nipoti
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Presentazione
La città dei bambini esce alla fine del 1996 presentando
una nuova filosofia di governo della città, assumendo i
bambini come parametro e portando come modello i primi sei anni dell’esperienza di Fano. Nei primi sei anni il libro ha avuto sette edizioni, è stato tradotto in spagnolo e
catalano ed ha avuto un’edizione argentina. L’autore ha
tenuto più di cento conferenze in città diverse in Italia,
Spagna e Argentina. Hanno aderito al progetto decine di
città italiane, spagnole e argentine. In queste città si sono
avviate esperienze, si è data la parola ai bambini, si sono
realizzati progetti elaborati da loro.
Nel 2002 si è ritenuto doveroso dar conto delle nuove
idee, delle nuove esperienze, e si è valutato che non fosse sufficiente una riedizione ampliata del primo libro. Esce
così Se i bambini dicono: Adesso basta!. Questo secondo libro vuole essere il seguito e l’aggiornamento di La
città dei bambini, ma invece di raccontare le varie esperienze delle diverse città preferisce dare la parola ai bambini. 26 frasi, proposte o proteste di bambini diventano i
26 capitoli del libro. In ogni capitolo l’autore risponde a
due domande: Perché un bambino dice questo? Cosa si
potrebbe fare ascoltando i bambini? Ne nasce così un’ampia analisi della condizione infantile di oggi e un vasto repertorio delle iniziative, attività ed esperienze realizzate
dalle città in questi anni ed altre possibili per dare concrete risposte alle attese dei bambini. L’esperienza nata nel
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1991 a Fano diventa un’esperienza internazionale e nel
2001 Roma aderisce e ne diventa la città capofila.
La città dei bambini, che ora arriva nella «Economica
Laterza», rimane il testo della proposta, dell’invito agli amministratori a rompere gli schemi che hanno provocato il
degrado delle città e reso problematico il loro futuro; Se i
bambini dicono: Adesso basta! è un libro che arricchisce
le proposte e le esperienze ma che allarga anche il campo dei destinatari: è diretto agli amministratori e ai tecnici delle città, ai progettisti, agli insegnanti, agli studenti, ai
genitori e anche ai bambini.
Francesco Tonucci
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Prefazione
Caro Frato,
mi ha fatto molto piacere ricevere le bozze del tuo libro. Le ho lette subito perché tu scrivi in modo semplice,
chiaro, scorrevole, da persona educata e gentile che ama
i suoi lettori e li aiuta a capire senza sforzo il testo, con
ragionamenti corretti, con parole piane del linguaggio comune, con esempi che tutti possono comprendere e i casi citati fanno parte delle esperienze di ognuno di noi. Mi
ha subito attratto la bella trovata, che si legge all’inizio, dove la città di oggi diventa per i bambini il bosco delle favole. Una volta, non moltissimo tempo fa i bambini avevano paura del bosco, dove s’incontravano i lupi e le streghe cattive, mentre si sentivano al sicuro in città. Ora le
parti si sono rovesciate, perché la città è diventata ostile:
«grigia, aggressiva, pericolosa, mostruosa». Il libro è un
continuo elogio della fantasia, della creatività, della libertà,
dell’intelligenza, della spontaneità, della straordinaria ricchezza di idee e di sentimenti, del mondo dei bambini.
Anche per me, non solo per i bambini, la città è un inferno. Ma io mi difendo uscendo sempre meno di casa.
Ormai la mia vita può svolgersi tra le quattro pareti del
mio studio senza troppi inconvenienti. Ma non ho dimenticato la mia vita di bambino. Anzi, riappare sempre più
nitida alla mia memoria. I più bei ricordi della mia infanzia sono quelli delle vacanze in campagna, quando giocavamo senza alcun pericolo all’aperto e vagabondavamo
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per le stradette dei campi, dove passava di tanto in tanto
solo qualche carro trainato da buoi.
Ma anche la mia città era completamente diversa. Abitavamo a Torino in un quartiere di recente costruzione, in
una casa, come si diceva allora, «signorile», all’angolo di una
strada morta, che finiva poco oltre il nostro portone. Si
chiamava via Gasometro (oggi ha cambiato nome), perché
il quartiere era stato costruito dove era il vecchio edificio,
ormai distrutto, che dispensava calore e luce alla città (i fanali delle strade quando ero bambino erano ancora a gas).
Bastava scendere le scale per raggiungere la nostra «sala giochi». Non c’era alcun pericolo. Scendevamo da soli.
Non giocavamo sulla strada, perché era acciottolata. Giocavamo sul marciapiede. I nostri giochi erano giochi da
«marciapiedi». Che ora, in città, sono scomparsi.
Tra questi, la trottola, che i più bravi prendevano in mano, mentre girava, e scagliavano contro la trottola dell’avversario per abbatterla; le palline (o biglie) che si facevano
correre spingendole con uno scatto del pollice e dell’indice; la «settimana», gioco più femminile, a dire il vero, che
consisteva nel saltare con una gamba sola su una figura
tracciata col gesso a forma di rettangolo, ove ogni casella
rappresentava un giorno e vinceva chi arrivava alla domenica senza cadere; le «plance», come si chiamavano le figurine staccate dalle scatole di cerini che, ammucchiate l’una sull’altra fino a farne una torretta, venivano colpite a distanza con una pietra piatta e che si faceva scorrere sul
marciapiede e vinceva chi ne abbatteva di più.
Qualche anno più tardi, quando eravamo al liceo, tornando da scuola in cinque o sei che abitavamo tutti dalle
stesse parti, percorrevamo una lunga via dritta e deserta
(ora diventata quasi impercorribile, tante sono le macchine posteggiate da una parte e dall’altra, anche in doppia
fila), così deserta che avanzavamo dando calci a una palla, come se fossimo degli attaccanti di una squadra di calcio sino al punto in cui ci scioglievamo e ognuno andava
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a casa per la sua strada. A questo punto c’era il portone
di una chiesa sempre chiusa che faceva da porta per i nostri ultimi tiri.
Si giocava anche nei cortili. Passavo ore sul balcone della cucina a guardare i bambini dei caseggiati contigui, che
giocavano a rimpiattino, a rincorrersi, ai quattro cantoni,
ai ladri e carabinieri. Era un po’ come giocassi anch’io con
loro: imparavo giochi nuovi, che rifacevo coi miei amici nel
piccolo cortile di casa nostra, dove sovrano era il figlio della portinaia molto più bravo di me in tutti i giochi.
Ora anche nei cortili lo spazio è sempre più ristretto.
Ristretto da che cosa? Ancora una volta dalle automobili,
che hanno indotto gli abitanti delle case a costruirsi, ciascuno il proprio garage. I miei figli non hanno mai giocato in cortile. E poi i «grandi» hanno cominciato a lamentarsi del chiasso che fanno i bambini coi loro schiamazzi e
hanno loro proibito di giocare nelle ore post-meridiane
quando tornano da scuola. Non si lamentano però del
brontolio che fanno le macchine uscendo dalla rimessa al
mattino e rientrandovi alla sera.
È vero: i bambini sono scomparsi dalla città. Si incontrano soltanto nei giardinetti dove i loro giochi sono obbligati: lo scivolo e il girotondo. Io abito in una lunga strada con portici, dove i bambini potrebbero scendere per
giocare senza pericolo. Ma si vede che si è persa l’abitudine. I portici sono stati progettati, non per far giocare i
bambini, ma per favorire i negozianti. I portici sono, come le aree pedonali, uno spazio per i negozi e, se mai, per
i grandi che possono passeggiare più liberamente, guardando le vetrine. Di queste interessano ai bambini solo
quelle dei giocattoli o qualche raro negozio di animali da
salotto, come ce n’è uno sotto casa mia, fermata obbligata dei miei nipotini, quando vengono a trovare il nonno.
Non so perché ti ho raccontato queste cose. È stato un
modo per esprimerti la mia simpatia per la tua città ideale.
Norberto Bobbio
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Premessa
I cittadini soffrono i mali della città, ma sembra non chiedano, almeno in forma esplicita, che la città cambi. Pensano che questo non sia più possibile, sono rassegnati.
Chiedono allora che ci si possa almeno vivere un po’ meglio, che vengano alleviati i disagi. Chiedono così più servizi per sopportare meglio il malessere della città.
Sanno che chi soffre di più sono i bambini, non sanno
come aiutarli e allora, sempre più spesso, decidono di averne meno o di non averne più: «Come si fa ad avere
bambini in queste condizioni?».
Chi ha più consapevolezza, chi ha più mezzi, lascia invece la città e va a vivere nei piccoli centri o in campagna:
«Si vive una sola volta!».
Due modi di fuggire e di manifestare impotenza e disperazione.
Atteggiamenti questi che lasciano la città più sola e più
debole.
Ma oggi nella città c’è una persona importante, il sindaco; importante perché i suoi concittadini, e non il suo
partito, gli hanno consegnato il governo della città. Probabilmente i voti per essere rieletto un sindaco li può guadagnare anche dando migliori servizi, rendendo più sopportabile la città, in modo che alla fine del mandato i suoi
elettori possano dire «Però oggi si sta meglio di quattro anni fa» e decidere di rieleggerlo. Ma se un sindaco più che
alla sua rielezione pensa al futuro della sua città, ai figli e
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ai nipoti dei suoi concittadini, allora deve mettere in moto la speranza. Deve partecipare ad un sogno: credere che
la sua città domani possa tornare ad essere bella, sana, sicura; possa tornare ad avere i bambini che giocano per
strada. Deve quindi iniziare a lavorare con la sua squadra,
con il Consiglio, con tutti i suoi colleghi adulti, per fare in
modo che presto valga di nuovo la pena di essere bambini.
In questi ultimi anni molti sindaci italiani e stranieri, interpretando un bisogno dei loro concittadini e delle loro
città, hanno manifestato interesse al progetto che presento in queste pagine. Nella accoglienza delle proposte,
alcune di senso comune, altre ardite, altre provocatorie,
ho sentito l’urgenza di una soluzione che le formule ragionevoli della politica e dell’economia sembra non possano dare.
In risposta a questa urgenza il libro nasce in fretta. Dopo le tante conferenze pubbliche, i tanti seminari di Giunta, i tanti colloqui, mi è sembrato necessario uno strumento per continuare un dibattito sulle idee e un confronto sulle iniziative. Si perdoni quindi la forma diretta e
colloquiale, le possibili ripetizioni o le eccessive sottolineature. È un materiale di lavoro che vuol crescere e migliorarsi grazie al contributo di tutti coloro che lo vorranno riconoscere ed utilizzare.
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AVVERTENZA E RINGRAZIAMENTI
Le «Indicazioni bibliografiche», le interviste delle schede 20,
21, 22 e 23 della parte terza e i dati della scheda 9 sono stati
curati da Antonella Rissotto, collaboratrice dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR.
Ringrazio i colleghi Vito Consoli e Antonella Rissotto per
aver letto e corretto le varie versioni di questo libro.
Ringrazio i sindaci di Fano e gli assessori che hanno voluto
e difeso il Laboratorio, Beatrice Della Santa e Gabriella Peroni
che hanno dato forma e realtà alle idee elaborate insieme; Paola Stolfa, Giovanna Mancini e Ippolito Lamedica, che da architetti e urbanisti hanno fatto crescere le idee del Laboratorio, animando i gruppi dei bambini progettisti; Alfredo Pacassoni che
ha condiviso la nascita del progetto e i suoi primi passi.
Ringrazio il sindaco e la Giunta di Palermo che credono in
questo progetto e lo vogliono portare come sfida per il futuro
della loro città.
Ringrazio Fiorenzo Alfieri, Raymond Lorenzo, Dario Manuetti e Carlo Pagliarini per le interviste.
Ringrazio infine tutti coloro che, volontariamente o involontariamente, hanno suggerito a me, incompetente in molti dei temi trattati, idee e proposte che, senza eccessivi scrupoli e senza poterli citare, ho copiato e utilizzato.
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Parte prima
Il progetto
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Analisi di un malessere
Antefatto: una volta avevamo paura del bosco
Una volta avevamo paura del bosco. Era il bosco del lupo,
dell’orco, del buio. Era il luogo dove ci si poteva perdere.
Quando i nonni ci raccontavano le fiabe, il bosco era il luogo preferito per nascondere nemici, trappole, ansie. Da
quando il personaggio entrava nel bosco noi cominciavamo ad avere paura, sapevamo che poteva succedere qualcosa, che sarebbe successo qualcosa. Il racconto si faceva
più lento, la voce più grave, ci si stringeva gli uni con gli
altri e si aspettava il peggio. Il bosco metteva paura, con
le sue ombre, i suoi rumori sinistri, il canto lugubre del cuculo, i rami che ti acchiappavano all’improvviso.
Ci si sentiva invece sicuri fra le case, in città, nel vicinato. Era questo il luogo dove ci si cercava fra compagni,
ci si trovava per giocare insieme. Erano lì i nostri posti,
quelli per nascondersi, quelli per organizzare la banda, per
giocare a mamma, per sotterrare il tesoro. Erano i posti
dove si costruivano i giocattoli, secondo modalità e abilità
rubate agli adulti e approfittando delle risorse che l’ambiente offriva. Era il nostro mondo.
Nel giro di pochi decenni è cambiato tutto. C’è stata
una trasformazione tremenda, rapida, totale, come mai
ne aveva viste la nostra società, almeno a memoria di storia documentata.
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Da una parte la città ha perso le sue caratteristiche, è
diventata pericolosa e infida; dall’altra sono sorti i verdi,
gli ambientalisti, gli animalisti a predicare il verde, il bosco. Il bosco è diventato bello, luminoso, oggetto di sogno
e di desiderio; la città è diventata brutta, grigia, aggressiva, pericolosa, mostruosa.
La città
Negli ultimi decenni e in modo clamoroso negli ultimi cinquanta anni, la città, nata come luogo di incontro e di
scambio, ha scoperto il valore commerciale dello spazio e
ha stravolto tutti i concetti di equilibrio, di benessere e di
stare insieme, per seguire solo programmi di profitto, di
interesse. Si è venduta. Fino a poche decine di anni fa i
poveri e i ricchi vivevano gli uni vicini agli altri. Le loro case erano ovviamente diverse, le une da poveri e le altre da
ricchi, ma sorgevano negli stessi quartieri. Poi si è dato un
valore diverso al terreno a seconda della sua vicinanza al
centro della città e questo ha stravolto tutto. I poveri non
hanno potuto restaurare le loro casette malsane e senza
servizi, hanno «preferito» venderle per potersi trasferire in
periferia, in case tutte uguali e uguali a quelle presentate
dalla televisione.
I centri storici sono diventati uffici, banche, fast food,
sedi di rappresentanza, alloggi ricchi e sofisticati. Col calar della sera il centro della città si svuota e diventa pericoloso, la gente ha paura di andarci da sola, ci sono i drogati, i ladri, i malfattori. I centri storici, così diversi e ricchi
perché nati da secoli di storia e di cultura, dal piacere delle cose belle e non solo utili, hanno perso la cura, la preoccupazione dei residenti. I luoghi più belli del nostro paese
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sono negati al gioco e alla esperienza dei bambini, al passeggio e al ricordo dei vecchi.
Le periferie sono invece nate in pochi anni, senza piazze, senza verde, senza monumenti. Le periferie sono uguali in tutto il mondo, gli stessi casermoni, le stesse strade grandi e dritte, lo stesso abbandono, perché non sono
nate dalla lenta e costante preoccupazione degli uomini di
avere luoghi di vita adatti e confortevoli per sé e per i propri successori, ma solo grazie alla spinta prepotente della
speculazione.
La città non ha più abitanti, non ha più persone che vivono le sue strade, i suoi spazi: il centro è luogo di lavoro, di compere, di rappresentanza non di vita; la periferia
è il luogo dove non si vive, ma si dorme soltanto... La città
ha perso la sua vita.
La città è diventata come il bosco delle nostre fiabe.
Il castello medioevale era grande, forte, ricco e poco
abitato, circondato dalle casupole, dai tuguri del borgo,
dove abitavano i contadini e gli artigiani che vivevano del
lavoro e della protezione offerti dal signore del castello.
Quando nascono le città si rompe questo rapporto gerarchico e i cittadini si incontrano in un territorio comune
e, pur mantenendo ceti e condizioni diverse, condividono
lo spazio. La piazza diventa il simbolo della città e sulla
piazza si affacciano il palazzo del governo, la cattedrale,
la caserma della guarnigione e il mercato. La città è il luogo in cui i cittadini si incontrano per vendere e comprare,
per difendersi, per pregare, per amministrare la giustizia.
Oggi sembra quasi che la città sia tornata al modello
medioevale: il centro storico ricco e poco abitato, circondato da una periferia povera e a volte misera, che dipende, per la sua sopravvivenza, dal centro ricco.
La città ha rinunciato ad essere luogo di incontro e di
scambio e ha scelto come nuovi criteri di sviluppo la se7
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parazione e la specializzazione. Separazione e specializzazione degli spazi e delle competenze: posti diversi per
persone diverse, posti diversi per funzioni diverse. Il centro storico per le banche, i negozi di lusso, il divertimento; la periferia per dormire. Poi ci sono i luoghi dei bambini: l’asilo nido, il parco giochi, la ludoteca; i luoghi dei
vecchi: l’ospizio, il centro anziani; i luoghi della conoscenza: dalla scuola dell’infanzia all’Università; i luoghi
specializzati per le compere: il supermercato, il centro
commerciale. Poi c’è l’ospedale, il luogo della malattia.
Un esempio: la famiglia, la casa
Una volta andare all’ospedale era un evento del tutto eccezionale, legato a gravi malattie o a gravi traumi. La malattia era una esperienza domestica. Oggi si va in ospedale per qualsiasi esame, per una visita, per un controllo: si
nasce, si vive la malattia e si muore quasi sempre fuori casa, in luoghi separati e specializzati. La famiglia ha perso
la capacità di sopportare esperienze così ricche e così forti, che nella gioia e nel dolore la mettevano alla prova, le
chiedevano continui adattamenti, la rinsaldavano. È noto
che la nascita in ospedale ha significato la vita per tante
donne e per tanti bambini, ma ora le condizioni economiche, igieniche e sociali, permetterebbero alla stragrande maggioranza delle famiglie di vivere nella propria casa
l’esperienza straordinaria del parto. Questo cambiamento, che già sta avvenendo in molti paesi del nord Europa,
garantirebbe un risparmio economico e darebbe la possibilità di nascere dentro la famiglia, fra le braccia del papà,
vicino ai fratelli1. Lo stesso si può dire per la maggioran1
Mumford (1945), che definisce gli ospedali «magazzini delle malattie», riferendosi alla situazione americana, parlava già allora della necessità di evitare il
parto in ospedale (vedi Appendice 3).
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za degli stati di malattia e per la grande esperienza della
morte. Che cosa rimane allora come esperienza familiare? Solo la routine, quello che si ripete senza emozioni e
senza variazioni ogni giorno. Si parla molto di crisi della
famiglia, bisognerebbe aiutarla a vivere esperienze importanti come queste per rimetterla in piedi, per darle forza.
Certo ci vorrebbe una chiara volontà e disponibilità al cambiamento, ad andare avanti in un modo nuovo, tenendo
presenti le nuove condizioni.
E insieme alla famiglia si è trasformata anche la casa,
rispondendo a queste nuove necessità. È una casa senza
bambini, senza anziani. Si è sviluppata in altezza rispondendo alla speculazione sulle aree urbane e senza pensare a come potrà scendere a giocare con gli amici un bambino di quattro, cinque anni, né a come potrà viverci senza impazzire un vecchio che non può più vedere i suoi luoghi abituali, passeggiare, incontrare un amico. È una casa che non sa più prevedere e sopportare il chiasso dei
bambini che giocano, mentre si è adattata bene al rumore
terribile delle sirene, a quello sgradevole dei clacson. Eppure da sempre le scale sono state un luogo privilegiato di
gioco, così come lo sono stati gli androni e i cortili; così come da sempre gli adulti hanno saputo accettare e tollerare
quel chiasso sano, seppur fastidioso, dei bambini che giocano. Per questi piccoli e vecchi prigionieri, hanno inventato i balconi, di nuovo spazi separati, lontani, fittizi.
Un altro esempio: il centro commerciale
La città come ambiente unitario, come ecosistema, direbbe oggi un ambientalista, sta scomparendo e sta diventando sempre di più la somma di luoghi specializzati, autonomi ed autosufficienti, ciascuno con il proprio parcheggio, il proprio posto di ristoro, il bancomat, la guar9
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dia giurata... Insomma ogni luogo tende ad essere una piccola città. Una volta comprare significava compiere un
percorso, entrare in posti diversi, incontrare varie persone, ogni giorno le stesse, tanto da poter riprendere da un
giorno all’altro una confidenza, un racconto o scambiarsi
l’ultima notizia. Oggi per comprare si effettua un trasferimento in un’altra zona della città, dove si può comprare
tutto, magari una volta al mese. Un esempio tipico è quello del centro commerciale, che sta sorgendo ai margini
della città proponendosi come città piccola, autonoma,
efficiente e godibile. Città senza macchine, con strade e
piazzette, sicura per i bambini, per i quali sono spesso
pensati spazi dedicati e assistiti; dove si può mangiare, fare operazioni bancarie, andare dal parrucchiere e naturalmente comprare, comprare di tutto. Un bel posto, per
molte famiglie, dove darsi un appuntamento per passare
insieme il sabato. Il degrado rende la città invivibile e noi
ci difendiamo costruendo luoghi sicuri, protetti, dove passare tranquilli il nostro tempo libero.
Questa è una tendenza costante nella città di oggi, coerente con la logica della separazione e della specializzazione: creare servizi, strutture sempre più indipendenti e
autosufficienti. Questo avviene per l’ospedale, per lo stadio, per i grandi musei, per il campus universitario.
L’equivoco dei servizi
La separazione produce certamente disagio, malessere,
crea nelle persone lacerazioni con la propria storia, con i
propri affetti, ostacola la comunicazione, l’incontro, la solidarietà. Gli amministratori della città, responsabili di questa perversa trasformazione delle caratteristiche della vita
urbana, debbono in qualche modo recuperare il consenso
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dei loro cittadini e prima di tutto dei loro elettori, pena la
perdita del loro potere. In alcuni casi, non rari, gli amministratori hanno preferito non farsi carico del disagio dei
cittadini e hanno catturato il loro consenso con forme
ignobili di accordi clientelari, ma questi non interessano il
nostro discorso. In altri casi gli amministratori si sono invece fatti carico del malessere dei concittadini e hanno sviluppato, a compensazione dei disagi e a garanzia del consenso, la politica dei servizi. I servizi pubblici sono diventati il simbolo e il vanto della buona amministrazione: «Sei
costretto a vivere lontano dal centro urbano, lontano dagli uffici, dai luoghi di divertimento e di cultura? Non ti
preoccupare, ti metto a disposizione mezzi di trasporto
pubblico sempre più rapidi, sempre più efficienti»2; «Non
sai come fare con i tuoi bambini, non hai possibilità e tempo per poterli educare? Non ti preoccupare, ti apro nidi
di infanzia, centri di incontro, ludoteche...»; «Non sai come assistere i tuoi vecchi, nel tuo piccolo appartamentino, al dodicesimo piano, con i tuoi orari di lavoro? Non ti
preoccupare, ti offro centri anziani, viaggi, vacanze e ospizi per i vecchi».
La specializzazione qualifica il servizio e compensa la
separazione. Ai bambini e ai vecchi non si permette o si
rende difficile vivere nella propria famiglia, nella propria
casa, nella propria città, ma si offre loro il meglio che possono assicurare la moderna psicologia, pedagogia, pediatria, dietetica, geriatria. Meglio di come potrebbe fare la
famiglia. L’importante è che il cittadino che vota sia soddisfatto e lo sia nel tempo breve del mandato elettorale. I
tempi dei politici sono brevi, debbono superare gli esami
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Ho incontrato in aeroporto un signore che rientrava da un viaggio in Giappone, dove aveva partecipato ad una mostra commerciale. Lo avevano alloggiato in un albergo che distava 150 chilometri dal luogo della mostra e ogni mattina veniva «sparato» da un treno in appena mezz’ora dal suo albergo ai locali
della mostra, lo stesso tempo che io impiego per percorrere a Roma la distanza da casa all’Istituto. Un servizio estremamente efficiente, che rende però naturale far risiedere una persona a 150 chilometri dalla città dove lavora!
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ogni quattro anni; i progetti a lunga scadenza non pagano, non portano voti.
In tutta questa operazione, che può sembrare ragionevole e forse anche meritoria, c’è qualcosa di preoccupante, di diabolico: la perdita della speranza, la rassegnazione. La città la si dà ormai per persa, i servizi, i migliori servizi, aiutano a sopportarla, senza sperare di cambiarla: «È
il costo del progresso», «Indietro non si può tornare». Sembra che il progresso sia un pacchetto «tutto compreso»:
l’automobile e la lavatrice, insieme ai vantaggi, portano
necessariamente l’inquinamento, la droga, la violenza, la
paura. Tutto insieme, prendere o lasciare.
Un accordo fra adulti
In questa situazione, difficile per tutti, il bambino soffre di
più. Con lui la compensazione, la monetizzazione del danno, non funziona. I servizi, pensati per l’adulto, non sono
buoni per il bambino. Se a lui togliamo il piccolo spazio per
giocare sotto casa e glielo ridiamo magari cento volte più
ricco e più grande a un chilometro di distanza, secondo la
logica della separazione e della specializzazione, di fatto
glielo abbiamo tolto e basta: nel parco lontano può andare solo se un adulto lo accompagna, quindi accettando gli
orari dell’adulto; può andare solo se si cambia, altrimenti
c’è da vergognarsi a portarlo fuori, ma se si cambia non si
può sporcare e se non si può sporcare non può giocare;
chi lo accompagna lo deve aspettare e mentre lo aspetta
lo sorveglia e sotto sorveglianza non si può giocare.
I parchi gioco sono un interessante esempio di come i
servizi siano pensati dagli adulti per gli adulti e non per i
bambini, anche se questi ne sono i destinatari dichiarati.
Questi spazi per bambini sono tutti uguali, in tutto il mon12
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do, almeno in quello occidentale, rigorosamente livellati,
spesso recintati e sempre dotati di scivoli, altalene e giostrine.
Il primo strumento che entra in azione per la realizzazione di un giardinetto, di un parco per bambini è la ruspa. Sembra quasi che, secondo gli adulti, ai bambini piaccia giocare nel piano e invece lo spazio orizzontale impedisce loro di nascondersi che è certamente una parte importante del giocare e garantisce invece solo una facile
sorveglianza. Il bambino deve giocare vigilato! Noi adulti
abbiamo rapidamente dimenticato che il gioco è legato al
piacere e il piacere si coniuga male con il controllo e la vigilanza (proviamo a pensare alle nostre esperienze di piacere da adulti!).
Un secondo aspetto preoccupante è che sono gli adulti ad indicare quali giochi i bambini debbono fare in questi spazi. Le attrezzature sono pensate per attività ripetitive, banali, come dondolare, scivolare e girare, quasi che
il bambino assomigli più ad un criceto3 che ad un esploratore, ad un ricercatore, ad un inventore. Sono giocattoli per giochi specifici, che debbono essere usati così come
gli adulti li hanno pensati e siccome rapidamente i bambini si stancano, per farli diventare diversi e nuovi, cercano
di utilizzarli in maniera non ortodossa e allora diventano
anche pericolosi: saltare dalla giostrina in corsa, scendere
giù dallo scivolo di testa, dondolare appesi ad una sola
corda dell’altalena come i corsari all’arrembaggio o appesi alle due corde a testa in giù.
I parchi gioco sono tutti uguali perché rappresentano uno stereotipo: la presenza di scivoli, altalene e giostrine garantiscono che l’adulto genitore si renda facilmente
conto che l’adulto amministratore ha utilizzato il denaro
3
Girare nella ruota, che tradizionalmente arreda la loro gabbietta, non piace neppure ai criceti, che nella loro vita in natura, in Medio Oriente, possono
vivere esperienze certamente più interessanti e più avventurose.
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pubblico per realizzare un servizio per suo figlio. Che poi
ai bambini non piacciano è cosa di poco conto.
Anche gli altri servizi per l’infanzia sono pensati per gli
adulti e non per i bambini. «Vogliamo i nidi per le madri
lavoratrici», si diceva negli anni ’70. In città dove è alto
l’impiego di manodopera femminile i nidi possono restare aperti anche 10-12 ore al giorno, perché questa è la
domanda sociale dei lavoratori. Ma quale è la domanda
dei bambini? Certamente quella di non restare da soli in
casa, di avere occasioni di scambio con i loro piccoli amici, ma può un bambino di uno, due anni resistere 8-10 ore
in un ambiente così grande, esposto ad una socializzazione forzata, al chiasso, a stimoli continui, senza possibilità
di nascondersi, di scappare? Questo non ce lo siamo domandato, e sì che gli adulti, gli operatori del nido, per garantire il servizio cambiano tre turni, perché si ritiene che
non possano sopportare un carico di lavoro maggiore delle quattro, cinque ore al giorno!
Un altro esempio, più quotidiano, e per questo più inquietante. Quando si è aperto un conflitto fra gli orari di lavoro degli adulti e gli orari dei bambini – per esempio gli adulti debbono timbrare il cartellino alle otto e i bambini
debbono entrare a scuola alle otto e mezza – come abbiamo reagito? Senza alcuna esitazione, in tutte le città, abbiamo chiesto ai Comuni di creare un nuovo servizio, la
«pre-scuola», che accogliesse i bambini dalle sette e mezzo: abbiamo caricato sulle spalle dei nostri figli un’ora in
più di lavoro. Avremmo potuto pensare soluzioni diverse,
avremmo dovuto comunque evitare che a pagare fossero
i più piccoli. Avremmo potuto chiedere ai nostri sindacati
di modificare i contratti di lavoro in modo che, se in una
famiglia c’è un bambino che va a scuola, uno dei genitori
possa rendere flessibile il suo orario di lavoro ed entrare
dopo l’inizio della scuola. Non so se sarebbe possibile ottenere questo, ma mi preoccupa che non ci abbiamo provato e nemmeno pensato.
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E allora che fare?
La città è diventata ostile per i suoi stessi cittadini, priva di
solidarietà e di accoglienza. Padrona della città è ormai
l’automobile che produce pericolo, inquinamento acustico e dell’aria, vibrazioni, occupazione del suolo pubblico.
Le strade sono pericolose, ma in questa città dobbiamo vivere e, specialmente chi ha figli, sente la necessità e l’urgenza di trovare una soluzione.
La soluzione privata della difesa
La soluzione che la nostra società fortemente sponsorizza
attraverso i suoi mezzi di comunicazione, la produzione
commerciale, i suoi tecnici (psicologi, educatori, consulenti familiari) è quella individualistica, privata. È quella che
giustifica la situazione attuale come necessaria conseguenza e costo del progresso e che avanza raccomandazioni come: «I genitori debbono stare di più con i loro figli»; «Nessuno può stare con i bambini come il loro papà
e la loro mamma»; «Bisogna giocare di più con il proprio
figlio». Questi inviti creano naturalmente uno stridente
contrasto con la vita di corsa, con le ore di spostamenti,
con la voglia, quando si arriva a casa, di rilassarsi un po’.
Sviluppano cocenti sensi di colpa. Mettono gli adulti nelle condizioni migliori per approfittare, con riconoscenza,
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dei tanti prodotti commerciali. Di qui il doppio consiglio
che la nostra società oggi manda ai suoi cittadini: difendetevi e comprate.
Innanzi tutto quindi la strada della difesa. La casa pensata come rifugio antiatomico: fuori il pericolo, i malvagi, il
traffico, la droga, la violenza, il bosco oscuro e minaccioso;
dentro la sicurezza, l’autonomia, la tranquillità, la casetta sicura dei tre porcellini, o, se si preferisce, il castello medioevale, cintato di mura e con il ponte levatoio sollevato.
Le porte vengono blindate, con l’occhiolino per vedere senza essere visti; si mettono videocitofoni, sistemi di allarme;
norme condominiali impediscono l’entrata agli estranei. Si
insegna al bambino a non aprire a nessuno, a non fermarsi con nessuno, a non accettare niente da nessuno1.
E poi comprare di più dato che per fortuna la produzione commerciale è sensibile alle necessità dell’uomo
moderno. Dentro casa c’è tutto quello che serve a stare
bene e tranquilli, da soli, anche per molto tempo: televisore, videoregistratore, videogame, e giocattoli, giocattoli a non finire.
Nelle nostre case si percepisce una strana sensazione,
una specie di orgoglio per averle rese capaci di resistere
ad oltranza di fronte ad un imprecisato pericolo che potrebbe presentarsi: gli ambienti sono ordinati, confortevoli, rilassanti, per quanto l’esterno è caotico, stressante e
angosciante; il congelatore è pieno di cibi che possono durare per mesi, la collezione di cassette video ci permette
di avere i film a noi più cari in casa nostra. Nelle nostre
case staremo bene qualsiasi cosa possa succedere là fuori! È l’esasperata chiusura nel privato.
Una volta si investiva quasi tutto nella città, nel pubblico. La casa era modesta, serviva per lo stretto indispen1
E poi a scuola, ma anche nelle famiglie democratiche, si pretende di educare i figli alla tolleranza, alla solidarietà, alla pace, alla multiculturalità, che dovrebbero voler dire aprirsi agli altri, credere negli altri ed essere convinti che gli
altri hanno qualcosa di importante da darci!
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sabile. La vera «abitazione» era la città che doveva essere
bella, accogliente, adatta per il passeggio, per l’incontro,
per la spesa, per il gioco. Oggi si è invertita la tendenza,
si investe tutto nel privato, nella casa, che diventa sempre
più rifugio e fortezza.
Difendersi, risolvere ciascuno i problemi da solo, chiudersi in casa, significa abbandonare la città. La città abbandonata si fa ancor più pericolosa, aggressiva, disumana. Allora occorre aumentare gli strumenti e gli atteggiamenti di difesa. Ma questi produrranno maggiore isolamento e abbandono e a loro volta determineranno un aumento del pericolo ambientale. Si sviluppa così una spirale perversa, senza futuro.
Di questo processo abbiamo ormai vari segnali nella
nostra e nelle altre società più «sviluppate». Negli ultimi anni nelle nostre città c’è stata una rapida e progressiva militarizzazione: si sono armati i vigili urbani, sono comparsi sempre più numerosi i vigilantes privati davanti alle banche, agli enti pubblici e privati. Sono anche aumentati i
controlli personali, i metal detector, per entrare in aeroporto, in banca, ma ci sono controlli elettronici anche all’uscita di alcuni negozi, librerie, supermercati. Ci sono
vetri blindati che proteggono le biglietterie delle stazioni,
e per fare un biglietto dobbiamo parlare attraverso microfoni, proprio come nei parlatori delle carceri di massima sicurezza. Siamo arrivati all’assurdo: usano le sirene
per il trasporto dei valori postali: continue paure, soprassalti, per dei soldi! E di tutto questo non ci stupiamo più,
ci sembrano difese adeguate e legittime.
Negli Stati Uniti, dopo aver blindato le porte, si sono
armati i singoli cittadini e in uno dei suoi Stati si è permesso agli studenti di andare a scuola armati. Queste notizie per fortuna ci sembrano aberranti2, ci scandalizzano
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Oggi, in questo paese, sono otto milioni gli addetti alla difesa delle persone, più dei metalmeccanici!
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ancora, ma sono solo la coerente conseguenza della spirale perversa della difesa e della violenza.
La soluzione sociale della partecipazione
Esiste una seconda strada, una seconda soluzione, contraria alla difesa. È quella che rifiuta la rassegnazione e denuncia questo «progresso» voluto da pochi, in fretta, per
interessi che nulla hanno a che vedere con il bene pubblico, la felicità dei cittadini, la qualità della vita. È quella che
considera il problema non individuale e personale, ma sociale e politico. È la soluzione che chiede che la tendenza
cambi, che la città cambi; che non vuole tornare indietro,
ma che vuole andare avanti in un modo diverso, nuovo,
adeguato alla complessità e alla ricchezza del mondo di
oggi, ma senza rinunciare alla socialità, alla solidarietà, alla felicità.
Il cittadino medio
Finora e con una forte accentuazione negli ultimi decenni, la città è stata pensata, progettata e valutata assumendo come parametro un cittadino medio con le caratteristiche di adulto, maschio e lavoratore, e che corrisponde all’elettore forte. In questo modo la città si è persa i cittadini non adulti, non maschi e non lavoratori, cittadini di
seconda categoria, con meno o senza diritti.
Per prendere l’autobus o il treno bisogna essere in buona forma fisica, essere bene allenati, perché occorre superare un dislivello iniziale di quasi mezzo metro. Un bambino, una persona anziana o anche semplicemente una donna con la gonna stretta non riuscirebbero nell’impresa.
I nuovi popolosi e brutti quartieri delle periferie vengo18
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no chiamati «quartieri dormitorio». Ma per chi sono «dormitorio»? Solo per gli adulti lavoratori che al mattino se ne
vanno e tornano la sera. I loro bambini, i loro vecchi, spesso anche le loro mogli, ci vivono, per loro quei quartieri
non sono «dormitorio» ma «residenziali». E allora non ha
senso caratterizzarli con quel nome quasi a giustificare
l’assenza di luoghi sociali, di incontro e di svago perché
«tanto ci si dorme soltanto».
Il bambino come parametro
Di qui la proposta: sostituire il cittadino medio, adulto, maschio e lavoratore con il bambino.
Non si tratta di realizzare iniziative, opportunità, strutture nuove per i bambini, di difendere i diritti di una componente sociale debole. Non si tratta quindi di modificare,
aggiornare, migliorare i servizi per l’infanzia, che rimane
naturalmente un dovere importante della pubblica amministrazione.
Si tratta invece di abbassare l’ottica della amministrazione fino all’altezza del bambino, per non perdere nessuno.
Si tratta di accettare la diversità che il bambino porta
con sé a garanzia di tutte le diversità.
L’obiezione quindi di chi nota che non ci sono solo i
bambini non è pertinente, perché si tratta di assumere una
ottica nuova, una filosofia nuova nel valutare, programmare, progettare e modificare la città. Chi è capace di tener conto dei bisogni e dei desideri dei bambini non avrà
difficoltà a tener conto della necessità dell’anziano, dell’handicappato, dell’extracomunitario. Perché il problema
fondamentale è imparare ad accettare la diversità, e il
bambino è un diverso, anzi, probabilmente, un bambino è
più diverso da suo padre di quanto un adulto bianco sia diverso da un adulto nero.
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Si presume che quando la città sarà più adatta ai bambini, sarà più adatta per tutti.
È una proposta concreta, che nasce da una esperienza
iniziata nel 1991 dal Comune di Fano e che oggi trova l’interesse e l’adesione di molte città italiane e straniere.
È una proposta che ha nel sindaco il suo referente naturale e che il sindaco garantisce e mette alla base delle
scelte della sua politica di amministrazione della città3. È
una scelta che la Giunta condivide, considerandola una verifica continua e un impegno trasversale che «contamina»
l’attività di tutti gli assessorati e di tutte le scelte amministrative, da quelle urbanistiche a quelle sanitarie, da quelle del tempo libero a quelle commerciali.
3
La nuova legge elettorale italiana, che permette l’elezione diretta del sindaco da parte dei cittadini, in maniera abbastanza autonoma dalla sua collocazione partitica e che gli dà il potere di nominare una propria squadra di governo della città, con un proprio programma e la possibilità di durata per l’intera
legislatura, ne fa il vero rappresentante democratico della città. In questi primi
anni di esperienza e in un momento così difficile per la politica italiana, sembra
che siano proprio i sindaci le persone che stanno proponendo un nuovo modo
di fare politica in Italia.
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Perché proprio il bambino?
Perché assumere il bambino come parametro? La scelta
non vuol essere né provocatoria né paradossale, ha precise motivazioni psicologiche e sociologiche, importanti
precedenti storici, un alto significato morale, e anche, mi
sembra, un forte peso politico.
L’infanzia nella storia dell’uomo:
il primato del gioco
Non è vero che il bambino non sa nulla, che è una lavagna
pulita su cui tutto deve essere scritto e che saranno della
scuola la responsabilità e il merito dei primi e fondamentali apprendimenti. È vero invece il contrario. Nella descrizione che dello sviluppo fa la ricerca scientifica è proprio
nei primi giorni, nei primi mesi e nei primi anni che lo sviluppo è più rapido, è lì, subito alla nascita che avviene l’esplosione, non intorno ai sei anni con l’inizio della cosiddetta età della ragione. Prima che un bambino entri per la
prima volta in una aula scolastica, le cose più importanti sono già successe: gli apprendimenti più importanti, quelli sui
quali tutta la conoscenza successiva dovrà costruirsi o sono
già acquisiti o difficilmente potranno essere recuperati.
Ma come si può spiegare un fenomeno così sconcertante? Nei primi anni di vita non ci sono insegnanti, non si
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usano materiali didattici e non si fanno programmi, e allora a cosa possiamo attribuire il merito di una crescita così
importante? Mi pare che non abbiamo alternativa dal doverlo attribuire alla più significativa attività di questi primi
anni: il gioco. Perché questa attività infantile ha un potere
così grande? Il bambino vive nel gioco una esperienza rara nella vita dell’uomo, quella di confrontarsi da solo con
la complessità del mondo. Lui, con tutte le sue curiosità,
con tutto quello che sa e che sa fare, e con tutto quello che
non sa e che desidera sapere, di fronte al mondo con tutti
i suoi stimoli, le sue novità, il suo fascino. E giocare significa ritagliarsi ogni volta un pezzetto di questo mondo: un
pezzetto che comprenderà un amico, degli oggetti, delle
regole, uno spazio da occupare, un tempo da amministrare, dei rischi da correre. Con una libertà totale, perché
quello che non si può fare si può inventare. È proprio grazie a questa complessità che nei primi anni si realizzano gli
apprendimenti di gran lunga più importanti di tutta la vita
dell’uomo. E nessun adulto potrà prevedere o misurare la
quantità di apprendimento di un bambino che gioca e questa sarà sempre superiore a quello che noi potremo immaginare. Nessuno potrà programmare o accelerare questo processo, pena impedirlo o impoverirlo. Forse sarebbe più utile per i bambini che queste conoscenze rimanessero nascoste perché, conoscendole, potrebbe venire in
mente agli adulti di aiutarli, di sostenerli con opportuni insegnamenti e materiali didattici. Verrebbe a mancare così
la condizione principale di questo prodigio e cioè che gli
adulti «lascino fare», «lascino giocare» i bambini. Il giocare
del bambino, prima e fuori della scuola, è «perdere tempo»,
è perdersi nel tempo, è incontrarsi con il mondo in un rapporto eccitante, pieno di mistero, di rischio, di avventura.
E il motore è il più potente che l’uomo conosca: il piacere. È per questo che un bambino per giocare può anche
dimenticarsi di mangiare. Il gioco libero e spontaneo del
bambino assomiglia alle esperienze più alte e straordinarie
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dell’adulto come quelle della ricerca scientifica, della esplorazione, dell’arte, della mistica; le esperienze appunto di
quando l’uomo si trova di fronte alla complessità, di quando trova di nuovo la possibilità di lasciarsi trasportare dal
grande motore del piacere.
Le proposte educative, pure necessarie, si muovono invece ad un livello più basso, meno stimolante e per questo meno produttivo1. Nella proposta educativa l’allievo
viene privato dell’eccitante incontro con la complessità e
del brivido di ritagliarsene autonomamente una parte. È
l’adulto che propone all’allievo una porzione di quel mondo complesso, tale che l’attività richiesta produca con sicurezza e nei tempi previsti gli apprendimenti voluti. Quel
pezzo di mondo perde tutto il fascino e il mistero, diventa
incomprensibile, così staccato da tutto il resto, e serve solo per imparare a scuola. Per essere più sicuri del risultato gli educatori spesso sostituiscono la complessità del
mondo reale con quella più controllabile della proposta didattica, dell’esercizio, del libro di testo. Il controllo è così
assoluto, ma in genere il risultato è povero, quasi sempre
inferiore alle aspettative e contraddittorio: mentre impara
l’allievo rifiuta quello che gli insegnano, non lo fa suo, non
si modifica grazie a quello. Nasce un apprendimento parallelo, che serve solo a scuola, fino all’ultimo tema in classe, fino all’ultimo concorso e poi basta. A scuola per esempio tutti sappiamo che rispetto alla terra è il sole che
sta fermo e la terra gira, ma nella vita quotidiana tutti continuiamo a dire, e probabilmente continuiamo a pensare,
che il sole sorge e che tramonta, quindi si muove. Questo
lo dice tutti i giorni anche la televisione!
La scuola, con questa sua semplificazione, con la sicurezza della sua programmazione, ha perso completamen1
«Che pedagoghi eravamo, quando non ci curavamo della pedagogia!» scrive Pennac (1992) riferendosi all’esperienza affascinante della lettura fatta con
il bambino nei primi anni a confronto della imposizione della lettura che propone la scuola.
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te il rapporto con il piacere e deve ricorrere ad un motore molto meno potente ed efficace, quello del dovere.
Le città si sono dimenticate dei bambini
L’editoriale del primo numero della rivista italiana «Urbanistica» del 1945, scritto da Lewis Mumford2, esamina come la città si sia dimenticata dei suoi cittadini a partire dai
bambini. E Mumford inizia questo saggio citando gli scritti di Joseph K. Hart che nel 1925 sosteneva gli stessi concetti. La tesi dei due autori, ben precedenti al disastro urbanistico avvenuto nel mondo occidentale con la grande
speculazione edilizia degli anni ’60-’70, si fonda sulla considerazione che le città, nel loro recente sviluppo, si sono
dimenticate della maggior parte dei cittadini, dei bambini
appunto, ma anche delle donne, dei giovani e degli anziani. Sono state pensate solo per la categoria più forte
dei cittadini, quella adulta e produttiva. Di qui la proposta
di ripensare la città riflettendo sulle esigenze delle varie età
della vita. Alcune delle soluzioni indicate da Mumford sono ingenue o, a volte, poco condivisibili, ma è interessante che decenni fa fosse presente nel mondo della architettura e della progettazione urbanistica una così chiara
consapevolezza degli errori fatti ed una così avanzata e
multidisciplinare sensibilità progettuale. Nel suo articolo
Mumford fa una puntuale critica della separazione fra le
generazioni e fra le funzioni che la città moderna ha provocato. Critica l’uso generalizzato dell’ospedale e auspica
il ritorno al parto a domicilio o in piccole case-clinica di
quartiere. Indica la necessità di creare luoghi di gioco per
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Si veda l’articolo La pianificazione per le diverse fasi della vita, riprodotto in Appendice 3.
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i bambini, non convenzionali e stereotipati, ma ricchi di
varietà di elementi e di nascondigli. Propone l’impegno
degli adolescenti in una forma di servizio civile per la manutenzione degli spazi comuni in risposta alle prevedibili
difficoltà economiche degli enti locali per la cura di giardini e parchi. Denuncia il pericolo dell’isolazionismo della
grande città e rivendica, di contro, il diritto alla solitudine
e al raccoglimento. Suggerisce l’uso sociale delle scuole in
orario extrascolastico. Raccomanda l’inserimento degli
anziani nella vita sociale, evitando la separazione e l’istituzionalizzazione. La programmazione urbana deve insomma garantire il ritorno alla scala umana: «una combinazione costantemente variabile di una moltitudine di attività associative, variabili in intensità e durata ed in continuo sviluppo, attraverso il ciclo della vita, dalla nascita alla morte». Tutto questo nel 1945!
È anche significativo che la rivista «Urbanistica», nel
suo primo numero del 1945, appena terminata la guerra,
abbia scelto di pubblicare questo scritto. Per uscire dalla
miseria, dalle macerie, dalla distruzione morale e materiale del nostro paese, si parlava dei bambini e non delle scelte economiche o della speculazione sulle aree urbane.
Questo rende ancora più grave la responsabilità di chi, nei
decenni successivi, non solo non ne ha tenuto conto, ma
ha accentuato con il massimo impegno la negazione dei
diritti dei cittadini più deboli per perseguire in modo spregiudicato e colpevole il puro e spesso personale profitto.
Il bambino è solo
Questo secolo, insieme a tanti altri meriti e limitatamente
all’occidente ricco, può a ben diritto essere considerato il
secolo del bambino. Mai come oggi i diritti fondamentali
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del minore vengono riconosciuti e difesi. Il progresso della medicina ha ormai quasi annullato il rischio di morte e
di gravi traumi neonatali: i pochi bambini che nascono
hanno un’alta probabilità di diventare grandi.
Nel recente passato molti bambini non sopravvivevano
alla nascita, molti subivano traumi irreversibili a causa di
pratiche ostetriche e neonatali inadeguate. Nelle classi sociali meno abbienti, e cioè nella stragrande maggioranza
della popolazione, crescevano in famiglie numerose e nella più totale promiscuità. Non tutti iniziavano la scuola elementare e quasi tutti la abbandonavano dopo pochi anni,
con varie bocciature e sostanzialmente analfabeti. Per la
maggior parte di loro, prima dei dieci anni iniziava l’esperienza di lavoro, come garzoni, come aiutanti. Un lavoro
pesante, un orario lungo che poco tempo lasciava ai giochi infantili, spesso senza retribuzione, in cambio dell’apprendistato. Il rapporto dei genitori con il bambino, specialmente del padre e del datore di lavoro, era duro, spesso violento. Una condizione quindi difficile, certo non privilegiata.
Oggi viene affermato con forza il diritto del bambino
alla sua infanzia, a giocare, a frequentare la scuola, a non
essere utilizzato per il lavoro. Neppure il genitore può violare questi diritti, pena la perdita della patria potestà. Il
bambino non può essere offeso, non può essere picchiato, non può essere discriminato. Anche il bambino diverso, di un’altra cultura, di un’altra religione o handicappato, gode dei diritti di tutti, entra nella scuola di tutti, deve
essere adeguatamente inserito. Tutto questo solo mezzo
secolo fa era impensabile.
Da vari decenni la ricerca psicologica si occupa in modo quasi ossessivo del mondo del bambino, delle sue pulsioni, del suo pensiero, della sua logica, della sua lingua.
Si raccolgono le sue prime frasi, si studiano le sue conoscenze spontanee, si analizzano i suoi scarabocchi. I ri26
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cercatori cercano nel bambino le radici, le spiegazioni dell’uomo.
Vengono pubblicati libri composti di pensieri, di scritti,
di disegni dei bambini. Vengono girati film che illustrano
la vita del bambino, vengono messe in onda trasmissioni
televisive che hanno come unici protagonisti i bambini,
con le loro risposte spesso imprevedibili, alle difficili domande degli adulti.
Vengono dedicati al bambino congressi nazionali e internazionali, nel 1989 è stata approvata dalle Nazioni
Unite la Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo e l’Unesco ha dedicato quell’anno al bambino.
Ma proprio in questo periodo storico il bambino è colpito da una sofferenza nuova sconosciuta ai suoi piccoli
predecessori: la solitudine.
La solitudine possiamo considerarla come un dono del
vertiginoso progresso e del crescente benessere o, se si
preferisce, un costo sociale che compensa le comodità
della nostra vita di occidentali ricchi.
Il bambino è solo perché sempre più spesso è figlio unico. Essere figlio unico non solo priva il bambino della
compagnia dei pari all’interno della famiglia, ma lo priva
anche di modelli intermedi fra se stesso e gli adulti, modelli che rendono meno ansiosi i confronti e più facili gli
apprendimenti. Essere figlio unico vuol dire far fronte da
solo a tutte le aspettative di due adulti, senza sconti, senza aiuti; significa essere oggetto di un investimento eccessivo da parte dei genitori, che con maggiore difficoltà riconosceranno al proprio figlio la sua autonomia, il suo bisogno e diritto di andarsene, di separarsi da loro ogni giorno di più.
Prigioniero nella sua casa-fortezza. La mancanza di
compagnia in casa è resa più grave dalla impossibilità di
andarsela a cercare all’esterno: fuori ci sono i pericoli, che
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spingono gli adulti, non senza ragione, a proteggere il
bambino impedendogli di uscire. Allora si assume l’atteggiamento di difesa di cui si parlava sopra, si «arma» la casa e vi si chiude il figlio, insegnandogli la sfiducia e il sospetto verso tutto e verso tutti. Cosa significa nascere e diventare grandi in una casa-fortezza nella più totale sfiducia degli altri e nel terrore di quello che ci circonda?
Affidato ad una moderna ed efficiente baby-sitter: la televisione. Questo moderno e sempre più perfetto elettrodomestico è un corollario della solitudine del bambino.
È uno dei migliori collaboratori del genitore. Comincia a
creare qualche problema più tardi, quando il bambino va
a scuola, perché rischia di rubare tempo ai compiti, al «lavoro», ma nei primi anni è un grande aiuto, una vera, economica ed efficiente baby-sitter. Ma cosa succede in questo rapporto così intimo che il bambino vive con la televisione lontano dal controllo del genitore?
È difficile sapere esattamente quali meccanismi conoscitivi, affettivi, sociali e fisici la costante e prolungata visione di programmi televisivi produce nei bambini. Da una
parte produce certamente conoscenza. La televisione è
capace di offrire servizi, programmi, documentari sempre
più belli, ricchi di informazione e di fascino. Certamente
oggi i nostri bambini imparano più nozioni dalla televisione che dalla scuola. Sono sempre però nozioni e conoscenze udite e viste. Le mani servono sempre di meno, il
bambino non impara a fare, è quindi solo nella sua immobilità.
Insieme alle trasmissioni migliori il bambino assorbe
però tanti programmi di basso livello, cartoni animati violenti, mal fatti, realizzati senza scrupoli come puri prodotti commerciali, costruiti in serie, usando in maniera povera sistemi informatizzati. E poi assiste a tutte le trasmissioni pensate per gli adulti con la violenza dello spettacolo e la crudeltà della informazione.
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Sono quasi sempre programmi a cui il bambino assiste
da solo, senza possibilità di dialogo, di confronto di distrazione: il bambino solo con il televisore. Le paure entrano
dentro, non possono essere esorcizzate e poi saltano fuori nel mezzo della notte, con un brutto sogno, un incubo...
In questo dialogo intimo e intenso (si provi ad osservare lo sguardo rapito di un bambino davanti al televisore)
avviene una manipolazione molto preoccupante dei nostri
bambini, della quale anche l’ente televisivo di Stato si rende complice: negli spazi dedicati ai bambini vengono trasmessi spot pubblicitari direttamente indirizzati a loro perché essi si facciano persuasori di consumi presso i loro genitori. La manipolazione è grave perché suscita nel bambino bisogni inutili, che modificheranno negativamente la
sua personalità, nella continua ricerca di cose nuove, perdendo progressivamente la capacità di apprezzarle e usarle ed entrando nella logica perversa dell’usa e getta. È grave poi perché il bambino viene trasformato in un potente
postulante presso i genitori, potendo far leva sul loro senso di colpa per essere così poco presenti nella vita del figlio. I genitori comprano senza rendersi conto dell’origine di quella richiesta, che viene spesso interpretata come
una spontanea idea del bambino, alla quale quindi non si
può dire di no.
Si stanno anche studiando i danni fisici che una prolungata esposizione ai programmi televisivi produce nel
bambino: danni emotivi per le forti sensazioni, rischio di
obesità per il continuo mangiucchiare, ecc.
Il bambino minore
Il bambino vive oggi una condizione molto delicata e
preoccupante. Sempre più raro all’interno della famiglia,
il bambino viene ipervalutato, vezzeggiato, protetto e per
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questo sempre più separato, emarginato dal mondo degli
adulti. Il bambino viene comunemente chiamato «minore»,
così è definito nelle leggi, nei discorsi dei tecnici e dei politici, nei programmi delle formazioni politiche. Noi tutti
siamo minori o maggiori di qualcuno, dipende dal punto
di vista o dal parametro preso in considerazione, ma il
bambino è «minore» sempre, per definizione. Questo significa che non gli viene riconosciuto un diritto fondamentale, il diritto al presente, all’oggi. Il bambino vale per
quello che sarà, per quello che diventerà, non per quello
che è, ha diritto solo al futuro. È il futuro cittadino, non un
cittadino. La carriera scolastica è una precisa conferma di
questo atteggiamento: ogni livello scolastico è preparatorio di quello successivo, ogni insegnante è preoccupato
che gli allievi siano preparati per le esigenze del livello che
segue, che siano apprezzati dai colleghi che verranno. La
scuola prepara al domani, prepara alla scuola, nonostante le leggi, nonostante le teorie. Non prepara invece all’oggi, alla vita; non fa tesoro del passato.
Se il bambino è un minore allora è sempre a rischio e
per questo va protetto e difeso. Si sta sviluppando una pericolosa politica del soccorso ai bambini, dei telefoni colorati di aiuto. Una politica che si fonda sull’enfasi della cronaca nera, del pericolo, della probabilità della violenza. Dati sempre più allarmanti, spesso non correttamente elaborati o utilizzati, vengono confermati ed enfatizzati dai pochi, ma clamorosi casi di cui parlano giornali e televisione.
Questa probabilità giustifica la paura, la vigilanza continua,
la segregazione dei figli da parte dei genitori. Diminuisce
le autonomie, impedisce lo sviluppo di autodifese.
I bambini non vanno protetti, ma «armati». Dotati cioè
di strumenti, di abilità, di autonomia.
Con questo non si vuol proporre di rinunciare agli strumenti di difesa di fronte alla macroviolenza che purtroppo esiste, ma di renderli efficaci: decentrati nei Comuni e
quindi capaci di intervento immediato. Si vuol proporre di
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non sostenere questi strumenti con propagande allarmistiche, perché la sicurezza dei nostri bambini sarà funzione della fiducia che gli adulti sapranno riconoscere ai loro
figli e non della paura e della difesa. La violenza verso i
minori è quasi sempre frutto della stessa logica della chiusura, della segregazione, della difesa. Avviene nel privato,
dentro le case, nei luoghi della sicurezza. E se avviene fuori di casa approfitta dell’abbandono, del disinteresse.
Proviamo a parlare meno di violenza, a favorire di più
il benessere, la partecipazione, la condivisione e la violenza diminuirà.
Impegnamoci tutti a non usare più questo brutto aggettivo «minori» e a chiamare i bambini «bambini».
Il bambino è più forte
Vale la pena scommettere sul bambino perché il bambino
è invece paradossalmente più forte.
La proposta che si sta illustrando in questo libro è molto vicina alla proposta ambientalista: si vuole promuovere
una inversione di tendenza nelle scelte politiche e negli atteggiamenti individuali per fare in modo che le nostre città
siano più vivibili; per garantire un mondo migliore a chi
verrà dopo di noi, uno sviluppo sostenibile. Il problema
della proposta ambientalista è la sua difficoltà ad essere
compresa. Non sono molti quelli che possono capire cosa significa «ambiente» riconoscendogli tutto il suo spessore multidisciplinare, interdisciplinare e la sua complessità. Se poi si banalizza il concetto di ambiente in quello di
piante e animali, o lo si associa solo all’inquinamento e ai
rifiuti, allora diventa poco credibile e di scarso effetto: la
gente purtroppo non rinuncia a qualche comoda abitudine e non modifica comportamenti ormai consolidati per
salvare le piante o per tenere pulita la città.
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Proporre invece di modificare i nostri atteggiamenti e
le nostre abitudini per qualcosa di concreto, comprensibile, vicino e importante come i nostri figli, i nostri nipoti,
credo abbia una forza maggiore. Non so se sarà sufficiente,
ma penso che sia la carta più alta che abbiamo da giocare.
Il bambino è il nostro passato, un passato spesso troppo rapidamente dimenticato, ma che ci aiuterà a vivere
meglio con i nostri figli e a commettere meno errori se riusciremo a tenerlo vivo in noi. Il bambino è il nostro presente, perché a lui è finalizzata la maggior parte dei nostri
sforzi e dei nostri sacrifici. Il bambino è il nostro futuro, la
società di domani, quello che potrà continuare o tradire le
nostre scelte e le nostre aspettative. Per queste ragioni il
bambino è forte, anche se oggi nascono meno bambini,
anche se sembra che di loro gli adulti abbiano timore, o
forse anche per questo.
La posizione dell’anziano è diversa e se anche gli anziani sono sempre di più abbiamo più difficoltà ad identificarci con loro. Nessuno è già stato anziano e probabilmente nessuno desidera diventarlo. Per questo, forse, anche gli interventi che nascono con le intenzioni migliori, a
favore degli anziani, finiscono per risultare assistenziali ed
emarginanti.
Il bambino è più forte per un’ultima e importante ragione: non è facilmente corruttibile. E questo non perché
non si possano manipolare facilmente i bambini, lo sappiamo bene noi genitori che da tanto tempo usiamo i giocattoli, i premi e i castighi per «convincere» i bambini a fare quello che crediamo giusto; lo sa bene la pubblicità che
punta sui bambini per costringere noi adulti a comprare.
Il bambino non è corruttibile sulle scelte della città perché
lui non ha partecipato al suo degrado, perché le soluzioni
finora adottate per adattarsi al malessere descritto all’inizio non hanno mai tenuto conto delle sue esigenze, sono
sempre state, come abbiamo già visto, soluzioni di compromesso fra adulti e per adulti, e quindi lui, il bambino,
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non ne ha beneficiato. Se quindi sceglieremo il bambino
come nuovo parametro del cambiamento dovremo affrontare un cammino completamente nuovo, per il quale
i vecchi equilibri, i vecchi compromessi non varranno più.
«Se non diventerete come i bambini...»
Infine non possiamo dimenticare la frase, pronunciata
duemila anni fa da Gesù di Nazaret, che rimane una delle
espressioni più misteriose, più sconcertanti e più affascinanti del Vangelo: «Se non diventerete come i bambini
non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18, 3).
Dice Gesù che occorre diventare, non tornare ad essere, come bambini. Anche in questo caso quindi non un
invito a tornare indietro, ma un progetto rivoluzionario
per andare avanti. Occorre diventare bambini per essere
degni del regno dei cieli. Occorre quindi diventare piccoli
per ottenere il massimo, la promessa, l’obiettivo della venuta del Cristo. Questo invito ad assumere i piccoli come
parametro viene rafforzato dall’indicazione dei poveri come modello: «Beati i poveri...». Due categorie senza potere, senza valore, presso la società ebraica, diventano parametro di salvezza. Non solo in senso escatologico, e cioè
riferito ad una vita futura, ma parametro di santità, e quindi della scelta giusta oggi, la via storica verso la felicità. Essere bambini ed essere poveri significa sapersi accontentare, saper desiderare, essere liberi. Condizioni necessarie
per la felicità umana.
Ma qualcosa sta cambiando
Fino a pochi anni fa, quando era massima la fiducia nelle
soluzioni economiche e consumistiche, nelle indicazioni
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specialistiche e particolarmente in quelle tecnologiche,
una affermazione come questa, che si potesse, che si dovesse ripartire dai bambini, avrebbe suscitato sorrisi di
commiserazione e la patente di visionario o pazzo per chi
la proponeva. Oggi proposte radicali come questa suscitano l’attenzione di molti cittadini, di non pochi sindaci e
di tutti i bambini. Si comincia ad essere stanchi della prepotenza della città, si comincia a non credere più alle sole soluzioni «ragionevoli». Si comincia a non poterne più.
Si deve anche notare che, pur in maniera incoerente e
incostante, compaiono da un lato segnali di rifiuto dei
principi di sviluppo della società come la separazione e la
specializzazione e dall’altro segnali di riconoscimento della necessità di sfide a livelli più alti, che trovano quasi sempre i bambini come testimoni e punti di riferimento.
Da anni le forze produttive denunciano una formazione scolastica troppo settoriale, specializzata e quindi rigida di fronte ai frequenti cambiamenti delle tecnologie e
delle procedure produttive, e chiedono una formazione
più creativa, più aperta, più duttile.
Anche nelle modalità della produzione industriale, quella produzione che in qualche modo inventò la specializzazione più esasperata fino alla catena di montaggio, stanno apparendo segnali di revisione critica. Una grande fabbrica motociclistica italiana sta sperimentando l’affidamento dell’intero ciclo di montaggio di un ciclomotore ad
un solo operaio. Un operaio che quindi si sentirà autore
del prodotto, in qualche modo artigiano, con un grande
vantaggio delle motivazioni e della soddisfazione.
Passando alle cose nuove, che riguardano direttamente i bambini, occorre ricordare che è allo studio del Parlamento una legge quadro per un Piano d’azione nazionale
per l’infanzia, che prevede la costituzione di una Commissione parlamentare e di un Osservatorio nazionale e
che presso il Ministero dell’Ambiente esiste una delega dal
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titolo «La città sostenibile a misura dei bambini e delle
bambine».
Per terminare, l’Associazione italiana dei giudici minorili ha inviato nel 1996 una lettera ai sindaci per chiedere
loro «Un governo delle città che, non solo a parole, sia
pensato a misura delle bambine e dei bambini».
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Parte seconda
Le proposte
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Un laboratorio
«la città dei bambini»
Per la realizzazione di questo progetto, di questa nuova filosofia di governo della città, si possono seguire strade diverse. Può essere il sindaco che direttamente informa di
questo spirito il suo programma, possono essere invece i
cittadini, attraverso movimenti o associazioni che dal basso lo propongono e lo sostengono. Qui si descrive e in
qualche modo si privilegia la prima via, seguita a Fano sin
dal 19911 e che oggi si ripropone nelle varie città che
stanno aderendo a questo progetto: quella che vede il sindaco come referente privilegiato e che prevede l’apertura
di un Laboratorio dedicato alla elaborazione e allo sviluppo del progetto «La città dei bambini». Il Comune che apre
un tale servizio, che gli dedica personale e risorse, apre di
fatto al suo interno una contraddizione forte, ma appassionante.
Il Laboratorio dovrà assumere una funzione prioritaria
di «grillo parlante», di coscienza del sindaco e della Giunta, contestandoli ogni volta che la promessa data verrà tradita; e siccome questo avverrà frequentemente, la presenza del Laboratorio diventerà scomoda. Aprire il Laboratorio vuol dire quindi accettare un conflitto permanente
perché il contrasto fra il bambino e l’adulto non terminerà
mai, si sposterà sempre un po’ più avanti.
1
Si veda la scheda n° 1: «Fano: ‘La città dei bambini’».
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Un conflitto però appassionante, stimolo di grande ricchezza e di un dibattito politico di alto livello, perché reale, concreto, lontano dal politichese televisivo. Vuol dire
considerare la città come un laboratorio, un luogo di ricerca, dove si è disposti a modificare profondamente l’ottica, le prospettive, gli obiettivi.
Il Laboratorio avrà una funzione «educativa» nei confronti degli amministratori e dei cittadini: dovrà mettere, o
ri-mettere, il bambino nella loro testa. Dovrà cioè aiutare
gli adulti a riconoscere i bambini, i loro bisogni, i loro diritti; ad ascoltarli e a capirli. Impresa tutt’altro che semplice, che ha bisogno di preparazione e di grande libertà
intellettuale.
Il Laboratorio rappresenterà per l’amministrazione comunale anche un costo, ma un costo relativo. Dovrà avere un bilancio leggero, che gli permetta di operare, se possibile senza ricorso alle sponsorizzazioni, con una certa autonomia e indipendenza, con personale e in locali comunali; di garantire le sue attività con i bambini, di far conoscere le varie iniziative, di poter avere qualche consulenza, se necessaria. Per il resto, per gli interventi di cambiamento della città, non dovrà avere risorse proprie, ma dovrà «contagiare» i vari assessorati perché si spendano i fondi del bilancio ordinario in un modo diverso, non per cose nuove, ma per realizzare quelle già previste, con un’ottica nuova. Quindi non spendere di più, ma spendere meglio. Compito del Laboratorio non è diventare una struttura che opera in forma autonoma, ma sviluppare dentro
l’amministrazione e con l’amministrazione una nuova filosofia di governo della città.
Il pericolo che corre questa proposta è di essere accolta con grande entusiasmo, ma dallo stesso entusiasmo essere emarginata e vanificata. Un segnale preoccupante in
questo senso è il frequente voto unanime con cui i Consigli comunali approvano delibere che riguardano queste
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iniziative legate ai bambini. Se tutti sono d’accordo si può
presumere che ritengano che non sia una scelta coraggiosa, che intende produrre cambiamenti radicali; che non
si rendano conto che tutto quello che dovremo restituire
ai bambini (agli anziani, agli handicappati) dovremo toglierlo a chi finora l’ha avuto come privilegio. Che non
pensino che votare l’adesione al progetto «La città dei
bambini» voglia dire rallentare il traffico, ridare spazio ai
pedoni, alle biciclette, ridare le piazze alla gente. E allora
il timore forte è che di fronte ad una proposta a favore dei
bambini non si possa dire di no, ma poi, concessa questa
soddisfazione ai piccoli, si riprenda il discorso serio, quello economico, quello del mercato, della competizione,
quello dei grandi, là dove lo si era lasciato.
La parola ai bambini
La prima e più importante scelta da farsi è quella di dare
ai bambini un ruolo da protagonisti, dare loro la parola,
permettere loro di esprimere pareri e metterci, noi adulti,
nell’atteggiamento di ascolto, di desiderio di capire e di volontà di tener conto di quello che i bambini dicono. Naturalmente quello che si propone per i bambini vale per tutti i cittadini, per gli anziani, per gli handicappati, per gli
extracomunitari. Di nuovo il bambino «apripista» e garante per tutti.
Nessuno può rappresentare i bambini senza preoccuparsi di consultarli, di coinvolgerli, di ascoltarli. Far parlare i bambini non significa chiedere loro di risolvere i problemi della città, creati da noi, significa invece imparare a
tener conto delle loro idee e delle loro proposte. Non è facile dare la parola ai bambini, né comprendere quello che
dicono. Gianni Rodari parlava di un orecchio acerbo che
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gli adulti dovrebbero avere per saper ascoltare i bambini2.
Occorre molta curiosità, attenzione, sensibilità, semplicità. Occorre essere convinti che i bambini abbiano qualcosa da dirci e da darci, che questo qualcosa sia diverso da
quello che sappiamo e sappiamo fare noi adulti e che
quindi valga la pena metterli in condizione di esprimere
quello che pensano davvero. Per fare questo bisogna aiutare i bambini a liberarsi dagli stereotipi, dalle risposte ovvie e banali che la televisione e il cattivo esempio degli
adulti, a casa, a scuola, nella città, hanno stampato dentro i loro occhi coprendo i loro desideri, la loro creatività.
Bisogna riportare i bambini ad osare, a desiderare, ad inventare e allora salteranno fuori le idee, le proposte, i contributi. Poi bisogna saper capire i bambini, andando oltre
l’apparente semplicità delle loro proposte. Allora queste
idee ci permetteranno non solo di tener conto delle esigenze dei bambini, ma di rendere migliore la città di tutti3.
Perché questo sia possibile il Laboratorio dovrà formare nuovi operatori capaci di animare gruppi di bambini e di ragazzi nelle varie forme di partecipazione democratica alla vita della città. A titolo di esempio qui citiamo
due esperienze che verranno poi documentate nelle schede della parte terza di questo libro.
2
Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo / vidi salire un uomo con un orecchio acerbo. / Non era tanto giovane, anzi, era maturato / tutto, tranne l’orecchio, che acerbo era restato. / Cambiai subito posto per essergli vicino / e
potermi studiare il fenomeno per benino. / Signore, gli dissi dunque, lei ha una
certa età, / di quell’orecchio verde che cosa se ne fa? / Rispose gentilmente:
– Dica pure che sono vecchio, / di giovane m’è rimasto soltanto quest’orecchio.
/ È un orecchio bambino, mi serve per capire / le voci che i grandi non stanno mai a sentire: / ascolto quello che dicono gli alberi, gli uccelli, / le nuvole
che passano, i sassi, i ruscelli, / capisco anche i bambini quando dicono cose /
che ad un orecchio maturo sembrano misteriose.../ Così disse il signore con un
orecchio acerbo / quel giorno, sul diretto Capranica-Viterbo (Rodari, 1979).
3
A Ginevra, negli anni Ottanta, si è realizzato un programma di ristrutturazione di spazi gioco per i bambini cercando di evitare le soluzioni stereotipe
e di rispondere alle reali esigenze ludiche infantili. Si è osservato che tali spazi
rispondevano anche alle esigenze dei cittadini adulti e in particolare degli anziani, che volentieri li utilizzavano (Guichard, Ader, 1991).
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Il Consiglio dei bambini
Il Laboratorio chiama un gruppo di bambini a collaborare
per garantirsi il punto di vista infantile. Non si tratta di offrire ai bambini il gioco di imitare i comportamenti degli
adulti in un Consiglio comunale in miniatura4, o una seria
proposta di educazione civica, che pure sono nobili obiettivi, ma quello di dare alla città la scioccante opportunità di
confrontarsi con un punto di vista e con un pensiero «altro»,
diverso, come quello infantile. Un Consiglio dei bambini
quindi per cambiare la città e non per far contenti i bambini. Gli operatori del Laboratorio dovranno, da un lato garantire che i bambini possano esprimersi in forma libera e
autentica e dall’altro trovare le forme adeguate per dare forza ai pensieri dei bambini, in modo che sindaco e assessori debbano sempre di più ascoltarli e tenerne conto5.
I bambini progettisti
Un secondo modo di partecipazione alla vita della città è il
contributo progettuale che i bambini possono dare offrendo le loro idee, le loro proposte alla soluzione dei diversi
problemi urbanistici che via via si presentano. Tempo fa il
presidente dell’ordine degli architetti di una provincia italiana contestò il ruolo di progettisti che il Laboratorio di Fano affida ai bambini, considerandolo improprio. La polemica non era banale e rozza, ma mirata ad approfondire
una novità che stupisce e forse lascia perplesso il tecnico
4
L’imitazione dei comportamenti degli adulti è sempre stata una delle basi
fondamentali del gioco infantile (dalla guerra al dottore, da mamma e papà al
negoziante) e quindi sono sicuro che quei bambini che vivono l’esperienza del
Consiglio comunale infantile vivono una bella esperienza. Dubito invece che incidano in maniera diretta e forte nella vita della città, nella attività degli amministratori adulti. Questa era ed è invece l’unico obiettivo del progetto di cui stiamo parlando e per questo, finora, si è preferita questa forma di partecipazione
dei bambini alle scelte della città.
5
Si veda la scheda n° 2: «Il Consiglio dei bambini».
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che istituzionalmente è titolare della progettazione. Questo confronto fu anche per noi motivo di riflessione e di
chiarimento.
Invitare i bambini a progettare spazi e strutture vere
della città, con la collaborazione di tecnici come urbanisti,
architetti, psicologi, ecc., non significa delegare ai bambini il compito della progettazione, che sarà sempre e comunque legato ad un titolo abilitante, che renderà un adulto autore e responsabile del lavoro realizzato (non potremo denunciare un bambino per non aver previsto il drenaggio nella progettazione di un giardinetto). Significa invece aprire anche ai bambini la possibilità del contributo
e della partecipazione.
Oggi è frequente l’esperienza della «architettura partecipata» e cioè della partecipazione degli utenti alla definizione delle caratteristiche dell’opera commissionata al tecnico. L’architetto incaricato di realizzare un nuovo insediamento abitativo può ricevere dal Comune, suo committente, l’indicazione di consultare i destinatari della sua
opera, il Consiglio di quartiere, le associazioni della zona,
per conoscere le loro esigenze ed eventuali loro idee e
proposte. Queste consultazioni avvengono con incontri,
dibattiti, questionari. Ma se volessimo allargare ai bambini questa forma di partecipazione, come potremmo fare?
Come si fa a conoscere i bisogni e le idee dei bambini?
Certo non con questionari e con dibattiti, ma, per esempio, attraverso il disegno e l’attività pratica. Il progettare
è una buona tecnica per conoscere quello che pensano i
bambini.
Attraverso il progetto, liberandosi dagli stereotipi, lasciando libera la creatività, i bambini mettono a confronto la realtà, i loro bisogni, i loro desideri e le possibili soluzioni. La progettazione, fino alla realizzazione concreta
di un plastico, chiede ai bambini, oltre alle importanti fasi
della discussione e della progettazione grafica, anche operazioni concrete come il manipolare, colorare, incollare,
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nelle quali tutti i bambini sono competenti. Questo significa che la progettazione riesce a non selezionare i bambini «bravi» nella espressione verbale, scritta e grafica, come spesso succede per le attività scolastiche, e questo deve farla considerare una proposta particolarmente significativa. Anche il progetto più fantasioso può aiutare un
adulto attento e interessato a conoscere il pensiero infantile e attraverso questo a trovare soluzioni nuove, più belle e più giuste.
Per far questo dobbiamo formare nuovi operatori capaci di lavorare con i bambini. Potranno essere architetti,
urbanisti, psicologi, pedagogisti, naturalisti, sociologi, o
altro che, rinunciando ciascuno alle proprie specifiche
competenze, diventino bravi a fare cose nuove: aiutare i
bambini ad osservare dentro di loro le insoddisfazioni e i
desideri, permettere loro di liberarsi dagli stereotipi, sollecitare una voglia nuova di osare di più, di chiedere di più,
liberare la creatività, la fantasia in un dialogo sempre possibile, ma mai avvilente, con la realtà, con i costi, con le
leggi.
Alla fine conosceremo i bisogni e i desideri dei bambini, che probabilmente non potranno tradursi in pratica così come loro li hanno espressi, ma potranno essere delle
preziose indicazioni da dare al progettista che sarà incaricato di realizzare il progetto. Possiamo star certi che se i
bambini potranno partecipare alla progettazione della
città, essi la sentiranno, sia oggi, da bambini, sia domani
da adulti, come «loro», la città da curare e da difendere, come facciamo tutti con la nostra casa6.
Aprire ai bambini l’esperienza della progettazione non
significa solo garantirsi le loro idee e il loro contributo, significa anche compromettersi con scelte nuove, con modifiche anche profonde nelle abitudini di una amministrazione. Mi riferisco per esempio ai tempi della burocrazia,
6
Si veda la scheda n° 4: «I bambini progettisti».
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che la consuetudine fa spesso considerare necessari ed
oggettivi, ma che sono in genere frutto di inerzia e di cattiva organizzazione dei servizi. Se il progetto dei bambini
viene approvato dovrebbe voler dire che questi possono
vederlo realizzato mentre sono ancora bambini, non quindi dopo tre, quattro anni, ma dopo alcuni mesi. Se ci sono delle difficoltà occorre informare i bambini, aiutarli a
capire e a seguire l’iter. Negli anni dell’infanzia il tempo
conta molto, si cambia rapidamente, si modificano le aspettative, i bisogni, i gusti. Se passa troppo tempo i bambini perdono interesse e si formano la convinzione che i
grandi sono sempre gli stessi, disponibili e rapidi a promettere e lenti a mantenere.
Questo si deve evitare perché altrimenti otteniamo il risultato opposto. Meglio allora non prendere impegni: se
si pensa che non potrà cambiare nulla, nelle pratiche, nelle abitudini, nei tempi, allora si riconosca con onestà che
la città non può diventare dei bambini.
Credo che sia chiaro che quanto qui si è detto per i
bambini, vale né più né meno per tutti i cittadini. I cittadini perdono il senso della città, dei progetti, delle promesse nel complicato itinerario burocratico, nel continuo rinvio delle responsabilità, nel prolungarsi incomprensibile
dei tempi.
Il bambino nella testa degli adulti
Perché il bambino possa essere veramente protagonista è
importante aiutare gli adulti a sviluppare una nuova sensibilità: il sindaco, la Giunta, il Consiglio comunale, i dirigenti e i tecnici del Comune debbono essere aiutati a considerare la realtà dei bambini, le loro richieste e le lacune
della città rispetto alle loro esigenze. Vale la pena lavora46
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re con i vigili urbani, con gli anziani, con i medici dell’ospedale pediatrico, con i commercianti, con tutti quegli operatori, quelle categorie sociali che possono avere un
ruolo importante per aiutare i bambini a ritrovare una loro autonomia. È importante lavorare con gli insegnanti
perché la scuola diventi sempre più una scuola adatta ai
bambini, che i bambini possano riconoscere e amare, di
cui possano essere fieri. Tutti gli sforzi dovranno naturalmente mirare a fare in modo che si modifichi l’atteggiamento di tutti gli adulti e specialmente dei genitori, per rispettare le esigenze dei bambini. Questo sarà un compito
importante del Laboratorio, da realizzarsi non tanto attraverso conferenze, pubblicazioni, ma attraverso iniziative
concrete, proposte, attività7.
7
Si vedano le schede n° 6: «I seminari di Giunta» e n° 7: «Il vigile ‘amico dei
bambini’».
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Che i bambini
possano uscire da soli di casa
Torniamo alla proposta: assumere il bambino come parametro per la trasformazione delle nostre città. Volendo
procedere da questa affermazione generale in senso operativo occorre fare una importante precisazione. La condizione dell’infanzia nel mondo è fortemente differenziata
e oscilla fra due estremi. Da un lato la condizione dei bambini occidentali, ricchi, metropolitani o comunque cittadini, che è quella descritta sopra e che arriva alla situazione
patologica della solitudine. Dall’altro la condizione di abbandono dei bambini delle società povere, del sud del
mondo, delle grandi metropoli del Sudamerica. Una condizione che porta i bambini a vivere da soli, subendo violenze da parte degli adulti che vedono in loro un pericolo
o anche solo un disturbo. Una situazione di debolezza e di
impotenza che porta i bambini ad essere sfruttati per lavori inadatti, per manovalanza non punibile dalla delinquenza organizzata, per traffici sessuali e perfino per l’espianto di organi. Le due condizioni hanno in comune lo
svantaggio del bambino nelle rispettive società e confermano la correttezza della proposta di ripartire proprio dal
bambino per ricostruire società più giuste, più umane, più
adatte per tutti. Ma certamente le due situazioni richiedono valutazioni e soluzioni radicalmente diverse.
Non si azzardano in queste pagine possibili soluzioni
applicabili nei paesi del sud del mondo, che richiedono co49
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noscenze e competenze sconosciute a chi scrive. Si spera
che altri riprendano questo stimolo studiandone adeguate
applicazioni a quelle condizioni1. Si prosegue invece descrivendo le concrete possibili applicazioni della proposta
nelle nostre città del mondo occidentale, ricche e consumistiche. Va però detto che anche questa condizione privilegiata contiene una grande variabilità di condizioni che
va dal paese e dalla piccola città dove gli effetti della paura sono ancora poco presenti, alla grande città dove la solitudine dei bambini è quasi totale, alle grandi periferie più
degradate dove anche nel nostro occidente si trovano situazioni simili a quelle del terzo mondo, con bambini che
vivono in strada in situazione di abbandono2.
Quale verifica di una corretta applicazione di questa
nuova filosofia del governo della città si indica un obiettivo concreto, apparentemente piccolo e semplice: che i
bambini possano uscire da soli di casa.
Perché è così importante uscire di casa?
Per persone come chi scrive, che hanno avuto la possibilità, probabilmente la fortuna, di vivere la propria infanzia
prevalentemente fuori casa, fra le macerie delle case bombardate dalla guerra, nei vicoli della città, nelle capanne
1
In più occasioni, e in particolare durante la sessione del Tribunale internazionale dei popoli, tenuta a Napoli nel 1995, e in conferenze tenute negli ultimi anni in Sudamerica, ho avuto l’opportunità di verificare l’attenta accoglienza del progetto generale che qui si propone, e cioè di assumere il bambino come parametro di cambiamento, da parte di rappresentanti di paesi del sud
del mondo, anche se occorre lavorare per trarre da quello applicazioni volta per
volta adeguate alle specifiche necessità di ogni realtà sociale.
2
In questo libro si è affrontato il tema, limitatamente alla realtà italiana e in
particolare a quella dei bambini di strada del centro storico di Palermo. Si veda
il paragrafo della parte seconda: «La strada, un luogo di tutti» e la scheda n° 19:
«Un giardino di pietra».
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degli attrezzi agricoli dei nonni, è forte la tentazione di dire: «che i bambini possano di nuovo uscire da soli di casa». Siamo invece consapevoli di quanto questo atteggiamento nostalgico sia scorretto. Le condizioni in cui crescono oggi i nostri bambini sono assolutamente inedite,
senza possibili confronti con quelle della nostra infanzia.
E non sono nuove solo perché si è perso il senso di vicinato, la solidarietà, la sicurezza, ma principalmente perché le relazioni sociali sono diventate enormemente più
complesse, le distanze più ampie. È difficile conoscersi, è
difficile scendere dagli appartamenti dei piani più alti, è
pericoloso attraversare le strade, ecc. La città, tuttavia, è
diventata anche più ricca, più articolata e, se vogliamo,
più affascinante.
D’altra parte uscire di casa, percorrere le strade da solo, conoscere il suo ambiente è una esigenza importante nella crescita non solo sociale, ma anche cognitiva, del
bambino. Andare a piedi, passeggiare è per noi adulti un
piacere, un regalo che ogni tanto ci facciamo, ma per i
bambini è una necessità. I nostri spostamenti sono sempre più spesso dei trasferimenti, passaggi da punto a punto, finalizzati ad un obiettivo, quindi proiettati al futuro, legati ad una funzione. Distratti da queste preoccupazioni
cerchiamo di raggiungere nel tempo più breve possibile il
luogo di destinazione3. I bambini si comportano in maniera completamente diversa. Essi vivono i loro spostamenti come una successione di momenti presenti, ciascuno importante di per sé, ciascuno degno di una sosta, di
una meraviglia, di un contatto. E allora i tempi si allungano, le tasche dei bambini si riempiono di sassi, di foglie,
di carte e la mente si riempie di immagini, di domande, di
nuove scoperte. E tutto sta insieme, il bello, il nuovo, il ge3
Un esempio efficace di questi spostamenti adulti è la metropolitana: un
tubo nero fra due stazioni. Il tragitto, il percorso, è scomparso, rimangono solo un punto di partenza e un punto di arrivo. Il tempo di trasferimento è tempo
perso e quindi deve essere il più breve possibile.
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nerale e il particolare. E questo è spesso causa di incomprensione con i grandi che raccomandano stupidamente:
«Non ti fermare ogni momento!», «Non perdere tempo!»
senza rendersi conto che è proprio nel tempo perso che
si diventa grandi4.
Il guaio è che la possibilità di uscire dei bambini, la loro
autonomia è inversamente proporzionale alla nostra: più
noi adulti ci muoviamo in macchina, più allarghiamo il
nostro raggio di movimento e più creiamo pericolo, intasiamo spazi, inquiniamo l’aria, aumentando le difficoltà di
autonomia dei nostri figli. E quando i bambini si muovono,
sempre più frequentemente si muovono con noi, dentro la
nostra macchina, nel sedile posteriore. Questo significa che
il bambino non riesce a vedere la città, non riesce a notare
le sue caratteristiche, passa velocemente, non può rispondere ai continui bisogni di presente, di curiosità, di sosta. È
trascinato da noi in un innaturale spostamento finalizzato
ad una meta. In questo strano modo di muoversi non riesce a fissare niente, a organizzare il suo spazio, a costruirsi
la sua città. Spesso i bambini di oggi crescono con problemi di organizzazione spaziale e con una bassissima conoscenza della loro città, del loro quartiere, della loro zona.
Vivere esperienze proprie
Già si è detto della importanza del gioco libero nello sviluppo dell’uomo. E gioco libero implica autonomia, ritro4
In una bella esperienza sulla organizzazione spaziale dei bambini più piccoli, gli educatori di un nido di Reggio Emilia uscivano uno per volta, con un bambino per mano, e si facevano guidare a casa. Una educatrice mi raccontava che
un bambino, arrivato ad un incrocio, aveva girato a sinistra e lei gli aveva chiesto di spiegarle come faceva a sapere che era ora di girare. Il bambino con un
certo stupore e dopo averci pensato un po’ rispose indicando la strada: «Non vedi che c’è quel pezzo di carta?». Questo significa che il bambino sapeva dove girare, ma non aveva dei punti di riferimento, probabilmente utilizzava un insieme
di informazioni che sommate dicevano: «È ora di girare». Di fronte alla domanda
dell’adulto, non potendo spiegare tutto questo, ha preferito dare una risposta corrispondente all’attesa, utilizzando il primo indizio che gli capitava davanti.
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varsi da soli, liberi da controlli, con la possibilità di rischiare in proprio, per provare la soddisfazione dei problemi risolti, delle difficoltà superate.
Una volta il tempo dei bambini era diviso chiaramente
fra quello formale, del dovere, che era quello della scuola,
dei compiti, del catechismo; e quello informale, del piacere, che era quello del gioco: il «tempo libero». Questo tempo era amministrato in modo autonomo dal bambino e, se
non violava alcune regole sociali, poteva allontanarsi da
casa, incontrarsi con chi voleva, per fare i giochi che preferiva. Era il tempo delle esperienze personali, quelle che
portavano le bambine e soprattutto i bambini ad esplorare l’ambiente circostante, a conoscerne i segreti, spiando
la vita degli animali e delle piante, sperimentando i diversi
climi, le caratteristiche dei diversi materiali naturali.
Oggi il tempo libero dei bambini è scomparso. I pericoli
in agguato fuori della porta di casa sconsigliano di lasciare
che i bambini escano da soli e le migliori condizioni economiche permettono di regalare ai figli l’iscrizione alle tante scuole pomeridiane: la piscina, la chitarra, l’inglese, la
danza, la palestra... «Dovresti essere riconoscente, oggi tu
puoi conoscere tante cose che noi da piccoli non sognavamo nemmeno!» diciamo ai nostri figli. Naturalmente i
genitori più aperti fanno scegliere ai figli quali scuole pomeridiane frequentare, così l’eventuale successiva stanchezza o volontà di smettere, possono essere contestate,
oltre che dai motivi economici, anche dai nobili motivi dell’impegno e della coerenza: «L’hai scelto tu». Praticamente un ricatto. Se sommiamo i due rientri pomeridiani a
scuola previsti dai moduli, la probabile lezione di catechismo, due o tre attività «volontarie» e i compiti, i pomeriggi
del bambino sono tutti compromessi. Rimane una fascia di
un’oretta prima di cena e questa di solito se la prende la televisione.
Contemporaneamente le madri si sono trasformate in
taxiste e passano il loro pomeriggio accompagnando i fi53
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gli e aspettandoli fuori della palestra, della piscina, della
parrocchia. E nella città della incomunicabilità si formano
i nuovi microgruppi sociali delle madri che aspettano; così come per i mariti si forma il gruppo di quelli che portano fuori il cane la mattina presto o la sera tardi.
Una riflessione curiosa e preoccupante: se l’organizzazione del lavoro proseguirà con le tendenze attuali, gli orari di lavoro tenderanno a diminuire sempre di più. I nostri
bambini di oggi saranno domani lavoratori con molto più
tempo libero rispetto a quanto ne abbiamo noi oggi, ma
saranno stati bambini senza tempo libero e quindi probabilmente incapaci di utilizzarlo, di approfittarne. Temo che
questa potrà diventare una ennesima chance in mano alla produzione commerciale che offrirà idee, strumenti,
manuali, animatori per il tempo libero, così come oggi ne
offre per il gioco dei bambini per i loro compleanni, per
le vacanze della famiglia...
La scuola, almeno così indicavano i buoni pedagogisti
e i buoni maestri, doveva essere il luogo dove le esperienze personali degli allievi si confrontavano, si elaboravano
fino a giungere insieme, allievi e insegnanti, a nuove conoscenze. Questo è il significato di esperienze didattiche
importanti come il «testo libero» e il «testo collettivo»5.
5
Ci si riferisce alla proposta del «testo libero» di Celestin Freinet portata in
Italia dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) e del «testo collettivo».
Per testo libero si intende la redazione assolutamente volontaria di un breve testo che documenti un evento, una esperienza che l’allievo ha vissuto fuori della
scuola e che ritiene possa interessare i suoi compagni. Ogni giorno, in classe,
si riserva un tempo per la lettura, la discussione e la elaborazione collettiva dei
testi liberi, i migliori dei quali entrano poi nel giornalino scolastico. Vale la pena notare la profonda differenza di questa proposta rispetto a quella, purtroppo non ancora scomparsa, dei «pensierini». In questo caso si chiede agli allievi
di scrivere non importa cosa (per esempio dieci pensierini sulla primavera, sulla mamma o addirittura a piacere), per nessuno (sarebbe assurdo leggere in classe 200-250 frasi banali), purché corretto; esattamente contro ogni principio
della comunicazione. Per testo collettivo si intende la somma dei contributi personali per raggiungere collettivamente un risultato più alto e più complesso che
non è più di qualcuno, ma di tutti. Così nasce Lettera a una professoressa
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Queste opinioni, assolutamente minoritarie ai tempi
degli autori di queste proposte, sono state oggi quasi completamente assorbite dalla nostra scuola, almeno a livello
ufficiale, essendo state inserite nei nuovi programmi. Ma
se i bambini vivono solo esperienze collettive, organizzate e controllate da adulti, nelle tante scuole che frequentano e se il restante tempo viene assorbito dalla televisione, su quali esperienze può lavorare la scuola? A partire
da quali conoscenze personali potrà muovere l’attività
scolastica? Spesso la scuola, consapevole di questa deficienza, propone essa stessa delle esperienze, come visite
esterne, attività pratiche, per poterci poi lavorare. Ma è
forte il sospetto che si crei solo un circolo vizioso.
Si sente dire spesso che i bambini di oggi non raccontano niente. Forse perché non hanno niente da raccontare, perché gli adulti che li accompagnano e li vigilano perennemente sanno già tutto! È importante allora che il
bambino, fin dai primi anni, possa uscire da solo, assumendosi il rischio e il piacere di abbandonare le sicurezze
domestiche; scendere in strada, cercare un compagno,
giocare con lui accordandosi sul gioco e sulle regole, o
sperimentando con lui la natura, gli oggetti, facendo i conti con i comportamenti dei grandi; correre insieme rischi
proporzionati alle proprie forze, superando ostacoli, affrontando e risolvendo conflitti; tornare a casa stanchi,
forse sporchi, eccitati, con una gran voglia di raccontare
quello che i genitori non possono sapere. Questa esperienza, di cui non sfuggirà la complessità da tutti i punti di
vista, che dovrebbe essere vissuta da tutti i nostri bambini
a partire dai tre, quattro anni, è oggi possibile, forse per
un bambino dopo i dieci anni e per una bambina ancora
più tardi, quando il periodo della grande crescita cogniti(Scuola di Barbiana, 1967) e vari lavori all’interno del MCE, per esempio La
mongolfiera, romanzo scritto in due anni dalla classe di scuola elementare di
Mario Lodi (1972).
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va e sociale è abbondantemente concluso. Che conseguenze porterà questo ritardo nel bambino?
Gli incidenti domestici
Un’altra drammatica contraddizione è quella degli incidenti. Noi chiudiamo i nostri figli in casa per difenderli, eppure la casa è il luogo di gran lunga più pericoloso per loro. Per incidenti domestici muoiono più persone che per
incidenti stradali. E chi ne soffre di più sono gli anziani e
i bambini. Eppure le case di oggi sono più sicure di quelle di ieri e ogni anno aumentano le garanzie, le norme di
sicurezza, gli obblighi per i costruttori.
Una volta i fili elettrici erano esterni, si bolliva l’acqua
spesso e in grandi quantità, anche per lavare e lavarsi, i
pavimenti erano spesso sconnessi, le scale ripide, ecc.
Oggi questi pericoli non ci sono più, ma gli incidenti aumentano.
Il fatto è che una volta si stava in casa lo stretto indispensabile, per mangiare, dormire, fare i compiti, a volte
per dare una mano alla mamma e i rischi, semmai, li si andava a cercare fuori. Oggi si rimane troppo tempo a casa. Il bambino deve restarci anche quando non ha più nulla da fare, allora si annoia e un bambino annoiato è un
bambino a rischio! Non c’è sicurezza che tenga di fronte
al bisogno di scoprire, di fare, di giocare. Per ridare un po’
di interesse alle solite stanze dove passa troppo tempo
non potrà resistere alla tentazione di infilare due pezzetti
di fil di ferro dentro i due affascinanti buchini della presa
della corrente o di smontare la presa, o di mettere in moto il tritatutto o di aprire il rubinetto del gas. Se metteremo alcolici, detersivi e medicine fuori dalla portata dei
bambini, come sempre ci raccomandano, e li metteremo
ad esempio più in alto, otterremo due risultati negativi:
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primo che noi vivremo più scomodamente e secondo che
il bambino dovrà sommare al pericolo dei prodotti quello
dell’arrampicarsi su una seggiola messa sopra il tavolino;
perché alle bottiglie ci arriverà comunque. E sono sempre
pericoli subdoli, incontrollabili. D’altra parte il giorno che
un bambino smetterà di cercare e di rischiare sarà per lui
un gran brutto giorno!
Oggi si stanno promuovendo, anche a livello internazionale, programmi di studio sulla sicurezza domestica. Mi
dichiaro in assoluto contrasto con tali progetti, se servono
a dare a noi adulti la tranquillità di poter lasciare i nostri
bambini da soli in casa anche per tempi maggiori. E d’altra parte più la casa sarà sicura e più sarà pericolosa, perché il pericolo non sarà né previsto, né prevedibile e quindi non sarà controllabile. Se vogliamo veramente bene ai
nostri figli dovremo cominciare a difenderli dalle case! Bisogna far in modo che i bambini non siano costretti a stare in casa più del necessario, che possano uscire, che possano rischiare per imparare a difendersi dai pericoli. Il rischio è una componente necessaria dello sviluppo: sbucciarsi un ginocchio, sfuggire ad un agguato degli amici,
correre, saltare, arrampicarsi, ma anche fare attenzione
ad un’auto che arriva imparando a valutare il rapporto fra
velocità e distanza, sono rischi sani, che un bambino può
controllare, che lo aiutano a crescere.
Di fronte all’ossessiva protezione nei confronti del
bambino, sorge un dubbio drammatico: che tutti i rischi di
cui il bambino aveva via via bisogno e che non ha potuto
correre, in qualche modo si sommino, fino a diventare una
urgenza insopportabile, che esplode nell’adolescenza,
quando il ragazzo può decidere da solo, e allora gioca con
la morte. Potrebbe essere questa una interpretazione dei
giochi suicidi dei giovani, come la roulette russa, l’attraversamento degli incroci in velocità, lo stendersi di notte
sulla linea di mezzeria delle strade...
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L’insolubile conflitto con la televisione
Tutti sono convinti che troppa televisione faccia male e
nessuno sa come fare in modo che i bambini non ne abusino. La strada più battuta è quella della regolamentazione rigida tipo: «Solo un’ora al giorno», «Solo un cartone e
una trasmissione», «Se la vedi adesso dopo non puoi vedere la tua trasmissione preferita» e così via. Sono regole sagge, ma che i bambini non possono capire, perché
spesso debbono spegnere la televisione per non fare nulla. Significa vivere un continuo conflitto con i propri figli
e questo i genitori preferiscono evitarlo per non compromettere il poco tempo che passano con loro. Abbiamo
un’altra soluzione, molto più semplice, molto meno conflittuale, che ci suggeriscono gli stessi bambini. Da tutte le
ricerche anche recentissime sia straniere che italiane risulta che la stragrande maggioranza dei bambini pone al
primo posto dei propri desideri il giocare con gli amici. La
televisione viene in genere al secondo posto, con grandissimo distacco6. Basta quindi accontentarli anche in
questo caso, come facciamo tanto spesso per i loro capricci più sciocchi e diseducativi. È sufficiente fare in modo che i bambini possano uscire, incontrarsi e giocare insieme e avremmo risolto anche questo grave problema
educativo.
Anche per la televisione, come per la casa, si fa un gran
parlare di nuove soluzioni per una migliore programmazione per i bambini. Di nuovo e con forza confermo il mio
dissenso. Non voglio una televisione migliore se questo
potrà autorizzare i genitori a lasciare ancora più tempo i
propri figli in braccio a questa comoda baby sitter, essendo sicuri che vedranno solo buoni programmi. Facciamo
in modo invece che i bambini possano trascorrere il loro
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Oliverio Ferraris (1995).
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tempo libero giocando con i loro amici fuori di casa e allora sì che ci sarà concorrenza e varrà la pena lavorare per
una buona televisione per ragazzi. Che possa succedere
che fra amici che stanno giocando liberamente si dica:
«Oggi è giovedì, sono le cinque, torniamo a casa a vedere quella trasmissione, perché ne vale la pena!».
Bambine e bambini
Per ragioni assolutamente non di principio, ma semplicemente pratiche e di consolidata abitudine, quando scrivo
non riesco ad utilizzare le due forme maschile e femminile, quindi bambina e bambino, oppure il terribile bambina/o. Ho sempre avuto la sensazione che sia estremamente scomodo leggere un testo così scritto, mentre lo
trovo accettabile in documenti, manifesti, testi di legge.
Spero non sia un’ultima resistenza maschilista. Ho anche
pensato di ricorrere a forme neutre come infanzia o creatura, ma sono sempre tornato, senza grandi sensi di colpa, al termine «bambino» così concreto e familiare, rifiutando invece sempre il termine «fanciullo» che tanto piace, o per lo meno piaceva, al nostro Ministero della Pubblica Istruzione7.
Detto questo non per scusarmi, ma almeno a titolo di
chiarimento, debbo però riconoscere e mettere in eviden7
Quando disegno (firmandomi come FRATO), se debbo inventare un marchio nel quale compaiano i miei personaggi e per ragioni di sintesi, di rappresentazione emblematica, non posso rappresentare un bambino e una bambina,
spesso ho optato per una bambina. Una bambina figura per esempio nel marchio del Reparto di Psicopedagogia del CNR, una bambina nel marchio del Laboratorio «Fano la città dei bambini», in quello di Palermo e in altri ancora. Questa libertà è consentita dal linguaggio grafico (mai nessuno mi ha chiesto «Come mai c’è solo una bambina e non un bambino?»), ma non dal linguaggio verbale e ancora meno da quello scritto. Se avessi intitolato il libro «La città delle
bambine» tutti avrebbero pensato ad una proposta specifica per i bambini di sesso femminile e non per tutti.
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za che il problema esiste e non è di facile soluzione. Quando diciamo che i bambini debbono poter uscire da soli di
casa dobbiamo essere ben consapevoli che intendiamo le
bambine e i bambini, e che quando saremo riusciti a far
passare il principio che è importante e giusto che i bambini escano, non è ancora certo che questo sia accettato
anche per le bambine. Occorre molta vigilanza, proposte
adeguate e spesso creative. Il Consiglio dei bambini del Laboratorio di Fano, per esempio, è formato in maniera rigorosamente paritetica dovendo ogni scuola esprimere
due rappresentanti, una bambina e un bambino.
Ma evidentemente queste sono le cose più facili da ottenere, più difficile è garantire una effettiva uguale autonomia ai bambini dei due sessi. Fare in modo che un genitore possa nello stesso modo, e con la stessa fiducia,
permettere alla figlia o al figlio di uscire di casa per incontrarsi con gli amici.
Il bambino come indicatore ambientale
Gli ambientalisti utilizzano gli indicatori ambientali, cioè
quei fenomeni, quegli organismi, che ci aiutano a verificare la salute o il degrado del nostro ambiente. I licheni
per esempio modificano le loro caratteristiche se l’ambiente si inquina, le lucciole non tornano, così pure le rondini, e così via. Per la città il bambino può essere considerato come un sensibile indicatore ambientale: se nella
città si incontrano bambini, che giocano, che passeggiano, da soli, significa che la città è sana; se nella città non
si incontrano bambini significa che la città è malata.
Una città dove i bambini stanno per strada è una città
sicura, non solo per loro, ma anche per gli anziani, per gli
handicappati e per tutti i cittadini. La loro presenza rap60
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presenta un incoraggiamento agli altri bambini a scendere e un deterrente per le macchine e per gli altri pericoli
esterni. La strada deserta è invece pericolosa per il bambino che la attraversa, perché l’automobilista non se lo
aspetta, non lo prevede; è pericolosa per tutti perché invita al crimine e lo rende sicuro.
Ma perché sia possibile ai bambini uscire da soli di casa occorre cambiare la città, completamente, anche se
gradualmente. La città, cresciuta adottando selvaggiamente la scelta della difesa, deve essere capace di fare
scelte alternative, di apertura alla vita, di apertura al futuro. Occorre quindi operare su vari livelli e in varie direzioni.
Rinegoziare
il rapporto di potere fra l’auto e il cittadino
In molti paesi del nord Europa e del nord America si stanno spendendo notevoli quantità di denaro in favore dei rospi. Sì, proprio dei rospi. Le autostrade sono delle barriere insormontabili che dividono fatalmente i loro territori.
Così i poveri rospi non possono più passare dagli ambienti
acquatici della riproduzione a quelli umidi della loro vita
abituale, oppure, se le maglie delle reti di recinzione permettono di passare, sono costretti ad attraversare le autostrade con una percentuale bassissima di successo. Allora
si è levato un grido di protesta e le società che costruivano o gestivano le autostrade sono state costrette ad aprire dei tunnel di collegamento fra i due lati dell’autostrada
ogni tanti metri. Naturalmente questo ha un costo molto
elevato, ma salva la vita a tanti rospi e permette loro di
percorrere il territorio. Sono solidale con i rospi e sono totalmente d’accordo con questi interventi a loro tutela. Vor61
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rei solo che la stessa attenzione e la stessa sensibilità venissero dedicate anche ai bambini. Anche il loro territorio
è tagliato da strade sulle quali i diritti delle automobili sono dominanti. Attraversarle è pericoloso, i genitori sono
preoccupati e impediscono ai loro bambini di percorrerle
da soli. Così i bambini non possono raggiungere i loro
amici e insieme con loro i posti dove giocare: il cortile, il
campetto, lo stradone.
La barriera fisica diventa una barriera psicologica e cognitiva, limita il campo del bambino, ne limita lo sviluppo
spaziale ed affettivo. È un po’ come se al bambino venisse tolta una metà dei suoi giocattoli, oscurata una metà del
televisore, strappata una metà del libro di testo8.
Nella città di oggi un percorso a piedi è una avventura: marciapiedi occupati da auto in sosta o da esercizi
commerciali, traffico caotico, non rispetto della precedenza dei pedoni sulle strisce pedonali. Se per tutti è difficile lo è ancora di più per i cittadini più deboli come gli
anziani, gli handicappati, i bambini. In queste condizioni
l’uso della macchina, considerata un guscio di protezione, è quasi un atto di autodifesa, con le conseguenze note: congestione del traffico, trasformazione del suolo pubblico in spazio privato, inquinamento dell’aria, inquinamento acustico, vibrazioni che mettono in pericolo i monumenti.
Consideriamo alcune macchine in sosta ai due lati di
una strada e poniamo che la macchina A sia parcheggiata a sinistra in seconda fila, mentre la macchina B sia parcheggiata a destra, di traverso, salendo sul marciapiedi, fino a rendere difficile o impossibile il passaggio dei pedoni. Se arriva l’autogrù della polizia municipale la probabilità di gran lunga più alta è che si porti via la macchina A
8
Interessante lo studio delle ricadute sullo sviluppo socio-cognitivo dei bambini provocate dalle barriere urbanistiche costituite dagli attraversamenti pericolosi (Bonanomi, 1994).
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e non è escluso che la macchina B possa cavarsela senza
neppure una multa. Cosa significa questo? Che si interviene con decisione e mano pesante se la sosta disturba
il movimento delle auto, che si è tolleranti se ad essere
danneggiati sono i pedoni, quindi i più deboli. Eppure una
persona disabile che si muove in carrozzella o una mamma che spinge la carrozzina, potrebbero non poter proseguire il loro percorso; un bambino o un anziano potrebbero essere costretti a scendere dal marciapiedi correndo inutili pericoli.
Le auto sono di fatto le nuove padrone della città, è per
loro che si studiano rimedi e facilitazioni, in loro favore si
effettuano gli interventi più radicali e più costosi. Si pensi
ai piani di nuovi parcheggi nelle grandi città. È a loro che
i vigili urbani dedicano la gran parte del loro tempo e delle loro energie. Le multe effettuate sono per la grande
maggioranza multe per divieto di sosta, per un reato cioè
che danneggia principalmente il movimento delle auto
stesse e relativamente poco le persone. Le auto, in movimento o in sosta, occupano permanentemente una rilevante percentuale del suolo pubblico, trasformandolo in
spazio privato: sono diventate parcheggi quasi tutte le
strade e le piazze. Quando si propone di restituire ai cittadini uno spazio pubblico la risposta più frequente è: «Prima si risolva il problema del parcheggio e dopo pensiamo
ad un uso sociale della piazza». Mi sembra un ragionamento scorretto. Avere spazio per «appoggiare» la propria
auto è certamente una necessità ma non credo si possa
considerare un diritto: quando un cittadino acquista una
macchina il sindaco non si impegna con lui a riservargli
un’area di spazio pubblico sulla quale farla muovere o parcheggiarla. Potersi muovere serenamente a piedi e utilizzare lo spazio pubblico è invece certamente un diritto di
tutti i cittadini. Restituire a tutti la possibilità di muoversi
liberamente a piedi è quindi un dovere prioritario dell’am63
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ministratore ed è un modo corretto e serio di preparare il
futuro della città. Un futuro in cui il potere delle auto finisca là dove cominciano i diritti del pedone, un futuro in cui
la città sia più pulita, meno «occupata», dove ci si possa
muovere, dove ci si possa incontrare, dove insomma si
possa vivere meglio, dove quindi sia possibile per un bambino uscire di casa da solo e giocare con i suoi amici. Quindi la piazza va subito restituita ai cittadini, poi si cercherà,
per quanto possibile, di risolvere il problema del parcheggio delle auto.
Fatte salve le isole pedonali, che dovranno essere potenziate, rispettate9 e introdotte anche nelle zone residenziali periferiche, occorrerà distinguere e trattare in modo diverso, sia nella progettazione che nell’uso, le strade
delle macchine (quelle di grande scorrimento, nelle quali i
pedoni debbono accettare le condizioni delle macchine)
dalle strade dei pedoni (alle quali le macchine possono accedere, ma alle condizioni dei pedoni). Questo ripensamento urbanistico, già in atto in molte città del centro e
nord Europa, dovrà mirare non tanto a creare nuovi e più
rigorosi divieti, ma a rendere impossibile la velocità e il pericolo. Il genitore infatti non vincerà la sua paura perché
è stato abbassato il limite di velocità da 50 a 30 chilometri orari, perché potrà sempre e giustamente pensare alla
possibile violazione delle norme e quindi rifiutarsi di riconoscere autonomia a suo figlio. Ma se la carreggiata della
strada verrà ristretta e resa tortuosa o attraversata da ostacoli, allora la velocità sarà impossibile e gli adulti potranno essere più sereni e più permissivi.
Un buon esempio di intervento strutturale a favore dei
pedoni è il «marciapiede che attraversa la strada»: un pas-
9
Sarebbe auspicabile che anche gli amministratori, i vigili urbani, la polizia
rispettassero l’isola pedonale (almeno nelle città piccole e medie), muovendosi
a piedi o in bicicletta, inviando così un messaggio coerente agli altri cittadini.
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saggio pedonale che mantiene sia il livello che la pavimentazione del marciapiede. Mentre di solito è il pedone
che «scende» dal marciapiede, abbandonando il suo territorio sicuro ed entra in quello pericoloso delle auto, in questo caso il pedone resta nel suo territorio ed è la macchina che, per mezzo di una rampa, «sale» sul passaggio pedonale, invadendo un’area non sua e quindi dovendosi
preoccupare di eventuali passanti.
Se la velocità è impedita la strada è più sicura, non solo perché diminuisce il pericolo del traffico ma perché diventa più difficile anche delinquere: è difficile scappare,
c’è più gente in giro, c’è più controllo sociale.
Aiutare gli adulti a capire
che i bambini hanno bisogno di uscire
Gli adulti hanno paura, hanno giustamente paura, ma, come si diceva sopra, la via della difesa è senza speranza e
senza futuro. Chiudere i bambini in casa significa esporli
al pericolo degli incidenti domestici, affidarli alla televisione e privarli di esperienze fondamentali. Ma superare la
paura è difficile e non lo si fa solo ragionandoci sopra. Gli
amministratori debbono farsene carico e aiutare i loro
concittadini. Bisogna lavorare su diversi piani: innanzi tutto aiutare i genitori a capire che i bambini hanno bisogno
di tempo libero, da amministrare da soli, rischiando in
proprio, più che fare tante cose ed essere impegnati nelle tante scuole pomeridiane; aiutarli a recuperare fiducia
nelle capacità dei propri figli che sono sicuramente maggiori di quelle che essi immaginano. Occorre aiutare i genitori ad uscire dall’ottica individualistica e difensiva, pensando che tutti i bambini debbano ritrovarsi insieme fuori
di casa e che tutti gli adulti debbano essere un punto di ri65
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ferimento e di sicurezza per i bambini. È necessario comunque ridurre il pericolo ambientale rallentando il traffico, favorendo gli spostamenti pedonali e ciclabili, applicando con fermezza quelle norme che puniscono coloro
che non rispettano i diritti dei pedoni.
Occorre aiutare gli adulti a capire che un buon genitore non è quello che rinuncia ad una propria vita perché i
figli possano avere tutto e possano essere accompagnati
alle diverse scuole del mattino e del pomeriggio. La prima
caratteristica di un «buon genitore» dovrebbe essere quella di diventare ogni giorno meno necessario al proprio figlio. Quando un bambino nasce, il momento forse più importante e significativo della profonda trasformazione che
avviene nel giro di pochi minuti, è il taglio del cordone ombelicale. Da quel momento il bambino si separa dalla madre e può iniziare la sua relazione con lei e, attraverso lei,
la sua relazione con il mondo: la grande avventura della
autonomia. Ogni giorno la separazione può essere confermata e consolidata, oppure negata; possiamo diventare meno necessari ai nostri figli e quindi aiutarli ad allontanarsi da noi, o fare l’opposto e annodare nuovi cordoni
ombelicali.
Una seconda caratteristica del «buon genitore» credo
sia quella di essere un buon modello di adulto, un adulto
che faccia pensare al bambino che vale la pena di diventare grande per essere come lui o per incontrare persone
come lui. Un adulto quindi sereno, impegnato, felice. Che
cerca di realizzare le sue aspirazioni, di coltivare le sue passioni, di vivere bene la sua sessualità, di vivere con impegno, con forza e con coerenza la sua professione, i suoi
ideali, le sue fedi. Questo non vale solo nel rapporto fra
genitori e figli, ma anche fra insegnanti e allievi e in generale fra adulti e bambini. Mi sembra questa una prospettiva gratificante, che ci invita alla serenità e all’impegno, anche per avere bambini più felici.
Un adulto sereno e realizzato saprà capire il bisogno
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di autonomia di suo figlio e sarà disposto a superare qualche difficoltà, qualche preoccupazione per potergliela garantire.
Trovare nuovi alleati dei bambini
Una volta, poche decine di anni fa, i bambini erano di tutti. Il vicinato fungeva da grande controllo sociale. Un bambino che giocava fuori di casa, quando aveva bisogno di
qualche cosa, trovava nei vicini un occhio curioso, attento e preoccupato. Ricordo che se, giocando con gli amici, facevo qualcosa che non avrei dovuto fare (una lite, un
danno, una caduta...), quando tornavo a casa trovavo il
rimprovero o la punizione prima ancora di poter raccontare l’accaduto. Non avevamo il telefono, ma evidentemente la notizia era già stata «premurosamente» portata!
Questo valeva nel piccolo paese dove tutti si conoscevano, ma valeva anche nella grande città dove il quartiere viveva una frequentazione quotidiana dei suoi abitanti, per
lavoro, per la spesa, per la scuola, sempre vicini all’abitazione. Ma il criterio di assunzione di responsabilità sociale nei confronti del bambino era più largo ancora del conoscersi o dell’essere vicini di casa: un bambino fuori casa, specie se da solo, era controllato e protetto dagli adulti che incontrava. Più che vicini di casa si potrebbe dire vicini al bambino. E questo «vicinato» cresceva con l’età, si
allargava man mano che si sviluppava l’autonomia del
bambino e gli permetteva spedizioni più ardite in territori
nuovi, inesplorati. Anche lì trovava adulti interessati e
preoccupati. Questo naturalmente favoriva la crescita, la
scoperta di spazi nuovi, la possibilità di avventure nuove
che costruivano e consolidavano nuove conoscenze.
Ora questa solidarietà sociale sembra perduta. La scel67
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ta della difesa ha inibito l’interesse verso gli altri, o per lo
meno lo ha nascosto, mascherato. La tentazione immediata è quella di chiudersi in luoghi sicuri, la casa, la scuola, le varie scuole pomeridiane. E crescono le richieste di
altri spazi, forse più liberi, ma sempre protetti e tutelati come ludoteche, laboratori, giardinetti con cancellate e ingressi vigilati10.
La perdita dell’autonomia produce rassegnazione, ma
anche scontentezza e malessere. Un desiderio e una disponibilità alla solidarietà sopravvivono, lo si vede dalle
reazioni interessate a proposte come questa: occorre tirarle fuori, permettere loro di diventare esperienze. Non
possiamo però aspettare che si ricostruisca questa diffusa
solidarietà per avviare le esperienze di cui stiamo parlando: i bambini hanno fretta, sono bambini per pochi anni.
Occorre quindi identificare e formare subito nuovi alleati
dei bambini.
I vigili urbani
Le città hanno un piccolo esercito che esaurisce le sue
energie nell’essere quasi esclusivamente a servizio delle
auto. Questo conferma il potere dell’auto nella nostra società e, nella attuale carenza di sensibilità sociale e di solidarietà, sembra uno spreco eccessivo e anche uno svilimento di una presenza che potrebbe essere molto più significativa e qualificata. Si propone che i vigili urbani diventino anche, forse prioritariamente, gli amici dei bambini. Quando un bambino si trova in qualche situazione di
necessità o di disagio, se vede un vigile, dovrebbe tranquillizzarsi perché sicuro che quel signore in divisa risolverà il suo problema. Quali necessità, quali disagi può in10
A questo proposito è interessante l’analisi delle differenze fra gli spazi urbani «play ground» e «sandbox» (Bozzo, 1995).
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contrare un bambino? Può aver bisogno di fare pipì e vergognarsi di entrare in un bar per chiederlo, può avere sete, può aver fatto tardi e avere necessità di telefonare a casa e non avere denaro, può essere molestato da qualche
adulto, può aver litigato con un amichetto, può essersi
perso, può essersi sbucciato un ginocchio cadendo, può
aver perso il biglietto dell’autobus per tornare a casa. Ognuna di queste situazioni rappresenta una sofferenza,
una sofferenza grande come quasi sempre sono quelle dei
bambini. Il vigile urbano dovrebbe avere come suo compito istituzionale quello di non lasciare mai un bambino in
stato di disagio e di angoscia. Dovrà risolvere il suo problema, accompagnandolo in un bar perché possa bere, fare la pipì, telefonare, oppure offrendogli il biglietto dell’autobus. Sarebbe importante che questo ruolo sociale
dei vigili venisse pubblicamente dichiarato e pubblicizzato
in modo che lo conoscano tanto i bambini che i loro genitori. Se vogliamo veramente che le autonomie dei bambini aumentino dobbiamo far diminuire le paure dei loro
genitori e di tutti gli adulti.
Come ormai più volte si è detto, vigili amici dei bambini significa anche punti di riferimento per gli anziani, per
gli handicappati, per la signora che torna carica di borse
dalla spesa. Amici dei bambini significa insomma amici dei
cittadini. Per questa nuova e importante funzione sociale i
vigili vanno preparati, aprendo momenti di formazione e
di dibattito per definire nuovi obiettivi e comportamenti11.
Si potrebbe pensare di allargare questa funzione sociale di «amici dei bambini» a tutti coloro che indossano una
divisa e che per questo diventano facilmente riconoscibili.
Il sindaco potrebbe invitare poliziotti e carabinieri, vigilantes e vigili del fuoco, ma anche gli autisti dei mezzi pubblici o i netturbini, ad assumere questo nuovo ruolo per
11
Su questo punto si veda la scheda n° 7: «Il vigile amico dei bambini».
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aiutare la città a diventare più adatta ai cittadini a partire
dai bambini. Per questo dovranno essere organizzati momenti di sensibilizzazione e di formazione.
Gli anziani
Oggi la nostra società ricca sta invecchiando, ha pochi
bambini e la vita si allunga, nasce così l’«allarme» anziani.
Secondo le ultime statistiche ci sono tre nonni per ogni nipote, troppi pensionati rispetto al numero dei lavoratori,
ci sono insomma troppi vecchi e non si sa dove metterli,
cosa farne, come custodirli. In una società consumistica
come la nostra ogni bisogno produce appositi prodotti.
Nascono così i prodotti della terza età, reclamizzati negli
spot televisivi, dai pannoloni alla pasta adesiva per la dentiera. In una città fondata sulla divisione e sulla specializzazione, ogni necessità, ogni disagio, suggerisce adeguati
servizi. Nascono allora i centri anziani, le università della
terza età, le gite organizzate, gli ospizi per vecchi.
Di nuovo risposte pensate non per i loro destinatari naturali, ma per i cittadini adulti, per quelli che i vecchi debbono custodirli, per i cittadini forti. All’anziano non piace
stare con gli anziani. L’anziano ha il suo patrimonio più
importante nella sua storia, nel suo passato, nella sua memoria, ha quindi un grande desiderio di raccontare12. Non
è invece interessato ad ascoltare e ad apprendere perché
sa di non avere un futuro su cui investire. Mettere dieci anziani insieme è creare una situazione paradossale, contro
natura: tutti vorrebbero raccontare, ma nessuno è interessato ad ascoltare. Un anziano ha senso in mezzo alle
altre generazioni, fra i bambini e i giovani che hanno voglia di ascoltare e di imparare. Dieci anziani insieme pos12
Un africano diceva: «Per noi i vecchi sono molto importanti, perché sono come biblioteche ambulanti».
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sono parlare solo della morte che si avvicina. Sono patetici quei viaggi turistici per soli vecchi, quei pullman che li
scaricano d’inverno lungo spiagge deserte (dicono che ai
vecchi fa bene l’aria di mare specialmente d’inverno!), fra
alberghi sprangati, con i capelli bianchi al vento, scene felliniane senza senso, con dentro tanta tristezza.
Esistono sindacati, associazioni sportive, culturali, ricreative, persino università per anziani. Non sono d’accordo, non credo sia giusto. Di nuovo la separazione e la
specializzazione: l’anziano come realtà speciale, con suoi
problemi che richiedono risposte specialistiche come le rivendicazioni pensionistiche, la ginnastica, il ballo, le conferenze, sempre per anziani. Un club di ciclisti della domenica dovrebbe essere aperto a uomini e donne, bambini, adulti e anziani. E quando l’anziano non se la sentirà
più di pedalare con gli altri, potrà insegnare a curare la bicicletta, dare consigli ai più giovani, far sognare i bambini
raccontando le sue imprese. E non organizzare il club degli ex ciclisti che si piangono addosso o che fanno giretti in
triciclo. L’importante è essere vecchi insieme a quelli che
non lo sono, per avere ancora senso. Anche agli uomini
piace stare con le donne e anche ai bambini con i grandi!
Dobbiamo imparare a pensare che quello che consideriamo come «allarme» anziani, possa diventare la «risorsa»
anziani.
L’anziano vive un periodo molto particolare della vita:
sono finite le aspettative, la voglia di emergere, il bisogno
di competere. Un periodo che potrebbe essere sereno,
disinteressato, libero, se non si costringesse l’anziano a
specchiarsi tristemente negli altri anziani o a perdersi nel
suo futuro di morte in solitudine. La serenità, la felicità dell’anziano è legata alla possibilità che la sua esperienza possa servire a qualcuno, che egli possa ancora essere utile a
qualcosa, che tutto il tempo che ha possa essere importante come quello che è passato. Ecco quindi l’anziano, il
nonno, come alleato privilegiato dei bambini.
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Si obietterà che spesso gli anziani sono irascibili, non
hanno nessuna voglia di star dietro ai bambini; è vero e
ne hanno diritto, ma ne abbiamo talmente tanti che certamente ce ne saranno a sufficienza di buoni e di collaborativi. D’altra parte non credo si possa e si debba chiedere agli anziani di assumere ruoli o responsabilità particolari. Credo che si debba chiedere loro di rifiutare l’isolamento in casa, di uscire, di «esserci». Di essere presenti nei
giardini, nei luoghi di ritrovo aperti, nelle strade, di vivere
il quartiere, di condividerlo con gli altri cittadini e in particolare con i bambini, con gli handicappati, perché sia più
vivibile e più sicuro per tutti. La loro presenza garantirà i
bambini.
Si tratta di scelte sociali di fondo, la casa, la strada, i
giardini, il quartiere invece del centro anziani, dell’ospizio.
Scelte che dovrebbero fare lo Stato, gli enti locali, le associazioni. Significa investire energie perché l’anziano
possa rimanere nel suo ambiente, con i suoi familiari, con
i suoi vicini, con i bambini, anziché investirle in costose
strutture di custodia e di emarginazione. Se gli anziani si
sentiranno accettati, utili, necessari, staranno meglio, saranno più autonomi, garantiranno la città. Sarà un grande risparmio economico e sarà una doverosa manifestazione di affetto e di riconoscenza verso chi è venuto prima di noi.
I negozianti
I commercianti, gli artigiani, i negozianti, non sono necessariamente buoni, pazienti e disponibili nei confronti
dei bambini. Per ricevere la licenza non hanno dovuto dimostrare particolari qualità didattiche o educative, ma
condividono una condizione molto particolare e importante per il nostro discorso: «stanno sulla strada». E men72
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tre il vigile urbano e l’anziano in certi momenti potrebbero non essere a portata di bambino, i negozi restano sempre lì e possono rappresentare una sicurezza. Rispetto a
quanto si diceva sopra sulle nuove insicurezze e paure, i
negozianti possono ricostruire una rete di riferimento e di
sicurezza. Possono offrire una risposta semplice alla domanda preoccupata: «Ma se a mio figlio succede qualcosa, a chi può rivolgersi?». Se tutti i negozianti, gli artigiani, ma anche le sedi di banca o gli uffici postali, che si dichiarano disponibili a dare una mano per l’autonomia dei
bambini mettessero un apposito adesivo sulla loro vetrina,
bambini e genitori potrebbero stare più tranquilli perché
saprebbero che, in caso di necessità, ci sono dei punti di
riferimento13. Il commerciante darà un’occhiata al bambino che passa. Al negoziante il bambino potrà chiedere di
poter chiamare per telefono a casa senza pagare, di fare
la pipì, di avere un bicchiere d’acqua, di essere consolato
se gli è successo qualcosa.
Si è accennato ad alcuni possibili alleati dei bambini,
ma dobbiamo insegnare ai bambini che ogni adulto è un
loro potenziale amico. Dovremmo smetterla con le raccomandazioni terroristiche: «Non ti fermare con nessuno», «Non chiedere niente a nessuno» ed insegnare invece che quando hanno bisogno di qualcosa fermino un
adulto e chiedano aiuto. Sarà un piccolo contributo per
educare i bambini a stare nel mondo e cercare di starci bene, ma sarà anche un forte richiamo per gli adulti, intorpiditi ormai nel generale disinteresse ed egoismo.
13
Su questo punto si veda la scheda n° 9: «A scuola ci andiamo da soli».
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Una città adatta ai bambini
Che i bambini possano uscire da soli di casa è un obiettivo importante, anche perché clamorosamente compromesso dallo sviluppo disordinato e irrispettoso della città,
ma non esaurisce la necessità di cambiamento che oggi la
città richiede. La città, cresciuta quasi contro i bisogni dei
suoi abitanti, specialmente di quelli più deboli, deve rivedere tutte le sue strutture e le sue articolazioni per diventare adatta per tutti. Per questo vale la pena proseguire
nella sfida, nella provocazione di assumere il bambino come parametro, continuando a pensare che quando la città
sarà più adatta ai bambini sarà più adatta per tutti.
Non potendo qui esaminare analiticamente tutte le
sfaccettature di una città, si daranno solo degli esempi.
Nella parte terza del libro, attraverso le schede, si cercherà
di entrare più operativamente nelle proposte, nelle attività, nelle iniziative.
La città bella1
L’Italia è famosa nel mondo per le sue città. I nostri antenati hanno dedicato energie, risorse, ingegno e creatività
per fare in modo che i luoghi della loro vita, del loro lavoro, dove allevavano i loro figli, si amavano, passavano
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L’architetto Cervellati mi perdonerà se prendo a prestito il titolo del suo
libro.
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la loro vecchiaia, dove morivano, fossero belli2. Che siano tanto belle lo dice il fatto che il nostro paese possiede
più del 60% delle opere d’arte di tutto il mondo e che si
muovono dai paesi più lontani per visitarle, passeggiando
nelle loro strade. È veramente sostenibile l’apparente sospetto contemporaneo che tutto questo sia avvenuto perché i nostri antenati non avevano niente di più importante da fare? O non è più credibile che noi stiamo perdendo il senso della vita? Noi corriamo, certamente facciamo
più cose e più rapidamente dei nostri predecessori, ma poi
abbiamo «diritto» (non solo bisogno) alle ferie, manteniamo un esercito di psicologi, consumiamo quantità spaventose di psicofarmaci.
Le nostre città sono piene di chiese, di monumenti, di
palazzi, di fontane, di edicole sacre, di pavimentazioni differenziate, di giochi di luce, di prospettive. Percorrendole
si è sempre esposti alla sorpresa, alla meraviglia. Invitati alla sosta per ammirare, per pregare, per incontrare qualcuno. Insomma le città sono dei percorsi. È facilmente prevedibile che il bambino che percorre queste vie si arricchisca anche a livello cognitivo. Erano città pensate per essere percorse a piedi. Perché solo camminando si possono
apprezzare quei particolari, quelle preziosità. E oggi, noi
cittadini privilegiati di questi splendori, cosa facciamo?
Se è possibile cerchiamo di passare sotto, sotto queste
meraviglie: il sogno del cittadino contemporaneo è la metropolitana. Se non è possibile, allora cerchiamo di passare sopra a queste meraviglie o comunque passare veloci. Nascono così le sopraelevate, le tangenziali, le strade
di percorrenza veloce. Se comunque anche queste soluzioni preferenziali non sono possibili perché la città resi2
È utile riflettere sul senso del bello che avevano i nostri vecchi, certamente meno istruiti di noi e destinati ad una vita più dura della nostra. Tornivano,
intagliavano e decoravano le impugnature dei loro strumenti di lavoro, dipingevano con fiori e scene esotiche i carri su cui avrebbero passato una vita di lavoro pesante.
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ste con le sue stupide stradine strette e tortuose e con i
suoi anacronistici monumenti, allora cerchiamo di muoverci dentro una scatola a motore che ci impedisca di fermarci, di ammirare, di sorprenderci.
Il fatto che l’automobile sia la nuova padrona della
città, porta una serie di conseguenze, anche culturali, importanti. Andando in macchina le bellezze della città perdono di importanza, perché non si notano, non si vedono. Correndo a cinquanta chilometri all’ora e dovendo
stare attenti al traffico non si possono notare gli scorci, le
prospettive, i particolari che grandi artisti hanno realizzato anche per noi nei secoli passati. Ma non è solo questo.
Le automobili hanno una loro «idea» di città, una loro
estetica e la stanno imponendo. È una estetica profondamente diversa dalla nostra, è quella dei garage (individuali
o collettivi, sotterranei o aerei, a silos, multipiani...), delle
stazioni di servizio (sempre luminosissime, grandissime e
tutte uguali); dei segnali stradali, dei cartelloni pubblicitari
(semplici e grandi per essere visti in corsa); è quella dell’asfalto (meno rumoroso dell’acciottolato), del guardrail (più
sicuro); è quella dei clacson e delle sirene antifurto (anche
se svegliano i bambini e mettono paura); è quella dei depositi di carcasse di macchine, che stanno costruendo un
ultimo anello cimiteriale intorno alle nostre belle città e alle nostre brutte periferie. Quando si è evidenziato un conflitto fra la sicurezza dell’automobilista e il diritto di continuare a vivere di alberi e viali anche di grande importanza
estetica, paesaggistica e per la salute delle città, non si è
avuto nessun dubbio, non si sono esplorate soluzioni alternative come la deviazione delle strade o il rallentamento della velocità, si sono semplicemente abbattuti gli alberi.
E che l’estetica delle automobili sia in aperto conflitto
con quella dell’uomo, almeno così come i nostri antenati
l’hanno espressa, è dimostrato dal fatto che in questi ultimi cinquant’anni le automobili hanno danneggiato, con
l’inquinamento e con le vibrazioni, i monumenti delle città
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più di quanto fossero stati capaci di fare incendi, guerre e
terremoti nei secoli e nei millenni precedenti. Per ultima
va segnalata la prepotente voglia di protagonismo dell’automobile. È praticamente impossibile vedere o fotografare uno scorcio delle nostre città senza una macchina
«in campo». Non c’è isola pedonale o ferragosto che tenga: un’automobile, magari quella dei vigili urbani o dell’onorevole o del diplomatico, impedirà di vedere una via o
solo un monumento così come è stato pensato e realizzato dal suo progettista.
Nessuno vuol rinunciare all’automobile. Credo saggio
e doveroso però rinegoziare il suo e il nostro rapporto con
la città. La città tornerà ad essere bella solo se sarà di nuovo possibile percorrerla a piedi. Oggi gli spostamenti sono dei trasferimenti da punto a punto, più in fretta possibile. Dobbiamo tornare a provare il piacere dei percorsi3.
3
Nel 1995 si è tenuto a Firenze un convegno nazionale sulla lentezza intitolato: «Il mondo ha tempo da perdere» organizzato dalla COOP. Nel mio intervento Chi ha ancora voglia di perdere tempo con i bambini? esordivo con
queste riflessioni: per andare da Roma a Firenze si può percorrere la Cassia.
Questo non rappresenta solo un trasferimento, ma significa passare per paesi
e cittadine, attraversare paesaggi diversi, vedere, incontrare. Significa fermarsi,
rallentare e accelerare, stupirsi e arrabbiarsi. Questo richiede tempo, ma quel
tempo non è perso. In quel viaggio c’è qualcosa di più dello spostarsi, c’è il piacere. Occorre rallentare nei paesi, raccoglierne le immagini, i rumori, le abitudini; fermarsi a mangiare i prodotti e i piatti tipici. È possibile mangiare la finocchiona, le pappardelle alla lepre, i fagioli bianchi, accompagnarli con il Rosso di Montalcino o con il vino Nobile di Montepulciano. Significa avvicinarsi e
allontanarsi rispetto ad un paesaggio che cambia, seguendo gli strani ghirigori
della strada, pensata più per far incontrare che per fare in fretta, salendo e scendendo seguendo le morbide rotondità delle colline toscane.
Oppure, sempre per andare da Roma a Firenze, si può invece passare sull’autostrada del Sole e allora sarà una esperienza totalmente diversa. Scopo
principale dell’autostrada è lo spostamento da punto a punto, da casello a casello, con il minor numero possibile di distrazioni e di impedimenti; abbattere i
tempi, permettere la velocità. Le autostrade sono tutte uguali, le stazioni di servizio sono tutte uguali e tutte ugualmente efficienti e rapide; così come sono
uguali i posti di ristoro: si può mangiare un panino fattoria in tutte le località
italiane. Di fronte ad un ostacolo naturale l’autostrada preferisce passare sotto
terra o per aria anziché seguire le «diversità» del terreno: non bisogna distrarsi,
non bisogna ridurre la velocità, non bisogna perdere tempo. Effettivamente il
tempo è ridotto, ma è tempo perso. Per quanto breve serve solo a spostarsi.
Una sensazione simile la provo quando scelgo l’aereo invece del treno per
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Se noi adulti non abbiamo il tempo per queste frivolezze,
peggio per noi, ma non priviamo di questo piacere, di
questa necessità, i nostri bambini, i nostri vecchi e tutti
quegli adulti stranieri che vengono a visitare le nostre
città. Se si tornerà a percorrere la città allora i nostri urbanisti, i nostri architetti, i nostri artisti, dovranno di nuovo preoccuparsi di sorprendere, di gratificare, di accompagnare i concittadini per le strade. Allora sarà importante restituire spazio al passeggio, curare la pavimentazione dei marciapiedi, restringere le strade, creare aree di
sosta, di incontro, restituire le piazze alla gente e al gioco dei bambini. Insomma ci sarà tanto da lavorare per rifare belle le città.
C’è chi pensa che questi progetti sono lussi che non
possiamo permetterci. Questo sarebbe vero se fossimo
così cinici da rinunciare al nostro patrimonio artistico. Se
così fosse effettivamente potremmo lasciare marcire i nostri monumenti e accogliere senza rimpianti la nuova città
delle auto, della velocità, del rumore, dello smog. Ma «purtroppo» non lo siamo, non siamo capaci di fare a meno
delle nostre opere d’arte e allora investiamo capitali enormi nei sempre più frequenti, costosi e disperati interventi
di restauro. Se cercassimo di eliminare le cause di questo
degrado, faremmo una scelta non solo culturalmente doverosa, ma anche economicamente vantaggiosa.
C’è poi il grande problema delle periferie, che belle non
sono e che non possiamo abbattere. Ma se crescerà questa consapevolezza dei diritti dei cittadini, a partire dai più
piccoli e dai più deboli, se verrà riconosciuto il diritto di vivere la città, di percorrerla, di incontrarsi e divertirsi, si dovrà cominciare a pensare che anche le nostre periferie
esempio sul percorso Roma-Milano. Il tempo di volo è ovviamente molto più
breve, ma il viaggio complessivo varia di poco, dalle tre ore, tre ore e mezza per
il viaggio in aereo alle quattro ore in treno. Ma le ore in aereo sono perse, spezzettate in tanti brevi percorsi diversi, in tante procedure; mentre le ore di treno
sono tutte buone, per leggere, per scrivere, per disegnare.
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hanno il diritto di essere belle. È una bella sfida che gli amministratori debbono lanciare ai progettisti, agli urbanisti,
partendo dalla consapevolezza che spesso le periferie hanno buone potenzialità per diventare adatte ai bambini, con
i loro spazi irrisolti, con i loro pezzi di natura dimenticati
dalla cieca urbanizzazione. Si dovranno utilizzare tutti gli
spazi non ancora costruiti per restituirli all’uso sociale. Si
dovranno creare aree pedonali periferiche; liberare le piazze, se ci sono, e restituirle ai cittadini; inventare piazze dove non sono state previste. Si potranno risanare le vecchie
strutture di archeologia industriale (fabbriche, fornaci, magazzini) e renderle spazi di uso pubblico. Si dovrà pensare
ai marciapiedi, ai monumenti, alle fontane. Avviare insomma un grande progetto di risanamento sociale ed estetico delle periferie. In questo grande progetto i bambini
hanno molto da dire e da dare, perché le scelte «ragionevoli» non bastano più, occorre osare, inventare, cercare
idee nuove che ai bambini certo non mancano.
Il Piano Regolatore Generale
L’impegno di revisione e di trasformazione della città a
partire dal bambino potrà toccare sia gli interventi su grande scala come il Piano Regolatore Generale (PRG) o il Piano Urbano del Traffico (PUT), sia piccoli progetti legati alle occasioni di gioco per i bambini, di passeggio, di incontro e di sosta per gli adulti intorno alle loro case. Assumendo l’ottica del bambino molti dei grandi problemi
della città si vedono più chiaramente ed escono dalle ambiguità del dibattito adulto attualmente in corso.
Naturalmente qui non si presume di trattare questi argomenti tecnici con la competenza dell’urbanista, del pianificatore. Si vuol solo proseguire coerentemente ad applicare questa ottica bambina nell’analisi della città e nella proposta del cambiamento. Preparare un nuovo PRG
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significa ridisegnare la città. Se la città riconosce il diritto
di cittadinanza a tutti i suoi cittadini il PRG dovrà essere
specchio di questa scelta4. Disegnare una città più adatta
ai bambini significa disegnarla più bella, più vivibile e quindi più adatta per tutti.
Una città a dimensione di bambini
Negli ultimi decenni le città hanno enormemente aumentato la loro grandezza, in tempi troppo rapidi e quindi senza uno sviluppo riflettuto e programmato, guidato da ragioni prevalentemente speculative e quindi senza preoccupazioni né estetiche né sociali. La città è diventata enorme e pericolosa senza riuscire a creare nuove identità,
nuove appartenenze.
Innanzi tutto occorre ridare al cittadino, a partire dai
bambini, la possibilità di riconoscere la propria città e di
riconoscersi in essa. Occorre ridare alle città una dimensione compatibile con le capacità di conoscenza e di controllo dei cittadini e soprattutto dei bambini. Da questo
punto di vista diventa corretta e improrogabile l’adozione
del progetto di Area Metropolitana che suddivide la metropoli in vari Comuni che non superino i cento, centocinquantamila abitanti, che potrebbero corrispondere alle
attuali circoscrizioni. Ogni municipio dovrà avere le caratteristiche proprie di un ente locale.
Autonomia. Un Comune, con un suo nome, una sua
sede, un suo gonfalone, un suo sindaco, un suo Consiglio
4
Quando incontrai per la prima volta il sindaco di Palermo, che mi chiedeva di assumere un incarico di consulenza per il progetto «La città dei bambini»
nella sua città, mi chiese di lavorare insieme all’architetto Cervellati, che sta preparando il nuovo PRG di Palermo, perché già dal PRG e dalle scelte ad esso connesse si potesse capire che la città aveva scelto i bambini. Mi sembra una bella
sfida culturale e una grande scommessa sulle potenzialità di questa nuova filosofia di governo.
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comunale. Titolare di tutti i diritti che i Comuni attualmente hanno e, speriamo presto, di tutti quei trasferimenti fiscali e di poteri di governo che lo Stato passerà alle città,
la sede più adeguata, almeno nella nostra cultura e rispetto alla nostra storia, di un autentico decentramento. Si dovrà poi inventare come amministrare la metropoli, associando i vari municipi per tutti gli interessi comuni o per
tutti i progetti sovracomunali. Ci sono esperienze straniere da studiare e ci sono le nostre esperienze di gestione
per esempio della viabilità, che passa da competenze comunali a quelle provinciali a quelle statali a seconda dei
territori e degli enti interessati.
Riconoscibilità. In ognuno dei Comuni metropolitani si
dovranno effettuare delle scelte urbanistiche ed architettoniche tali da favorire un senso di identità della popolazione: ricreare un centro cittadino, delle piazze, le sedi degli uffici pubblici, i monumenti; luoghi di incontro, di esposizione, di spettacolo. Naturalmente sarà importante che
gli amministratori chiamati a queste operazioni tengano
nella massima considerazione le tradizioni, le naturali aggregazioni dei luoghi e valorizzino i loro monumenti, da
quelli più aulici e noti dei centri storici, alle aree di archeologia industriale delle periferie, legate alla storia sociale dei quartieri e della città. Vale la pena sottolineare ancora la difficoltà di sviluppo di una adeguata organizzazione spaziale nei bambini che sono cresciuti nelle periferie
anonime e prive di forti indicatori ambientali, rispetto ai
loro compagni cresciuti nei centri storici5. Questo significa che la città brutta provoca anche patologie cognitive
(oltre che sociali) e che, se questo avviene nei bambini, le
popolazioni delle periferie costruiranno di conseguenza il
loro futuro anche su queste limitazioni, sommando difficoltà a difficoltà.
5
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Lynch, 1960; Bonnes, Rullo, 1995.
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Percorribilità. Va affermato un importante principio di
democrazia: che tutti i cittadini possano raggiungere i luoghi di loro competenza e di loro interesse da soli. Questo
rende il cittadino autonomo e libero. In particolare è importante garantire ai bambini una loro autonomia nell’uscire da casa, recarsi a giocare con gli amici e andare a
scuola a piedi da soli; garantire ai portatori di handicap
percorsi senza barriere e senza soluzione di continuità; garantire agli anziani passaggi pedonali e attraversamenti sicuri per incontrarsi fra loro, per andare a ritirare la pensione, a fare la spesa, al cinema, in chiesa, ecc. È importante assicurare a tutti i cittadini una reale possibilità di
movimento, di andare a scuola, al lavoro, a divertirsi con
mezzi diversi dall’auto privata e in primo luogo a piedi e
in bicicletta.
Un piano urbano della mobilità
Se la città deve essere più percorribile allora non possiamo impegnarci in un PUT, perché in questo caso siamo
già dentro un’automobile e tutti i problemi finiremo per
leggerli e per affrontarli dal punto di vista dell’automobilista. Obiettivo dichiarato dei PUT è in genere la «fluidificazione» e la «velocizzazione» del traffico (anche la lingua delle macchine lascia a desiderare). Suoi strumenti abituali
sono l’allargamento delle strade, il loro raddrizzamento,
l’installazione di semafori intelligenti, l’adozione di sensi
unici, ecc. Sono tutti interventi che di solito non ottengono il risultato desiderato, e che rendono più difficile la vita di tutti quelli che non usano la macchina propria.
Non ottengono il risultato previsto perché nelle nostre
città circola in media meno della metà delle macchine possedute dai cittadini. Una metà rimane nei garage, nei parcheggi, perché muoverle non vale la pena: traffico troppo
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lento, pochi parcheggi, rischio di multe. Nelle città esiste
quindi un «esercito di riserva» che attende che le condizioni diventino più favorevoli per potersi mettere in movimento. Se quindi si procede rendendo più fluido il movimento delle auto, più facile il parcheggio, anche se a pagamento, l’esercito di riserva si muoverà. Dopo le modifiche si avranno alcuni giorni di miglioramento del traffico
e poi l’aumento delle auto in movimento vanificherà i benefici. Avremo di nuovo un collasso della circolazione, ma
con una percentuale di auto molto più alta e allora le soluzioni diventeranno più difficili e forse impossibili. E in
tutta questa operazione la condizione dei pedoni e dei ciclisti, che non è mai stata presa in considerazione, subirà
un grave peggioramento. Questa non è la previsione catastrofica di un pessimista, è la verifica effettuata in molti
paesi che hanno poi abbandonato queste politiche suicide.
Dovremo invece pensare ad un piano urbano della mobilità, partendo dal diritto che tutti i cittadini hanno di muoversi liberamente e senza pericoli nel loro spazio urbano
che è il suolo pubblico. La città va restituita ai cittadini, anche quelli che, come i bambini, gli anziani, gli handicappati
e molte casalinghe, sono solo pedoni. A loro non servono
leggi più severe, ma una città fatta in modo diverso, con
marciapiedi in tutte le strade, rigorosamente liberi dalle
macchine, dalle merci dei negozianti e dai segnali stradali,
dai quali scendere senza gradini. Strade che si possano attraversare senza difficoltà e senza pericolo. Zone pedonali anche nei quartieri periferici.
Se poi desideriamo veramente che le nostre città diventino più leggere, dovremo privilegiare sistemi di mobilità alternativa a quella a motore. Una cura particolare si
dovrà dedicare agli spostamenti in bicicletta, almeno tutte
le volte che le caratteristiche della città lo consentono.
Le piste ciclabili non possono limitarsi a strisce di strada separate da righe gialle o cordoli dalla carreggiata delle macchine, perché non sono sicure, perché sono insa84
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lubri essendo esposte ai gas di scarico (non si rinuncerà
mai alla macchina se questa è più sana e sicura della bicicletta). Né vanno pensate prioritariamente come occasione di attività sportiva, ma come vere alternative alle auto
nella mobilità urbana per andare a scuola, al lavoro, a fare spesa. Va quindi disegnata una rete di piste ciclabili togliendo alcune strade alle macchine, passando nei parchi,
sulle sponde dei fiumi, a ridosso delle ferrovie. Strade riservate, protette, sicure, brevi (i percorsi più lunghi alle auto che «faticano» meno) e il più possibile pulite.
Se siamo veramente una società democratica il piano
urbano della mobilità dovrà tener conto di una gerarchia
di bisogni a partire da quelli dei più deboli, quindi prima i
pedoni, poi i ciclisti, poi i mezzi di trasporto pubblico e infine i mezzi privati. Senza ostracismi, ma con una chiara
scelta delle precedenze.
Se la mobilità diventa l’obiettivo principale, gli strumenti per realizzarla dovranno essere quelli di seguito indicati:
– Rallentare il traffico automobilistico tutte le volte che
questo insiste su zone residenziali. Non sono sufficienti i
limiti legali, occorre creare condizioni strutturali che impediscano una maggiore velocità come restringimento
massimo delle carreggiate, lasciare il doppio senso di marcia, evitare rettilinei che inducono ad aumentare la velocità.
– Privilegiare i percorsi pedonali. Quando sorgono
conflitti e incompatibilità fra i diritti dei pedoni e quelli delle macchine si garantiscono sempre, prioritariamente,
quelli dei pedoni. Strettamente connesso con questo punto è il progetto «A scuola andiamo da soli» che vuol essere un approccio educativo per una modalità diversa di
pensare la mobilità nelle future generazioni.
– Privilegiare i percorsi ciclabili destinando con coraggio alcune strade al solo traffico ciclistico. L’apparente
danno alla circolazione delle auto sarà compensato dal mi85
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nor numero di auto circolanti se un numero sempre maggiore di cittadini si convertirà a questo tipo di trasporto. Il
progetto «A scuola ci andiamo da soli» per la scuola media dovrebbe puntare principalmente proprio sull’uso della bicicletta.
– Ridurre e decentrare i parcheggi. Se si vuole aumentare la qualità del centro storico, o comunque delle zone residenziali, occorre impedire il passaggio di auto. Perché questo obiettivo si riveli realizzabile occorre ripensare
criticamente la collocazione dei parcheggi in centro perché la loro presenza attira le auto, e decentrarli educando
la gente ad arrivare al centro solo con mezzi pubblici, in
bicicletta o a piedi.
– Rendere competitivi i mezzi pubblici. In questo nuovo scenario di città più leggera, più pulita e più silenziosa
va ripensato il problema dei mezzi pubblici. Mezzi pubblici anch’essi adatti a tutti i cittadini e quindi di facile accesso, con entrate a livello del marciapiedi, silenziosi, ecologici, puntuali e con percorsi riservati. Dovrà insomma essere di gran lunga più veloce, comodo ed economico
muoversi con mezzi alternativi all’auto privata. Il cittadino
non è stupido e sceglie sempre seguendo criteri di economia. Se potrà muoversi facilmente con mezzi alternativi,
lascerà volentieri la sua auto in garage.
– Dare il buon esempio. Sarà infine importante che
anche i vigili e la polizia impegnati in area urbana si muovano o a piedi o in bicicletta.
I nostri amministratori sono oggi chiamati ad una scelta importante e coraggiosa. Debbono operare le loro scelte con la convinzione che favorendo la mobilità leggera, dei pedoni e delle biciclette, e quella pubblica, l’uso dei
mezzi privati tenderà lentamente ma regolarmente a diminuire. Questo significa non investire risorse per la «fluidificazione» del traffico, per l’allargamento delle carreggiate, per l’installazione dei semafori intelligenti. Significa
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invece investire in marciapiedi, in attraversamenti sicuri,
in piste ciclabili, nel rallentamento del traffico. Questo
stanno facendo da alcuni anni molti paesi del centro e del
nord Europa ottenendo significativi risultati6.
Ripopolare il centro storico
Il centro storico delle città è un luogo dove i bambini potrebbero vivere bene, grazie alle zone pedonali, alle piazze e piazzette, ai giardini, ai monumenti, alle fontane e alla stessa struttura urbana che ben si presta allo spostamento pedonale e al gioco. D’altra parte è oggi difficile
per le giovani coppie sposarsi e aver figli anche per la carenza di alloggi. Si potrebbe assumere un preciso impegno per recuperare il maggior numero di aree e fabbricati di proprietà pubblica del centro storico, degradati, inutilizzati o male utilizzati e destinarli alla edilizia popolare
per assegnare gli appartamenti preferibilmente a giovani
coppie. Riportare i bambini al centro delle città sarà una
operazione di grande valore civico, vi riporterà la vita, il
chiasso dei giochi. Un’altra categoria che potrebbe essere favorita da tale impegno è quella degli anziani che nel
centro potrebbero ritrovare una propria autonomia, che
nei quartieri periferici fatalmente perdono per la lontananza, l’altezza dei fabbricati e la mancanza di stimoli.
Vecchi e bambini sono fatti apposta per stare insieme e il
centro di una città è il posto migliore per il loro incontro,
per la loro complicità.
6
A Copenaghen si sta sperimentando il prestito gratuito di migliaia di biciclette in decine di stazioni di sosta. Il cittadino può prendersi una bicicletta in
una stazione e, dopo averla usata, lasciarla in un’altra stazione, quella a lui più
comoda.
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Rinunciare agli spazi gioco per bambini
Gli spazi gioco per bambini, separati e specializzati, sono
rigorosamente uguali in tutte le nostre città e in tutto il
mondo, e il loro obiettivo, come si diceva sopra, non è di
soddisfare le esigenze di gioco dei bambini, ma di rispondere alle preoccupazioni degli adulti. Per fare questo il
progettista non solo definisce l’area ma indica anche presuntuosamente i tipi e le modalità dei giochi che un bambino vi potrà fare. Se proviamo a ricordare quali erano i
luoghi migliori per i nostri giochi da bambini7, noteremo
con sorpresa che erano quelli che «non servivano» agli
adulti. Penso alle scale, al sottoscala, al marciapiedi, alle
case bombardate in città; alla capanna degli attrezzi, alla
scarpata fra la strada e il campo in campagna. Erano anche, quasi sempre, luoghi proibiti, dove si andava a rischiare per divertirsi e per diventare grandi.
Tutto questo vale anche oggi, così come dimostrano
numerosi studi e ricerche: ai bambini non piacciono gli
spazi rigidamente definiti, separati, dedicati. Preferiscono
gli spazi duttili, utilizzabili in maniere diverse a seconda
delle esigenze del gioco8. Spesso preferiscono condividere gli spazi degli adulti, inventandosi modalità e usi nuovi
e creativi. Si pensi ad esempio come i bambini che hanno la fortuna di avere la loro cameretta fin dai primi anni
(ancora uno spazio separato e specializzato), rifiutino sistematicamente di utilizzarla come spazio di gioco e preferiscano invece giocare nella cucina dove sfaccenda la
mamma, magari inventandosi fantastici ambienti sotto il
tavolo o intorno al lavello.
7
Ho più volte ricordato che non è corretto riandare al passato perché l’esperienza che si offre ai nostri bambini è assolutamente nuova e richiede proposte e soluzioni nuove, ma se è vero che i bambini hanno oggi perduto molte
delle loro possibilità di gioco allora, almeno per «ritrovare la strada», può essere
utile esaminare le condizioni e le caratteristiche del gioco della nostra infanzia.
8
Si vedano i riferimenti bibliografici su «Il gioco e l’ambiente urbano».
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Il problema vero è che noi adulti non siamo capaci di
progettare spazi per il gioco dei bambini, e se veramente
vogliamo rispondere ai loro bisogni, invece che dedicare,
disegnare spazi per loro, dovremmo imparare a lasciare
loro degli spazi. Lasciare spazi non significa rinunciare a
progettare, significa invece progettare diversamente, con
più umiltà, con più generosità, con più creatività, pensando che, il come giocare, a che cosa e con cosa, lo sanno i
bambini. Lasciare spazi significa regalare. Questo vuol dire che nel disegno della città dovranno scomparire gli spazi dedicati ai bambini, ed essere invece previsti spazi ricchi,
frequenti, vicini, originali, aperti a tutti, adatti ai bambini e
agli anziani, a chi vuol leggere il giornale e agli innamorati. Spazi ricchi significa articolati, mossi, con ostacoli, cespugli, muretti, alberi, materiali diversi. Spazi dove ciascuno possa fare ciò che vuole, perché non sono mono-uso,
non sono dedicati ma sono appunto spazi lasciati.
Mi sembra questa una bella sfida per i progettisti, un invito a rinunciare al primato del disegno, al primato del
punto di vista dell’autore, per dare spazio ad altre ottiche,
ad altre prospettive. Scoprire che uno spazio può essere
bello e funzionale anche se non sembra neppure progettato. E per fare questo il contributo dei bambini potrà essere importante, forse indispensabile. Il progettista della
nuova città sarà un professionista che avrà imparato a parlare con i bambini, ad ascoltarli, a capirli, a lavorare con
loro e a progettare con loro. Chi saprà tener conto del punto di vista dei bambini troverà poi naturale preoccuparsi di
quello degli anziani, degli handicappati, dei poveri.
La strada, un luogo di tutti
«Ragazzo di strada, donna di strada» o il più recente «bambini di strada», sono espressioni che indicano riprovazione, condanna, rifiuto. La strada, simbolo di degrado eco89
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nomico e morale, è il luogo del massimo inquinamento atmosferico, del chiasso, del pericolo provocato dal traffico;
è il luogo dei furti, degli scippi, dello spaccio; è il luogo dei
drogati, dei barboni, degli zingari, dei mendicanti. Di fronte a questo degrado la città risponde, come già si è detto,
difendendosi. La strada è nemica e va tagliata fuori, isolata, abbandonata. Il cittadino per bene si chiude in casa,
si garantisce nei confronti dell’esterno e percorre la strada solo al sicuro della sua auto e, se possiede un cane, la
usa come luogo dove portarlo per soddisfare i suoi bisogni. In modo parallelo le persone che sono costrette a
vivere nella strada vedono peggiorare le loro condizioni
e si allontanano progressivamente da quelli che vivono
chiusi in casa.
Da un lato i bambini reclusi, soli e affidati alla televisione e dall’altro i bambini di strada, che giocano in mezzo alle immondizie, si inselvatichiscono, diventano aggressivi e pericolosi per garantirsi il necessario per vivere.
I reclusi delle case cominciano a temere gli abitanti delle
strade, li evitano, li denunciano, arrivano perfino a chiederne la soppressione, fino a pagare sicari, squadroni della morte. Non sto accennando ad una possibile trama di
un romanzo di fantascienza, ma a quello che purtroppo
sta avvenendo in parte in molte delle nostre città europee
e fino alla terrificante ma coerente conclusione, nelle
grandi metropoli sudamericane.
Assumere il bambino come parametro di cambiamento significa anche, o forse prioritariamente, ridare alle nostre strade il ruolo sociale, di luogo pubblico, dell’incontro,
del passeggio e del gioco che hanno avuto e che debbono recuperare. Le strade non diventeranno sicure quando
saranno piantonate dalla polizia, dall’esercito o dalle ronde volontarie, ma quando verranno conquistate dai bambini, dagli anziani, dai cittadini. La strada frequentata tornerà ad essere pulita, ad avere i marciapiedi a disposizio90
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ne dei pedoni, tornerà ad essere bella, invitante per il passeggio, per la sosta.
Il desiderio più o meno espresso degli amministratori,
delle istituzioni, è di poter rimettere «dentro» i bambini
perduti, abbandonati, di strada. Per i casi più gravi si pensa anche alla reclusione in carcere o in istituto, ma più comunemente si pensa alla scuola. L’idea comune è che se
si riuscirà a riportarli a scuola, nel luogo di sicurezza dei
nostri figli, saranno recuperati. Questo non è assolutamente vero, a meno che la scuola non si renda disponibile ad una profonda e radicale conversione. Nella scuola attuale, dove hanno successo gli allievi che sopportano pazientemente cinque ore di immobilità, che sanno leggere
e scrivere bene, che sono disposti a studiare anche cose
del tutto inutili o comunque difficilmente comprensibili,
questi bambini entreranno sempre da perdenti, per essere presto sconfitti. Quando non reggeranno più l’umiliazione di non capire, di non riuscire, reagiranno, nasceranno conflitti insuperabili e torneranno nella strada.
Che sia la scuola a rifiutarli o loro a rifiutare la scuola,
non cambia nulla. La scuola avrà fallito e sarà responsabile di un danno maggiore: rimandarli nella strada umiliati e quindi nelle migliori condizioni per accettare il «riscatto» di chi vorrà credere in loro mettendo nelle loro mani
una dose di droga o una pistola.
Allora mi sembra più convincente e ricca di prospettiva una soluzione alternativa: riqualifichiamo la strada, liberiamola dalle immondizie, facciamo in modo che il territorio abituale e sicuro di questi bambini, più liberi e più
svantaggiati, sia bello e sano. Lo sia tanto da invitare i nostri figli, quelli chiusi in casa, a scendere per giocare con
loro approfittando delle loro sicurezze e delle loro abilità.
Forse poi, tutti insieme, verrà loro voglia di andare anche
da qualche parte, forse anche a scuola9.
9
Si veda la scheda n° 19: «Un giardino di pietra».
91
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I bambini che aspettano
Spesso i bambini aspettano, anche per tempi lunghi, mentre i loro genitori fanno la fila, aspettano il treno, visitano
un museo. Gli adulti sanno aspettare, sanno perché aspettano, sanno come passare il tempo, o per lo meno sanno
rassegnarsi a questa necessità, ma per i bambini è più difficile. Per loro non ha senso stare buoni, in fila, senza fare
nulla. Allora manifestano il loro malessere diventando insopportabili, facendo capricci, rendendo così ancora più
difficile la situazione dei loro genitori e degli altri adulti.
Spesso si considerano cattivi i bambini, altre volte imprevidenti i loro genitori. La verità è che molto spesso i genitori non hanno alternative al portarsi dietro i figli e quando i bambini sono «cattivi» vuol dire che stanno vivendo
male, che sono maltrattati. La città dovrebbe farsi carico di
questo disagio dei più piccoli offrendo iniziative e strutture
adeguate. Negli uffici pubblici come l’anagrafe, le circoscrizioni, le sedi USL, nei musei, nelle stazioni ferroviarie,
negli aeroporti, insomma in tutti i luoghi dove le persone
aspettano e dei bambini potrebbero dover aspettare con
loro, si dovrebbero aprire locali dove i bambini possano
giocare tra loro, trovare dei giocattoli, leggere un libro, disegnare, ecc. In alcuni casi una persona li accoglierà, li aiuterà a passare bene il tempo, mentre i genitori faranno la
loro coda. Con un po’ di ingegno le varie sedi potrebbero
offrire, per il gioco dei bambini, attività pertinenti alle loro
caratteristiche, diventando così una proposta significativa
ed originale. L’ufficio postale per esempio potrebbe avere
una piccola sala nella quale i bambini possano giocare all’ufficio postale, con timbri, bilancia, vecchi francobolli, lettere da scrivere, ecc.
Sono iniziative che certamente hanno un loro costo,
ma anche il malessere dei cittadini ha un suo costo. Oggi
abbiamo meno bambini e quindi abbiamo docenti in esu92
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bero. Invece di inventare mille trucchi per aumentare gli
insegnanti e ridurre gli alunni in ogni classe, una parte degli insegnanti potrebbe, se lo desiderano, assumere questi
nuovi ruoli di animatori di attività per i bambini nella città.
La proposta non è coerente con la denuncia più volte sottolineata dei luoghi separati e specializzati, ma, in attesa
di una città più adatta ai bambini, sembra un necessario
male minore. Questi sarebbero piccoli atti di affetto della
città verso i cittadini più piccoli, particolarmente apprezzati dagli adulti.
Il sindaco dovrebbe per primo affrontare questo problema nei luoghi di sua competenza come l’anagrafe, le
circoscrizioni, gli uffici tributari, per affermare nella pratica la sua scelta nei confronti dei bambini, per dare il buon
esempio. Potrebbe poi invitare tutti gli enti pubblici e privati, perché anche loro pensino ai bambini, e mettere a
loro disposizione la consulenza e l’aiuto del Laboratorio
«La città dei bambini».
Le strutture alberghiere e di ristorazione
Sempre più spesso capita che i bambini accompagnino i
genitori in ristoranti ed alberghi. Dovrebbero essere per
loro esperienze nuove, eccitanti, desiderate, così come lo
sono in genere per gli adulti, e invece sono spesso esperienze stancanti e frustranti.
In particolare i bambini mal sopportano i ritmi e i tempi degli adulti. Gli adulti prendono l’aperitivo e parlano,
dopo mangiato prendono il caffè e parlano; i bambini
aspettano. Agli adulti piace passare molto tempo a tavola, perché è una buona occasione per stare insieme, per
scambiare opinioni e informazioni. Il bambino è spesso
solo, comunque escluso da questi discorsi, che toccano ar93
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gomenti che non conosce o non lo interessano, come le
confidenze sui vari conoscenti o le discussioni sui temi della politica. Col bambino gli adulti risolvono il problema
della sua presenza e del suo coinvolgimento chiedendo alcune informazioni sulla sua scuola: sembra che il mondo
dei bambini cominci e finisca dentro l’aula scolastica.
Poi c’è il problema del piatto pieno e la convinzione degli adulti che un bambino non sia in grado di valutare né la
qualità, né la quantità del cibo. Per gli adulti mangiare è un
piacere, per i bambini un dovere. Naturalmente questo tende a creare un rifiuto da parte dei bambini e quindi il quotidiano conflitto su quello che piace e quello che fa bene.
Per l’albergo c’è infine il problema della libertà. Questo
posto speciale, dove c’è qualcuno che pulisce, che rifà i letti e dove i grandi si sentono particolarmente liberi, per i
bambini è spesso un luogo di maggiori difficoltà e limitazioni.
I bambini sono consapevoli di tutto questo e hanno
idee chiare nel formulare proposte, come si potrà vedere
nella esperienza di Fano10. Sono proposte semplici, realizzabili, che forse avremmo potuto pensare anche noi
adulti. I bambini chiedono di mangiare fra loro, di servirsi
da soli, di avere più autonomia, di poter amministrare il
loro tempo. Chiedono insomma per loro quello che noi
adulti pretendiamo per noi.
L’ospedale pediatrico
Anche l’ospedale dovrebbe diventare adatto al bambino,
riconoscendo i suoi diritti, le sue caratteristiche, i suoi bi10
Si veda l’esperienza che si sta sviluppando a Fano riferita nella scheda n°
14: «Un marchio di qualità bambini per alberghi e ristoranti».
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sogni; senza dimenticare mai che prima di essere un paziente è un bambino.
Il bambino non dovrebbe mai andare in ospedale, se
questo non è assolutamente indispensabile; dovrebbe essere l’ospedale ad andare da lui, con i suoi medici, con i
suoi infermieri, se è necessario con unità mobili. Un tale
funzionamento dell’ospedale dovrebbe essere più economico e meno traumatico per i piccoli pazienti, che potrebbero evitare il distacco dalle proprie case, dagli affetti, dalle sicurezze.
Quando è necessario che vada in ospedale è importante che non ci dorma. Il momento del sonno è quello
che crea più disagi affettivi al bambino. Anche a casa, d’altronde, è vissuto come un distacco e per questo si creano
i complessi rituali dell’accompagnamento, della fiaba, del
bacio della buona notte.
Se deve dormire in ospedale, ci debbono essere due letti, uno per il bambino e uno per il genitore, in un ambiente accogliente e che possa essere personalizzato con i giocattoli, le cose a cui è legato affettivamente. Questo, che
oggi potrebbe sembrare un lusso, in un ospedale che ricovera solo eccezionalmente, potrà diventare possibile.
Il bambino ricoverato deve stare a letto il meno possibile, se questo è compatibile con le sue condizioni. Bisogna rompere questa strana abitudine ospedaliera che identifica il paziente con il suo letto, che lo priva di tutti i
simboli della sua identità, perfino dei vestiti, impedendogli ogni via d’uscita, facendolo sentire in trappola.
Naturalmente se il piccolo paziente può stare fuori dal
letto, deve avere luoghi diversi in cui passare il tempo, in
modo interessante e produttivo, insieme agli altri bambini
ricoverati e ai suoi amici che lo vengono a trovare. Luoghi di gioco, materiali per giocare, per dipingere, per manipolare, per costruire. Questi luoghi possono essere al
chiuso e all’aperto. È opportuno che ci sia un luogo più
raccolto dove leggere, studiare, scrivere, disegnare, dota95
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to di una buona biblioteca, del computer, dei vari materiali. Un luogo dove vedere la televisione, forse meglio a
circuito chiuso e con una buona videoteca, piuttosto che
non collegata ai programmi di rete che farebbero il bambino di nuovo schiavo dei cartoni di basso livello e della
pubblicità.
Naturalmente queste risorse saranno a disposizione anche dei bambini che non possono lasciare il letto, con adeguati supporti (tavolinetti, piani mobili, televisore nelle
stanze, biblioteca mobile). Si dovranno anche studiare adeguate soluzioni per quando i bambini si trovano in particolari condizioni materiali (per esempio quando non possono utilizzare una mano per la flebo) o psicologiche (per
esempio quando perdono i capelli per le terapie oncologiche). Una cura particolare si dovrà porre nella preparazione dei bambini agli interventi più traumatici, dalla iniezione all’intervento chirurgico. Per questo può essere importante avere angoli di gioco dove i bambini possano giocare al dottore, usando mascherine per l’anestesia, siringhe,
bende, ecc. È molto bello che alcuni ospedali chiamino dei
clown per far compagnia ai piccoli pazienti. Anche in questo caso un bravo clown «dottore» (e in genere sono bravi)
può fare molto per esorcizzare la paura dei bambini.
Compatibilmente con le sue condizioni di salute dovrà essere garantito il massimo collegamento del bambino
con il mondo esterno e in particolare con i suoi amici, sia
per il gioco che per la scuola. Bisogna stare attenti a non
considerare la scuola come unico interesse del bambino e
come unico aggancio al mondo esterno. Sarebbe opportuno che gli amici potessero venire nelle ore che desiderano, senza eccessive limitazioni. Se capiteranno durante
la visita o le piccole medicazioni, potrà essere per loro una
utile esperienza e potranno, con la loro presenza, incoraggiare i piccoli pazienti.
Il bambino in ospedale non dovrebbe modificare i suoi
orari abituali. Non è facile capire perché una persona che
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sta male, che deve lasciare il suo ambiente abituale, che
deve prepararsi ad esperienze preoccupanti e spesso dolorose, debba anche modificare radicalmente le sue abitudini: essere svegliato all’alba per misurare la temperatura,
pranzare a mezzogiorno e cenare alle sei, per poi affrontare lunghissime serate senza sapere come passare il tempo. La spiegazione che sempre mi è stata data è che questi orari sono funzionali ai turni del personale paramedico. Ma siamo matti? È possibile che un servizio così
delicato venga offerto alle condizioni di chi lo fornisce e
non di chi lo riceve? Le abitudini debbono quindi essere rispettate e allora, per esempio, la sveglia con la colazione
sarà alle otto, il pranzo alle tredici e la cena alle venti. Tenendo conto di questi orari il personale deciderà in tutta
libertà e autonomia come organizzare i turni.
Dovranno essere attentamente evitate le immagini e le
suggestioni paurose, le pareti rigorosamente bianche, i
lettini «da ospedale», i camici bianchi, i ferri chirurgici bene in vista e tintinnanti nel carrello anche se si deve solo
cambiare una fasciatura o misurare la temperatura.
Sarebbe bene che i bambini che debbono trascorrere
lunghi periodi in ospedale possano essere ascoltati, essere consultati. Potrebbe esserci un Consiglio dei bambini
che esprime i suoi pareri, che discute con i medici, che
realizza suoi messaggi, suoi manifesti, in spazi riservati.
Questa esperienza di partecipazione dovrebbe essere seguita da un adulto che possa garantirne la continuità. Potrebbe essere un medico o un infermiere, che abbiano desiderio e capacità di allargare il loro settore di intervento.
Piccole cose che però farebbero sentire i piccoli malati
meno estranei e più partecipi.
Il reparto pediatrico dovrà scegliere e poi formare i suoi
operatori, medici e paramedici, anche per la loro capacità
di stare con i bambini. Si pensi che il Comune di Reggio
Emilia per le sue scuole dell’infanzia ha assunto un burattinaio. Un ospedale pediatrico potrebbe a ben ragione
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avere un animatore, un clown, ecc. Alcune di queste figure saranno certamente reperibili fra il personale in servizio, altre potrebbero essere fornite da appositi accordi con
il Provveditorato agli studi e con il Comune.
Anche in questo caso credo si comprenda immediatamente l’uso «strumentale» dei bambini. Se l’ospedale pediatrico cambiasse si potrebbe poi chiedere all’ospedale
per gli adulti di cambiare, perché tutto quello che si è detto sopra per i bambini credo possa valere esattamente anche per i grandi.
Non scrivo questi appunti sull’ospedale solo per una
coerente applicazione dei principi generali del progetto,
ma perché ho vissuto vicino ad un bambino di sette anni
gli ultimi suoi cinque mesi di vita. Questo bambino è stato per me un grande maestro. Era malato di tumore al cervello, era sereno, desideroso di giocare. È stato cinque
mesi a letto, spesso senza reale necessità, tanto che alcuni suoi compagni di sventura facevano le terapie in day
hospital. Per la maggior parte del tempo aveva un braccio
immobilizzato dalle flebo. La mamma ha passato cinque
mesi su una seggiola, potendo allungare una sdraia la notte, solo per la tolleranza del personale. Pur essendo curato con tutta l’attenzione necessaria e anche con molto affetto da tutto il personale, questo bambino ha passato gli
ultimi cinque mesi di vita senza che nessuno, tranne la
madre e noi suoi amici, si preoccupasse del suo bisogno
di giocare. Ho vissuto questa esperienza, così dura e così
ricca, come una grande ingiustizia. Non si può togliere ad
un bambino la possibilità di giocare. Non possono passare così i suoi ultimi mesi di vita.
Una scuola adatta ai bambini
Ho lavorato con la scuola e nella scuola, come ricercatore, per trenta anni. Ho partecipato attivamente a varie
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proposte di innovamento metodologico e pedagogico e
continuo ad occuparmi di educazione scolastica ed extrascolastica. Ma fino a che non mi sono occupato della città,
fino a che non mi è sembrato assurdo che i bambini non
avessero nella città né voce né potere, pur essendo cittadini, fintanto che non abbiamo cominciato a realizzare
forme concrete di partecipazione dei bambini alla modifica e alla progettazione della città (dal Consiglio dei bambini ai bambini progettisti), fino ad allora non mi ero reso
conto che nella scuola i bambini non contano niente. Nessuno si preoccupa di conoscere il loro parere. Gli organi
collegiali riconoscono la rappresentanza studentesca solo
nelle scuole medie superiori. È come se i bambini di tre,
di otto, di dodici anni non avessero idee, opinioni, preferenze. D’altra parte non stupisce nessuno, né gli insegnanti, né i genitori e men che meno gli stessi bambini,
che gli alunni non amino la loro scuola, che ci vadano malvolentieri, che desiderino l’arrivo dell’intervallo, della domenica, delle vacanze.
Per la città cominciamo a pensare di non poter prescindere dal contributo dei bambini, eppure la città non è
fatta solo per loro. Per la scuola continuiamo ad ignorarli
pur essendo fatta solo e appositamente per loro. Per la
città abbiamo creato un Consiglio dei bambini11, chiedendo ad ogni scuola della città di inviare due rappresentanti, ma le scuole della città fino ad ora non hanno pensato di darsi anche loro, al loro interno e per il loro funzionamento, una organizzazione democratica.
Una esperienza di democrazia
La scuola di tutti i livelli dedica tempo alla educazione civica. Intende cioè insegnare le basi della democrazia, ma
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Si veda la scheda n° 2: «Il Consiglio dei bambini».
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la democrazia non si può insegnare, occorre viverla. Questo potrebbe essere un primo e importante impegno che
la scuola assume facendo propria la filosofia di questo progetto: creare occasioni di reale partecipazione democratica alla sua gestione da parte degli allievi di ogni livello.
Questa proposta potrebbe realizzarsi dando il valore
più alto all’assemblea di classe, che potrebbe esprimere
due rappresentanti, un maschio e una femmina, per formare il Consiglio di scuola dei bambini. I rappresentanti
potrebbero incontrarsi periodicamente fra loro per discutere i problemi della scuola e le proposte da avanzare. Potrebbero incontrarsi da soli o insieme ad un insegnante delegato a seguire i lavori del Consiglio. Il dirigente scolastico potrebbe chiedere la convocazione del Consiglio per
discutere con i rappresentanti degli allievi alcuni punti della organizzazione scolastica.
Il Consiglio, in alcune occasioni particolari, potrebbe
incontrarsi con il Consiglio di circolo o di istituto, o con il
Collegio dei docenti, per comunicare proposte e proteste,
esattamente come avviene fra il Consiglio dei bambini e il
Consiglio comunale nel Comune di Fano e come avverrà
presto negli altri Comuni interessati al progetto.
Sarebbe auspicabile che il Consiglio di scuola avesse
uno spazio dove incontrarsi, da arredare liberamente. Potrebbe avere delle risorse economiche, magari raccolte
con iniziative degli stessi studenti, da amministrare; uno
spazio murale libero e riservato per la comunicazione con
i compagni di scuola. Potrebbe avere un monte ore da usare secondo le proprie indicazioni. Gli studenti delle
scuole superiori mandano da alcuni anni segnali precisi
con le loro esperienze di autogestione. Sarebbe diverso se
tutti gli studenti, a partire dai primi anni di scolarità, avessero spazi e tempi propri, per esprimersi, per protestare
ma anche per proporre e per organizzare.
Naturalmente questo non significa affermare che la
scuola debba essere organizzata come vogliono gli allievi:
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vuol dire che non ha senso pensare, amministrare, organizzare la scuola, a prescindere da quello che gli allievi
pensano. Vuol dire tenerne conto. Ma vuol dire anche
porre in essere una esperienza di democrazia, a volte diretta, a volte delegata, che potrà valere certamente molto
di più di tante lezioni di educazione civica.
Quando la città organizza un suo Laboratorio «La città
dei bambini» e apre un Consiglio dei bambini allora saranno i Consigli di scuola dei bambini che esprimeranno
due loro delegati, sempre un maschio e una femmina, per
rappresentare la scuola. I delegati non si sentiranno soli,
avranno la possibilità di riferire attraverso il Consiglio di
scuola e le assemblee di classe i risultati delle riunioni del
Consiglio dei bambini a tutti i compagni e di raccogliere le
loro proposte per l’incontro successivo.
Una esperienza di educazione ambientale:
progettare la propria città
Oggi si parla molto di educazione ambientale e spesso la
scuola si impegna in progetti di educazione ambientale,
ma quasi sempre si tratta di argomenti naturalistici o di rifiuti solidi urbani. Si studiano il bosco, il fiume, l’inquinamento, il riciclaggio o la raccolta differenziata dei rifiuti.
La prima preoccupazione dell’educazione ambientale dovrebbe essere invece quella di aiutare gli allievi a conoscere e a controllare l’ambiente dove vivono.
Conoscere l’ambiente sperimentandolo, percorrendolo, vivendolo e poi studiarlo operativamente per comprenderne la storia, le caratteristiche, i limiti, le risorse, in
vista di un intervento operativo, reale, in collaborazione o
in conflitto con gli amministratori, per garantire alla propria città un futuro migliore, uno sviluppo sostenibile.
La scuola diventerebbe così un laboratorio di studi am101
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bientali e di intervento territoriale, attraverso l’analisi dei
problemi e la progettazione partecipata di spazi urbani e
di soluzioni ai problemi incontrati. Per fare questo cercherà la collaborazione degli uffici pubblici (dal catasto ai
lavori pubblici, dai vigili urbani all’assessorato all’urbanistica) e di professionisti esperti nei settori indagati (architetti, urbanisti, sociologi, economisti, ecc.)12.
La scuola potrebbe così diventare una istituzione capace di compromettersi, di portare il suo impegno fuori delle sue mura, confrontandosi con la realtà, con la gente,
con le autorità, prendendo posizione, protestando. Insomma la scuola potrà scrivere sulla sua porta quella parola così impegnativa che don Milani scrisse sulla porta
della sua scuola, nella canonica di Barbiana: «I care»13.
Una esperienza di educazione stradale:
percorrere la città
La scuola svolge programmi di educazione stradale e i Comuni mettono a disposizione delle scuole materiali come
video, libretti, manifesti e spesso anche la disponibilità dei
vigili urbani che vanno nelle classi a trattare questo argomento. Questi materiali hanno costi notevoli e servono a
ottenere risultati banali. Nella maggior parte dei casi si
tratta di lezioni di educazione stradale, di presentazione
dei segnali stradali o delle norme del codice. Si tratta ancora della scuola che i nostri bambini rifiutano e che quindi non riesce ad incidere su di loro. Se al maestro si sostituisce il vigile il risultato non migliora, perché questo signore cerca ugualmente di fare lezione e non ne è capa12
Su questi argomenti si vedano le schede n° 11: «Io e la mia città» e n° 4:
«I bambini progettisti».
13
«I care», verbo inglese, significa mi interessa, mi preoccupa, mi faccio carico. È il contrario di «I don’t care» che traduce il «Me ne frego» fascista. La scritta è ancora visibile a Barbiana, sulla porta della scuola.
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ce. Quindi togliamo dei professionisti importanti dalle nostre piazze, dalle strade, e li mettiamo a far cose che non
sanno fare. Le nozioni che si trasmettono non modificano in nulla il comportamento reale e non servono assolutamente a formare un cittadino più indipendente e consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri.
La scuola potrebbe invece sostenere con le famiglie la
necessità che i bambini, fin dalla prima elementare, vengano a scuola da soli, a piedi, mettendosi d’accordo con i
compagni più grandi, ritrovando un minimo di autonomia
e sperimentando praticamente i loro diritti e i loro doveri
come pedoni. Su questa nuova esperienza si può discutere, si possono organizzare iniziative. Si possono effettuare sopralluoghi per verificare i vari percorsi, per identificare i passaggi di maggiore pericolo e studiare insieme le
modalità migliori per evitare i pericoli. In questo caso il vigile può essere prezioso per confortare con la sua esperienza e conoscenza del codice della strada insegnanti e
bambini14.
Il progetto «La città dei bambini» è destinato alla città e
non alla scuola. Questa non è il luogo privilegiato per la
sua realizzazione, ma è certamente un luogo molto importante per i bambini, che vi passano gran parte della loro infanzia, fanciullezza e gioventù. La scuola può quindi
fare molto per l’affermazione di questa idea. Può aiutare
le famiglie a capire, ad apprezzare il valore della proposta, e d’altra parte può ricevere molto facendo propria la
filosofia del progetto, sostenendone le iniziative, partecipando alle sue attività e principalmente riconoscendo un
ruolo di protagonisti agli allievi. Diventando insomma una
scuola dei bambini.
14
Si vedano le schede n° 9: «A scuola ci andiamo da soli» e n° 10: «Una
patente da pedone, da ciclista e da motorinista».
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I condomini: il diritto al gioco
I regolamenti della maggior parte dei nostri condomini sono illegali, illegittimi, perché violano una legge dello Stato: la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo,
approvata dalle Nazioni Unite nel 1989 e fatta propria
dallo Stato italiano nel 199115. In particolare l’articolo 31
sancisce il diritto dei bambini al gioco. Nei regolamenti dei
condomini questo diritto è spesso ostacolato e non di rado è totalmente impedito.
Quasi sempre è proibito giocare sulle scale, negli androni e perfino nei cortili in certe ore del giorno, in genere dopo pranzo, quando si presume che gli adulti possano aver voglia di riposare. Non ho trovato nel testo dei diritti dell’uomo un articolo che difende il diritto al riposino
pomeridiano degli adulti, mentre è ben chiaro quello che
difende il diritto di gioco dei bambini. D’altra parte le scale sono sempre state un luogo privilegiato di gioco, per la
loro struttura articolata, che permette di nascondersi, di
rincorrersi, ma anche di sedere e di chiacchierare o di disporre giocattoli e oggi, con gli ascensori, praticamente
non servono più a nessuno. Si obbietta giustamente che i
bambini fanno chiasso, disturbano. Ma non disturbano
forse il traffico urbano, l’uso smodato dei clacson, l’uso ormai generalizzato delle sirene di allarme? Nessuno ha mai
chiesto di proibire l’uso del clacson, delle sirene e l’arresto del traffico dalle 14 alle 16. E allora cosa sta succedendo a noi adulti? Ci stiamo adattando al rumore terribile delle sirene, a quello sgradevole dei clacson e a quello
esasperante del traffico urbano e non sappiamo più sopportare il chiasso, certamente fastidioso, ma sano e necessario, dei bambini che giocano? Quale società stiamo
preparando per i nostri figli, per i nostri nipoti?16
15
16
104
Si veda il testo della Convenzione riportato nella Appendice 1.
Il comandante dei vigili urbani di Torino notava che venti anni fa riceve-
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Nella attuale situazione di pericolo ambientale, che rende difficile anche la più piccola libertà dei bambini, il cortile condominiale potrebbe e dovrebbe essere il luogo ottimale per il gioco autonomo dei bambini anche molto
piccoli17. Noi adulti abbiamo invece ritenuto più comodo
proibire questo spazio al gioco dei bambini (oltre alle proibizioni orarie è quasi sempre proibito giocare con la palla) destinandolo al parcheggio delle nostre auto. In questo
modo uno spazio comune e quindi pubblico si è privatizzato, diventando ingombro, brutto e sporco (anche l’igiene delle macchine lascia a desiderare).
I sindaci sono i rappresentanti dei cittadini e dovrebbero esserlo in modo speciale per i cittadini più piccoli. Sarebbe giusto quindi che invitassero i consigli condominiali a rivedere i loro regolamenti per renderli rispettosi delle
leggi dello Stato e quindi dei diritti dei bambini; a ripensare l’uso dei cortili condominiali e a comunicare al sindaco
o al Laboratorio le eventuali modifiche o ristrutturazioni.
Sarebbe doveroso che i consigli condominiali discutessero la modifica dei loro regolamenti e un uso prioritariamente sociale dei loro cortili. Questi potranno diventare un luogo di incontro, di socializzazione e di svago per i
bambini, per gli anziani, per tutti i condomini e per questo essere adeguatamente ristrutturati e arredati, risolvendo diversamente i problemi privati del parcheggio. Se sarà
più facile per i bambini uscire di casa e scendere da soli in
cortile anche gli adulti saranno più sereni e più liberi.
Questo invito del sindaco, con un adeguato appoggio
della stampa locale, potrebbe essere una importante ocva ogni giorno molte richieste di intervento per fastidi provocati dai bambini.
Oggi non ne riceve più.
17
Si veda l’esperienza di Manfred Drum, che a Monaco ha realizzato una
rete di spazi per la mobilità pedonale e il gioco collegando fra loro decine di cortili condominiali, all’interno di un lavoro di progettazione partecipata (Drum,
1995).
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casione per aprire nella città un dibattito sui bambini, sulla loro difficile condizione di cittadini, sui loro bisogni, sui
loro diritti.
Il voto ai bambini
Qualche tempo fa un giornalista mi chiese un parere sull’abbassamento della età del voto proposto in Germania.
Gli risposi che io invece avrei preferito che tutti i cittadini
avessero diritto di voto, fin dalla nascita, in modo che tutti possano contare e pesare sulle scelte. Questo significherebbe che in una famiglia di padre, madre e tre bambini arrivano cinque certificati elettorali. Naturalmente fintanto che il bambino non raggiunge la maggior età saranno i suoi tutori legali ad esercitare il diritto di voto. La prima obiezione è che con il voto non si scherza, che non lo
si delega a nessuno, che i genitori userebbero il voto dei
figli per favorire i propri partiti. Di nuovo l’immagine truculenta dell’adulto «mangia-bambini»: l’automobilista che
non vede l’ora di schiacciare il bambino che attraversa, il
passante che userà quasi certamente violenza sul bambino non accompagnato, il genitore che ruba il voto del figlio. Eppure gli adulti siamo noi, siamo noi che andiamo
in macchina, che incontriamo i bambini soli, che dovremmo utilizzare il loro voto. Ma a parte questo i genitori già
scelgono per i loro figli in campi molto più delicati ed importanti di quanto non possa essere un voto elettorale e
non potrebbero evitare di farlo. Scelgono se battezzare o
non battezzare il bambino: qualsiasi sia la scelta compromette e condiziona fortemente il bambino. Scelgono se,
quando e dove mandarlo a scuola, orientano le sue scelte
future. Decidono se e in che misura concedere autonomia, con le conseguenze indicate nella parte prima di que106
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sto libro. Danno un riferimento culturale, ideologico, politico, morale, di solito molto chiaro, sperando che il bambino non tradisca questi loro ideali.
Una seconda obiezione è che si rischia di scatenare
campagne di propaganda più o meno esplicita per condizionare i bambini perché a loro volta condizionino le scelte politiche dei genitori. Ma non è esattamente quello che
succede ogni giorno, a tutte le ore, specialmente nelle trasmissioni e nei giornaletti per i bambini, con la pubblicità
dei prodotti? Ma chiaramente in una società ancora ideologica ma profondamente consumistica come la nostra tutto quello che è legato ai consumi ci sembra normale e quasi doveroso, non si può invece scherzare con la politica!
Una tale proposta che può apparire solamente provocatoria e di cui sono evidenti le difficoltà applicative, non
ultima una incompatibilità costituzionale con la legge italiana18, mi sembra contenga alcuni interessanti aspetti positivi.
Il bambino, attualmente irrilevante, quasi trasparente
nella nostra società, acquisterebbe un peso e una rilevanza.
I genitori, dovendo votare anche a nome dei figli, potrebbero cominciare a porsi il problema di quanto i loro
partiti si stiano interessando dei problemi e dei bisogni dei
bambini. D’altra parte i partiti si preoccuperanno rapidamente di inserire queste problematiche, attualmente quasi ignorate, nei loro programmi, per guadagnare il consenso dei genitori.
Infine, man mano che i bambini cresceranno, cominceranno a chiedere ai loro genitori come intendono utilizzare il loro voto, a voler capire o discutere le scelte. Beh,
mi sembra che sarebbe un bel modo di parlare di politica
dentro le nostre case, invece che tifare con l’uno o con
18
Sarebbe comunque interessante se un sindaco trovasse il modo per far
esprimere i bambini della sua città anche con qualche forma di voto.
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l’altro dei politici partecipanti alla tribuna politica nel più
totale disinteresse dei ragazzi. Forse i ragazzi odierebbero
meno la politica, ci aiuterebbero a capirla meglio e aiuterebbero i politici a praticarla in modo più credibile.
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Ripensare la città
Ripensare la città, volerla in un modo diverso, adatta a tutti fino ai bambini, è una necessità urgente, non per tornare indietro, non per sperare in un ritorno al clima romantico del paesello o del vicinato di quaranta, cinquanta
anni fa, ma per prepararsi ad un futuro diverso, non controllato esclusivamente dalla produzione commerciale,
non dominato dalle automobili e neppure dominato da un
inarrestabile sviluppo dei servizi.
Si tratta di pensare ad una città più leggera, più semplice, nella quale tutti i cittadini contino di più.
La città di oggi è una città che si lascia travolgere dalle
auto, dal loro rumore, dal loro fumo, dalle loro vibrazioni,
che si consegna impotente nelle mani della microcriminalità e della criminalità organizzata, che hanno trasformato
il suolo pubblico in terra bruciata, rendendolo impraticabile per i cittadini onesti. Questi si chiudono in casa, si
muovono in macchina, sognano la città cablata, gli uffici
virtuali. Non sarà più necessario uscire, spostarsi, potremo lavorare dalle nostre case, usando i nostri computer in
reti telematiche. Allora, dicono alcuni che si presentano
come esperti, il problema del traffico sarà risolto, affolleremo solo le autostrade informatiche. In tal caso però dovremo fare i conti con nuovi problemi che gli informatici non considerano, come la esasperata coabitazione fra i
membri della famiglia, la definitiva separazione fisica dagli altri e dalla città.
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Sto utilizzando il computer, la posta elettronica, Internet, come strumenti importanti e appassionanti di lavoro
e di comunicazione, ma vorrei continuare ad incontrarmi
con gli amici e vorrei potermi muovere di più e meglio in
una città che sappia essere una bella città.
Se la città fosse un ecosistema naturale morirebbe in
pochissimo tempo: ha trasformato la sua complessità nella semplificazione della separazione e della specializzazione; ha accettato la progressiva passivizzazione dei suoi cittadini offrendo loro continui rimedi, sussidi, assistenza sotto forma di servizi; il suo equilibrio, la sua sussistenza dipendono sempre meno dalle sue risorse e sempre più da
fattori esterni che non controlla e che non può garantire.
Ripensare la città significa avere un progetto di futuro,
preparare, come dicono gli ambientalisti, uno sviluppo sostenibile. Uno sviluppo non assistito, non egoista, che trovi in se stesso la forza e l’energia sufficiente per garantire
il futuro suo e delle prossime generazioni. Il bambino è il
garante naturale dello sviluppo sostenibile: lui deve diventare grande, capace di risolvere problemi e non potrà mai
farlo se non gli garantiremo autonomia, possibilità di rischio e di crescita, possibilità di relazioni spontanee e di
gioco. Nello stesso modo i cittadini debbono ritrovare la
capacità di risolvere i problemi attraverso l’accordo, la solidarietà, il contributo e non aspettando l’intervento dell’autorità delegata.
Ripensare la città vuol dire preparare un futuro nel quale ci sia voglia e possibilità di pensare al benessere e alla
qualità della vita. Un futuro nel quale i giovani sentano ancora il brivido, l’emozione, il desiderio di mettere al mondo dei bambini.
Nel ripensare la città dobbiamo però fare attenzione
che il bambino non venga collocato in una specie di «riserva indiana», all’interno della quale tutto è permesso o
addirittura auspicabile, ma nettamente separato dal mon110
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do vero, da quello degli adulti. In questa riserva si potrebbe concedere che i bambini si esprimano, che esprimano
i loro bisogni, che realizzino anche loro forme di democrazia, che presentino loro progetti e che questi progetti
possano essere realizzati. Ma un Consiglio dei bambini, un
giardino o un monumento progettato dai bambini, non significa che la città si metta in discussione e voglia cambiare. Il rischio è che fuori della «riserva» la città proceda
come sempre e che gli adulti, una volta accontentati i
bambini, assolti dai loro complessi di colpa possano dire:
«allora dove eravamo rimasti?» e proseguano nei loro discorsi seri di politica e di economia.
Per questo sento il bisogno di confermare ancora, a costo di essere ripetitivo, che «La città dei bambini» non è un
progetto per i bambini, ma per la città.
E quello che il bambino può rappresentare per la città,
le città possono rappresentare per il nostro paese: la politica, la buona amministrazione, la partecipazione e il
controllo democratico cominciano dalle città così come
dalle città comincia la accoglienza, la solidarietà. In un momento di così grande e grave degrado sociale e morale i
bambini potranno salvare le nostre città e le nostre città il
nostro paese. Mi si contesta spesso che questa è una utopia, una follia, sono d’accordo. Ma è molto più utopico e
folle procedere nel cammino senza futuro che le nostre
città hanno imboccato.
Quella della città dei bambini è una utopia concreta,
una utopia sostenibile.
Un progetto difficile da realizzare come tutte le utopie.
A questo proposito ricordo la frase di una signora di Viareggio che mi ha molto colpito. Al termine della mia presentazione del progetto un signore aveva chiesto la parola dicendo che gli piaceva molto, lo considerava giusto e
auspicabile ma che, secondo lui, non sarebbe stato mai
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realizzato, tenendo conto delle lentezze amministrative,
delle difficoltà burocratiche, degli interessi che metteva in
discussione. La signora rispose: «Io non lo so se si potrà
mai realizzare, però sono sicura che noi, comunque, ci
stiamo già guadagnando».
La signora diceva insomma che se nel nostro dibattito
politico riusciamo ad inserire il bambino, se di bambini riusciamo a parlare con i sindaci, con i vigili urbani, con i ragionieri capi, con gli ingegneri capi dei Comuni, con i medici dell’ospedale, con i ristoratori, con gli insegnanti e i
genitori, beh, ci stiamo già guadagnando! È certamente
un risultato minimale, ma è un modo per cominciare a costruire il futuro.
Alla fine di queste pagine mi si permetta una riflessione personale. Scrivendo questo libro, facendo un po’ di
bilanci, mi sono reso conto che ho cominciato a lavorare
al progetto «La città dei bambini» dopo che sono diventato nonno. Non credo che questa coincidenza sia casuale.
I genitori sono giovani, desiderosi di riuscire nella vita,
hanno bisogno di affermazione e per questo finiscono per
accettare tanti compromessi. Non penso ai compromessi
morali, ma quegli accordi con l’amministrazione di cui si
parlava all’inizio del libro: servizi, aiuti, assistenza per sopportare una città ostile, perché questa è la strada più breve, più sicura e quando si è giovani non c’è tempo da perdere, non si può rischiare troppo. Allora la ricerca di un
posto al nido, magari cambiando la residenza1, la ricerca
della scuola materna con l’orario più lungo, il tempo pieno, sono necessità che non possono tenere conto dei bisogni del bambino. I genitori hanno fretta, cercano le soluzioni più «funzionali». I nonni hanno invece il tempo di
1
Ci sono persino giovani donne che non si sposano subito, per avere un
punteggio più alto, come ragazze madri, per garantirsi un posto al nido per il
loro bambino.
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chi non ha più una carriera da fare, ambizioni da realizzare. E allora possono permettersi di diventare radicali nelle scelte, non accettare più i compromessi e cercare prospettive nuove, un futuro possibile per i loro nipoti e per
i bambini che verranno.
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Parte terza
Le esperienze
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Le schede
Questa parte terza presenta attività, iniziative, progetti,
nati in gran parte nella esperienza del Laboratorio di Fano e che non vanno considerati come una proposta organica, né come un percorso obbligato o anche solo suggerito. Vogliono essere una testimonianza modesta, ma
ottimistica, sulla possibilità di realizzazione del progetto,
presentato nella parte prima di questo libro.
Si dice spesso che a Fano è troppo facile, difficile sarà
proporlo nelle grandi città. Credo che ci sia del vero e del
falso in tutte e due le affermazioni. È vero che esperienze
radicali come queste nascono più facilmente in città piccole o medie. Penso alla esperienza dei servizi per l’infanzia comunali di Reggio Emilia o di Pistoia, penso alla
esperienza educativa di Mario Lodi a Piadena, penso ovviamente alla esperienza di don Milani a Barbiana. Certamente la piccola città è più sana, ha saputo difendere meglio la sua identità e lì sono più facili i rapporti sociali, la
partecipazione, la solidarietà. Ma è completamente errato pensare che questo renda facile la realizzazione di un
progetto come questo. La piccola città partecipa ormai,
anche grazie all’effetto globalizzante della televisione, a
tutti i fenomeni sociali e culturali del paese, condividendo
con le grandi città anche le esperienze peggiori, dalla droga al razzismo, dalla paura alla separazione, dal potere dei
partiti alla richiesta di assistenzialismo nei confronti dell’ente locale. Questo fa sì che ogni proposta di cambia117
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mento, specie se così radicale, incontra una ferma resistenza. L’esperienza di Fano è stata sempre e continua ad
essere conflittuale. Ho sempre protestato, con i tre sindaci che si sono succeduti dall’apertura del Laboratorio, per
la loro tiepida adesione alle nostre proposte, per il poco
coraggio ad osare di più. Ma questo non mi ha mai fatto
dimenticare che gli amministratori di Fano il Laboratorio
«La città dei bambini» l’hanno voluto e l’hanno difeso, pur
sapendo che sarebbe stato per loro una spina nel fianco.
Sono altrettanto convinto che nessuna città è tanto
grande e devastata da aver perso ogni desiderio e disponibilità di pensare al suo futuro con speranza e voglia di
cambiamento. Questo mi dicono le risposte di città come
Roma e Palermo, o come Rosario in Argentina, che certo non possono essere considerate realtà piccole e facili,
dove questo progetto sta trovando prime forme di accoglienza e di realizzazione.
1.
FANO «LA CITTÀ DEI BAMBINI»
Un Laboratorio comunale per lo studio, la progettazione e la sperimentazione di modifiche nella città assumendo il bambino come parametro
Il Comune di Fano, già impegnato nello sviluppo di una
politica di servizi per l’infanzia, nel 1991 ha aperto un Laboratorio chiamato «La città dei bambini»1 che da un lato
vuol essere un punto di riferimento per i cittadini, per le
associazioni, per i bambini e dall’altro un pungolo per il
sindaco, per gli assessori, per i tecnici, perché non di1
Per contatti o richieste di materiale: Laboratorio «La città dei bambini»,
corso Matteotti, 66, 61032 Fano, tel. 0721-887374, fax 803273. Per il coordinamento nazionale vedi scheda n. 24 «Una rete nazionale e oltre».
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mentichino l’impegno preso di assumere il bambino come
parametro per lo sviluppo della città.
Il Laboratorio è una scommessa, una sfida: una città
che è cresciuta secondo le esigenze, le richieste degli adulti, sceglie di cambiare ottica e quindi si espone ad una continua contraddizione.
Fano non è la città dei bambini. È però una città che ha
accettato questa sfida e si è data una struttura interna che
denuncia la contraddizione e propone il cambiamento.
A onor del vero Fano ha fatto anche qualcosa che sempre più si sente e si vede e di cui va dato atto: ha inserito
nella sua pianta organica il Laboratorio come unità organizzativa, con una sua sede dotata di moderne strutture di
elaborazione e comunicazione informatica, con personale dedicato a tempo pieno alle sue attività; ha chiesto allo
scrivente di assumerne la direzione scientifica. Recentemente si è costituito un comitato tecnico interassessorile
formato dai rappresentanti dei vari assessorati, per seguire le attività del Laboratorio, garantendo la sua trasversalità. La delega per il Laboratorio è attualmente assegnata
all’assessore alle politiche educative. Oltre a questo il Comune di Fano ha riconosciuto e sostenuto le varie iniziative che il Laboratorio ha lanciato in questi anni e che verranno presentate in queste schede. Per altri aspetti invece il Comune non riesce a tenere il passo del Laboratorio
e dei bambini: è in ritardo sulle realizzazioni promesse,
non sempre è coerente nelle iniziative, spesso resiste agli
stimoli. Insomma è un rapporto di grande interesse, nel
quale il conflitto rivela insieme adesione e difficoltà.
Il Laboratorio è stato riconosciuto dal Ministero dell’Ambiente come Laboratorio Territoriale di Educazione
Ambientale2 e come tale è stato finanziato nell’ambito del
Programma Triennale dell’Ambiente.
2
Negli ultimi anni si sta realizzando un piano nazionale per l’educazione
ambientale con il concorso dei Ministeri dell’Ambiente e della Pubblica Istruzio-
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Fin dall’inizio Fano si è data degli obiettivi di attività all’interno della città e degli obiettivi più ampi rispetto alla
promozione del progetto presso altri Comuni italiani.
È in rapporto con movimenti e associazioni nazionali e
internazionali come «Las ciutades educadoras», Unicef,
Comunità Europea, ANCI, Arciragazzi, CGD, La città possibile, Legambiente, INU, WWF3.
Fano, Laboratorio «La città dei bambini».
ne, che hanno firmato un accordo di programma. Il piano nazionale prevede
l’apertura di Laboratori Territoriali, di norma fuori della scuola, aperti all’incontro, allo scambio e al sostegno di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, si interessano di educazione ambientale. È anche convinzione di questo progetto che
l’educazione ambientale non vada considerata solo o prevalentemente una
preoccupazione naturalistica, ma che debba privilegiare un recupero della relazione del cittadino con il suo ambiente di vita in vista di uno sviluppo sostenibile. Per questo il Laboratorio di Fano viene considerato a pieno titolo di educazione ambientale.
3
ANCI: Associazione Nazionale Comuni Italiani; CGD: Coordinamento
Genitori Democratici; INU: Istituto Nazionale di Urbanistica; WWF: World Wildlife Fund.
120
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2.
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IL CONSIGLIO DEI BAMBINI
La garanzia del punto di vista infantile
Nella esperienza di Fano, fin dal primo anno si è pensato
che i bambini dovevano essere protagonisti del progetto e
che quindi si dovevano dare loro adeguate opportunità per
esprimersi e per proporre. Si è aperto un Consiglio dei
bambini, sentito come una necessità di presenza infantile
in questa piccola-grande rivoluzione che si proponeva agli
amministratori. Non si è, almeno finora, presa in considerazione l’idea di dare a questo Consiglio le funzioni di un
Consiglio comunale dei bambini, con i partiti, la campagna
elettorale, il piccolo sindaco, gli assessori, ecc., idea che
peraltro ha una lunga tradizione in Francia e da alcuni anni è presente anche in Italia. Certamente per i bambini che
partecipano a tali iniziative è una bella e utile esperienza,
ma spesso la loro attività si limita ad elaborare progetti
propri e a seguirli fino alla realizzazione, chiedendo agli adulti nuove disponibilità e aperture, ma non necessariamente di modificare il loro progetto di governo della città.
Nel caso fanese l’obiettivo è invece, come più volte ricordato, esattamente questo: cambiare la città, cambiare la
cultura degli adulti a partire dal pensiero infantile. Lo scopo del Consiglio dei bambini quindi è quello di organo consultivo del Laboratorio, quello che garantisce agli operatori adulti il punto di vista dei bambini, non tanto o non solo
sui problemi di stretto interesse infantile, ma su tutti i temi
della città che il Laboratorio via via affronta.
Struttura e funzionamento
Il Consiglio è formato da un bambino e da una bambina
per ognuna delle scuole elementari per un totale di una
trentina di consiglieri. Finora non si sono date norme pre121
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cise per la scelta dei consiglieri e ogni scuola si comporta
in modi differenti: autocandidatura da parte dei bambini,
elezione diretta e forse altri.
I bambini ricevono un incarico biennale e si suggerisce
che inizino il loro mandato in quarta elementare per terminare con la quinta. Essendo un consigliere di quarta e
uno di quinta per ogni scuola, ogni anno il Consiglio viene rinnovato per metà dei suoi membri, garantendo così
una continuità nel funzionamento e il passaggio di competenze da bambino a bambino. Il biennio ci sembra necessario perché i bambini possano entrare nel ruolo di
rappresentanti e interpretarlo in maniera consapevole. La
rappresentatività si impara e in genere i bambini più piccoli o all’inizio del mandato intervengono prevalentemente per comunicare il loro pensiero personale, difficilmente si sentono «rappresentanti» dei loro compagni, raramente prendono appunti per riferire correttamente o insistono con gli insegnanti per avere tempo e possibilità di
confrontarsi con gli altri della classe e delle altre classi. Noi
rispettiamo questa gradualità, senza eccessive sollecitazioni. In pochi mesi i piccoli consiglieri entrano nel ruolo e
alla fine ne sono convinti sostenitori, sufficientemente agguerriti e convinti da arrabbiarsi con gli insegnanti che non
concedono loro il tempo necessario, da contestare a volte la mia conduzione del Consiglio, da scrivere lettere al
sindaco o ai giornali, anche assumendo posizioni non
condivise da noi adulti. Ricordo a titolo di esempio quello
che diceva un bambino consigliere: «La maestra non ci fa
fare l’assemblea per discutere con i compagni delle altre
classi e preparare il Consiglio perché dice che non c’è
tempo, e poi però facciamo educazione civica!».
Si è suggerito di iniziare con la quarta perché i bambini hanno già un buon controllo degli strumenti di comunicazione e perché così possono concludere il mandato
con il termine della scuola elementare. In genere i bambini vivono questa esperienza con grande interesse e parte122
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cipazione, è raro che qualcuno abbandoni prima del termine e spesso gli ex ci chiedono di poter continuare con
qualche analoga iniziativa1.
Il Consiglio si riunisce una volta al mese nella sede del
Laboratorio, viene condotto dal direttore scientifico e viene redatto un verbale della discussione. I bambini vengono di solito accompagnati dai genitori, ma gli adulti non
possono partecipare se non in casi particolari. Oltre agli
operatori del Laboratorio possono assistere al Consiglio
gli amministratori o occasionali visitatori che lo chiedano,
ma ciò accade raramente e, di solito, solo per ascoltare.
Il Consiglio viene convocato con lettera personale contenente l’ordine del giorno. Affronta i vari problemi di cui
si sta occupando il Laboratorio, come il traffico, l’ospedale pediatrico, gli spazi di gioco, il rapporto con gli anziani, l’andare a scuola da soli, la ristrutturazione di ristoranti e alberghi, oppure gli argomenti proposti dagli stessi
bambini.
Quando vari temi sono all’esame del Consiglio si formano gruppi di lavoro che vengono convocati anche con
frequenza quindicinale.
Una volta all’anno, i membri del Consiglio dei bambini
partecipano ad una seduta straordinaria del Consiglio comunale, con diritto di parola, in rappresentanza di tutti i
bambini fanesi.
3.
IL CONSIGLIO COMUNALE APERTO AI
BAMBINI
Fin dal 1991 il sindaco di Fano ha aderito all’iniziativa dell’Unicef Italia «Il sindaco difensore dell’infanzia» che prevede di dedicare ogni anno una seduta straordinaria del
1
Si veda la scheda n° 16: «Il Club CdB».
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Consiglio comunale ai bambini. Dopo una prima esperienza nel ’91, in cui una seduta è stata dedicata alle problematiche dell’infanzia, con l’invito di esperti, si è scelto
di aprire il Consiglio ai bambini e di dare loro la parola. I
bambini del Consiglio discutono per alcune settimane,
nelle rispettive scuole, dei problemi che incontrano nella
città, delle cose che non funzionano e preparano delle
proposte. Queste vengono discusse insieme in una sessione del Consiglio dei bambini e sono presentate da alcuni piccoli consiglieri durante il Consiglio comunale. Si
preferisce che non siano più di sette, otto, quelli che riferiscono, perché possano spiegare adeguatamente i punti
posti in discussione e rispondere alle eventuali richieste di
chiarimento degli adulti. Alla seduta assistono anche alcune classi, fino al completamento della tribuna del pubblico della sala del Consiglio comunale.
Le proposte
Quelle che seguono sono alcune delle proposte che in
questi anni sono state avanzate dai bambini e che in qualche modo sono state recepite dal Consiglio:
«Quando decidete qualcosa sulla città ci dovrebbe
essere anche qualcuno che conosce i bambini» (1992).
La Giunta deliberò che tutti i progetti di modifica della
città venissero inviati al Laboratorio che avrebbe potuto
esprimere un parere che riflettesse il punto di vista dei
bambini.
«Le macchine occupano troppo posto e ce lo levano
per giocare» (1993).
L’assessore al Traffico promise di chiudere per un giorno, ogni anno, tutta la città alle macchine perché i bam124
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bini potessero giocare nelle strade. Sono tre anni che questa tradizione si ripete1.
«Un giorno una guardia mi ha preso la palla perché
giocavo in piazza».
«Se uno vuole andare a giocare in un campo sportivo
deve essere abbonato o sennò deve pagare il biglietto».
«Noi vogliamo andare a scuola da soli ma le macchine non rispettano le strisce pedonali e vengono parcheggiate sui marciapiedi e così dobbiamo passare nella strada» (1996).
Il Consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno per discutere e votare tre delibere, una sul diritto dei
bambini di giocare come vogliono in tutte le piazze della
città; la seconda sulla revisione dei contratti di cessione
delle aree alle associazioni sportive perché si garantisca
una fascia oraria di uso libero e gratuito degli impianti e la
terza di applicazione rigorosa di quelle norme che difendono e tutelano i pedoni e in particolare i bambini: la precedenza sulle strisce pedonali e la inviolabilità dello spazio
dei marciapiedi. Per le varie delibere si è chiesto che abbiano una adeguata pubblicizzazione perché contribuiscano alla sensibilizzazione della popolazione.
Gli adulti
Per il primo Consiglio aperto ai bambini, quando ancora
non esisteva il Consiglio dei bambini, non si erano date
particolari indicazioni e gli alunni avevano preparato le loro richieste nelle rispettive scuole. Con nostro grande stupore i bambini parlarono solo delle loro classi e delle loro
scuole: della pericolosità, della rumorosità, dell’assenza di
tende, della insufficiente manutenzione e pulizia. Ci stupì
1
Si veda la scheda n° 13: «Una giornata senza auto».
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l’interessamento dei bambini per la loro scuola, ma poi si
capì che le proteste e le proposte erano state suggerite
dagli insegnanti.
Da allora una lettera inviata alle scuole avverte che le
proposte dei bambini dovranno riguardare il rapporto del
bambino con la città, le sue autonomie, le sue possibilità
di giocare e non potranno riguardare la scuola che, se lo
ritiene necessario, saprà trovare altre occasioni per esprimere le sue necessità. La preparazione del Consiglio comunale avviene all’interno del Consiglio dei bambini dove
si confrontano e si coordinano le proposte che emergono
dalle discussioni che avvengono nelle classi.
Se non è facile per gli insegnanti rispettare la libertà degli alunni, neanche per gli amministratori è facile trovare
un comportamento adeguato di fronte alle richieste dei
bambini. Una tentazione, evidente nelle prime edizioni del
Consiglio aperto, era quella di utilizzare l’incontro per fare la paternale ai bambini. Questi protestavano, per esempio, per lo sporco nei giardini e gli amministratori rispondevano raccomandandosi che i bambini fossero i primi a
non gettare cartacce e lattine in giro. Un’altra tentazione,
ancora in parte presente, è quella difensiva, di dire sempre che le cose si stanno già facendo, senza cercare di capire esattamente cosa questi cittadini strani e diversi, che
sono i bambini, stanno chiedendo. Ancora un segno di disagio degli adulti è la loro difficoltà a dialogare con i bambini, a chiedere loro di spiegare meglio, di approfondire.
Questa difficoltà nasconde la sfiducia nelle reali capacità
dei bambini, pensati sempre più piccoli di quanto in realtà
non siano.
Va detto, a difesa degli adulti, che non è facile capire i
bambini, occorre buona volontà, curiosità, ma anche
competenza che deriva dallo studio e dalla esperienza. Un
esempio. In uno dei primi Consigli comunali aperti ai
bambini uno di loro, che abitava in una frazione, disse:
«Vorrei venire in città in bicicletta, ma la mamma ha pau126
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ra». La interpretazione più facile era: ci sta chiedendo una
pista ciclabile e quindi mandiamo una squadra a disegnare una riga gialla che separi la pista delle biciclette da
quella delle auto. L’assessore al Traffico avrebbe dimostrato buona volontà, ma non avrebbe dato una risposta
al bambino. La madre infatti avrebbe continuato, giustamente, ad avere paura di eventuali autisti imprudenti o
ubriachi che avrebbero potuto non rispettare la riga gialla e avrebbe continuato a non permettere l’uso della bicicletta. L’amministratore attento avrebbe invece dovuto
chiamare un tecnico e dirgli: «Prepara un progetto di un
percorso per biciclette tale che le mamme dei bambini
non abbiano paura». Allora si poteva proporre una barriera invalicabile o, meglio, l’uso di altre strade di campagna quale percorso ciclabile. Se fossero stati consultati i bambini loro avrebbero sicuramente saputo come aiutare il tecnico.
Aiutare gli adulti ad ascoltare e capire i bambini e saper dialogare con loro è forse il compito più importante
del Laboratorio, prima ancora della costruzione dei marciapiedi e della organizzazione e realizzazione delle varie
iniziative.
4.
I BAMBINI PROGETTISTI
Una forma nuova di architettura partecipata
Dal 1992 a Fano si è aperta una esperienza di progettazione di spazi e di arredi urbani da parte dei bambini della scuola dell’infanzia e della scuola dell’obbligo. L’esperienza coinvolge, con ruolo di esperti e di animatori, giovani architetti che lavorano con i gruppi di bambini. Il primo anno i nostri tecnici lavorarono come collaboratori di
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un animatore-architetto1 di grande esperienza; dal secondo anno furono i responsabili di questo settore per la città
di Fano ed ora offrono la loro competenza anche ad altre
città interessate al progetto.
Il metodo
I gruppi di progettazione lavorano spesso in orario e in locali scolastici e coincidono con le classi, ma queste condizioni possono modificarsi. Per esempio possono costituirsi gruppi eterogenei per livello di età; lavorare anche
in orari pomeridiani e riunirsi anche in locali diversi da
quelli scolastici. Nella nostra esperienza abbiamo osservato che quando questi cambiamenti si rendono possibili la
partecipazione è più alta e motivata.
Nei quattro anni di attività si sono proposti vari temi alla progettazione dei bambini, seguendo la programmazione del progetto «Io e la mia città»2. Sono comunque spazi veri, liberi, per i quali una ristrutturazione, una proposta è legittima, possibile, anche se non ci sono garanzie
che i progetti vengano accettati e realizzati.
Questo crea una condizione nuova nel rapporto fra allievi, scuola e città, perché gli studenti vengono invitati ad
intervenire su spazi reali con proposte concrete, che saranno poi presentate non ai genitori o al direttore, ma al
sindaco e agli assessori competenti. Ma qual è l’obiettivo?
Quello di far conoscere agli amministratori i punti di vista,
le esigenze e le proposte dei bambini, perché quando que1
Sulla attività di Raymond Lorenzo, l’architetto che ha realizzato questa prima esperienza a Fano, si veda la scheda n° 20: «Altre esperienze: la progettazione partecipata ai bambini».
2
Si veda la scheda n° 11: «Io e la mia città».
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gli spazi da loro progettati saranno affidati ad un professionista per la progettazione e realizzazione, questi debba
tenerne conto. Se poi questo tecnico sarà capace di coinvolgere, anche in fase di progetto esecutivo e di realizzazione, i bambini che hanno lavorato al progetto, darà un
importante contributo alla formazione di nuovi cittadini interessati e partecipativi.
Il problema più delicato nel lavoro progettuale con i
bambini è di riuscire a farli esprimere con la loro autentica creatività e fantasia, senza far dire loro quello che noi
desideriamo che dicano. Da un lato quindi i bambini vanno aiutati a liberarsi degli stereotipi, dall’altro rispettati
nelle loro idee.
Se chiediamo ad un gruppo di bambini di dirci come
vorrebbero attrezzare un loro spazio giochi è probabile
che rispondano riproponendo gli stessi stereotipi varie
volte denunciati in queste pagine: con scivoli, altalene e
giostrine.
Per permettere ai bambini di esprimersi più liberamente ci sono diverse strade. Una è l’analisi dei giochi che
preferiscono, dei luoghi per loro più suggestivi e, a partire da questi, scoprirne le caratteristiche e cercare di ricrearle nello spazio da progettare. Un’altra è l’esame di
proposte avanzate da altri bambini in altre città e in altri
paesi. Si tratta comunque di portare i bambini alla consapevolezza che «si può osare di più», che non ci sono limiti alla fantasia, anche se poi si dovrà fare i conti con la
realtà, coi materiali, con le leggi della fisica, con i costi.
Dopo la fase di studio e di ideazione è importante arrivare alla realizzazione di un progetto e, se possibile, di
un plastico. Ai bambini, ai ragazzi, piace «vedere», «toccare» le loro idee. Il loro plastico diventa il loro quaderno,
il loro libro, con il quale comunicano e difendono le loro
idee.
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Le proposte dei bambini
Dopo quattro anni e varie decine di progetti che cosa possiamo osservare nelle proposte dei bambini? Abbiamo impegnato i bambini su temi diversi come piazze e monumenti, recupero degli spazi abbandonati, rapporto con le
automobili.
Riguardo al gioco i bambini manifestano un chiaro antagonismo rispetto alle proposte tradizionali: a loro piace
nascondersi, entrare sotto o arrampicarsi sopra; avere a
disposizione l’acqua, la terra, l’erba, le piante; poter utilizzare materiali vari per fare quello che sul momento si
avrà voglia di fare. Nei loro giardini ci sono quindi frequenti dislivelli, grotte, torri; capanne, fortini; laghetti, stagni, fontane, canaletti; legni, sassi, sabbia. Insomma è come se ci dicessero, voi grandi dateci uno spazio ricco, articolato, non banale, non strutturato e poi sapremo noi
come utilizzarlo.
Rispetto alle piazze e ai monumenti c’è un chiarissimo
rifiuto della presenza delle automobili in questi spazi «pubblici»: le piazze debbono tornare ai cittadini, per incontrarsi, per sedersi, per giocare. I bambini le difendono con
barriere, con muretti, con canaletti d’acqua e le dotano di
panchine, di chioschi, di alberi. Per i monumenti viene dai
bambini una proposta interessante e molto vicina alle proposte più moderne: un monumento da usare, da praticare, da giocare. In quegli stessi anni a Barcellona sorgevano dei monumenti fra i quali quelli che raffigurano la scatola di fiammiferi o le lettere dell’alfabeto, che sono anche
dei grandi giocattoli.
Rispetto al rapporto strada-automobili e al desiderio di
muoversi da soli, la proposta dei bambini è duplice: da un
lato i percorsi debbono essere protetti, dall’altro interessanti e belli. I bambini immaginano percorsi riservati per i
pedoni, separati dalla strada delle macchine da muri o paletti, a volte addirittura chiusi in tunnel trasparenti di plexi130
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glas. Le strade vengono attraversate grazie a ponti o sottopassaggi per evitare ogni pericoloso incontro con il nemico-automobile.
Su questa prima proposta, anche se è una importante
denuncia nei confronti dello strapotere delle automobili, e
limitatamente a come emerge dai progetti, non sono per
niente d’accordo con i bambini. Come più volte ho detto
la scommessa del Laboratorio è che il bambino scenda in
strada per salvarla. Il bambino, con la sua presenza, con
la tacita esibizione dei diritti suoi e di tutti i pedoni, costringerà le macchine ad essere più rispettose e meno numerose, a ritirarsi in spazi più adeguati e meno invasivi.
D’altra parte quella che propongono i bambini è di nuovo
la via della separazione e della difesa, e si è visto che non
è efficace3. Valga per tutti proprio l’esempio dei cavalcavia pedonali o dei sottopassaggi, apparentemente le soluzioni più sicure per l’attraversamento di strade pericolose.
Di fatto, e specialmente da parte dei bambini, questi passaggi non vengono utilizzati, perché il sottopassaggio è in
genere preoccupante e maleodorante, il cavalcavia rappresenta invece un percorso lungo e faticoso. Allora si
preferisce attraversare la strada e si creano le situazioni di
maggiore pericolo: l’automobilista che vede il cavalcavia
andrà tranquillo, pensando che chi vuole attraversare lo
utilizzi, senza quindi prepararsi all’eventuale passante che
attraversa. Meglio allora un semaforo a chiamata. Meglio
non separare, ma far incontrare e convivere, chiedendo
reciproco rispetto.
Sulla seconda proposta, sul fatto cioè che i percorsi
debbano essere interessanti, curati, belli, sento invece una
forte sintonia con i bambini. I bambini, che sono neces3
Non è neppure corretto pensare che questa idea di timore, fino all’estrema separazione, corrisponda al pensiero infantile. È per esempio in contrasto
con i risultati dei questionari dell’iniziativa «A scuola ci andiamo da soli», nei
quali i bambini si mostrano meno timorosi, verso i pericoli del traffico, rispetto
ai genitori. E in questo caso si tratta di una esperienza realmente vissuta! (si veda la scheda n° 9: «A scuola ci andiamo da soli»).
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sariamente pedoni, interpretano bene il desiderio del cittadino pedone: vorrebbero le strade con grandi marciapiedi, con aree di sosta, luoghi di gioco, alberi, arredi nuovi e originali.
Progetto dei bambini di quinta elementare della scuola Montessori di Fano presentato nel 1993, approvato dalla Giunta e finanziato nel 1995
per la sua realizzazione. L’architetto che sta attualmente realizzando il
progetto definitivo ha ripreso i contatti con i ragazzi che avevano realizzato il primo progetto, che potranno così seguirne la realizzazione.
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LE PICCOLE GUIDE
Un altro modo per conoscere e amare la città
Proseguendo nell’obiettivo di dare ai bambini un ruolo attivo e di protagonisti nella vita della città, perché siano (e
non «diventino») cittadini consapevoli, abbiamo invitato i
cittadini adulti e anziani, che conoscono bene e amano la
città di Fano, a regalare un po’ del loro tempo ai bambini. Abbiamo chiesto loro di «prendere per mano» un gruppo di bambini e di accompagnarli a osservare e toccare la
città, perché possano conoscerla in modo non scolastico,
ma diretto e vivo, per poterla poi raccontare e spiegare ai
loro compagni. Ognuno di questi «maestri di strada» ha
proposto un percorso e ha vissuto con i suoi allievi di scuola elementare e media una esperienza di una decina di incontri itineranti. Di ogni gruppo faceva parte anche un insegnante o un operatore del Laboratorio. Alcuni hanno
proposto la città romana, altri quella medioevale e rinascimentale, altri quella popolare dei vicoli, altri una lettura urbanistica.
Obiettivo della iniziativa era formare delle piccole guide capaci di accompagnare alla conoscenza della città i
bambini che ogni anno vengono a Fano in primavera a
conclusione della campagna «Io e la mia città» e gli adulti
che il Laboratorio invita per le varie iniziative. La Azienda
di Promozione Turistica ha valorizzato questa iniziativa invitando in varie occasioni le piccole guide ad accompagnare gruppi di adulti in visita alla città. Una esperienza
vera, vissuta dai bambini con grande impegno e competenza.
Anche questa è una esperienza semplice, che costa
quasi niente e che offre ai bambini l’opportunità di conoscere ed amare la propria città.
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La difficoltà che abbiamo incontrato è la scarsa disponibilità degli adulti, dei pensionati colti, a regalare un po’
del loro tempo ai bambini. Per questo siamo riusciti a realizzare solo due volte questa esperienza: il lavoro del Laboratorio per mettere il bambino nella testa degli adulti è
ancora lungo. Dovremo riuscire a far capire ai nostri concittadini che quello che chiediamo loro non è un piacere,
non è un regalo, ma è un dovere. Chi ha avuto la fortuna
di conoscere, di studiare, di amare la sua città ha il dovere di consegnare questa ricchezza ai bambini perché sappiano essere a loro volta cittadini curiosi, interessati e affettuosi verso la loro città.
6.
I SEMINARI DI GIUNTA
Il bambino nella testa degli adulti
Se la città vuole scegliere il bambino come parametro, se
vuol accettare questa sfida rivoluzionaria, i suoi amministratori debbono mettersi nell’atteggiamento di chi non sa
e vuol entrare nel mondo sconosciuto dell’infanzia. Se
manca questo atteggiamento, l’adesione al progetto è solo apparente e strumentale.
Nella esperienza fanese ogni anno si tiene un seminario di Giunta a cui partecipano il sindaco, gli assessori e i
dirigenti comunali. Il seminario, organizzato e coordinato
dal Laboratorio, prevede momenti di studio e di approfondimento sulle tematiche infantili e momenti di programmazione delle attività per l’anno che sta iniziando. Si
svolge presso un convento fuori città e dura una intera
giornata. Si vuole così evitare il disturbo del telefono e garantire un periodo sufficiente di lavoro utile. Specialmen134
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te nei primi anni si aveva il timore della reazione dei politici e specialmente dei dirigenti comunali che avrebbero
potuto considerare questa iniziativa una perdita di tempo,
ma questo non è mai successo e c’è invece stata sempre
la richiesta di ripetere il seminario più frequentemente.
Durante l’anno poi il Laboratorio è più volte chiamato
ad incontri di Giunta e ha più volte richiesto e ottenuto delle conferenze di servizio per affrontare e risolvere problemi organizzativi sulle singole iniziative con la partecipazione di tutti gli assessorati e uffici interessati.
La necessità di tanti contatti con l’amministrazione, oltre alla collaborazione costante con l’assessore che ha la
delega per il Laboratorio, conferma la complessità e la difficoltà del progetto. La normativa e più ancora la tradizione amministrativa non sono favorevoli ai bambini. L’attuale tendenza degli adulti è quella di proteggere i bambini più che quella di favorire la loro autonomia e per questo occorre molta buona volontà e un po’ di creatività per
muoversi dentro leggi, circolari e regolamenti, che certo
non sono pensati per loro.
7.
«IL VIGILE AMICO DEI BAMBINI»
Negli ultimi due anni l’Assessorato al Traffico ha aperto
un corso di aggiornamento e formazione per tutti i vigili
urbani del Comune di Fano, tenuto dal Laboratorio «La
città dei bambini» e intitolato «Il vigile amico dei bambini».
Durante gli incontri si è esaminato innanzi tutto il ruolo
che attualmente il vigile esercita, sostanzialmente finalizzato al controllo del traffico e della sosta delle auto. Il vigile vede svilita la sua funzione e non ama essere consi135
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derato con ostilità dai suoi concittadini. Si è quindi esaminata la possibilità che il vigile urbano possa assumere un
ruolo di garante, in una nuova ottica di maggiore mobilità
urbana, da parte dei pedoni e dei ciclisti, a partire dai bambini. La proposta ha riscosso interesse e si stanno valutando nuovi compiti e nuove modalità di presenza e di intervento. Per esempio l’iniziativa «A scuola ci andiamo da
soli» suggerisce che il vigile non debba più presidiare e
controllare l’ingresso delle scuole, liberato dall’assedio e
dal pericolo delle macchine dei genitori che accompagnano i figli. Dovrebbe essere presente invece nel quartiere,
girando nelle strade per stimolare gli automobilisti a tener
conto dei diritti di mobilità dei bambini anche punendoli
se non rispettano la precedenza sulle strisce pedonali o
parcheggiano sui marciapiedi riducendo l’autonomia dei
pedoni. Dopo il primo anno dell’iniziativa «A scuola ci andiamo da soli», in uno dei due quartieri coinvolti i cittadini
hanno chiesto il vigile di quartiere, quale intervento di tutela dell’autonomia dei bambini. Questa richiesta è stata
accolta dall’amministrazione ed è attualmente in fase di
sperimentazione.
Nei prossimi incontri si dovrà proseguire nella elaborazione di questo nuovo ruolo e dei nuovi atteggiamenti
che i vigili potranno assumere, per favorire le autonomie
dei cittadini e partecipare così da protagonisti alla realizzazione della nuova città che si sta progettando.
8.
LA MULTA DEI BAMBINI
I bambini del Consiglio e, attraverso loro, tutti i loro compagni di scuola possono utilizzare la multa «morale» qui ri136
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prodotta in dimensioni ridotte. I bambini sanno che debbono usarla non per rilevare una infrazione qualsiasi del
codice della strada, perché questo è compito dei vigili, ma
solo quando il comportamento dell’automobilista crea difficoltà alla libertà e autonomia del pedone. In particolare
viene utilizzata nei casi in cui le macchine vengono parcheggiate sul marciapiedi costringendo così i bambini all’inutile pericolo di passare nella strada. La «multa» è stata realizzata in collaborazione con l’Assessorato al Traffico e sembra che abbia una certa efficacia. I bambini dicono che gli adulti si vergognano quando trovano questo
rimprovero infantile sul parabrezza delle loro auto e di solito non ripetono questa infrazione.
Se si vuol far usare questa multa ai propri figli o ai propri alunni, la si può
fotocopiare, ripulire del nome ed età col bianchetto, ingrandire e farne
tante copie. Si può consigliare ai bambini di colorare la scritta grande.
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Al di là della efficacia mi sembra importante consegnare ai bambini «armi» civili con le quali manifestare il proprio dissenso e rivendicare i propri diritti. L’uso della multa credo valga più di tante lezioni di educazione stradale.
9.
«A SCUOLA CI ANDIAMO DA SOLI»
Una prima, piccola esperienza di autonomia
Il laboratorio «Fano la città dei bambini» ha avviato nell’anno scolastico 1994-95 una esperienza chiamata «A
scuola ci andiamo da soli». Si tratta di permettere ai bambini della scuola elementare di andare a scuola e di tornare a casa da soli, a piedi. È una esperienza piccola rispetto all’obiettivo generale di dare ai bambini la possibilità di uscire da soli di casa, ma è un modo per aprire un
varco nel protezionismo esasperato delle famiglie e nella
sfiducia sociale purtroppo ormai generalizzata. È una
esperienza possibile perché prevede un percorso definito, sempre uguale, per un tempo limitato e con la contemporanea partecipazione di molti bambini delle diverse età.
Pur essendo Fano una piccola città si è lavorato per vari mesi, prima di poter dare il via a questa proposta. Il problema principale è la sfiducia che i genitori hanno nei confronti dei loro colleghi adulti e dei loro bambini. Per aiutarli a superare la loro paura occorreva limitare l’invadenza e la prepotenza delle macchine e ricucire una rete di accoglienza e di solidarietà sociale che rendesse questa esperienza possibile, coinvolgendo i diversi protagonisti della
vita del quartiere.
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I bambini. Pensiamo che questa iniziativa possa produrre vari effetti positivi: offrire ai bambini una piccola occasione di autonomia affrontando da soli i problemi del
percorso e qualche rischio da loro facilmente controllabile; suggerire loro comportamenti di cooperazione e solidarietà passando a prendere i compagni più piccoli, handicappati o isolati, rompendo la rigida esperienza fra coetanei proposta dalla scuola. Sapevamo di poter contare
sull’interesse e l’entusiasmo dei bambini, già verificato nel
Consiglio dei bambini.
Gli insegnanti. Si è discusso a lungo con direttori e insegnanti, sicuri che la scuola potesse fare molto per appoggiare e valorizzare l’iniziativa, anche se non interferisce con le sue competenze e non compromette le sue responsabilità. Questo sia per la significativa possibilità che
offre agli alunni, sia per gli interessanti risvolti educativi.
È una proposta semplice e corretta di educazione ambientale, perché invita i bambini a conoscere in modo diretto il proprio quartiere, percorrendolo ogni giorno, nelle varie stagioni, fino a conoscerne i dettagli, le attività, i
cambiamenti, le persone. Piccole esperienze personali
che, portate a scuola e sommate, possono costituire una
base interessante per lavori di apprendimento e di progettazione.
Costituisce inoltre una concreta e seria esperienza di
educazione stradale, partendo anche in questo caso dalle
quotidiane esperienze individuali, per studiare insieme i
percorsi migliori e i comportamenti più corretti sia dei
bambini che degli automobilisti1.
Abbiamo chiesto agli insegnanti di valutare la possibilità di diminuire il peso dello zaino studiando modali1
Si veda la scheda n° 10: «Una patente da pedone, da ciclista e da motorinista».
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tà diverse per lo studio in classe e per i compiti a casa,
per esempio facendo lasciare alcuni libri a scuola, altri a
casa.
I genitori. Ci sembra importante dare ai genitori la possibilità di scoprire le capacità di autocontrollo e di responsabilità dei propri figli, certamente maggiore di quella che loro stessi immaginano e recuperare essi stessi una
maggiore autonomia, più tempo, meno vincoli, liberandosi dall’obbligo dell’accompagnamento quotidiano. Con
loro si è avuto naturalmente il confronto più difficile, rispetto a quello che consideravano un grave pericolo per i
loro figli. Si è convenuto però che il pericolo più grande è
rappresentato proprio dalle loro auto, che, in quelle ore,
sono responsabili della stragrande maggioranza del traffico intorno alle scuole. Si è ragionato insieme sulla necessità che i bambini ritrovino forme di solidarietà (cercarsi,
passarsi a prendere, accompagnarsi) e una maggiore autonomia. Che possano sperimentare le diverse stagioni
dell’anno senza paura per la pioggia o per la neve (sempre considerati eventi piacevoli nella nostra infanzia). Si è
infine concordato, naturalmente senza poterlo rendere
obbligatorio, che i bambini venissero lasciati andare a
scuola e tornare a casa da soli entro un’area definita2, in
modo che chi abitava lontano li accompagnasse fino a
questo limite e non fino a scuola.
Molti genitori chiedevano che prima di iniziare l’esperienza venissero effettuati alcuni interventi urbanistici che
rendessero più sicuri i punti più critici dei due quartieri, ma
abbiamo convenuto che in questo l’avvio dell’esperienza
avrebbe richiesto un tempo eccessivamente lungo e a2
Questa area corrisponde al bacino di utenza della scuola o almeno alla sua
parte più rilevante e non supera i 500-700 metri di raggio, e quindi di distanza
massima dalla scuola per ciascun allievo.
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vremmo invece avuto più forza nei confronti della amministrazione se avessimo chiesto gli interventi a esperienza
avviata, con i bambini nelle strade e dopo aver verificato
le reali esigenze e priorità. Naturalmente non tutti si convinsero.
Gli anziani. Abbiamo incontrato le associazioni degli
anziani, non per chiedere di assumere ruoli particolari di
vigilanza o di assistenza, ma, come si diceva sopra, per
chiedere loro di «esserci», di uscire in quelle fasce orarie,
di passeggiare, di andarsi a leggere il giornale in una panchina, di andare a fare la spesa, insomma di dare un’occhiata e di essere i nonni di tutti i bambini.
I commercianti. Questa categoria ha una caratteristica
che la rende preziosa per questa esperienza: il commerciante sta sulla strada, per questo può dare un’occhiata ai
bambini ed è sempre lì e può costituire un punto di riferimento. Abbiamo chiesto ai negozianti dei due quartieri
di partecipare alll’iniziativa e quelli che hanno aderito
(quasi tutti) hanno esposto sulle loro vetrine un adesivo
del Laboratorio. I bambini conoscono il simbolo e sanno
che, dove appare, loro possono entrare e chiedere: di telefonare a casa senza pagare la chiamata, bere, fare la
pipì, ricomporre una lite.
Questa risorsa è stata utilizzata pochissimo sia perché
effettivamente il percorso non presentava difficoltà, sia
perché i bambini ci tengono a dimostrare la loro autonomia. Quando ne hanno avuto bisogno l’hanno utilizzata
con piena soddisfazione loro e degli stessi negozianti.
Gli adolescenti. Abbiamo poi incontrato gli studenti delle scuole superiori vicine alle scuole elementari. I genitori
avevano manifestato timori per i motorini degli studenti e
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per le eventuali molestie che da questi sarebbero potute
venire. Abbiamo invece trovato molta attenzione e disponibilità a collaborare per favorire questa piccola, ma importante impresa, dei loro compagni più piccoli.
L’Assessorato al Traffico. L’iniziativa è stata avviata in
collaborazione con l’Assessorato al traffico, che ha fatto
realizzare dei cartelli stradali sperimentali, per avvisare gli
automobilisti che nella zona i bambini vanno a scuola da
soli. L’Assessorato al Traffico ha anche promosso un corso di aggiornamento per i vigili urbani intitolato «Il vigile
amico dei bambini».
Gli automobilisti. Attraverso l’apposita segnaletica
stradale si sono informati gli automobilisti dell’iniziativa,
offrendo loro una bella opportunità di educazione al rispetto dei diritti dei pedoni.
Il quartiere. L’iniziativa, oltre ad offrire ai bambini una
occasione di autonomia, vuole restituire al quartiere l’esperienza dei bambini per strada. Una esperienza che non
intende sollecitare romantici ricordi, ma preparare un futuro sostenibile, con meno smog, meno rumore, con più
sicurezza e più gente per strada.
Alcuni dati
L’iniziativa «A scuola ci andiamo da soli» è stata preceduta o si è associata ad attività di ricerca che avevano l’obiettivo di raccogliere informazioni o di valutare i primi risultati dell’esperienza. A Fano l’indagine è stata condotta
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Cartello stradale realizzato dall’Assessorato al Traffico per delimitare le
zone sperimentali.
alla fine del primo anno di avvio della iniziativa, mentre a
Palermo e a Roma ne precede l’inizio.
Fano
Prima della fine dell’anno scolastico, dopo quattro mesi
dall’avvio dell’iniziativa, è stato proposto un questionario
agli alunni e ai genitori delle due scuole coinvolte, per conoscere se era cambiato il modo di recarsi a scuola, se erano soddisfatti dell’esperienza e quali difficoltà e proposte
potevano segnalare.
Hanno risposto 385 alunni (intervistati a scuola) e 316
genitori. Le loro risposte sono sostanzialmente omogenee
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per cui si riferisce una media fra le due, volendo qui solo
dare elementi di valutazione dell’attività.
Prima dell’iniziativa andavano a scuola accompagnati in auto il 68% degli alunni, accompagnati a piedi da
adulti il 12% e da soli a piedi il 20%. Naturalmente queste percentuali variano nei diversi livelli scolastici, arrivando in quinta elementare al 50% di alunni che andavano a
scuola da soli.
Dopo l’avvio dell’iniziativa continuano ad andare a
scuola in macchina solo il 20% degli alunni, mentre il 76%
vanno a scuola da soli.
Naturalmente le condizioni climatiche incidono notevolmente sull’autonomia dei bambini e solo il 33% di loro
va a scuola da solo anche quando piove.
La grande maggioranza degli intervistati, il 95% dei
bambini e l’87% dei genitori, dà una valutazione positiva
della esperienza. Le motivazioni prevalenti di questa soddisfazione sono nell’ordine: l’aumento di autonomia, la
possibilità di conoscere, il piacere di incontrarsi con gli
amici (citata specialmente dai bambini). Le motivazioni più
citate a giustificare le risposte negative sono: la pericolosità, la scomodità (citata dai bambini), il peso degli zaini.
Le proposte per una maggiore sicurezza del percorso
casa-scuola sono nell’ordine: maggiore sorveglianza da
parte dei vigili, maggiori garanzie (separazione dalle macchine) sui percorsi pedonali e ciclabili. Queste proposte di
maggiore difesa e separazione sono più frequenti nei genitori, mentre i bambini sono più interessati ad un maggiore rispetto dei loro diritti da parte degli adulti e in particolare degli automobilisti.
Palermo
A Palermo l’indagine si è svolta nei due quartieri scelti per
l’avvio della iniziativa, uno di periferia e uno di centro, e
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ha coinvolto 3.550 genitori e 3.550 studenti della scuola
elementare e della scuola media. I questionari intendevano conoscere le modalità in cui viene effettuato il percorso casa-scuola, la valutazione della proposta di andare a
piedi da soli e le eventuali difficoltà e proposte.
I questionari sono stati distribuiti a scuola e compilati a
casa, sia da parte dei genitori che degli allievi, con una
percentuale di restituzione di circa il 50% (la bassa percentuale dipende sia dalle modalità di distribuzione del
questionario sia dalla assenza di qualsiasi forma di precedente sensibilizzazione all’iniziativa).
Vanno a scuola accompagnati in auto il 40% degli studenti; la percentuale sale al 58% nei giorni di pioggia.
Vengono accompagnati a piedi il 16%.
Vanno a scuola a piedi, da soli il 37% e in autobus il
7% degli allievi.
Nella scuola elementare le percentuali si modificano.
Vanno a scuola accompagnati in auto il 44% e a piedi
da adulti il 40% dei bambini.
Vanno a scuola a piedi, da soli il 16%.
Il 66% dei bambini e il 54% dei genitori si dichiarano
favorevoli alla iniziativa e citano come motivazione prevalente la necessità di una maggiore autonomia.
Il 34% dei bambini e il 46% dei genitori si dichiarano
invece contrari citando come motivazioni prevalenti la pericolosità del traffico e i rischi sociali, la lontananza della
scuola e il peso degli zaini.
Roma
A Roma il progetto è stato raccolto dalla V Circoscrizione
e applicato in alcuni suoi quartieri con il nome «Il quartiere dei bambini». La ricerca è stata condotta in due quar145
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tieri nei quali si vorrebbe avviare l’iniziativa «Alla scuola ci
andiamo da soli».
Rispetto alle altre città l’indagine di Roma è stata condotta con un forte impianto scientifico e utilizzando un
questionario complesso e articolato somministrato con la
formula dell’intervista da parte di una équipe di ricerca3.
Le interviste hanno interessato un campione sperimentale di 400 bambini delle ultime classi della scuola elementare e della scuola media. Le domande contenute nel questionario riguardavano diversi temi fra i quali la mobilità
infantile per il percorso casa-scuola. I dati raccolti indicano che:
– il 68% degli allievi va a scuola accompagnato in auto o a piedi dagli adulti;
– il 13% dei bambini va sempre a scuola da solo;
– il 18% ha avuto solo occasionalmente l’opportunità
di fare il percorso senza essere accompagnato.
I bambini ritengono di essere accompagnati perché i
genitori hanno paura (67,2%) e in misura minore perché
sono piccoli (18,8%).
La maggioranza dei bambini che sono accompagnati si
dichiara disponibile ad andare a scuola da solo (76,2%).
La maggiore difficoltà che i bambini citano rispetto a
questa loro esperienza di autonomia è la loro paura delle
«persone pericolose», che identificano con le frange di emarginazione sociale: barboni, zingari, drogati, ladri, rapitori. Meno preoccupanti per loro i pericoli derivanti dal
traffico, che invece considerano come paura prevalente
dei genitori.
3
La ricerca romana è stata condotta dalla dottoressa Vittoria Giuliani, ricercatrice dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, esperta di psicologia ambientale.
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Conclusioni
Come dimostrano i dati di Palermo e Roma, la maggioranza dei bambini desidera una maggiore autonomia, si
considera capace di affrontare la prova dell’andare a scuola senza l’accompagnamento degli adulti. È interessante e
preoccupante la forte presenza di paure legate ai pericoli
sociali dell’ambiente, certamente condizionate dalle raccomandazioni degli adulti e dalle informazioni dei mezzi di
comunicazione, ma che in parte rispecchiano anche la situazione di degrado delle periferie. Meno preoccupati sono i bambini dei pericoli di traffico. Di fronte a questa situazione sembra ancora più urgente l’avvio di una tale iniziativa, che aiuterà bambini e genitori a costruirsi un quadro del quartiere più sereno e a dare un contributo perché
la pericolosità, che comunque può esistere, si riduca a livelli controllati e accettabili.
L’esperienza di Fano, che dal marzo 1995 continua
con una sostanziale risposta positiva da parte delle famiglie e dei bambini, dimostra che le paure si possono esorcizzare solo con l’esperienza. Anche a Fano i genitori avevano paura sia dei pericoli del traffico che di quelli sociali, ma una volta avviata l’iniziativa la quasi totalità di adulti e bambini si dichiara contenta.
I bambini in particolare dichiarano di andare a scuola
più volentieri e, secondo la testimonianza di uno dei due
direttori didattici, quando vengono a scuola da soli sono
più puntuali. Due effetti che non sembrano marginali.
Va invece sottolineata la fragilità di esperienze come
questa che richiedono modifiche non indifferenti nelle abitudini delle famiglie. Il Comune che chiede ai bambini di
andare a scuola da soli, chiede ai genitori non solo di avere fiducia nei loro figli, ma anche nel comportamento degli altri adulti automobilisti, passanti, negozianti. Naturalmente se un Comune chiede questo deve comprometter147
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si e fare tutto quello che è in suo potere per garantire la
maggiore sicurezza dei bambini. Le famiglie contano su
questa disponibilità e chiedono interventi che aumentino
le sicurezze. Se questi interventi non vengono realizzati,
specie se già promessi, la fiducia verso l’amministrazione
viene meno e i figli tornano a scuola in auto.
Questo in qualche modo sta succedendo a Fano con
una diminuzione della partecipazione a questa iniziativa,
nel secondo anno, proprio per i ritardi nella realizzazione
delle opere richieste dai cittadini e promesse dall’amministrazione. Di nuovo il problema dei tempi, di nuovo la necessità di considerare il progetto come una trasformazione profonda non solo nelle cose da fare ma anche nelle
sensibilità che si riflettono nelle procedure.
10.
UNA PATENTE DA PEDONE,
DA CICLISTA E DA MOTORINISTA
Una proposta di educazione stradale
I Comuni hanno competenze sull’educazione stradale e
destinano fondi all’acquisto di materiali come libretti, manifesti, video. Materiali che permettono agli insegnanti di
fare le solite lezioni magari con qualche immagine in più,
ma resta inalterato lo scopo di questo sforzo economico e
organizzativo: portare il più precocemente possibile gli
alunni a conoscere i segnali stradali e i principali articoli
del codice della strada. Per rendere più credibile e più efficace questa operazione sempre più spesso si invitano i
vigili urbani dentro le classi, in modo che siano loro ad insegnare segnaletica e codice, anche se non hanno nessuna esperienza di bambini e di didattica. Queste attività sono destinate ad un sostanziale insuccesso per varie ragioni: innanzi tutto è privo di ragionevolezza insegnare a
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bambini di otto, dieci anni, che ancora per molti anni non
guideranno una macchina, i segnali stradali e il codice, poi
non è assolutamente vero che l’aumento di informazioni
e di conoscenze garantisca il cambiamento dei comportamenti (i giovani ad esempio continuano a fumare anche
se conoscono tutte le statistiche del rischio che stanno
correndo). A scuola quindi si studia come ci si dovrebbe
comportare in strada mentre in strada gli adulti si comportano come se non fossero mai andati a scuola e i bambini continuano a muoversi dentro le auto condotte da
questi adulti analfabeti.
Di qui la proposta del Laboratorio di una vera esperienza di educazione stradale, vissuta dai bambini nelle
strade della città e legata alla soddisfazione, anche se parziale, di una loro esigenza di autonomia: l’iniziativa «A
scuola ci andiamo da soli».
A sostegno di questa esperienza si propone alle scuole l’istituzione di corsi di patente per «Pedoni» nella scuola elementare, per «Ciclisti» nella scuola media inferiore e
per «Motorinisti» nella scuola superiore. L’idea è semplicemente quella di rafforzare l’attenzione e l’impegno dei
bambini e dei ragazzi e di coinvolgere sempre di più la città
in questa operazione di risanamento dei comportamenti e
delle abitudini.
La patente da pedoni
Nella scuola elementare si potrebbero attivare dei veri corsi di patente da pedoni che prevedano lo studio dei percorsi da casa a scuola con sopralluoghi; l’esame delle migliori soluzioni in rapporto al tempo e alla sicurezza; l’osservazione del comportamento degli automobilisti riguardo alla velocità, al rispetto delle strisce pedonali, al parcheggio sui marciapiedi; l’identificazione dei punti di mag149
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giore rischio. Dopo questi rilievi, che potranno essere effettuati dai bambini anche nel pomeriggio, si dovranno
elaborare strategie di proposta e, se necessario, di protesta, attraverso l’uso delle «multe» morali1 e la richiesta al
Comune di interventi punitivi o strutturali come modifiche di attraversamenti, installazione di semafori a chiamata, ecc.
Si possono approfondire la conoscenza della attività di
deambulazione, la migliore postura, le caratteristiche delle scarpe. Si esamineranno le caratteristiche delle diverse
stagioni e le modalità migliori per proteggersi dalla pioggia, dal caldo, dalla neve, potendosi muovere con libertà.
I bambini possono assumere a turno il ruolo di «vigile
urbano» per verificare il comportamento dei compagni e
degli adulti all’esterno della scuola, prendendo nota dei
comportamenti non adeguati. Di questi si parlerà in classe e in caso di rilievi gravi nei confronti degli automobilisti si potrà anche decidere di fare segnalazioni al comando dei vigili urbani. Naturalmente l’obiettivo non è quello
di riproporre una sorta di capoclasse, ma di offrire un punto di vista diverso, che permetta ai bambini di leggere la
loro esigenza di autonomia correlata con il rispetto delle
norme. La turnazione sistematica e non meritocratica, in
questo gioco dei ruoli, sarà quindi necessaria.
Alla fine del corso si potrebbe fare una grande festa, un
percorso ad ostacoli nella piazza del quartiere e far consegnare dall’assessore al Traffico le patenti da pedoni
con foto, bolli e marche. Poi sarà importante che l’amministrazione organizzi iniziative per i piccoli patentati, per
esempio passeggiate il sabato o la domenica per raggiungere località interessanti da un punto di vista naturalistico
o artistico e fare insieme una merenda. Durante le vacanze si potranno anche organizzare lunghi viaggi a piedi su
percorsi interessanti, secondo le modalità del trekking.
1
Si veda la scheda n° 8: «La multa dei bambini».
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La patente da ciclisti
Nelle città dove l’uso della bicicletta è possibile, in tutte le
scuole medie si potrebbe aprire un «laboratorio della bicicletta» (questa proposta in alcune situazioni ambientali favorevoli potrebbe interessare anche le ultime classi della
scuola elementare). Un luogo dove si possa smontarla, pulirla, aggiustarla, studiarla, conoscerla bene. È importante
che la scuola solleciti negli allievi la passione per la bicicletta, perché le nostre città hanno bisogno di formare cittadini che scelgano di lasciare a casa la macchina e si muovano senza rumore e senza occupare molto posto, senza
consumare inutilmente risorse non rinnovabili come il
carburante, senza inquinare l’aria e danneggiare le opere
d’arte. Per il resto il corso di patente da ciclisti dovrebbe
procedere come quello da pedoni, con lo studio del territorio, dei percorsi, con richieste di maggiori attenzioni da
parte della amministrazione, come più volte accennato
nelle altre parti del libro. Dopo la festa della consegna delle patenti, per i patentati l’Assessorato al Traffico e l’Assessorato allo Sport potranno organizzare gite, gare di regolarità, visite a località interessanti del territorio circostante e, nelle vacanze, anche veri lunghi viaggi in bicicletta a tappe.
La patente da motorinisti
Il motorino è certamente uno dei miti dei nostri adolescenti, è la ragione di grandi lotte con i genitori, è la causa di difficoltà non irrilevanti nella circolazione stradale urbana, è responsabile di forte aumento dell’inquinamento
acustico ed è purtroppo la causa di tanti, troppi traumi cerebrali che ogni giorno uccidono o lasciano paralizzati adolescenti e giovani. Questo sia per la prepotenza degli au151
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tomobilisti sia per le cattive abitudini dei giovani stessi che,
oltre a guidare in maniera spericolata, usano spesso in due
il motorino o circolano senza il casco. Queste cattive e pericolose abitudini sono in modo incomprensibile e colpevole tollerate dalle autorità di tutela del traffico. Se però il
motorino fosse usato in modo corretto si avrebbero notevoli benefici per la città, dato che lo spazio che occupa è
cinque o sei volte inferiore a quello che richiede una automobile.
Si propone l’apertura di un laboratorio del motorino
in tutte le scuole superiori (mi piace pensare un tale laboratorio nei nostri licei classici). Sarebbe un luogo dove finalmente si troverebbero a loro agio gli studenti che hanno più problemi in greco e in algebra, ma sarebbe anche
il laboratorio dove si potrebbe fare tecnologia, fisica, chimica, ecc. Si dovrebbe studiare la viabilità della città, proporre soluzioni soddisfacenti per percorsi sicuri e la realizzazione di appositi parcheggi. Si dovrebbero studiare i
rischi e i pericoli per giungere insieme al riconoscimento
della necessità di una guida corretta, dell’uso del casco e
alla impossibilità di viaggiare in due su un motorino. E via
di questo passo fino alla patente e alle successive iniziative sociali che potranno diventare luoghi di amicizie e occasioni di rafforzamento di corretti comportamenti sulla
strada.
Sarebbe importante che i giovani capissero che quando sono in motorino debbono rispettare i diritti dei più deboli, e quindi dei ciclisti e dei pedoni, così come si chiede
che gli automobilisti facciano con loro.
Questa scheda è stata scritta in gran parte al condizionale perché la proposta è ancora allo studio delle scuole e
si attende una loro decisione per partire con la partecipazione, insieme al Laboratorio, degli Assessorati al Traffico, allo Sport, all’Educazione e delle associazioni sportive
e ambientalistiche.
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«IO E LA MIA CITTÀ»
Una proposta di educazione ambientale
Nel 1993 il Laboratorio di Fano «La città dei bambini» ha
lanciato a tutte le scuole italiane la proposta di dedicare la
loro attenzione al rapporto sempre più difficile fra il bambino e la città, con il progetto «Io e la mia città».
Il piano pluriennale invita ogni anno gli studenti italiani delle scuole di ogni livello ad analizzare un aspetto, un
pezzo della loro città e su questo ad incontrarsi a Fano per
conoscersi e confrontare il lavoro svolto. Nel 2000 si prevede un grande convegno internazionale nel quale, ricomposti i pezzi esaminati nei vari anni, si ponga in discussione la città secondo le ottiche, le aspettative e le proposte dei bambini e dei ragazzi.
È nostra opinione che questa iniziativa sia un buon programma di educazione ambientale, specie per la sua parte di conoscenza del territorio, di progettazione e di prospettiva verso il futuro. D’altra parte è la città il luogo del
massimo degrado, del più urgente intervento. È lì che si
realizzano gli attentati più grandi all’ambiente, è da lì che
una «rinascita» ambientale può iniziare. Per questo il Ministero dell’Ambiente ha riconosciuto il Laboratorio di Fano
come Laboratorio Territoriale di Educazione Ambientale e
per questo il Ministero della Pubblica Istruzione, fin dal primo anno, ha fatto suo e ha divulgato nelle scuole con sua
circolare il progetto «Io e la mia città».
In questo e in simili casi c’è un valore in più da tenere in
conto. I bambini progettano spazi veri della città, li propongono agli adulti e gli adulti dovranno sempre più tenerne conto, modificando i tradizionali parametri di progettazione delle città basati solo su criteri economici e comunque di interesse e rilevanza per i soli adulti. Queste propo153
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ste diventano quindi, attraverso i bambini, anche efficaci
iniziative di sensibilizzazione ambientale per gli adulti.
I temi
Il tema proposto nell’anno scolastico 1993-94 era «Le
piazze e i monumenti». Gli allievi erano invitati a rispondere alle domande «A cosa serve una piazza?», «Come dovrebbe essere fatta, attrezzata, arredata una piazza?», «Dove si potrebbe realizzare una piazza come quella desiderata?», «Cosa significa un monumento?», «A chi lo fareste e
come?».
Il tema del 1994-95 era «Fuori il verde». L’invito era
quello di cercare quei ritagli di città, quei prati incolti di cui
sono ricche le periferie, che non si sa di chi sono e che
spesso diventano piccole discariche; per conoscerli e restituirli ad un uso pubblico attraverso una adeguata progettazione.
Il tema del 1995-96 era «Le strade e le macchine: a
scuola ci andiamo da soli» per studiare le difficoltà della mobilità urbana per i cittadini più deboli e le possibili soluzioni per aumentare la loro autonomia e contrastare lo strapotere delle automobili. «I rifiuti» è l’argomento di lavoro
per l’anno 1996-97 e temi dei prossimi anni potranno essere: «La scuola come piace a noi»; «Il restauro e il riuso urbano»; «I cortili»; «Il tempo libero» o altri.
Il metodo
Le scuole interessate al progetto inviano una scheda di
adesione al Laboratorio di Fano. Questo risponde alle
classi con un documento metodologico, preparato appo154
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sitamente ogni anno, che suggerisce alcune attività sul tema proposto.
Si ritiene che le scuole debbano sviluppare l’argomento, nella piena libertà, delle forme e dei linguaggi espressivi. Si propone di iniziare il lavoro con esperienze concrete, reali: l’individuazione di uno spazio del quartiere,
oppure l’identificazione di un problema da superare. Di
qui si parte per raccogliere informazioni, conoscere la
proprietà dell’area, formulare delle ipotesi di trasformazione. Nella elaborazione di un progetto si suggerisce di
utilizzare la consulenza e la collaborazione di tecnici esterni alla scuola che aiutino gli allievi a tener conto delle norme, delle caratteristiche dei materiali, delle soluzioni possibili. Potranno essere i tecnici del Comune o architetti,
urbanisti, naturalisti, ecc.
Sarà importante, sia per gli aspetti educativi, sia per la
maggiore realizzabilità dell’opera, che la classe studi anche i materiali necessari, i costi necessari e valuti quale
contributo operativo possono dare gli allievi stessi, i genitori, i nonni, tanto per la realizzazione che per la manutenzione. Il lavoro svolto terminerà con la preparazione di
un progetto concreto e se possibile con un modellino o un
plastico che verrà presentato agli assessori competenti1.
La settimana di Fano
Durante il mese di aprile si tiene a Fano una settimana di
chiusura della iniziativa «Io e la mia città», dedicata ai bambini, durante la quale le classi o i gruppi (per esempio di
associazioni) che hanno aderito inviano o portano i loro
progetti.
L’evento principale è la grande mostra dei progetti, dei
1
Si veda anche la scheda n° 4: «I bambini progettisti».
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modelli, dei plastici, prodotti dai bambini delle varie città
sul tema dell’anno. Una seconda mostra è quella dei migliori manifesti realizzati dai bambini di Fano per il concorso per il manifesto dell’anno2. A queste si uniscono altre mostre curate dal Laboratorio, da associazioni nazionali o locali o dagli anziani della città. Nei sei anni della manifestazione, fra le altre, sono state presentate a Fano la
mostra delle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia «I cento
linguaggi dei bambini» e la mostra curata da Mario Lodi sul
disegno infantile.
Tutti i giorni della settimana gruppi teatrali per bambini o di bambini, locali o di altre città, realizzano spettacoli, di mattina nelle scuole e di pomeriggio nelle piazze,
piazzette e teatri della città.
Durante la settimana si tengono anche alcuni incontriconvegno. Uno, forse il più rappresentativo, è quello dei
bambini progettisti, durante il quale gli autori illustrano ai
compagni delle varie città e agli adulti il loro lavoro esposto nella mostra. Questo incontro viene coordinato e diretto dai bambini del Consiglio di Fano con un rispetto dei
tempi previsti che stupisce sempre gli adulti. Si sta comunque pensando di modificare in futuro questa presentazione che rischia di scimmiottare troppo i convegni degli adulti e di incontrare poco interesse da parte dei bambini che assistono, specie di quelli che ancora debbono intervenire, realizzando la mostra dei progetti in uno spazio
molto più grande e invitando i gruppi di lavoro ad illustrare in alcune ore del giorno il loro lavoro.
Un secondo convegno che si è sempre tenuto è quello
degli amministratori, sul tema dell’anno, le sue implicazioni educative ed urbanistiche. Quello con gli amministratori è un appuntamento importante che permette uno
scambio di esperienze fra le città interessate o già impe2
Si veda la scheda n° 12: «Io e la mia città»: il manifesto.
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gnate in questo progetto. Negli ultimi anni all’incontro di
aprile si è aggiunto un incontro-seminario di approfondimento a dicembre.
Si sono anche tenuti incontri con gli insegnanti sui temi più vicini alla metodologia della proposta (dalla educazione ambientale alla collaborazione con tecnici esterni alla scuola) e con gli architetti sui vari aspetti della architettura partecipata ai bambini.
Per una settimana molti spazi importanti e prestigiosi
della città vengono «lasciati» ai bambini, ai loro incontri, ai
loro spettacoli, alle loro mostre. I negozi espongono i loro manifesti, la radio e la stampa locale si occupano di loro. Per una settimana la città diventa un po’ di più una
città dei bambini.
La domenica la città, chiusa al traffico3, si offre ai bambini come «Una città da giocare». Nei vari anni si sono proposti ai bambini i vari spazi urbani come occasioni di gioco: le piazzette e i vicoli del centro come sorprendenti ambientazioni di spettacoli teatrali; la sabbia dell’arenile come materiale per i tanti giochi, dal vulcano al castello, dal
trabocchetto alla pista per le bilie; i ciottoli della spiaggia
sassosa come materiali per originali composizioni o pitture o per ricerche del sasso più rotondo; le mura o i bastioni della città come grandi giocattoli. Negli ultimi anni,
dopo che i bambini hanno ottenuto la chiusura della città
alle macchine, il luogo del gioco è diventato la strada, simbolo dell’impegno di riappropriazione della città da parte
di tutti i cittadini a partire dai bambini.
Alcuni dati
La partecipazione alla settimana è stata variabile, fortemente condizionata dai tempi in cui la circolare ministe3
Si veda la scheda n° 13: «Una giornata senza auto».
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riale è arrivata alle scuole e dalla coincidenza della settimana di aprile con le elezioni politiche o amministrative
(purtroppo una costante negli ultimi tre anni). Nonostante queste difficoltà hanno inviato progetti a Fano una cinquantina di scuole (in media) e varie amministrazioni comunali hanno inviato i loro rappresentanti. Erano sempre
rappresentate più di dieci regioni italiane e alcune delegazioni straniere.
È costantemente aumentato il numero dei plastici inviati a Fano, rispetto ai cartelloni tradizionali, che costituivano il materiale prevalente dei primi anni. Questo significa che le scuole stanno accettando le indicazioni di lavoro proposte dalla circolare ministeriale e il documento
metodologico inviato dal Laboratorio di Fano: intervento
operativo sul territorio, collaborazione con tecnici esterni
alla scuola, uso di nuove tecnologie, come appunto la realizzazione di plastici.
L’alta partecipazione di progetti, bambini, insegnanti e
amministratori, nonostante che l’onere finanziario fosse a
carico dei partecipanti e le citate difficoltà «politiche» degli ultimi anni, dimostra il riconoscimento dell’importanza
non solo per la proposta metodologica, ma anche per
l’occasione d’incontro reale di bambini e di adulti sia intorno ai lavori esposti sia per «giocare» insieme la città.
12.
«IO E LA MIA CITTÀ»: IL MANIFESTO
Da tre anni il manifesto della iniziativa nazionale «Io e la
mia città» nasce da un concorso bandito fra i bambini e i
ragazzi delle scuole di Fano. Il Laboratorio distribuisce nelle scuole un manifesto bianco di 100 x 70 cm, con il solo simbolo grafico della iniziativa e i titoli. I bambini dipingono in tutta libertà il manifesto, per rappresentare il te158
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Manifesto scelto come simbolo dell’iniziativa per l’anno 1996, realizzato da Michela, 3 anni, dell’asilo nido Arcobaleno di Fano.
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ma dell’anno, scegliendo la tecnica che preferiscono, lavorando a scuola o a casa, individualmente o in gruppo.
Tutti i manifesti preparati, sempre più di cento, vengono
esaminati da una commissione, formata da professori dell’Istituto d’Arte e del Liceo Pedagogico, da un grafico e dal
direttore scientifico del Laboratorio, che seleziona quelli
che verranno esposti in una mostra durante la settimana
di aprile e sceglie quello che le sembra il più adatto a rappresentare il tema dell’anno. Questo viene stampato e diventa il simbolo della manifestazione: è il premio per il piccolo autore. Tutti i manifesti non utilizzati per la mostra
vengono esposti nelle vetrine dei negozi.
13.
UNA GIORNATA SENZA AUTO
Come si è ricordato nella scheda «Il Consiglio comunale
aperto ai bambini» durante il Consiglio straordinario del
1993 i bambini avevano chiesto che le macchine fossero
meno prepotenti, togliessero meno spazio al gioco dei
bambini, e l’assessore al Traffico, in uno slancio di generosità, promise che per un giorno avrebbe chiuso tutta la
città alle auto. Le difficoltà le incontrò successivamente,
perché non si trattava di chiudere una strada o una piazza, ma una città attraversata da strade importanti e trafficate come l’Adriatica e la Flaminia. Ormai però la promessa era fatta e il Laboratorio fu fermo nel chiedere che
venisse rispettata. La promessa fu mantenuta, fu richiesta
l’autorizzazione alla Prefettura, furono predisposte le necessarie deviazioni e le strade furono regalate ai bambini
per giocare.
Nel Consiglio straordinario del 1994 i bambini hanno
chiesto di aumentare le giornate di chiusura alle macchine. L’assessore questa volta non ha fatto rischiose pro160
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messe, ma non ha neppure potuto recedere rispetto all’impegno dell’anno precedente e così la giornata di chiusura è stata confermata negli ultimi tre anni e costituisce
ormai una bella consuetudine.
Da allora, la domenica di chiusura della iniziativa «Io e
la mia città»1, i bambini, ma anche gli adulti, si riappropriano delle strade che, da luoghi proibiti e pericolosi, diventano spazi privilegiati di gioco. È inusuale, ma carico
di significato, osservare bambini e adulti camminare in fila lungo la linea di mezzeria della carreggiata, alla scoperta di una libertà nuova.
La strada diventa il luogo dei vari giochi tradizionali, del
teatro, dei trampoli. Gruppi di animatori e di studentesse
del Liceo Pedagogico aiutano i bambini a «scoprire» vecchi giochi di strada o propongono nuove attività. La strada diventa una grande lavagna, lunga come una città, dove disegnare percorsi, spazi di gioco o dipingere come i
«madonnari».
Gli automobilisti che hanno la «fortuna» di transitare in
questo giorno a Fano, quando incontrano la strada interrotta e vengono obbligati ad una certamente poco gradita deviazione, trovano un cartello che dice: «OGGI LE
STRADE DI FANO SONO CHIUSE ALLE MACCHINE
PERCHÉ SONO STATE REGALATE AI BAMBINI PER
GIOCARE».
La nostra speranza è che questi automobilisti, insieme
alla legittima rabbia per l’allungamento del viaggio, possano portarsi dietro, quali stimoli alla riflessione, pensieri del
tipo: «Però che strani questi fanesi, giocare nelle strade...
però anch’io da piccolo... e perché no anche per mio figlio?...».
Chiudere le strade per un giorno è certamente solo un
simbolo, un segnale, ma anche i segnali sono importanti
1
Si veda la scheda n° 11: «Io e la mia città».
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perché aiutano a credere alle cose nuove. Sono piccole
carezze che aiutano a sperare. Aiutano i bambini a crescere con questi desideri, aiutano gli adulti a rompere le
abitudini che spesso si confondono con necessità.
14.
UN MARCHIO DI QUALITÀ BAMBINI
PER ALBERGHI E RISTORANTI
Ristoranti ed alberghi a misura anche dei bambini
Il progetto, come più volte ricordato, interessa trasversalmente la città, tutti i suoi aspetti, tutte le sue strutture, da
sottomettere ad una revisione critica, a partire dalle esigenze dei bambini.
Fano è una città di turismo balneare frequentata specialmente dalle famiglie. Per questo l’Azienda di Promozione Turistica (APT) ha visto fin dall’inizio con interesse
il sorgere del Laboratorio, lo ha appoggiato e ha manifestato curiosità e disponibilità di fronte all’idea di proporre
agli esercenti di ristoranti, alberghi e camping una serie di
suggerimenti per rendere le loro strutture più adatte ai
bambini. Dopo alcune riunioni con sindaco, assessori
competenti, APT ed esercenti, la proposta ha preso forma in alcune riunioni del Consiglio dei bambini.
Le proposte dei bambini
Le proposte che seguono sono emerse direttamente e
senza interventi degli adulti in una seduta del Consiglio dei
bambini del Laboratorio dopo che i consiglieri avevano
raccolto le idee nelle rispettive scuole.
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Perché un ristorante sia adatto ai bambini
Lucia: Vetri mobili che d’estate si tolgono e d’inverno si
mettono, con il self-service in modo che i bambini si possono servire.
Beatrice: 30 bambini su 90 vorrebbero cibi buoni che
piacciono a loro, 14 parco e sala giochi, 13 giardino, 12
tavoli bassi e larghi, 10 divieto di fumo, 6 un servizio rapido, personale gentile e con i bagni puliti.
M. Vittoria: Vicino al ristorante una stanzetta per i bambini così non devono stare a tavola e aspettare i grandi ed
annoiarsi; vestirsi in maniera non seria; le pareti dipinte
con murales.
Massimo: Preparare il menù e cucinare; decidere la quantità di cibo che si vuole.
Nicola: Sala da pranzo solo per i bambini con panche fissate al muro e al pavimento per evitare le cadute.
Francesca: Piatti di plastica dura e lavabile con disegni dei
cartoni animati.
Chiara: Sala per i fumatori perché a noi bambini il fumo
dà molto fastidio e fa male; dopo il pranzo una sala tutta
per noi per poter giocare e dolci gratis ai bambini.
Dennis: Servitori gentili con battute divertenti, piccola palestra con porte piccole da calcio.
Perché un albergo sia adatto ai bambini
Lucia: Struttura a forma di giocattolo con dentro tanti giocattoli.
Elena: Vorrei più controllo nel giardino, sale adibite a televisione, giochi gratis, self-service, mini biblioteca. Baby
sitter perché i genitori che vogliono andare in qualche posto e i bambini non sanno dove metterli, allora ci potrebbe essere una baby sitter.
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Giorgia: Vorremmo dei parchi con giochi tipo altalene e
altri generi, piscine e sale giochi, poi cartelloni da poter
disegnare.
Beatrice: La televisione in camera con cartoni per i bambini, con mobili non infiammabili e soprammobili infrangibili.
M. Vittoria: Camere grandi e colorate e con giocattoli non
pericolosi e tenere anche le cose un po’ in disordine. Letti resistenti dove si può anche saltare. Costi più bassi di
quelli attuali perché ci si andrebbe di più. Club per i bambini con passatempi come ballare e andare in spiaggia.
Massimo: Orari non rigidi. Scegliere attività silenziose invece di riposare, come leggere disegnare travestirsi truccarsi preparare il menù e cucinare. Chiavi ad uso personale. Maniglie, docce, interruttori, specchi ad altezza di
bambino. Sala film, computer creativi con immagini tridimensionali, poter far musica con strumenti, momenti di
lettura a voce alta.
Nicola: Spazi gioco con tavoli e sedie senza spigoli, grande schermo televisivo, computer, pareti lavabili, con pennelli per dipingere. Letti con protezione per eventuali cadute, mensole con giochi e pareti con isolamento acustico (per strillare). Bagni «igienizzati». Giardino con giochi,
capannine e uno spazio per i più piccoli. Tappeti, ascensori per handicappati.
Margherita: Ci potrebbe essere un piccolo cinema con
ogni due ore un cartone e una sala con giornalini.
Francesca: Guardaroba di vestiti per feste, gite guidate
per i bambini a piedi e con pulmino. Plastico con i monumenti più belli della città.
Manila: Strutture per animali dei clienti.
Dennis: Giardino con persone che pensano a noi.
Giacomo: Albergo di lusso con dietro un bosco e un piccolo zoo, un piccolo bar, parco giochi.
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Proposte del Laboratorio
A partire dalle proposte dei bambini, che evidenziano le
modifiche principali che possono trasformare questi servizi in luoghi piacevoli anche per loro, il Laboratorio ha
formulato agli operatori turistici e all’APT di Fano una serie di proposte perché si possano discutere e arricchire insieme1. Se si riuscirà a compilare un elenco di condizioni
alle quali debbano rispondere un ristorante e un albergo
per essere adatti ai bambini, si potrà proporre un Marchio
di Qualità Bambini del quale possano fregiarsi i locali che
lo meritano. Il marchio potrà essere assegnato da una
commissione composta da rappresentanti dell’APT, del
Laboratorio e dei bambini del Consiglio. Se l’iniziativa potrà concretizzarsi sperimentalmente a Fano si potrà poi
valutare se proporla a livello regionale o più ampio.
La richiesta che emerge con più chiarezza dalle proposte dei bambini è di maggiore autonomia: nell’uso dei
servizi, nello svago e rispetto agli adulti.
Ristorante
I bambini conoscono meglio il ristorante che l’albergo e
per questo le proposte risultano più complete e soddisfacenti.
Una sala da pranzo separata, o un angolo autonomo
nella comune sala da pranzo con tavoli bassi, di misura
adeguata ai bambini e larghi (forse per stare in tanti intorno). Naturalmente nella sala bambini o nel loro settore
sarà rigorosamente vietato fumare2.
1
Le proposte dei bambini meriterebbero un’analisi ben più approfondita,
distinguendo quelle banali da alcune fortemente innovative. Qui ci si è limitati
ad ordinarle per renderle una proposta credibile e accettabile dagli esercenti.
2
La disponibilità di uno spazio separato non deve essere letta come un obbligo o un suggerimento a non mangiare insieme adulti e bambini, ma solo co-
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Servizio self-service in modo che possano servirsi da
soli, decidendo la qualità e quantità di cibo. Si potrebbe
pensare ad un tavolo di presentazione dei cibi, a buffet, in
modo che i bambini possano vedere, scegliere e servirsi.
Cibi adatti ai bambini, ma buoni, preparati nelle maniere a loro più gradite. I bambini, per esempio, spesso rifiutano la fettina di carne o la bistecca, ma gradiscono le
polpette o l’hamburger. Un tale modo di presentare i cibi
potrebbe migliorare la qualità, escludendo bevande e cibi
poco adatti: dalle bibite gassate ai cibi troppo piccanti.
Potrebbe essere proposto un prezzo forfetario in modo che bambini e genitori non debbano preoccuparsi di
questo aspetto.
Personale gentile, con battute divertenti. Questo significa che vorrebbero qualcuno, fra il personale, che sappia
stare con loro: personale allegro, capace di scherzare, tollerante.
Un locale di svago dove aspettare i grandi che continuano a chiacchierare, senza annoiarsi. Il locale potrà essere all’aperto nella stagione estiva e al coperto nella stagione invernale.
Potersi vestire in maniera non seria, quindi non formale, non troppo curata.
Arredi vivaci e piacevoli, in modo che i bambini si sentano a loro agio. Si potrebbero usare disegni e sculture dei
bambini, forniti agli esercenti dalle scuole infantili, in cambio di materiali didattici.
Servizi igienici, attaccapanni, maniglie, ecc. a misura
dei bambini.
Albergo
Sala della televisione riservata, con videocassette che piacciono ai bambini. Ci sembra importante che il televisore
me risorsa in più. Quando abbiamo piacere di stare insieme con i figli e loro con
noi, facciamo bene a starci, quando dobbiamo parlare con i nostri amici trascurando i bambini, è meglio che questi stiano bene con i loro coetanei.
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non sia abilitato alle reti televisive, ma funzioni solo con
videocassette. Si eviterebbero così spettacoli non adatti o
semplicemente brutti e la esposizione agli spot pubblicitari. I piccoli utenti potranno così scegliere autonomamente. Il televisore potrebbe essere disponibile per alcuni spazi orari in modo da evitare un eccesso di fruizione.
Sala giochi e biblioteca. Un angolo della sala può ospitare una piccola biblioteca. I libri dovranno essere preferibilmente di letteratura infantile (dai libri solo illustrati per i
più piccoli ai primi veri romanzi) che i bambini possano
leggere da soli o farsi leggere dagli adulti. I libri potranno
essere consultati o presi in prestito, con il minimo di formalità possibile (per esempio con la compilazione di una
semplice schedina). La sala giochi e la biblioteca possono
anche condividere lo stesso spazio della TV, approfittando di orari diversi o di diversi angoli.
Orari non rigidi. L’albergo, che per gli adulti è il luogo
delle libertà, spesso non modifica invece le abitudini dei
bambini o le rende ancora più rigide: per esempio l’obbligo del riposino pomeridiano. La possibilità di usare propri spazi potrebbe rendere più liberi gli orari e le abitudini
dei bambini.
Rispetto alle stanze si propone che tengano conto delle caratteristiche e dei bisogni dei bambini: maniglie, interruttori, docce, specchi ad altezza di bambino; lampada
vicino al letto; letti resistenti per poterci anche saltare.
L’albergo dovrebbe curare il suo arredo interno in modo che i bambini si sentano accettati, previsti, un poco a
casa loro. Insieme ai quadri, agli elementi decorativi scelti
pensando al pubblico adulto si pensi anche ad arredi vicini al mondo dei bambini (come già detto per il ristorante).
Prevedere un servizio di baby sitter in modo che i genitori possano essere liberi di uscire la sera. Un servizio di
assistenza bambini potrebbe essere organizzato anche collettivamente, utilizzando gli spazi comuni.
Potranno essere pensati e organizzati, in collaborazio167
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ne con il Laboratorio, animazioni e spettacoli itineranti fra
i vari alberghi (burattini, animazioni, teatro, visite guidate
in città, ecc.).
In collaborazione fra Assessorati al Turismo e all’Educazione, l’APT, i gestori degli alberghi e il Laboratorio si
dovrebbero organizzare alcune aree balneari di gioco e attività per i bambini, in alternativa e appoggio alle attività
di spiaggia3.
15.
UNA SPIAGGIA PER I BAMBINI
Il bambino in spiaggia spesso si annoia. Vorrebbe andare
continuamente in acqua, ma gli adulti non lo permettono,
si stanca della sabbia, si stanca del sole, non sa cosa fare.
Chiede suggerimenti e aiuti ai genitori interessati invece a
prendersi tutto il sole possibile o a proseguire le chiacchiere e i giochi fra adulti sotto l’ombrellone.
Sarebbe importante che gli stabilimenti balneari dedicassero attenzione ai bisogni dei bambini, rispetterebbero
così il diritto di gioco e di divertimento dei piccoli e aumenterebbero il benessere dei grandi.
In particolare, il Laboratorio di Fano sta avanzando da
alcuni anni, agli esercenti, all’APT e all’Assessorato al Turismo, le proposte che seguono e che mirano a fare della
spiaggia un luogo adatto ai bambini. I servizi che seguono
dovrebbero essere previsti come obbligatori nei contratti
di concessione degli arenili. Il loro numero dovrà essere
stabilito in relazione alle cabine o ai bagnanti.
Cabina neonati. Dovrebbero essere messe a disposizione delle famiglie delle cabine per neonati, dotate di vasca
3
Si veda la scheda n° 15: «Una spiaggia per i bambini».
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per il bagnetto, di fasciatoio, di pannolini, di scalda biberon e di frigorifero.
Cabina giochi. Cabine che ospitano giornalini, libri,
materiali da disegno e giocattoli, da consegnare in prestito ai bambini in spiaggia. Le dotazioni di queste cabine potrebbero essere studiate in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche educative.
Cabine e bagni handicap. Cabine e bagni con porte di
grandi dimensioni e maniglie per facilitare il movimento
alle persone in carrozzina, per rendere agevole il cambio
e l’uso dei servizi.
Discesa a mare per carrozzine. Almeno per ogni arenile dovrebbe essere costruita una pedana che permetta
la discesa a mare dei portatori di handicap con apposita
carrozzina e con la necessaria assistenza.
Aree attrezzate per bambini. Oltre a questi servizi direttamente gestiti dai bagnini abbiamo proposto di dotare
la spiaggia (ogni spiaggia) di un’area attrezzata per bambini. Si tratta di zone, organizzate e controllate da animatori, che permettono ai bambini di liberarsi dal sole, dalla
sabbia e dagli adulti per il tempo che desiderano, dedicandosi liberamente a varie attività. L’area potrà ospitare
un settore biblioteca, un angolo giochi, attività espressive
di pittura e manipolazione, spazi liberi per piccoli spettacoli teatrali e di burattini che periodicamente potranno essere offerti ai piccoli bagnanti. Potrebbero anche essere
ospitate esperienze di artigianato tipiche della città. Nel
caso di Fano si possono per esempio proporre: attività
della carta pesta e della maschera guidata dai «maestri carristi» della locale Società Carnevalesca; tessitura di reti sotto la guida dei vecchi marinai; costruzione di cesti di canna, di ceramiche tipiche, ecc.
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I bambini hanno elaborato, per due di queste aree, progetti che aspettano l’approvazione e la realizzazione dell’Ufficio tecnico del Comune. Sono progetti creativi, che
utilizzano bene lo spazio disponibile adattandone l’uso alle caratteristiche ambientali.
16.
IL CLUB CDB
In questi anni la città di Fano si è arricchita di un numero crescente di bambini e di ex bambini, che, avendo partecipato attivamente alle iniziative de «La città dei bambini», hanno sviluppato uno speciale rapporto con la città
e una buona consapevolezza dei diritti dei cittadini, anche
se piccoli. È il caso degli ex consiglieri, degli ex progettisti, delle ex piccole guide. Si tratta di qualche centinaio di
ragazzi che stanno frequentando le scuole medie inferiori e superiori e che rischiano di perdere l’interesse e l’entusiasmo che avevano acquisito. Riteniamo che questo sia
un lusso che una città non si possa permettere, perché
questi ragazzi saranno presto genitori e potrebbero essere i futuri amministratori. Se perdiamo i contatti con loro sarà facile ritrovarceli come genitori ansiosi e dimentichi delle necessità dei bambini o amministratori disattenti.
Spesso questi ragazzi tornano al Laboratorio per sapere se stiamo organizzando qualcosa per loro o se possono aiutare a fare qualcosa. Abbiamo allora pensato di
aprire un Club CdB (Città dei Bambini) che abbia una sua
organizzazione e una sua sede autonoma e fra le sue finalità quella di fornire al Laboratorio una collaborazione e
un sostegno volontario. Gli aderenti al Club potrebbero
essere una task force di appoggio per le nostre battaglie,
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che opera dentro le scuole medie inferiori e superiori; i nostri supporter nell’organizzazione della settimana di aprile
e dei convegni dei sindaci; gli alleati privilegiati dei bambini più piccoli nelle varie esperienze di autonomia dall’andare a scuola da soli al gioco libero pomeridiano.
Il CdB potrebbe anche amministrare la vendita di prodotti legati a «La città dei bambini» (magliette, quaderni,
manifesti, adesivi), per sostenere le iniziative e ottenere un
piccolo fondo da amministrare autonomamente.
Avere una sede dove incontrarsi e sufficiente autonomia per organizzarsi, coordinati da un adulto ma senza
controlli e condizionamenti, credo siano le condizioni necessarie perché i nostri giovani possano sentirsi ancora
cittadini e protagonisti delle nostre città.
Questo progetto è attualmente allo studio del Laboratorio e dell’Assessorato alle Politiche sociali.
17.
CASA ARCHILEI
Un orto restituito alla città
La storia economica e culturale di Fano è legata al porto
e agli orti. Mentre il porto ha continuato ad avere una certa importanza ed ora è in fase di rilancio, gli orti, per la loro sfortunata collocazione a ridosso della città, sono diventati appetibili lotti di terreni fabbricabili e stanno gradualmente scomparendo. Casa Archilei era appunto uno
di questi orti, di un ettaro, rimasto inutilizzato e circondato dalla urbanizzazione. Di proprietà comunale era stato
destinato nel Piano Regolatore ad area di edilizia civile.
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Poteva essere quindi una interessante fonte di reddito per
l’ente locale.
Quando nacque il Laboratorio «La città dei bambini»
Casa Archilei era stata assegnata ad alcune associazioni
naturalistiche perché lo utilizzassero come sede di attività
didattiche in attesa della sua vendita come area edificabile.
Le associazioni e il Laboratorio fecero pressione sulla
amministrazione perché l’orto venisse salvato dalla urbanizzazione e venisse destinato ai bambini e all’educazione.
Dopo lunghe discussioni e varie battaglie nel Consiglio
comunale, si ottenne la variazione di destinazione d’uso
da terreno edificabile a verde pubblico. Un risultato importante, in totale controtendenza: l’ente locale ha saputo rinunciare ad un sicuro interesse economico per dare
alla città una risorsa educativa. La scelta indica anche una
linea di sviluppo che dovrebbero adottare tutte le città: tutti gli spazi dimenticati dalla selvaggia urbanizzazione degli
ultimi decenni dovrebbero essere vincolati e destinati ad
usi sociali come piazze e giardini, con opportune revisioni dei Piani Regolatori Generali.
Oggi Casa Archilei è un centro di educazione naturalistica e ambientale a disposizione dei bambini. Sono stati
ricostruiti vari ecosistemi naturali come lo stagno, il prato, il bosco (con alberi piantati e curati dai bambini), la vegetazione delle diverse zone della regione e un’area coltivata ad orto. L’antica casa colonica ospita locali per il lavoro con le classi, per l’attività degli educatori e un piccolo museo contadino.
A Casa Archilei lavorano operatori volontari delle associazioni ambientalistiche e alcuni giovani in servizio sostitutivo civile (obiettori di coscienza). Il Centro offre visite guidate e giornate di lavoro scientifico e naturalistico alle classi delle scuole dei vari livelli, di Fano e della Regione Marche. Viene frequentato da più di mille studenti ogni
anno.
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UN POMERIGGIO LIBERO
PER I BAMBINI
Come più volte si è detto l’obiettivo operativo del progetto «La città dei bambini» è che i bambini possano uscire da
soli di casa. La proposta di andare a scuola da soli è un
primo passo, quello più controllabile e più facile per aprire una falla nel guscio coriaceo della paura, della sfiducia,
che producono egoismo e isolamento.
Mentre dobbiamo premere perché si generalizzi rapidamente l’esperienza di andare a scuola da soli, occorre
avanzare proposte per il tempo libero dei bambini, per
ampliarlo e renderlo veramente «libero». Un modo per avviare e sperimentare questo più importante fronte può essere quello di regalare un pomeriggio ogni settimana ai
bambini, in modo che possano utilizzarlo in completa autonomia. Perché questo sia possibile si deve realizzare una
specie di patto sociale fra gli adulti.
Se per esempio il pomeriggio scelto fosse il mercoledì,
per quel pomeriggio le famiglie non dovranno iscrivere i figli ai vari corsi, le scuole non dare compiti, le parrocchie
non avere corsi di catechismo. Naturalmente anche il Laboratorio si dovrà astenere da ogni attività organizzata, di
animazione o di gioco, perché altrimenti torneremmo a
trasformare il tempo «libero» in tempo «organizzato». Si dovrà invece chiedere alla città di essere disponibile e accogliente nei confronti dei bambini, accettandoli nei suoi spazi pubblici e dando loro «un’occhiata». Dovrebbero quindi
valere quelle attenzioni degli anziani, dei ragazzi più grandi, dei vigili urbani e dei negozianti così come sono state
concordate per l’esperienza «A scuola ci andiamo da soli».
In questo pomeriggio, almeno a livello sperimentale, si
potrebbero dare passaggi gratuiti o scontati ai bambini sui
mezzi pubblici, per favorirne l’uso e per sollecitare la conoscenza delle varie parti della città.
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Sarà interessante verificare se, in questo pomeriggio, i
bambini approfitteranno della proposta abbandonando il
televisore. Se così sarà, i bambini ci confermeranno, senza più ombra di dubbio, quale può essere l’arma efficace
e corretta contro lo strapotere di questo invadente elettrodomestico.
19.
UN GIARDINO DI PIETRA
Anche senza verde
Mi è successo spesso di ascoltare preoccupazioni del tipo:
«Il problema per il bambino non è solo quello di uscire di
casa, ma anche quello di dove andare a giocare: il giardino o il prato più vicino è a più di mezz’ora di strada e non
ci può andare da solo». Non so se per effetto delle giuste
battaglie ecologiche o di nuovo per lo strano effetto del
precoce oblio con cui gli adulti dimenticano le esperienze
infantili si è affermata questa strana idea che per giocare
occorra l’erba. Ma i bambini non sono caprette e sanno
giocare in qualsiasi ambiente purché si lasci loro un po’ di
libertà, un po’ di tempo e un po’ di spazio. A cosa giocare, con cosa e come, lo sanno loro, non deve essere
preoccupazione degli adulti. Si gioca bene in strada, nelle
piazze, intorno ai monumenti, così come si gioca nei giardini e nei parchi. Si gioca dovunque, ovviamente in modi
diversi.
Ricordo spesso di avere avuto la fortuna di essere stato bambino nell’immediato dopoguerra e di aver avuto,
come luoghi privilegiati di gioco, proprio le case bombardate. Le rovine sono luoghi abbandonati dai grandi e per
questo diventano luoghi magici per il gioco dei bambini.
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Sono luoghi che perdono le loro caratteristiche iniziali e
possono diventare per la fantasia infantile fortini, foreste,
case... Sono luoghi «lasciati».
Palermo è una città che ha «saputo» conservare le rovine della guerra fino ad oggi nel suo centro storico. Certo non è stata una scelta degli adulti a favore dei bambini,
né la città intende mantenere questa preoccupante eredità. Ma nel mio recente ruolo di consulente del sindaco
di questa affascinante città, per il progetto «La città dei
bambini», ho proposto di regalare ai bambini del centro
una o alcune di queste rovine, facendole diventare dei
«giardini di pietra» e insieme un ricordo di una tragedia che
è importante non dimenticare.
Si tratta di portare le mura diroccate ad una altezza
compatibile con la sicurezza, di risanarle rendendole praticabili, di creare insomma una specie di labirinto di mura,
porte, finestre, dove inventare ambienti, scenari, giochi.
Fra le mura possono alternarsi pavimentazioni, gradini,
zone erbose, panchine, piante.
Un luogo degradato potrà essere reso degno e restituito al gioco creativo dei bambini, alla sosta tranquilla degli
anziani, all’incontro degli innamorati.
Palermo: Laboratorio «La città dei bambini».
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È questo oggi il regno incontrastato dei bambini di strada, potrebbe restare il terreno della loro libertà, ma diventare anche il luogo dell’incontro con gli altri bambini,
quelli che oggi vivono reclusi nei loro appartamenti borghesi. Come si diceva nella parte seconda, dovremmo tentare, prima di cercare di portare i bambini di strada a scuola o in altre strutture istituzionali per loro estranee e spesso ostili, di risanare il loro ambiente abituale, favorire in
quello l’incontro con gli altri bambini, perché poi, partendo da una situazione di sicurezza e di privilegio per i più
problematici, si abbia voglia di andare insieme anche in
ambienti organizzati per vivere anche esperienze educative e scolastiche.
20.
ALTRE ESPERIENZE: LA PROGETTAZIONE PARTECIPATA AI BAMBINI
Intervista a Raymond Lorenzo1
Come nasce l’idea di coinvolgere i cittadini, in particolare i bambini, nella elaborazione di progetti per la
città?
Prima di iniziare il nostro discorso è utile precisare che io
conosco soprattutto la situazione statunitense ed è a questa che mi riferirò prevalentemente. Negli Stati Uniti le
prime esperienze di progettazione partecipata risalgono
agli anni Sessanta ed erano realizzate da movimenti di cittadini, coordinati e supportati da docenti universitari delle
1
City planner, coordinatore tecnico della campagna del WWF «Riconquistiamo la città», consulente dell’Istituto degli Innocenti per il progetto «Il bambino urbano», associated member del Children’s Environment Research Group
di New York.
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facoltà di architettura e di urbanistica. In genere nascevano nei quartieri degradati, in risposta a piani di intervento sulla città proposti dal governo centrale e non prevedevano la partecipazione dei bambini. In molti casi i tecnici e i cittadini si sono organizzati in comitati o in cooperative di autosviluppo, e grazie a finanziamenti del governo centrale sono sorte delle strutture permanenti, le
Comunity Desiner Centers, che ancora oggi svolgono
questo tipo di attività.
Parallelamente, diverse ricerche riguardanti l’infanzia e
l’ambiente urbano avevano come obiettivo lo studio delle
esigenze dei bambini nelle città e la comunicazione dei risultati di queste ricerche agli urbanisti e agli amministratori.
Quando compare l’idea del coinvolgimento dei bambini nelle attività di progettazione dell’ambiente urbano?
Bisogna aspettare l’inizio degli anni Settanta, quando in
Inghilterra e negli Stati Uniti compaiono i Parchi Robinson, degli spazi auto-costruiti, progettati insieme ai bambini e ai ragazzi. Robin Moore2, ed altre persone, cercavano di riportare in questi parchi l’avventura, la natura e
il gioco attivo che mancavano o non potevano più essere
realizzati nell’ambiente urbano.
Nello stesso periodo insieme a Florence Ladd3 e a
Mark Francis4 ho partecipato all’apertura di laboratori,
nelle zone più povere della città di Boston, dove sperimentavamo metodologie che permettessero ai bambini di
studiare l’ambiente urbano e di partecipare all’elaborazione di progetti.
2
Robin Moore è docente di Architettura del paesaggio e presidente dell’IPA (International Player Association).
3
Florence Ladd si occupa di psicologia dell’ambiente.
4
Mark Francis è docente di Architettura del paesaggio alla Davis University
dello Stato della California.
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Si possono individuare degli eventi particolarmente significativi per l’affermarsi della progettazione partecipata?
Il convegno «Children Nature and the Urban Environment»,
che risale al 1975, in cui si sono incontrate quasi tutte le
persone che svolgevano attività di ricerca in questo campo,
rappresenta sicuramente un momento molto importante.
Roger Hart5, uno degli organizzatori, mi ha chiesto di coordinare, insieme a Mark Francis e Simon Nicholson6, la partecipazione dei bambini al convegno e questo era un evento rivoluzionario. I bambini hanno studiato la città e noi abbiamo preparato un rapporto sulla loro concezione dell’ambiente urbano per presentarlo al convegno. Nello stesso tempo abbiamo aperto un laboratorio dove lavoravano
i bambini per garantire uno scambio fra questi e i ricercatori. Dal convegno è uscito un segnale molto forte sull’importanza del coinvolgimento dei bambini per la stesura di
progetti di trasformazione della città.
Nel 1976, durante la prima Conferenza dell’Habitat, è
emerso un orientamento governativo che riconosceva
l’importanza del coinvolgimento dei cittadini nella progettazione e pianificazione della città. Il valore del contributo
offerto dai bambini non riuscì ad affermarsi, però negli anni successivi sono state realizzate una serie di esperienze,
che rivelavano la consapevolezza della necessità di coinvolgere i bambini nella progettazione.
In quali nazioni si è affermato maggiormente l’approccio della progettazione partecipata?
Diversi paesi come l’Inghilterra, l’Austria e la Francia sono impegnati in questo tipo di attività. Manfred Drum, a
Monaco, con l’associazione Urbanes Wohnen, ha realiz5
Roger Hart, editor della rivista «Childrens’ Environment».
Simon Nicholson, scomparso nel 1990, era docente di tecnologia presso
la Open University di Oxford. Le sue pubblicazioni How not to Cheat Children:
The Theory of Loose Parts e Children as Planners rappresentano ancora oggi un importante riferimento teorico per le attività di progettazione partecipata.
6
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zato il numero più elevato di interventi nati da progetti di
architettura e urbanistica partecipata di tutta l’Europa.
Negli Stati Uniti ci sono dei laboratori molto pragmatici
che, in collaborazione con l’università, e coinvolgendo a
volte anche i bambini, elaborano proposte per la trasformazione di specifici spazi urbani.
Cosa può dirmi della situazione italiana?
Anche in Italia si realizzano delle esperienze interessanti.
A febbraio ho partecipato ad una conferenza dell’Unicef
e ho presentato alcune iniziative italiane. Ho capito che
l’Italia è considerata all’avanguardia per la diffusione culturale e politica della progettazione partecipata. Molti Comuni, come Fano, sono coinvolti in esperienze di questo
tipo, diverse associazioni tra cui il WWF, la Legambiente
e l’Arciragazzi sono impegnate in diversi progetti che producono la diffusione dell’idea della partecipazione.
Rispetto al contesto internazionale però, c’è un ritardo
nella trasformazione delle proposte in interventi concreti.
Oggi in Italia come nasce un’esperienza di progettazione partecipata?
Ci sono modalità diverse. C’è un approccio diciamo più di
tipo culturale che è quello del WWF, Legambiente, Arciragazzi, che partendo da una posizione quasi di antagonisti
prima elaborano dei progetti con i bambini, coinvolgendo
la cittadinanza e poi cercano le vie per realizzarli. In altri
casi, come quello de «La città possibile», di Ecopolis o del
progetto «Il bambino urbano», sono le amministrazioni che
adottano l’idea della progettazione partecipata e chiedono
l’intervento di specifiche professionalità.
Quanto incide la realizzazione dei progetti sulle attività
che coinvolgono i bambini?
Indubbiamente la realizzazione delle proposte è un elemento importante, ma credo che per i bambini l’esperienza della partecipazione sia valida comunque. La par179
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tecipazione offre dei contributi allo sviluppo individuale
dei bambini perché gli permette di sentirsi protagonisti, di
dialogare con gli altri cittadini, di acquisire una conoscenza più duratura della loro città e tutto questo è indipendente dalla concretizzazione dei progetti.
Con i bambini si parla anche della fattibilità delle loro
proposte e in questo modo diventano consapevoli delle
difficoltà della realizzazione. I progetti elaborati inoltre sono sempre stati comunicati agli amministratori e ai tecnici della città per consentire loro di capire quali sono le esigenze dei bambini.
La progettazione partecipata ha delle ricadute positive
anche per altri soggetti?
I bambini possono insegnare molte cose agli adulti sulla
gestione dell’ambiente, soprattutto nell’ottica dello sviluppo sostenibile. I loro progetti propongono interventi che
non richiedono grandi finanziamenti, gli elementi naturali hanno un notevole rilievo, prevedono il recupero di
strutture già esistenti, e tra i materiali prediligono quelli naturali. Tutti questi elementi che sono i principi di base della progettazione ecologica sono presenti anche nei lavori
dei bambini grazie sia alla loro visione dell’ambiente sia al
nostro approccio metodologico.
Quali elementi rappresentano un ostacolo per le attività di progettazione partecipata?
Una delle difficoltà è la partecipazione dei genitori. Il loro
timore per il coinvolgimento dei bambini nell’elaborazione di proposte che poi non verranno realizzate è in parte
motivato. La caduta di una Giunta comunale, per esempio, può mettere in pericolo l’attuazione di un progetto
approvato. Oggi, però, la sfiducia dei cittadini verso l’amministrazione mi sembra eccessiva. Un altro ostacolo è il
tempo richiesto per la realizzazione dei progetti perché è
decisamente troppo lungo. La proposta approvata, inoltre, può essere modificata quando viene definito il progetto esecutivo e di conseguenza l’intervento realizzato
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può riflettere solo in parte le indicazioni dei bambini. Un
altro punto critico è quello delle professionalità. In Italia,
diversamente dagli Stati Uniti, dove le Comunity Desiner
Centers da circa venti anni svolgono anche attività di formazione, mancano le professionalità di tipo interdisciplinare necessarie alla elaborazione, ma anche quelle artigianali indispensabili alla realizzazione degli interventi.
Possiamo concludere il nostro discorso cercando di individuare quali prospettive ci sono per questo tipo di
esperienze?
Le prospettive sono sicuramente positive. La progettazione partecipata non è più l’approccio tipico ed esclusivo
degli esperti dell’infanzia. Gli amministratori mostrano interesse per le proposte elaborate dai bambini, l’Istituto
Nazionale di Urbanistica si sta muovendo nella stessa direzione. Lentamente si sta diffondendo l’idea che per trasformare l’ambiente urbano sono necessarie altre figure
oltre agli architetti e agli urbanisti.
21.
ALTRE ESPERIENZE: I DIRITTI DEI PEDONI
Intervista a Dario Manuetti1
Una politica di gestione della città che tenga conto dei
diritti dei pedoni può contribuire al processo di trasformazione dell’ambiente urbano?
1
Dario Manuetti si dedica da vent’anni ai problemi dell’organizzazione della cultura, dell’educazione permanente, della formazione degli operatori culturali ed educativi, in qualità di militante associativo, amministratore comunale e
di enti pubblici, consulente presso Comuni e Regioni. Fa parte del direttivo dell’Associazione europea per il progresso sociale e culturale ed è membro del
Consiglio regionale sui Problemi dei minori. Svolge la sua attività professionale
presso la Regione Piemonte, dove si occupa di orientamento e inserimento sociale e professionale.
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La politica della mobilità oggi si può dire che coincida con
la politica della città. Un tempo, invece, le preoccupazioni di chi disegnava le città tenevano conto principalmente delle funzioni residenziale e produttiva. La moderazione della circolazione offre delle soluzioni concrete ai problemi della mobilità nel tempo della motorizzazione di
massa. Il principio fondamentale è quello della «democratizzazione» dello spazio pubblico, quello delle vie e delle
piazze, della coesistenza pacifica tra automobili e pedoni.
Quale tipo di interventi sono previsti dalla moderazione della circolazione?
I pareri di esperti a livello europeo, ma anche il numero
elevato di incidenti, indicano che il condizionamento psicologico e l’azione educativa sui comportamenti degli automobilisti non sono sufficienti per garantire la sicurezza e
la mobilità di tutti gli utenti dello spazio pubblico. Occorre
creare le condizioni fisiche perché le automobili si spostino a velocità compatibili con le caratteristiche dell’ambiente urbano.
L’applicazione più visibile della moderazione della circolazione è quello di abbattere tutte le barriere architettoniche per i pedoni e di crearle invece per le automobili.
Nelle vie dove la funzione abitativa prevale, si suggerisce
di restringere la carreggiata per ampliare lo spazio del
marciapiede, di rendere tortuosi i percorsi delle automobili, mettendo degli ostacoli su entrambi i lati della strada.
Un altro elemento importante è «lo sganciamento verticale»: far salire e discendere le automobili sugli attraversamenti pedonali, mentre i pedoni si muovono sempre sullo stesso livello. Questo è ottenuto, per esempio, mediante la realizzazione di attraversamenti pedonali sopraelevati di alcuni centimetri rispetto al fondo stradale.
Nelle strade residenziali, dove sono applicate tutte le
norme della moderazione, le caratteristiche dell’arredo urbano e della pavimentazione, aumenta la gradevolezza del182
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l’ambiente, ma si modificano anche i comportamenti degli automobilisti. La strada diventa uno spazio diverso, dove è prevista non solo la presenza degli automobilisti, ma
anche quella dei bambini, degli anziani, dei portatori di
handicap.
Come nasce l’idea della moderazione della circolazione?
La moderazione della circolazione ha un’origine storica riconosciuta nella città di Delft in Olanda. Negli anni Settanta un movimento di cittadini appoggiato da un Ufficio
tecnico che aveva una reale disponibilità a ricercare soluzioni innovative ai problemi connessi alla mobilità e alla sicurezza dei pedoni ha realizzato un’esperienza estremamente interessante. Invece di disseminare la città di semafori, cartelli stradali e vigili urbani, di chiedere interventi
repressivi più attenti e diffusi, si introdussero cambiamenti fino ad allora impensabili nella struttura fisica della strada e si stimolarono anche dei cambiamenti nella cultura e
negli atteggiamenti degli automobilisti. Questi genitori,
cittadini e responsabili degli Uffici tecnici, andando al di là
delle norme del codice all’epoca in vigore in Olanda, attuarono una serie di interventi che oggi rappresentano i
principi fondamentali della filosofia della moderazione della circolazione. Nel 1976 il codice della strada olandese
ha fatto sue le regole fondamentali della moderazione della circolazione.
Quali paesi europei sono impegnati in questo tipo di interventi?
Dopo l’Olanda, la seconda nazione che ha affrontato il
problema della mobilità e quindi dei diritti dei pedoni in
modo abbastanza diffuso e rapido è la Germania. Altri
paesi europei come la Danimarca, l’Austria, la Francia e
la Svizzera sono coinvolti nella realizzazione di esperienze
molto interessanti.
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Come si colloca l’Italia nel panorama europeo?
Il nostro paese, rispetto al contesto europeo, ha un ritardo di circa venticinque anni e questo, in parte, è causato
anche da una ritardata motorizzazione di massa. In Olanda, Francia, Germania una motorizzazione molto diffusa
si è realizzata negli anni Cinquanta, quindi hanno avuto il
tempo di metabolizzare la novità dell’automobile. In questi paesi si è sviluppata una politica di ricerca e, grazie anche a dei finanziamenti di società di assicurazioni, sono
stati realizzati degli studi molto interessanti sul rapporto
tra il bambino e l’automobile, sulle possibili relazioni tra
comportamenti aggressivi e opportunistici e l’uso dell’automobile o sul rapporto tra il bambino e la strada. In Italia, siamo agli inizi, alle prime denunce dell’intollerabilità
della situazione e solo negli ultimi anni cominciamo a porci il problema di usare l’automobile in un modo «intelligente».
Oltre a «La città possibile» che propone una serie di
azioni ad ampio raggio, quali associazioni affrontano il
problema della mobilità?
Diverse associazioni ambientaliste, al di là delle loro capacità di approfondimento e della continuità delle loro azioni, sono impegnate in progetti che riguardano i temi della
moderazione. Si tratta di esperienze che hanno una certa
diffusione, come esempi si possono ricordare il programma «Lavori in corso» della Legambiente e il progetto «La riconquista della città» del WWF.
Altre associazioni, invece, lavorano su singoli temi della mobilità o della tutela del pedone come l’Associazione
dei genitori dei bambini incidentati, l’Assopedone o Strada amica, che ormai è una federazione di quattro o cinque organizzazioni a livello nazionale e lavora principalmente sul problema degli incidenti stradali. Un altro aspetto che caratterizza attualmente il versante delle associazioni è l’esigenza di raccordarsi in una rete comune, dove
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collocare la propria esperienza e avere la possibilità di
confrontarsi in ambito nazionale e internazionale. «La
città possibile» sta lavorando proprio in questa direzione.
Quali elementi ostacolano la diffusione delle tecniche
della moderazione?
La principale difficoltà è la mancanza di formazione. Per
cambiare la città non basta informare e attivare la domanda di qualità urbana dei cittadini, bisogna anche aumentare la capacità di risposta degli amministratori e dei
tecnici. In Italia c’è un ritardo considerevole rispetto agli
altri paesi europei perché le università non formano professionisti alle tecniche della moderazione, e gli ordini professionali, a loro volta, non hanno sviluppato una prassi
di aggiornamento diffuso dei tecnici.
Un altro ostacolo è rappresentato dal comportamento
degli automobilisti. Oggi le automobili consentono velocità sempre più alte e che possono essere raggiunte in
tempi brevi, quindi anche nel tessuto urbano.
22.
ALTRE ESPERIENZE: LA DEMOCRAZIA
IN ERBA
Intervista a Carlo Pagliarini1
Come nascono in Italia i Consigli comunali dei ragazzi?
Le prime esperienze risalgono al dopoguerra e avevano
l’obiettivo di consentire l’organizzazione democratica delle colonie di vacanza.
1
Carlo Pagliarini, fondatore ed ex presidente dell’Arciragazzi, fondatore
dell’associazione «Democrazia in erba», ci ha lasciati nel 1997. Anche a lui, che
tanto ha fatto per i bambini, è dedicato questo libro.
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Negli anni Sessanta in molti Comuni sono stati istituiti
dei Consigli dei ragazzi ma queste iniziative fallirono regolarmente.
La maggior parte delle esperienze dell’attuale periodo
storico sono correlate all’iniziativa dell’Unicef Italia «Il sindaco difensore dei bambini»; alcuni degli amministratori
che hanno aderito hanno avviato dei Consigli comunali
dei ragazzi. Molti di questi sono totalmente privi di riferimenti culturali e quindi riproducono il solo modello che
conoscono cioè quello adulto, altri invece rappresentano
esperienze di elevata qualità. In entrambi i casi, tuttavia, i
ragazzi esprimono le loro potenzialità e le loro competenze.
Dove è stato istituito il primo Consiglio dei ragazzi?
A Morrovalle e opera ancora oggi. Però, secondo me, è
un’iniziativa che si è realizzata solo a metà. La convinzione che ho maturato anche sulla base dell’esperienza francese, è che il Consiglio comunale dei ragazzi deve nascere nella scuola, in rapporto anche ai programmi didattici,
come elemento di consapevolizzazione forte di un ruolo di
cittadinanza attiva, poi però deve esercitare la sua attività
nel Comune attraverso delle negoziazioni con gli adulti. A
Morrovalle il Consiglio è rimasto dentro la scuola.
Quali sono le esperienze più significative?
In genere la presenza e l’efficacia dei Consigli è legata alla natura delle amministrazioni. Quando le Giunte sono
formate da persone che non vengono direttamente dal
mondo della politica c’è un’apertura mentale straordinaria verso queste iniziative.
Secondo lei, il nuovo ruolo del sindaco ha prodotto un
incremento nella costituzione dei Consigli comunali
dei ragazzi?
Finora non abbiamo registrazioni di questo fenomeno per186
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ché è troppo recente, però penso di sì. Alcuni sindaci, per
esempio, nel loro programma elettorale hanno previsto
l’istituzione di un Consiglio dei ragazzi.
Quali sono le esperienze più significative nel panorama
internazionale?
La Francia è il paese europeo in cui si è diffusa maggiormente l’esperienza dei Consigli comunali dei ragazzi. Il fenomeno è nato e si è sviluppato in una fase di amministrazione di sinistra ed è continuato anche quando la gestione dei Comuni è passata a coalizioni di destra. Questo
dimostra la validità dell’esperienza che è in crescita continua: erano ottocento un anno fa, oggi sono ottocentosessanta.
I Consigli comunali dei ragazzi francesi sono comparsi
una decina di anni fa per iniziativa di alcuni sindaci adulti.
Dopo questa prima esperienza spontanea, alcune organizzazioni educative e un gruppo di amministratori di piccole e grandi città hanno costituito un’associazione, l’Anacej (Association Nationale des Conseils d’Enfants et de
Jeunes) che oggi è supportata da diversi ministeri e istituzioni.
Inizialmente sono stati istituiti soprattutto i Consigli dei
ragazzi, formati cioè da bambini, di recente si stanno organizzando dei Consigli dei giovani a cui partecipano gli
adolescenti. Queste esperienze, inoltre, nascono preferibilmente in piccoli Comuni dove i ragazzi sono facilmente visibili e a loro volta possono individuare facilmente il
territorio. Solo una grande città della Francia ha un Consiglio comunale dei ragazzi.
Pensando alle grandi città, quale estensione dovrebbe
avere il territorio su cui opera un Consiglio dei ragazzi?
La dimensione ideale, secondo me, corrisponde al bacino
di utenza di un gruppo di due o tre scuole. Deve essere
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un’area che i ragazzi conoscono e su cui possono intervenire con forme di progettazione e rivendicazione del loro ruolo. Solo in questo caso il Consiglio comunale è valido altrimenti è una forma di partecipazione passiva, simbolica, pensata per gli adulti non per i ragazzi.
Quali peculiarità ha la vostra proposta, quella di «Democrazia in erba»? Cosa la distingue per esempio da
quella francese?
Prima di tutto devo ricordare la sproporzione enorme nel
numero dei Consigli e nelle tradizioni, perché in Francia
c’è un tessuto laico educativo straordinario che noi non
abbiamo. In Italia poi manca del tutto un livello nazionale
e istituzionale di supporto che invece caratterizza la situazione francese.
Noi siamo partiti controcorrente, e siamo stati in qualche misura costretti ad avere un’applicazione più immaginifica.
Se devo individuare delle differenze tra i due modelli,
forse quelle principali sono l’importanza che noi attribuiamo al momento ludico e l’organizzazione di assemblee comuni, dove adulti e ragazzi discutono insieme su un tema
specifico.
Si possono definire delle regole che possano garantire
l’efficacia di un Consiglio dei ragazzi?
Non si possono dare delle indicazioni restrittive perché l’istituzione dei Consigli è un fenomeno recente, però si
possono precisare alcuni aspetti. La nascita di queste
esperienze dovrebbe essere preceduta da due atti formali: l’adozione della Convenzione dei diritti dei bambini e
una delibera del Consiglio comunale dove si afferma che
i bambini sono cittadini come gli altri e quindi gli si conferisce del potere.
I Consigli dei ragazzi devono disporre di un budget, per
misurarsi con forme di disponibilità di potere. Le risorse
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saranno utilizzate in parte per il funzionamento del Consiglio, per esempio per viaggiare, conoscere altre esperienze o acquisire competenze, in parte per la realizzazione di piccoli interventi scelti dai ragazzi stessi.
«Democrazia in erba» prevede anche la formazione di
un comitato di pilotaggio che, come avviene in Francia,
promuova la nascita del Consiglio e ne faciliti le attività?
Certo. Secondo «Democrazia in erba» nel comitato di pilotaggio ci devono essere almeno tre figure, un insegnante, che sia rappresentativo della scuola o delle scuole di
quel territorio, un anziano, che possibilmente abbia un’esperienza di gestione comunale e che faccia da mediatore tra i bambini e il Consiglio e un animatore.
Si possono ipotizzare delle situazioni in cui Consigli dei
ragazzi riescono ad operare sul territorio realizzando
degli interventi molto circoscritti ma in realtà non hanno la possibilità di incidere sul processo di trasformazione della città?
Questo si verifica ma va bene così. L’esperienza dei Consigli ci suggerisce che è necessaria un’idea utopistica,
straordinaria, ma per realizzarla bisogna compiere dei
passi piccolissimi, ognuno dei quali deve essere un successo e le proposte dei ragazzi, in genere, sono accolte
perché sono puntuali, precise, concrete, applicabili. I piccoli passi muovono verso un traguardo lontanissimo. I
due piani, l’intervento localizzato e un progetto molto più
ampio di riferimento, sono conciliabili e ugualmente importanti. Il piccolo intervento locale dimostra ai ragazzi
che si può avanzare una proposta, gestirla con l’aiuto
pubblico, con il suo contributo e quello dei suoi genitori.
In questo modo i ragazzi acquisiscono un esercizio di cittadinanza che gli dà la possibilità di pensare che le idee
più grandi si possono realizzare.
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Secondo lei quali sono le ricadute più significative di
queste esperienze?
Se escludiamo i ragazzi, una delle ricadute più importanti
riguarda l’immaginario degli adulti. Genitori, amministratori, tecnici, insegnanti, con grande stupore, scoprono
che i ragazzi sono totalmente diversi rispetto agli stereotipi della cultura egemone che li considera deboli, incapaci,
pericolosi e da tutelare. L’esperienza dei Consigli mette in
discussione questa cultura.
Credo che un altro aspetto particolarmente significativo sia la speranza di un rapporto nuovo tra le generazioni,
che si ricostruisce in termini di futuro, e questo è particolarmente importante perché nell’epoca del massimo di denatalità si è affermata l’idea che gli adulti siano eterni.
23.
ALTRE ESPERIENZE:
LE CITTÀ EDUCATIVE
Intervista a Fiorenzo Alfieri1
Da quali esperienze e con quali obiettivi nasce il progetto «Le città educative»?
Il primo congresso internazionale delle «Città educative» fu
organizzato dalla città di Barcellona nel novembre del
1990. Questo evento venne preparato per oltre un anno
da un comitato scientifico di cui facevo parte. La mia presenza era motivata dal fatto che la filosofia su cui si fondava il congresso era molto simile a quella che a Torino,
la mia città, avevamo pionieristicamente cercato di impostare dal 1975 in poi. Si tratta di un modo di pensare che
si fonda sulla convinzione che vi sia oggi un grande biso1
Assessore al sistema educativo del Comune di Torino.
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gno di educazione e che questo non possa essere soddisfatto soltanto mediante i servizi scolastici. Nel primo periodo di attività amministrativa della Giunta comunale di
Torino tra il 1975 e il 1980, cercammo di mettere a disposizione delle scuole una grande quantità di risorse educative reperite nel contesto urbano. La città deve costruirsi
una relazione educativa diretta che, per altro, non riguardi solo i bambini, ma i cittadini di ogni età.
Da questa convinzione siamo partiti per la costruzione
di una pratica più ampia e diversificata che riguardi tutto il sistema educativo e non solo la scuola. Il sistema educativo comprende anche la famiglia, il territorio urbano,
i mezzi di informazione, i gruppi formali e informali, le
strutture produttive, le forze politiche, le amministrazioni.
Tutte queste diverse componenti possono contribuire allo
sviluppo integrato di un’ampia azione educativa che ricada positivamente su ognuna di esse.
Ovviamente il pensare e l’operare in questo modo è più
difficile e impegnativo che il solo mettere a disposizione
della scuola risorse territoriali da utilizzare nei modi ritenuti più opportuni. Per questo motivo sono numerosissime le esperienze di rapporto tra scuola e territorio mentre sono più rare e qualche volta più sfuggenti le esperienze concrete che siano in grado di dimostrare la capacità di una città di occuparsi concretamente della crescita
educativa dei suoi cittadini.
Quali sono stati gli appuntamenti internazionali?
Il convegno di Barcellona voleva lanciare a livello internazionale un appello alle grandi città affinché valutassero
correttamente l’importanza strategica dell’educazione nel
mondo di oggi, si mettessero in rete e si scambiassero le
esperienze concrete sia in occasione dei congressi internazionali da tenere ogni due anni, sia attraverso la creazione di un’apposita banca dati. Si è detto fin dall’inizio,
nel modo più chiaro, che una città educativa non è solo
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una città dotata di buoni servizi scolastici e che gli amministratori coinvolti non sono solo gli assessori all’istruzione. Il sindaco di Barcellona si spese in prima persona e le
relazioni di apertura vennero affidate a urbanisti, economisti, imprenditori e ad un solo pedagogista (il sottoscritto). Anche il volume preparatorio del congresso dedicava
lo spazio maggiore ad analisi di carattere filosofico, politico, sociologico ed economico.
Il secondo congresso internazionale si tenne a Göteborg nel 1992 sul tema della formazione e del lavoro. Il
terzo si celebrò a Bologna nel 1994 sul tema dell’interculturalità e il quarto si terrà a Chicago nel settembre di
quest’anno su un tema molto bello: «Le arti e le attività
umanistiche come agenti di cambio sociale nelle città». I
diversi congressi costituiscono un percorso intorno al concetto generale di «Città educativa». Si tratta di un concetto complesso che è bene analizzare da diversi punti di vista senza però perdere il senso complessivo dell’intuizione originaria che mal sopporta, per sua natura, di essere
vivisezionata oltre un certo limite.
Quali attività specifiche caratterizzano le città aderenti?
Le oltre trecento città che hanno firmato la «Carta delle
città educative» si sono ufficialmente impegnate a seguirne i principi e più concretamente a considerare in modo
esplicito, in occasione di ogni decisione e di ogni iniziativa, la possibile ricaduta sui modi di capire, di pensare, di
agire e di convivere dei cittadini. Credo che al fondo di
questa esperienza non ci debba stare tanto un certo numero di specifici atti amministrativi quanto un modo particolare di guardare alla città e alla vita dei cittadini. È probabilmente molto più produttivo quel certo modo di guardare piuttosto che una serie di investimenti anche consistenti ma operati senza prospettiva e senza anima.
Le città firmatarie della «Carta» si dovrebbero sforzare
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innanzi tutto di raccontare a tutte le altre in che modo hanno declinato il paradigma della «Città educativa». Gli obiettivi in questo modo si costruiranno poco a poco in sintonia con le esperienze concrete. Si tratta di una specie di
grande «cooperazione educativa» come la pensava Celestin Freinet. Egli era convinto che nessuno sappia davvero come si debba concretamente agire per fare bene scuola. Cominciamo allora a scambiarci regolarmente le esperienze, mettiamo a disposizione di tutti quel poco che ognuno riesce a fare e vedremo che un po’ per volta prenderà forma un modo di pensare e di operare sorprendentemente ricco e produttivo, frutto della ricerca comune.
Quale è la risposta italiana al progetto?
Per quanto riguarda l’Italia si sta cercando proprio in questi tempi di rilanciare e di dare maggiore significato alla
adesione delle nostre città all’AICE (Associazione Internazionale delle Città Educative) che nel frattempo si è costituita a livello internazionale e che è sotto osservazione da
parte dell’ONU e dell’UNESCO.
Nel gennaio 1996 un folto gruppo di amministratori si
è incontrato a Torino per riscoprire il senso della «Carta»,
aumentare il numero delle città aderenti e organizzare la
partecipazione a Chicago. In questo momento si sta affermando anche in seno dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) l’idea di considerare il concetto di
«Città educativa» come un punto di riferimento per le politiche socio-educativo-culturali delle città in riferimento all’infanzia, ai giovani, alla famiglia.
In Italia il livello di sensibilità e di cultura su questi argomenti è molto diversificato. È difficile confrontarlo con
quello di altri paesi. La sensazione è che in alcune nostre
città si svolgano esperienze molto raffinate e avanzate che
possono reggere il confronto con quelle di altri paesi europei. Mi pare anche di poter dire che stiamo attraver193
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sando un buon momento nelle amministrazioni locali per
quanto riguarda queste tematiche. Anche nel Sud sono
entrati in scena amministratori molto motivati e creativi.
Sono numerosissimi gli incontri tra amministratori e non
dovrebbe essere difficile la moltiplicazione delle esperienze più azzeccate e fattibili. Soprattutto mi pare si stia affermando la consapevolezza che questa tematica non abbia solo una valenza specificamente psicopedagogica ma
che miri al cuore di un interesse primario della collettività.
Quali prospettive si possono individuare per il futuro
del progetto?
Si sta avvertendo un bisogno straordinario, talvolta
drammatico, di educazione. A prescindere dal fatto, per
altro gravissimo, che il nostro paese si colloca all’ultimo
posto in Europa per numero di diplomati e di laureati,
non c’è aspetto della vita sociale per cui non si affermi
che oltre a esigenze di carattere strutturale sono prioritari interventi di natura educativa. Si tratti di difesa dell’ambiente, di traffico, di consumi energetici, di occupazione, di sicurezza, di ordine pubblico, di solidarietà, di
tossicodipendenza, di rapporti tra i sessi, di maternità e
paternità... lo slogan è sempre lo stesso: non basta costruire manufatti e fornire servizi, bisogna agire sui modi
di pensare. Bisogna educare.
Ma chi ha questa responsabilità? E in quali modi metterla in atto con qualche probabilità di riuscita? Se non ci
poniamo seriamente questi interrogativi il richiamo alla
priorità educativa, che ormai caratterizza qualsiasi presa
di posizione (dei politici come degli imprenditori, degli urbanisti come degli economisti), rischia di diventare una
sorta di rumore di fondo senza alcuna ricaduta concreta.
Il movimento delle «Città educative» dovrebbe diventare
l’ambiente più attrezzato per rispondere a queste semplici terribili domande.
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TonucciTesto.QXD
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UNA RETE NAZIONALE E OLTRE
Il 17 dicembre 1994 i sindaci di venti città si sono incontrati a Fano per conoscere l’esperienza del Laboratorio
«La città dei bambini», e per valutare l’opportunità di portare questo progetto nei propri Comuni e di far nascere
una rete nazionale che permetta di coordinare le varie
esperienze in atto su questo argomento. Al termine della
giornata è stato approvato il documento che segue:
La città ha rinunciato al suo ruolo storico di essere il luogo
dell’incontro e dello scambio e ha perduto i suoi cittadini, avendo scelto, specialmente negli ultimi decenni, le strategie della
separazione e della specializzazione, motivate quasi esclusivamente da interessi economici. I cittadini sono stati allontanati
dal centro della città, si sono creati posti diversi per funzioni e
per categorie diverse: per dormire, per divertirsi, per comprare, per curarsi, per studiare; per anziani, per bambini, per handicappati, ecc.
Il danno così provocato nei cittadini è stato compensato dai
servizi: trasporti, servizi per l’infanzia, ipermercati, giardini pubblici, ecc. per sopportare una vita sempre più alienata.
Questo accordo è stato tacitamente stabilito fra gli amministratori e gli elettori forti: la città è stata progettata e verificata
assumendo come parametro il cittadino medio che in genere
ha le caratteristiche di adulto, maschio e lavoratore. In questo
modo la città si è persa i cittadini non adulti, non maschi e non
lavoratori.
I sindaci propongono:
di spostare la propria attenzione dal cittadino medio al bambino: di abbassare l’ottica della amministrazione fino all’altezza
del bambino, per non perdere nessuno dei cittadini che rappresenta; di imparare ad ascoltare e a capire le bambine e i bambini, nella loro diversità, per essere capaci di capire e rappresentare tutti i diversi.
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Non si tratta di difendere i diritti di una componente sociale
debole fra le altre. Non si tratta di realizzare iniziative, opportunità, strutture nuove per i bambini, non si tratta di modificare,
aggiornare, migliorare i servizi per l’infanzia (che pure rimane
un impegno delle amministrazioni comunali). Si tratta invece di
assumere una filosofia nuova nel valutare, programmare, progettare e modificare la città. Una filosofia della quale il sindaco
si fa garante e che diventa anima del programma della Giunta.
In particolare intendono sottoporre alle rispettive amministrazioni apposito atto deliberativo che le impegni a:
1. aprire nella propria città un Laboratorio su «La città delle
bambine e dei bambini» che costituisca un punto di elaborazione e di collegamento fra i vari assessorati e con le altre città impegnate;
2. trovare le forme adeguate per coinvolgere direttamente le
bambine e i bambini in questa operazione, sia chiedendo loro
un contributo di idee, sia offrendo loro spazi per esprimere agli
amministratori le loro richieste e proposte;
3. avviare una rete di collegamento e di confronto fra le città
aderenti al progetto (...);
4. invitare tutti i loro colleghi sindaci eletti, ad aderire a questo progetto a difesa non tanto dei bambini ma dei cittadini tutti e delle stesse città.
Questo documento istitutivo, firmato dai rappresentanti di
ventiquattro città e sottoscritto dalle maggiori associazioni nazionali.
Dal 1994 altri Comuni hanno conosciuto il progetto,
hanno aderito o stanno valutando questa possibilità.
Negli ultimi anni il progetto è stato presentato anche in
Spagna e in Argentina con notevole interesse da parte di
educatori e di amministratori. In Argentina si sta valutando la opportunità di organizzare un coordinamento nazionale per i Municipi interessati, ad opera dell’Unicef Argentina e della Facoltà Latino-americana di Scienze Sociali
(Flacso).
Per dare risposta all’interesse crescente dimostrato da
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diverse città, nel 1996, presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR di Roma, si è costituito un
gruppo di ricerca per lo sviluppo del progetto «La città dei
bambini» che si occuperà in particolare:
– di approfondire e sviluppare il progetto attraverso la
ricerca e la verifica delle esperienze in corso;
– di diffondere il progetto presso le amministrazioni comunali;
– di dare ai Comuni che lo vorranno un supporto per
l’avvio e lo sviluppo del progetto, mirando alla crescita di
competenze locali;
– di documentare e far conoscere le esperienze in corso.
Alcune di queste funzioni potranno essere assorbite
dalle iniziative istituzionali previste dai Ministeri dell’Ambiente e della Solidarietà Sociale.
Il gruppo di ricerca può essere contattato al seguente
indirizzo:
Progetto internazionale «La città dei bambini»
Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR
via U. Aldrovandi, 18, 00197 Roma
tel. 06 - 3221198; Fax 06 - 3217090
E-mail [email protected]
www.lacittadeibambini.org
25.
PER COMINCIARE
Quelli che seguono sono consigli, possibili proposte di
lavoro. Ciascuna città interessata al progetto può pensare ad una strada propria e indipendente. Qui si indicano alcuni passaggi verificati nella esperienza di Fano.
1. Verifica da parte del sindaco e della sua Giunta che
questo progetto possa e debba diventare una nuova filosofia della politica del governo della città tenendo conto che:
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– attualmente i cittadini, che pure soffrono i mali della
città, non chiedono, almeno in forma esplicita, una tale
riforma radicale e quindi un progetto come questo non costituisce un obbligo per gli amministratori, ma solo una
scelta;
– è difficile cambiare una città rispondendo alle necessità e alle aspettative dei bambini perché bisogna scontentare i grandi e chiedere loro di rinunciare a privilegi che
sembrano ormai dei diritti;
– una volta aderito al progetto non lo si può tradire perché è un impegno preso con i bambini e ai bambini non
si può mentire, non si debbono ingannare;
– è una grande scelta per il futuro della città, che risponde ad un bisogno profondo della gente, anche se non
espresso, di una speranza di futuro che oggi le città stanno perdendo.
2. Rendere pubblica la scelta con una delibera del Consiglio, aderendo alla rete nazionale che si è creata a Roma presso il CNR, sensibilizzando le forze attive della città
(associazioni, scuole, ecc.) e comunicandola alla popolazione con le iniziative che si valuteranno opportune.
3. Aprire un Laboratorio comunale de «La città dei
bambini», dotandolo del personale, dei locali e della strumentazione necessaria in modo che:
– costituisca lo stimolo continuo verso i governanti della città per una sempre più coerente attuazione del progetto;
– diventi un punto di riferimento per bambini e adulti
della città sul rapporto città-bambini;
– elabori un programma delle iniziative da realizzare;
– tenga i contatti con il gruppo di lavoro di Roma, fornendo i materiali che documentano le decisioni e le attività progettate e realizzate.
4. Se il progetto si applica in una grande città occorre identificare un quartiere nel quale si possano avviare le
attività concrete. È importante che anche la dimensio198
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ne dell’area di attuazione del progetto sia «a misura di
bambino». Nell’area scelta dovrà essere identificata una
sede, che per gli abitanti diventi un punto di riferimento,
e un gruppo di lavoro locale che attui il programma. Il Laboratorio comunale dovrà rendere possibile il lavoro decentrato e garantirne la documentazione in modo che
possa, appena possibile, essere applicato a zone più ampie della città.
5. Attivazione di iniziative che mirano a «dare la parola
ai bambini», a permettere loro di contribuire direttamente
al rinnovamento della città sia esprimendo proprie opinioni, sia sviluppando negli adulti atteggiamenti di attenzione e di ascolto. Alcune possibili attività possono essere:
a. Il Consiglio dei bambini: i rappresentanti (maschio e
femmina) delle scuole elementari della città o del quartiere si riuniscono periodicamente nei locali del Laboratorio
per discutere con gli operatori le varie proposte di modifica della città, garantendo il punto di vista dei bambini.
b. I bambini progettisti: gruppi di bambini e di ragazzi,
che, dentro o fuori della scuola, lavorano insieme a tecnici della città (architetti, urbanisti, sociologi, psicologi, educatori) per la progettazione di spazi e servizi urbani.
6. Convocazione di almeno un Consiglio comunale all’anno aperto ai bambini, durante il quale i bambini (possono essere i consiglieri di cui al punto 5a) abbiano diritto
di parola per esprimere proposte e proteste e gli adulti abbiano il dovere di ascoltare, capire e dare risposte. Sarebbe opportuno dedicare ogni anno un secondo Consiglio
alla valutazione del progetto e alle sue prospettive future.
7. Le città che aderiscono alla iniziativa possono partecipare agli incontri nazionali e internazionali che si organizzano e di cui riceveranno adeguata informazione.
Possono anche aderire alle campagne nazionali e internazionali, per esempio la proposta «Io e la mia città» che
da alcuni anni viene promossa dalla città di Fano.
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1. Convenzione internazionale
sui diritti del fanciullo1
ART.
1
Questa convenzione si occupa dei diritti di tutti coloro che
ancora non hanno compiuto 18 anni.
ART.
2
Tutti gli stati devono rispettare i diritti del bambino, senza
distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica del bambino o della sua famiglia.
ART.
3
Gli interessi del bambino devono essere considerati per
primi in tutte le decisioni che lo riguardano. Il bambino ha
il diritto di ricevere la protezione e le cure necessarie al suo
benessere.
ART.
5
Sono i genitori o chi li sostituisce a doversi prendere cura
del bambino.
ART.
6
1. Il bambino ha il diritto alla vita.
1
Promulgata dalle Nazioni Unite a New York nel 1989 e ratificata dal Parlamento italiano con la legge n. 176 del 1991. La versione qui pubblicata è stata riscritta per i bambini, in forma semplificata e ridotta, da P. Benevene, F. Ippolito e F. Tonucci per la Fondazione Basso.
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2. Il bambino ha il diritto di sviluppare in modo completo
la propria personalità.
ART.
9
Il bambino ha il diritto di mantenere i contatti con i suoi
genitori, anche se questi sono separati o divorziati.
ART.
10
Il bambino ha il diritto di riunirsi ai suoi genitori o di restare in contatto con loro se questi vivono all’estero.
ART.
11
I bambini non devono essere portati via dal loro paese in
modo illegale.
ART.
12
Il bambino ha diritto ad esprimere la sua opinione e ad essere ascoltato ogni volta che si prendono decisioni che lo
riguardano.
ART.
13
Il bambino ha il diritto di poter dire ciò che pensa, con i
mezzi che preferisce.
ART.
14
1. Il bambino ha il diritto di libertà di pensiero, di coscienza, di religione.
2. I genitori hanno il diritto e il dovere di guidare i figli e
in tale compito devono essere lasciati liberi di seguire le
idee in cui credono.
ART.
15
Il bambino ha il diritto di stare assieme agli altri.
ART.
17
I giornali, i programmi radiofonici e televisivi sono importanti per il bambino; per questo motivo è importante
che ce ne siano di adatti a lui.
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ART.
18
Se un bambino non ha i genitori, ci deve essere qualcuno
che si occupa di lui.
Se i genitori di un bambino lavorano, qualcuno deve prendersi cura del bambino mentre loro sono al lavoro.
ART.
19
Nessuno può trascurare, abbandonare, maltrattare, sfruttare un bambino o fare violenza su di lui.
ART.
20
Se un bambino non può rimanere con la sua famiglia, deve andare a vivere con qualcuno che si occupi di lui.
ART.
21
Il bambino ha il diritto di essere adottato, se la sua famiglia non si può occupare di lui. Non si può fare commercio con le adozioni.
ART.
22
1. Il bambino rifugiato ha il diritto di essere protetto.
2. Il bambino rifugiato deve essere aiutato a riunirsi alla
sua famiglia.
ART.
23
1. Il bambino che ha problemi mentali o fisici ha diritto di
vivere come gli altri bambini e assieme a loro.
2. Il bambino che ha problemi mentali o fisici ha il diritto
di essere curato.
3. Il bambino che ha problemi fisici o mentali ha il diritto
di andare a scuola, di prepararsi per il lavoro, di divertirsi.
ART.
24
Il bambino ha il diritto di raggiungere il massimo livello di
salute fisica e mentale e di essere curato bene quando ne
ha bisogno.
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ART.
27
Il bambino ha il diritto di crescere bene fisicamente, mentalmente, spiritualmente e socialmente.
ART.
28
Il bambino ha il diritto all’istruzione. La scuola deve essere obbligatoria e gratuita per tutti.
ART.
29
Il bambino ha il diritto di ricevere un’educazione che sviluppa le sue capacità e che gli insegni la pace, l’amicizia,
l’uguaglianza e il rispetto per l’ambiente naturale.
ART.
30
Il bambino che appartiene ad una minoranza ha il diritto
di usare la sua lingua e di vivere secondo la sua cultura e
la sua religione.
ART.
31
Il bambino ha il diritto al gioco, al riposo, al divertimento
e di dedicarsi alle attività che più gli piacciono.
ART.
32
Nessun bambino deve essere sfruttato. Nessun bambino
deve fare lavori che possano essere pericolosi o che gli impediscano di crescere bene o di studiare.
ART.
33
Il bambino deve essere protetto dalla droga.
ART.
34
Nessun bambino deve subire violenza sessuale o essere
sfruttato sessualmente.
ART.
35
Nessun bambino deve essere rapito, comprato o venduto.
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ART.
37
Nessun bambino può essere torturato o condannato a
morte o all’ergastolo. Nessun bambino può essere privato della sua libertà in modo illegale o arbitrario.
ART.
38
Nessun bambino al di sotto dei 15 anni deve essere arruolato in un esercito, né combattere in una guerra.
ART.
39
Il bambino che è stato trascurato, sfruttato e maltrattato
ha il diritto di essere aiutato a recuperare la sua salute e la
sua serenità.
ART.
40
Il bambino che è accusato di un reato deve essere ritenuto innocente fino a quando non sia riconosciuto colpevole, dopo un processo giusto. Comunque, anche quando è
riconosciuto colpevole, ha il diritto di ricevere un trattamento adatto alla sua età, che lo aiuti a tornare a vivere
con gli altri.
ART.
41
A questi diritti ogni stato può aggiungerne degli altri, che
migliorino la situazione del bambino.
ART.
42
Bisogna far conoscere a tutti, adulti e bambini, quello che
dice questa Convenzione.
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2. Invito alla collaborazione:
lettera aperta ai cittadini fanesi
Il Comune di Fano ha istituito «Fano la città dei bambini»,
un Laboratorio regionale per la progettazione e la sperimentazione di proposte che migliorino il difficile rapporto che oggi esiste fra città e bambino.
I bambini vivono spesso da soli, non possono incontrarsi spontaneamente per giocare, non hanno spazi loro,
non hanno tempi loro, le strade sono occupate dalle macchine, la città è pericolosa.
Lavorare perché la città diventi adatta ai bambini significa lavorare perché la città sia più adatta a tutti.
Pensiamo di invitare a Fano amministratori di altre città
per confrontarsi tra loro e con noi su questi problemi, pensiamo di invitare a Fano i bambini delle altre città per offrire loro la nostra amicizia, le nostre idee. Ci piacerebbe
che Fano diventasse un punto di riferimento su questo tema delicato.
Ma se la città deve cambiare questo non può essere affidato, delegato alla sola amministrazione. La delega generalizzata e l’atteggiamento assistenziale che ne deriva
sono state probabilmente cause del degrado delle nostre
città. Se la città deve cambiare tutti possono e debbono
fare qualcosa.
Questa lettera è un invito personale perché tutti quelli
che hanno un ruolo attivo nei diversi settori produttivi, di
servizio o culturali della nostra città si pongano la doman208
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da: «Io che cosa posso fare per i bambini della mia
città?», «Cosa posso inventare per far sì che il bambino
possa approfittare delle mie competenze?», «Quali occasioni posso proporre, suggerire?».
C’è posto per la creatività, anzi, siamo convinti che solo inventando cose nuove possiamo sperare di ottenere
qualcosa di buono. Una fabbrica, un museo, un ufficio,
una bottega artigianale, un esercizio commerciale, una caserma, una barca... nascondono certamente qualcosa,
qualche iniziativa, qualche itinerario che può interessare
ad un bambino o può migliorare la sua vita di piccolo cittadino.
Se ognuno farà qualcosa, magari solo pensandoci un
po’, anche non riuscendo a farsi venire in mente niente,
Fano già comincerà a cambiare.
Potrete rivolgervi alla sede del Laboratorio per proporre, offrire, chiedere chiarimenti o collaborazione.
A nome dei bambini e del gruppo di lavoro vi ringraziamo per l’attenzione sperando di rivedervi presso il Laboratorio.
Fano, dicembre 1991
Il direttore del Laboratorio
Il sindaco di Fano
Francesco Tonucci
Francesco Baldarelli
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3. Lewis Mumford,
«La pianificazione
per le diverse fasi della vita»1
Circa una generazione fa, in un numero di «Survey
Graphic» (maggio 1925) il Dr. Joseph K. Hart puntualizzava il fatto che la pianificazione urbana fosse essenzialmente concepita nei termini di una singola fase della vita:
quella degli adulti privi di responsabilità familiari. E rilevava il significato dell’antico detto che la folla dei boulevard
non invecchia mai, che il boulevard cioè, a cagione della
sua funzione e della sua conformazione, attira a sé sempre lo stesso gruppo di età, che è mosso dagli stessi interessi e persegue gli stessi fini.
Malgrado tale avvertimento, l’urbanista non è ancora
giunto a realizzare per intero la natura del suo compito,
che è quello di provvedere un ambiente adatto ad ogni fase della vita, dall’infanzia alla senilità.
L’attività urbanistica finora è stata quasi esclusivamente concentrata intorno alla vita degli adulti e per di più intorno a certi aspetti soltanto della vita degli adulti, quali gli
affari, l’industria, l’amministrazione, il traffico, i trasporti.
Anche occupandosi degli adulti l’urbanistica omette
importanti sfere di attività.
Scopo del presente studio è di esplorare brevemente il
campo aperto dal Dr. Hart. Tenendo presenti le diverse
fasi della vita l’urbanistica potrà modificare il suo atteg-
1
Tratto dalla rivista «Urbanistica», 1 (1945).
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giamento sia nei riguardi del metodo che in quello degli
scopi della pianificazione e magari esser condotto a riesaminare i progetti di certi complessi, quali ad esempio i
campi da gioco, dove la comodità amministrativa ha prodotto la ripetizione di determinati schemi il cui ordine
esterno riflette una interiore sterilità. Se la coscienza del
ciclo della vita umana non servisse ad altro, potrebbe almeno essere utile come lista di controllo delle necessità,
per scoprire i punti deboli in un piano apparentemente
ammirevole.
La prima fase: l’infanzia
Si tratta di vedere quel che fa la pianificazione per il bambino dalla nascita fino all’età di entrare a scuola. Innanzi
tutto vi è la questione delle abitazioni: mentre infatti in
ogni paese durante l’ultima generazione vi è stato un deciso orientamento verso le nascite in ospedale, ora si incomincia a sospettare che non sia questa la condizione migliore per un parto normale e per i primi giorni di vita del
neonato. Dalle esperienze di numerosi centri sanitari, pare che i vantaggi siano maggiori, e dal lato psicologico decisamente preponderanti, in caso di puerperio a domicilio: pure, anche là dove le condizioni di abitazione sono le
più adatte, il parto porta scompiglio nell’andamento normale della casa e causa temporaneo affollamento.
Qui l’urbanista dovrebbe trovare una soluzione intermedia, fra l’ospedale costoso, ma provvisto di tutta l’installazione necessaria nei casi di emergenza, e la casa che
non offre lo spazio necessario alla nascita del bambino. La
soluzione potrebbe essere una piccola casa di cura, che
fosse parte integrante di una unità di circa 250-500 famiglie e magari dipendente da una clinica locale, in modo da
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poter disporre delle possibilità di questa. In tal modo la
madre potrebbe essere vicina agli altri bambini, visitata facilmente dal marito e assistita dai familiari: tale soluzione ristabilirebbe l’elemento umano, che si va perdendo in
quelli che sono stati definiti «magazzini delle malattie».
Per quanto riguarda l’infanzia, la pianificazione deve
porre la maggior cura al fatto che la madre possa aver pace e riposo dalla pressione quotidiana dei doveri di casa;
l’assenza di tensione è infatti la condizione migliore perché i rapporti tra madre e bambini siano sereni e affettuosi. Ma d’altra parte il ménage non dovrà in nessun caso essere una unità rinchiusa in se stessa; si ha bisogno dei
vicini non solo nei casi di emergenza, ma anche nella routine quotidiana.
Anche nelle zone di abitazione più estensive, dove vi
sono trenta famiglie per ettaro, anzi proprio in queste,
manca sovente un luogo di ritrovo per le madri con i lori
piccoli, dove esse possano lavorare chiacchierando e sorvegliare i giochi dei bimbi. Forse la parte migliore del piano di Charles Reilly per villaggi giardino era quella che prevedeva tali attività, come i progettisti di Sunnyside, Stein e
Wright, hanno fatto sin dal 1924.
In questo ordine d’idee la pianificazione deve trovare
qualcosa di intimo, caldo e protettivo. I piccoli, fino all’età
di dieci anni circa, hanno bisogno di spazi limitati, di nascondigli: muri e cespugli, se non grotte e buche, assolvono a questo compito.
I piccoli al disotto dei sei anni devono sentire il contatto col loro ambiente, devono avere sabbia, ciottoli, pietre,
assi e rami per i loro giochi, e, per impedir loro di diventare dei piccoli vandali, il tipo più elementare di campo da
gioco dovrebbe essere sistemato in una depressione sabbiosa, ben asciutta, circondata da un sentiero lastricato,
intorno al quale le madri possano sedere e sorvegliare:
quest’area dovrebbe essere isolata dal resto del recinto
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con un muro e un cancello, che non possano essere superati dai piccoli, e nel centro vi dovrebbe essere una grossa pietra, o meglio ancora grotte e nascondigli.
Chi ama i giardini tende in generale a privare i bambini della libertà di cui hanno bisogno per scavare e fare le
loro costruzioni: trovando invece il modo di rendere collettivi i giochi dei piccoli e di riunire le madri si darebbe
maggior libertà ai bambini e si avvierebbero le madri verso altre forme di cooperazione.
Seconda fase: lo scolaro
Il trapasso dalla casa alla scuola è un momento critico per
il bambino, e sovente si minimizza con disinvoltura lo choc
e il trauma psichico che deriva non solo dal fatto di lasciare
la sorveglianza protettiva della madre, ma anche dalla diversità di scala e di proporzioni, col passaggio dall’abitazione singola a ciò che sovente è per il bimbo un complesso gigantesco di costruzioni, spaventoso nella sua immensità impersonale. In talune città anche grandi, come
San Francisco, la scuola elementare è mantenuta relativamente piccola, e nelle scuole più recenti la classe ha un’area di gioco propria e non è assorbita dall’intera struttura
dell’edificio.
Forse il modo migliore di effettuare la transizione è per
mezzo di un giardino d’infanzia nell’unità della neighborhood. In esse per la sorveglianza si potrebbe rinunciare a
personale di professione specializzato, in favore dell’assistenza fornita da madri addestrate a questo compito. Benché la pianificazione non possa anticipare nuove sistemazioni sociali, può però, secondo l’occasione, suggerirle ed
indicare la sistemazione appropriata. A Zurigo, pare che
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si sia giunti a questa collaborazione da parte delle madri in
alcuni giardini d’infanzia.
La passeggiata del bambino da casa a scuola deve essere resa divertente ed educativa a sua insaputa.
A volte il bambino sa trarre tesori insospettati da un
mucchio di detriti e una pozzanghera può diventare un lago; ma dove la zonizzazione è estremamente rigida e la
zona residenziale suburbana è spietatamente ordinata e
pulita non c’è più sfogo per la sua immaginazione.
Perché un bambino abbia veramente il senso del mondo nel quale vive, sarebbe necessario che la passeggiata
quotidiana lo mettesse a contatto diretto con la natura, come nelle zone rurali, o con il lavoro dell’uomo nelle officine o nei mercati. Le attività che servono una neighborhood non dovrebbero essere segregate troppo severamente ed il bambino potrebbe avere fra le sue attività le
piccole commissioni e acquisti. Questa necessità è meno
sentita in Europa che in America, dove i canoni di rispettabilità delle classi medie e l’uso dell’automobile hanno
creato una separazione estrema fra le zone commerciali e
quelle residenziali.
Nel nostro sforzo per provvedere lo spazio necessario
ai giochi dei ragazzi, abbiamo spesso dimenticato, specialmente nelle nuove comunità, il fascino che ha il gioco
spontaneo nella loro vita. Sui campi asfaltati la fantasia del
ragazzo si spegne, mentre per esempio nelle zone bombardate di Londra sono sorte per loro possibilità meravigliose. L’autore ricorda nella propria giovinezza i lotti aperti, alla periferia di New York, con superfici rocciose dove si arrostivano mele e patate. Si potrebbero usare cespugli e parapetti per nascondere alla vista questi luoghi
che devono rimanere piuttosto disordinati, devono essere
l’equivalente urbano di quei posti selvaggi che tanto piacciono ai ragazzi. Il miglior contributo a queste zone sarebbe di costruirle piuttosto in profondità, in modo da creare
artificialmente le possibilità di avventura.
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Terza fase: l’adolescenza
Con l’adolescenza la neighborhood non è più il solo centro di attività del giovane. Alla scuola secondaria s’incontrano ragazzi di altre comunità, si fanno giochi organizzati, né ci si muove più solo per andare e venire dalla città,
ma si fanno gite nei dintorni.
Ad un certo momento della nostra civilizzazione, l’idea
che è andata maturando nel cervello di filosofi ed educatori, da Fourier a Goethe da Schreber a William James, l’idea dell’esercito del lavoro, finirà per trovar posto nel nostro sistema educativo. Non sarà facile farla accettare, ma
il sistema migliore sarà la pratica e come si ottengono genitori che hanno il senso della responsabilità della famiglia
solo affidando loro i figli, così si creeranno buoni cittadini
affidando ai giovani alcuni compiti nella comunità.
Ora, il miglior modo per cominciare il compito costruttivo dell’esercito del lavoro sarà la cura e la manutenzione dei beni comuni.
Se potremo permetterci i parchi, le zone alberate ed i
giardini, che prevediamo nel nuovo tipo di pianificazione
aperta, troveremo proibitivo il costo della loro manutenzione, a meno che ne facciamo un servizio civile: volontario se possibile, obbligatorio se necessario. La manutenzione delle zone aperte, la cura delle piante e dei fiori potrebbero essere il compito delle future generazioni di adolescenti: uno dei molti equivalenti morali di una guerra, che
una generazione pacifista deve affrontare.
In un certo qual modo sarebbe questo un compito preparatorio, poiché i beneficiari ne sarebbero i giovani stessi nella fase seguente della loro vita: quella delle prime relazioni amorose. Il periodo della tarda adolescenza, quando le energie sessuali sono prepotenti e gli sbocchi relativamente pochi, è un momento difficile e pericoloso per ragazzi e ragazze; è sovente un momento di sconvolgimen215
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to interno, il cui tumulto dovrebbe essere equilibrato dalla
contemplazione della bellezza circostante. Se il prolungare l’infanzia è stato il primo segno dell’ascesa dell’uomo, il
prolungare il periodo sentimentale con le sue sensibili conseguenze in arte, musica, letteratura e religione, rappresenta uno stadio ancor più avanzato. Questa elaborazione dell’impulso erotico lo intensifica, ma dando significato
e colore emotivo alle manifestazioni puramente istintive.
Nell’aperta campagna le coppie non hanno difficoltà nel
trovare i luoghi solitari adatti al loro stato d’animo, ma nelle nostre città il corteggiamento diventa troppo breve o furtivo, oppresso e ostacolato fino all’esasperazione.
Il Labirinto, tema favorito dagli urbanisti barocchi, serviva certo allo scopo e F. Law Olmsted, progettando il
Central Park a New York, ha costruito il Ramble (il giro)
che con la sua topografia irregolare è un posto dove ci si
può perdere, col risultato ammirevole che questo è forse
l’unico posto in New York adatto per fare all’amore.
Se gli urbanisti tenessero presenti le diverse fasi della
vita, non sarebbero così insensibili alla necessità della tarda adolescenza, che vuole luoghi di solitaria bellezza che
accentuino ed espandano, pur temperandoli, i loro impulsi amorosi e li arricchiscano con immagini visuali, che
diano nutrimento al loro felice stato d’animo.
Maturità: la fase di lavoro
Di pari passo con la crescente divisione della mano d’opera si verifica nei tempi moderni un altro processo: l’intensificazione e la segregazione del lavoro. Sia il contadino che l’artigiano, nei tempi passati, lavoravano per un
numero di ore assai maggiore dei lavoratori moderni, ma
il loro lavoro si svolgeva in un ambiente che aveva altri
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aspetti ed usi: esso si svolgeva nell’ambito familiare e spesso con la cooperazione di parte o di tutti i suoi membri.
Non esistevano muri, visuali o funzionali, fra il lavoro,
l’ambiente domestico e l’educazione. L’era della specializzazione, concentrandosi unicamente sulla efficienza meccanica, ha privato la vita del lavoro di alcune sue dimensioni estetiche e umane. Anche in questo campo, nelle
città moderne, si dovrà tentare di ricollegare questi diversi aspetti della vita che separati creano, quasi automaticamente, divisioni e disarmonie nella personalità.
Anche qui però non si potrà tornare alle forme primitive, ma bisognerà trovare nuove forme altrettanto lontane dal laboratorio artigiano, quanto dalle truci fabbriche
vittoriane.
Gli scrittori di «Communitas» suggeriscono che case e
fabbriche siano riunite attorno a piazze urbane. Secondo
la descrizione di Philip e Percival Goodman, pare che si
formi così volontariamente un modello arcaico di stretta
associazione, mentre invece si tratta di trovarne uno moderno equivalente.
Personalmente l’autore suggerisce di introdurre nelle
zone industriali, sia in quelle che si rinnovano, che in quelle di nuova creazione, le funzioni sociali e domestiche appropriate ai giorni lavorativi: per esempio campi di gioco
accessibili nelle ore dei pasti o in altri intervalli, diverse sale da pranzo, invece del refettorio; sale di ritrovo e di riunione per comitati, a disposizione non solo di una zona,
ma dell’intera unità, per svolgere le relazioni politiche dei
direttivi e dei lavoratori; edifici scolastici e musei.
Vi sono singoli impianti industriali, dove tali funzioni
sono state incorporate nella struttura industriale: è necessario ora organizzare interi quartieri industriali sugli stessi
principi, con concezioni funzionali e spaziali anche più
progredite.
Lo stesso principio vale per i quartieri degli affari.
Mentre in America il primo segno di «progresso» in una
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città è l’abbattere gli alberi nella strada principale, a Parigi
il grande contributo di Haussmann ai nuovi boulevard fu di
rendere in essi possibile la funzione degli affari, della ricreazione e dei trattenimenti sociali; in nessun altro luogo
forse, come nel cuore di Parigi, le funzioni dell’adulto sono state mantenute così strettamente raggruppate. La segregazione delle funzioni, praticata nel solo interesse dell’efficienza meccanica, non produce una vita sociale interessante né una personalità pienamente animata.
Maturità: la fase domestica
Quando una giovane coppia di sposi ha una casa con un
giardinetto situata fra migliaia di altre case simili, la società
pensa che si sia fatto il massimo per la vita di famiglia, e
in realtà è già molto. Quando si può avere una casa simile senza assorbire troppo dell’entrata annua, si fa un gran
passo verso la riabilitazione della vita familiare. A questo
proposito si potrebbero fare considerazioni sulla vita familiare delle classi medie nel periodo vittoriano, quando
tutti i comfort che si potevano avere nell’intimità familiare facevano sì che i membri della famiglia non avessero alcun desiderio di trascorrere fuori casa le ore non strettamente necessarie al lavoro. Ma nemmeno questa intimità
familiare sarebbe sufficiente, perché la famiglia tenderebbe a diventare isolazionista, assorbita in se stessa, ostile allo sviluppo ulteriore dei suoi membri. Qualcosa di più è
perciò necessario al successo della vita familiare: la socievolezza e gli interessi al di fuori della casa, prima da parte
dei coniugi, poi, nei limiti delle loro possibilità, anche da
parte dei più giovani membri della famiglia. Qui l’inventiva dell’urbanista deve esercitarsi a trovare il modo di raggiungere sul piano della vita sociale ed economica ciò che
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in privato contornava la vita familiare borghese di tre generazioni fa.
Il Peckham Health Center ha al suo attivo, tra l’altro, il
vantaggio di offrire alle famiglie della propria zona la possibilità di luoghi di ritrovo al di fuori dei confini domestici,
dove i vari gruppi di età, ora separati dalla diversità e intensità degli interessi individuali, possano di nuovo divenire uniti o almeno frequentare lavoro e divertimenti, senza
essere persi di vista dagli altri membri della famiglia.
Proprio il fatto di «non esser persi di vista» è uno degli
attributi che tendono a unire le comunità e che troppo sovente sono stati trascurati nella pianificazione moderna.
Forse la definizione più elementare di una comunità è questa: un raggruppamento di persone che vivono senza perdersi di vista. Anche in una zona sperduta, il fatto di poter vedere una luce nella capanna del vicino dà un senso
di sicurezza e di socievolezza. Non è affatto consigliabile
che i genitori siano i compagni costanti dei loro figli, ma
le relazioni risulteranno migliori se ciascuno avrà un’idea
di ciò che stanno facendo gli altri, invece di avere le rispettive attività così lontane da vivere in mondi diversi.
Per reazione contro le tremende condizioni di affollamento di disorganizzazione spaziale, i pianificatori moderni sono portati ad una uniformità di dispersione, che
può minare il senso sociale tanto quanto la congestione
brutale. A questo proposito si può dire di un centro di negozi compatto che a somiglianza delle piazze del mercato
medioevali ed in contrapposto alle interminabili strade disseminate di negozi, esso concentra e moltiplica le occasioni di incontri, di scambi e di saluti e cioè di quelle minime attività sociali che tendono a rinnovare i buoni rapporti di vicinanza e di amicizia.
Meglio rischiare un po’ di affollamento in una zona ristretta che il progettare il centro così spazioso da poter
agevolmente contenere il massimo carico concepibile, col
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risultato di renderlo socialmente gelido nelle occasioni normali e poco pratico per la conseguente perdita di tempo.
Le Settlement House, i Centri di Comunità ed i Centri
sanitari sono ragguardevoli tentativi di creare punti focali
per speciali attività esterne all’ambiente domestico.
In America vi è ora la tendenza a situare i luoghi di riunione per le attività extra-domestiche nelle stesse scuole
delle neighborhoods perché la maggior parte di queste attività degli adulti si svolge in quelle ore nelle quali la scuola non è in funzione, e così auditori, piscine, laboratori,
ecc. non rimangono inviolabili e ad esclusivo uso scolastico, purché essi siano rimessi nell’ordine primitivo quando
i ragazzi devono usarli.
Ma alla vita degli adulti occorre una forma anche più
semplice di luogo di ritrovo: un locale capace di contenere una cinquantina di persone sedute, dove possano aver
luogo le discussioni e le eventuali feste per le quali la casa
privata sia troppo ristretta. Una delle idee più felici nel
rapporto di Patrik Geddes su Dunfermline è quella di riservare una bella casa storica da poter lasciare temporaneamente in affitto a quelle famiglie che volessero farne
uso per ricevimenti e grandi riunioni. In una comunità di
cinquemila persone occorrerebbero almeno cinque sale
con cucina e servizi.
Maturità: la base dei rapporti sociali
Questa fase dovrebbe propriamente essere denominata
quella civica, intendendo con questo termine l’attitudine a
vivere insieme in una città.
Una città che svolga pienamente la sua funzione rappresenta la vita del mondo intero e com’esso contiene una
varietà di prodotti, persone, organizzazioni, associazioni e
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credenze che non si trovano ordinariamente in altre comunità di carattere specializzato. Mentre nel villaggio si
accentuano le somiglianze e le affinità (e la stessa cosa avviene nelle neighborhoods della città), la città deve accentuare e riconciliare le varietà, le differenze e anche gli
antagonismi. Una buona pianificazione moltiplicherà le
occasioni dirette ad amalgamare e fondere le diverse tendenze.
Oggigiorno due forze frenano l’attrazione reciproca dei
cittadini come tali: una è costituita dai mezzi di trasporto
veloci, dalla radio e dalle altre invenzioni meccaniche, che
tendono a disperdere i membri della comunità su zone
sempre più vaste. L’altra è la tendenza alla segregazione
specialmente sentita nei grandi aggregati urbani ed accentuata dalla progressiva zonizzazione, funzione che, almeno negli Stati Uniti, sovente separa le classi e i gruppi
secondo le rispettive entrate e le diverse razze in quartieri
notoriamente identificabili, in modo che non vi siano rapporti fra «strati superiori» e «inferiori». In tal modo ogni
gruppo, o classe o caste, vive in un mondo tale da negare nella sistemazione architettonica sociale la cooperazione multipla di tutte le comunità umane. Negli Stati Uniti
la espansione suburbana tende verso una tale vastità di
proporzioni che, malgrado il brulicare di veicoli, il vivere
in comune è reso sempre più difficile, col risultato di un
isolazionismo sociale che aumenta in proporzione dell’area e della popolazione.
Pianificazione per le diverse fasi della vita
Dal punto di vista dei rapporti tra cittadini il compito della pianificazione deve essere quello di incrementare al
massimo gli strumenti di cooperazione positiva e negati221
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va. Un buon piano moltiplicherà le occasioni di carattere
accidentale ed imprevisto, quali si verificano in un mercato o in luoghi di ristoro pubblici. Il magazzino di Welwyn
City ad esempio è ormai su di una scala sproporzionata
con la comunità, ma con la sua grande sala da pranzo fornisce un indispensabile punto focale per la vita della comunità. Secondo questi concetti il pianificatore moltiplicherà gli spazi interni della città, dove il pubblico possa incontrarsi per diversi scopi.
Un piano che non abbia il fine di spingere sempre più
oltre una quotidiana fusione di persone, di classi, di attività, lavora contro i migliori interessi della età matura.
Maturità: la fase individuale
Con questa analisi si dimostra la necessità di sviluppare in
forma pubblica certe attività che sono già state attuate privatamente da persone oculate e possidenti: si vuole cioè
distribuire tali attività in tutta la comunità. Già Emerson
aveva posto il problema della trasformazione pubblica di
certe prerogative personali, quando dichiarava di avere bisogno dei libri, ma di non voler diventare un libraio e di
amare i quadri senza voler diventare un conservatore di
museo. La regola vale tanto per le funzioni che devono essere socializzate quanto per quelle che devono essere desocializzate: per esempio la solitudine. Uno dei segni della maturità è il bisogno di solitudine e la città non deve solo riunire gli uomini, ma deve anche permettere a ognuno di avere a portata di mano facilmente accessibili i luoghi necessari all’isolamento e alla pace. La funzione del ritiro spirituale non è più quella che richiedeva il chiostro
medioevale, ma deve essere considerata una necessità
quotidiana. Il fascino del quartiere di Westminster sta nel
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suo labirinto di stradine dove il passeggiatore solitario può
perdersi a breve distanza dal centro più affollato. Nelle
nuove comunità, su scala minore e con minor densità, si
dovrà avere l’arte di raggiungere gli stessi risultati. Nei parchi che collegano le neighborhoods, per esempio, si potranno lasciare viali più vasti all’esterno, mentre la zona
interna sarà solcata da sentieri, cosicché non sia necessario dover varcare i confini della comunità per trovare dei
luoghi solitari dove passare qualche minuto o qualche ora.
Troppa parte del nostro pensiero in architettura e in urbanistica è stata finora rivolta alle attività esteriori, il che è
ottimo per i rapporti sociali e pubblici, ma distruttivo per
i momenti di raccoglimento, di intimità spirituale e di solitudine che devono essere secondati dall’ambiente e per i
quali devono essere predisposti spazi ed occasioni nel progetto di un piano collettivo di città.
Fase finale: la senilità
Forse nessuna fase della vita è stata tanto negletta dalla
nostra civiltà e anche dall’urbanistica, quanto la vecchiaia.
Nel corso di mezzo secolo, nel mondo occidentale, la
famiglia a tre generazioni è stata ridotta a due. Segno di
questa evoluzione è l’aumento del numero di ménages separati, anche quando la proporzione delle nascite sia decisamente in regresso. Ma, mentre il numero dei vecchi
aumenta in ogni paese progredito grazie ai miglioramenti dell’igiene e delle cure mediche, non si vede alcuno sforzo notevole per la loro sistemazione. Le pensioni non sono un compenso sufficiente per la loro destituzione sociale sempre crescente. Nelle piccole case private la loro presenza è indesiderabile anche nei casi migliori, cosicché il
prolungarsi della loro esistenza diventa una amara ironia,
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perché progressivamente si trova ad essere ridotta e priva di significato.
Nella ricostruzione armonica della vita familiare che è
uno degli scopi della pianificazione urbanistica, uno degli
scopi principali sarà quello di ridare agli anziani una posizione dignitosa e fruttuosa.
Se non sarà possibile ripristinare la famiglia di tre generazioni si dovrà però provvedere a formare una comunità di tre generazioni: la mescolanza dei gruppi di età
è essenziale ad una vita equilibrata quanto la mescolanza
delle classi sociali ed economiche.
Vi sono molte importanti funzioni sociali che gli anziani possono compiere fintanto che le loro attività mentali
non siano minorate; le donne possono partecipare al governo della casa, i vecchi, benché sovente troppo lenti nel
loro ritmo per guadagnarsi il salario di una intera giornata di lavoro, possono pur sempre essere degli ottimi giardinieri, fare riparazioni, custodia e sorveglianza.
La comunità non dovrebbe considerarsi ben progettata se non provvede a una particolare sistemazione dei vecchi, proprio per la grande utilità che da essi può derivare.
Una piccola unità di abitazioni ad un solo piano, non segregata dal resto delle abitazioni e che possa comprendere una decina di coppie o una ventina di individui, sarà un
ottimo provvedimento per gli anziani finché non abbisognano delle cure e sorveglianza continue di una casa di ricovero.
Tali unità dovrebbero essere situate in prossimità di
scuole o mercati o campi di gioco, perché i vecchi hanno
bisogno della sensazione rassicurante della vita in azione
per superare la loro solitudine e il crescente senso di alienazione e umiliazione che l’età porta con sé.
Le abitazioni per gli anziani dovrebbero sempre essere
a pianterreno, non dovrebbero guardare su cortili interni,
bensì avere la visuale di ciò che avviene all’esterno per dar
loro interesse alla vita. I vari gruppi di anziani dovrebbero
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esser sistemati abbastanza vicino alle loro famiglie per
mantenere contatti e poter dare il loro aiuto nella sorveglianza e assistenza, partecipando, senza avere la sensazione di essere un inutile fardello, alla vita dei loro figli o
dei loro vicini.
Il solo progetto ammissibile nella sistemazione dei vecchi sarà quello che eviterà loro la segregazione e l’istituzionalizzazione: anche qui il principio di essere «a portata
di mano» o «sott’occhio» sarà il più importante per ristabilire le basi di quelle piccole intimità, avventure, stimoli che
anche i più splendidi quartieri di abitazione, se troppo segregati o di proporzioni troppo grandiose, non possono
procurare.
Una organica concezione di pianificazione urbana, che
abbracci tutte le fasi della vita tanto quanto tutte le funzioni
della comunità, deve suggerire soluzioni finora ignorate da
un punto di vista più tecnicista e più specializzato.
Nel ripristinare l’equilibrio all’interno della comunità
cittadina, si deve pensare a ristabilire l’equilibrio nel tempo per mezzo di relazioni reciproche fra le diverse fasi della vita; perché ogni gradino della nostra esistenza ha le sue
esigenze particolari che possono essere soddisfatte solo
quando le necessità coordinate di altri gruppi di età siano
prese in considerazione.
Ciò che forse è più necessario nel formulare un canone per un progetto su queste basi è il ritorno alla scala
umana: alle unità di dimensione più maneggevole, ad un
ordine visibile ad occhio nudo, ad una concezione della comunità, che non sia un labirinto di grandi organizzazioni
collettive, ma una combinazione costantemente variabile
di una moltitudine di attività associative, variabili in intensità e durata, ed in continuo sviluppo attraverso il ciclo della vita, dalla nascita alla morte.
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10, Public places and space, Plenum Press, New York, pp.
83-127.
N. Nagy, J.C. Baird (1978), Children as environmental planners, in I. Altmann, J.F. Wholwill (a cura di), Human behavior and environment, 3, Children and environment,
Plenum Press, New York, pp. 259-295.
S. Nicholson (1973), Community participation in city decision making, The Open University Press, New York.
S. Nicholson (1975), Children as planners, BEE, London.
PUBBLICAZIONI DELLE ASSOCIAZIONI ITALIANE
V. Consoli, F. Tonucci (1993), Ridateci la nostra città, Quaderno di educazione ambientale n. 40, WWF Italia, Milano.
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A. Di Giulio, A.M. Quadrelli, A. Bossi, F. Comana (1994), Tutta la mia città, Quaderno di educazione ambientale n. 27,
WWF Italia, Milano.
A. Di Giulio, A.M.M. Quadrelli (1995a), Circondario, Quaderno di educazione ambientale ragazzi n. 30, WWF Italia, Milano.
A. Di Giulio, A.M.M. Quadrelli (1995b), Circondario, Quaderno di educazione ambientale insegnanti n. 31, WWF Italia,
Milano.
M. Fratoddi, R. Trabona (1996), 100 Strade per giocare,
Cuen, Napoli.
R. Lorenzo (1988), Scopriamo l’ambiente urbano, Quaderno
di educazione ambientale n. 1, WWF Italia, Milano.
R. Lorenzo (1993), Come riconquistare le nostre città, WWF
Italia, Milano.
R. Lorenzo, L. Lepore (1990), Immaginiamo il futuro, Quaderno di educazione ambientale n. 11, WWF Italia, Milano.
C. Pagliarini (1996), Manuale dei consigli comunali dei ragazzi, Democrazia in Erba, Roma.
ALTRE OPERE CITATE
M. Lodi (1972), La mongolfiera, Einaudi, Milano.
A. Oliverio Ferraris (1995), Tv per un figlio, Laterza, RomaBari.
D. Pennac (1992), Come un romanzo, Feltrinelli, Milano.
G. Rodari (1979), Parole per giocare, Manzuoli, Firenze.
Scuola di Barbiana (1967), Lettera ad una professoressa, LEF,
Firenze.
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Indice
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Presentazione
XI
Prefazione di Norberto Bobbio
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Premessa
Parte prima Il progetto
5
Analisi di un malessere
Antefatto: una volta avevamo paura del bosco, p. 5
La città, p. 6
Un esempio: la famiglia, la casa, p. 8 - Un altro esempio:
il centro commerciale, p. 9
L’equivoco dei servizi, p. 10
Un accordo fra adulti, p. 12
15
E allora che fare?
La soluzione privata della difesa, p. 15
La soluzione sociale della partecipazione, p. 18
Il cittadino medio, p. 18 - Il bambino come parametro,
p. 19
21
Perché proprio il bambino?
L’infanzia nella storia dell’uomo: il primato del gioco,
p. 21
Le città si sono dimenticate dei bambini, p. 24
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Il bambino è solo, p. 25
Il bambino minore, p. 29
Il bambino è più forte, p. 31
«Se non diventerete come i bambini...», p. 33
Ma qualcosa sta cambiando, p. 33
Parte seconda Le proposte
39
Un laboratorio «la città dei bambini»
La parola ai bambini, p. 41
Il Consiglio dei bambini, p. 42 - I bambini progettisti, p. 43
Il bambino nella testa degli adulti, p. 46
49
Che i bambini possano uscire da soli di casa
Perché è così importante uscire di casa?, p. 50
Vivere esperienze proprie, p. 52 - Gli incidenti domestici,
p. 56 - L’insolubile conflitto con la televisione, p. 58 - Bambine e bambini, p. 590
Il bambino come indicatore ambientale, p. 60
Rinegoziare il rapporto di potere fra l’auto e il cittadino,
p. 61
Aiutare gli adulti a capire che i bambini hanno bisogno
di uscire, p. 65
Trovare nuovi alleati dei bambini, p. 67
I vigili urbani, p. 68 - Gli anziani, p. 70 - I negozianti,
p. 72
75
Una città adatta ai bambini
La città bella, p. 75
Il Piano Regolatore Generale, p. 80
Una città a dimensione di bambini, p. 81 - Un piano
urbano della mobilità, p. 83 - Ripopolare il centro storico,
p. 87 - Rinunciare agli spazi gioco per bambini, p. 88
La strada, un luogo di tutti, p. 89
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I bambini che aspettano, p. 92
Le strutture alberghiere e di ristorazione, p. 93
L’ospedale pediatrico, p. 94
Una scuola adatta ai bambini, p. 98
Una esperienza di democrazia, p. 99 - Una esperienza di educazione ambientale: progettare la propria città, p. 101 - Una
esperienza di educazione stradale: percorrere la città, p. 102
I condomini: il diritto al gioco, p. 104
Il voto ai bambini, p. 106
109 Ripensare la città
Parte terza Le esperienze
117 Le schede
1. Fano «La città dei bambini», p. 118
2. Il Consiglio dei bambini, p. 121
3. Il Consiglio comunale aperto ai bambini, p. 123
4. I bambini progettisti, p. 127
5. Le piccole guide, p. 133
6. I seminari di Giunta, p. 134
7. «Il vigile amico dei bambini», p. 135
8. La multa dei bambini, p. 136
9. «A scuola ci andiamo da soli», p. 138
10. Una patente da pedone, da ciclista e da motorini
sta, p. 148
11. «Io e la mia città», p. 153
12. «Io e la mia città»: il manifesto, p. 158
13. Una giornata senza auto, p. 160
14. Un marchio di qualità bambini per alberghi e risto
ranti, p. 162
15. Una spiaggia per i bambini, p. 168
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16. Il Club CdB, p. 170
17. Casa Archilei, p. 171
18. Un pomeriggio libero per i bambini, p. 173
19. Un giardino di pietra, p. 174
20. Altre esperienze: la progettazione partecipata ai
bambini, p. 176
21. Altre esperienze: i diritti dei pedoni, p. 181
22. Altre esperienze: la democrazia in erba, p. 185
23. Altre esperienze: le città educative, p. 190
24. Una rete nazionale e oltre, p. 195
25. Per cominciare, p. 197
Appendice
1. La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo,
p. 203
2. Invito alla collaborazione: lettera aperta ai cittadini
fanesi, p. 208
3. Lewis Mumford, «La pianificazione per le diverse fasi
della vita», p. 210
227 Indicazioni bibliografiche
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