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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 6 maggio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
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CULTURA E SPETTACOLO
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CORRIERE DELLA SERA
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IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 05/05/15
Centri “occupati” dai vecchi migranti. Ecco i
motivi del caos accoglienza
Due terzi dei presenti nelle strutture attuali sono ospitati da oltre un
anno a causa dei ritardi nell’esame delle domande di asilo. La denuncia
di Caritas e Arci: “I numeri sarebbero gestibili ma non c’è volontà
politica di farlo”
ROMA – Dopo gli ultimi sbarchi di questi giorni, che hanno portato a oltre 30 mila il
numero delle persone arrivate via mare nel nostro paese dall’inizio dell’anno, si torna a
parlare di “emergenza accoglienza”, con i centri pieni e le prefetture in affanno per trovare
i posti aggiuntivi richiesti da una circolare di ieri del ministero dell'Interno Alfano che ne
"assegna" 80 per ogni provincia. Un problema da imputare non tanto al flusso straordinario
di migranti (gli arrivi sono in linea con quelli registrati lo scorso anno) quanto piuttosto alla
mancanza di una gestione strutturale e ai ritardi burocratici, che portano ad allungare i
tempi di permanenza dei migranti nei centri. A sottolinearlo sono le associazioni che da
sempre si occupano di immigrazione. In particolare, spiega Oliviero Forti della Caritas,
molti centri sono pieni, perché all’interno ci sono persone arrivate già nel 2014: su circa 85
mila migranti presenti oggi nelle strutture, due terzi circa sono quelli arrivati lo scorso
anno.
Oltre un anno nei centri in attesa dell’esito delle commissioni
La maggior parte delle persone, oggi nei centri, è in attesa dell’esito della domanda di
asilo o protezione internazionale. “Il primo modo per decomprimere il sistema, è andare a
velocizzare i tempi delle commissioni territoriali – afferma Forti - Se decidono velocemente
le persone possono uscire e quindi lasciare spazio alle persone che stanno arrivando ora”.
Sulla stessa scia anche Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci: “Il paradosso è che a
causa dei ritardi della burocrazia e delle commissioni abbiamo un tasso di occupazione dei
posti letto nei centri di accoglienza assolutamente sproporzionato. Per una persona che
arriva nel nostro paese e vuole chiedere asilo il primo step è costituito dalla compilazione
della domanda di protezione, il famoso modulo C3. Solo per fare questo si possono
aspettare anche sei sette mesi,perché gli uffici spesso non sono attrezzati – sottolinea Dopodiché, scatta il periodo di attesa: una volta compilato il modulo per l’appuntamento
con la commissione passa più o meno un anno. In tutto questo tempo ovviamente il
richiedente occupa un posto”. Oltre ai ritardi, c’è anche il nodo dei dinieghi in aumento,
che crea un ulteriore allungamento dei tempi di permanenza nelle strutture. “Le
commissioni lavorano male soprattutto dal punto di vista della qualità dei giudizi e
generano molti contenziosi – aggiunge Miraglia -. Il personale non ha una formazione
adeguata e spesso si valuta in maniera discrezionale. Succede così che i ricorsi vengano
spesso vinti dal richiedente, ma nel frattempo si allunga il periodo in cui si occupa un
posto, perché ovviamente durante il ricorso si ha comunque diritto all’accoglienza. Quindi
persone che potrebbero uscire dall’accoglienza vi rimangono, generando poi la situazione
che si sta verificando adesso”.
La programmazione che non c’è
Oltre al problema dei tempi di attesa, permane la mancanza di un piano strutturale per la
gestione dell’accoglienza. “Il problema della primissima accoglienza è difficile da superare
anche perché non è facile gestire un numero elevato di arrivi in tempi brevi, come è
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successo negli ultimi giorni. Ma bisogna arrivare a una gestione ordinata dell’accoglienza
– aggiunge Forti -. Quello che chiediamo è che il sistema Sprar venga rafforzato, con
maggiori risorse e posti a disposizione. E che in tempi brevi esca il bando per i minori non
accompagnati”.
Secondo il responsabile della Caritas c’è bisogno anche di una maggiore corresponsabilità
da parte delle regioni, per evitare che solo alcune si facciano carico dell’assistenza ai
profughi. Miraglia, dell’Arci, sottolinea che “c’è bisogno anche di allargare il numero dei
comuni aderenti ai progetti Sprar, oggi solo 500 su 8000. E’ assurdo che ci siano migliaia
di comuni che non accolgono e poi centinaia di progetti di accoglienza straordinaria, i
cosiddetti Cas, spesso gestiti da enti non competenti. Questo è un problema che va
affrontato al più presto, perché il ricorso alla gestione emergenziale ha consentito a
soggetti che facevano altro di mestiere di entrare nel campo dell’accoglienza e di
dichiarare una competenza su questo. Addirittura ci sono ditte che prima si occupavano
delle pulizie che oggi sono diventati enti gestori. Si parla molto del business
dell’accoglienza, ma non si dice mai che il malaffare trova gioco facile proprio dentro la
gestione emergenziale. Andrebbe, invece, rafforzata la gestione ordinaria, e soprattutto lo
Sprar portando la sua capienza da 22mila posti a 60mila”.
Numeri gestibili
Secondo il responsabile immigrazione dell’Arci “il governo sta rispondendo all’emergenza
perché non può fare altrimenti , ma la verità è che non si vuole registrare il fatto che
questo paese ha bisogno di un sistema strutturato di accoglienza con molti più posti e
risorse. Il paradosso è che in questo modo si sperperano molte più risorse pubbliche –
conclude Miraglia -. I numeri sarebbe gestibilissimi con un piano strutturato, invece
andiamo in emergenza, una situazione che non fa altro che generare rifiuto nelle comunità
locali”. (ec)
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ESTERI
Del 6/5/2015, pag. 7
Falliti i colloqui, León riferisce alla Farnesina
Libia. Il mediatore Onu a Roma vista l’impossibilità di creare un governo
di unità nazionale
Giuseppe Acconcia
I colloqui tra le fazioni libiche in Marocco, Algeria e a Bruxelles sono falliti. Che le cose non
andassero per il verso giusto lo ha confermato il parlamento di Tripoli rigettando senza
mezzi termini la bozza negoziale che circolava la scorsa settimana. Le milizie di Misurata
non avrebbero accettato mai un parlamento con sede a Tobruk, con una durata di ancora
due anni, e la censura dei sostenitori dei Fratelli musulmani. Era questo che figurava
nell’intesa rimandata al mittente da Tripoli.
E così per correre ai ripari il mediatore delle Nazioni unite, lo spagnolo Bernardino León ha
passato due giorni alla Farnesina per incontrare il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni
prima, i diplomatici europei e del Medio oriente poi con lo scopo di riprendere in mano la
matassa libica. Ormai le speranze di un accordo tra militari filo-Haftar e islamisti di Tripoli
sono ridotte al lumicino. Neppure regge la possibilità che si arrivi ad un governo di unità
nazionale, come prefigurato nelle prime riunioni. Le defezioni di Tobruk, la cui aviazione
ha spesso bombardato la capitale libica mentre i diplomatici discutevano del futuro del
paese, non hanno certo aiutato il raggiungimento di un’intesa.
Gentiloni ha ancora una volta confermato il sostegno italiano al mandato di León, che dura
ancora sei mesi dopo la proroga stabilita dal Consiglio di sicurezza Onu. Ma questa volta
è chiaro che bisognerà puntare su altri schemi negoziali per arrivare all’intesa che metta
fine alla crisi libica. Una possibilità, ventilata nei colloqui di ieri, potrebbe essere di ricorrere a elezioni anticipate ma se dovessero svolgersi nella stessa cornice del voto dello
scorso maggio, imbevuto di censure, instabilità e totale disaffezione popolare, non contribuirebbero a risolvere il caos libico. Un’altra via d’uscita potrebbe essere un nuovo round
negoziale allargato che potrebbe tenersi in Europa, anche in Italia, ma la possibilità di
discutere nel vecchio paese colonizzatore non mette certo d’accordo i diplomatici libici che
da settimane si contendono l’ambasciata a Roma a colpi di minacce.
Prima di arrivare in Italia, León aveva avvertito che le sfide per il raggiungimento di
un’intesa restavano invariate. «Non posso essere ottimista» che si arrivi ad un accordo
prima del Ramadan, il mese di digiuno che scatta a giugno, aveva avvertito. La strategia
appiattita sul sostegno a Tobruk e Haftar inizia però ad avere chiare defezioni: i laburisti
non passa giorno che non critichino l’operato del governo inglese in Libia. A loro si uniscono le voci della stampa statunitense che ha definito il sostegno ad Haftar, come
«approssimativo e impreciso».
Nonostante questo, un nuovo intervento armato farebbe ulteriormente a pezzi il paese. Lo
ha ripetuto ieri l’ex premier Romano Prodi, per settimane considerato come possibile
mediatore dell’Onu per la Libia e poi liquidato, secondo Renzi per la sua vicinanza all’ex
presidente Muammar Gheddafi. L’azione bellica in Libia per Prodi sarebbe «inappropriata
e dannosa». La chance peggiore – infine — per riportare il paese alla stabilità sarebbe un
mandato internazionale al presidente egiziano al-Sisi, come richiesto dal Cairo sin dallo
scorso febbraio. L’ex generale continua a mostrarsi come un mediatore credibile. Ieri il
ministro degli Esteri egiziano ha annunciato un forum per il dialogo nazionale tra le tribù
libiche per questo mese al Cairo. Al-Sisi, nel suo morboso tentativo di portare la Libia nella
sfera di influenza egiziana, sembra avere però una sponda formidabile nell’Unione euro4
pea. Ieri il commissario Ue per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, in visita al Cairo, ha
lodato la strategia politica del golpista sanguinario.
Del 6/5/2015, pag. 7
Sisi e Haftar puntano sul business migranti
per un attacco in Libia
Egitto. Migliaia di profughi siriani costretti a lasciare l'Egitto dopo il
golpe militare del 2013
Giuseppe Acconcia
Si è parlato molto degli effetti delle rivolte in Medio oriente del 2011 sui flussi migratori,
pochissimo delle gravi conseguenze del colpo di stato militare in Egitto del 2013 e del tentato golpe di Khalifa Haftar in Libia sulla sorte dei profughi. Negli ultimi anni i flussi migratori di uomini e donne che scappano dalla dittatura in Eritrea e dalla guerra civile in Siria
sono cresciuti soprattutto a causa delle politiche discriminatorie promosse dal presidente
egiziano Abdel Fattah al-Sisi. L’ex generale non ha infatti concesso lo status di rifugiato
a decine di migliaia di siriani, che erano stati invece accolti in Egitto dall’ex presidente
Mohamed Morsi. Il caos che regna in Libia e l’assenza di controlli al valico di Sallum con
l’Egitto hanno consegnato migliaia di profughi nelle mani di contrabbandieri che hanno
fatto delle migrazioni un business, gestito dalle mafie locali. E il gioco per Sisi e Haftar
è fatto: chiedere un intervento umanitario per spazzare via gli islamisti di Tripoli.
Un terzo dei 220 mila migranti che lo scorso anno sono sbarcati nel Canale di Sicilia erano
siriani che scappavano dalla guerra civile. Secondo la Commissione europea, il numero di
siriani (seguono a ruota eritrei, somali e afghani) che ha fatto richiesta di asilo rispetto al
2013 è raddoppiato, toccando le 123 mila unità lo scorso anno, il 20% del totale.
Non solo la Sicilia sta sperimentando un aumento senza precedenti dei flussi di migranti
nelle ultime settimane, anche Rodi, come testimoniano le immagini di salvataggio e morte
che vengono dalle coste greche. Migliaia di migranti siriani infatti per arrivare in Europa
partono direttamente dalle coste egiziane. Secondo l’Organizzazione internazionale per le
migrazioni (Oim), un barcone di siriani e sudanesi diretto a Malta dal porto di Damietta nel
settembre dello scorso anno sarebbe affondato, causando 500 morti, sebbene la notizia
non è stata diffusa. Molti altri attraversano il poroso confine libico e salgono sui barconi dei
contrabbandieri per raggiungere Malta e l’Italia. Le responsabilità di al-Sisi, considerato dal
premier Renzi un modello di stabilità per Egitto e Libia, sono gravissime anche
nell’aumento dei flussi migratori. L’ex presidente Morsi forniva ai siriani passaporti e apriva
le scuole pubbliche ai loro figli. Il quartiere 6 Ottobre era diventato una vera piccola Damasco, come raccontavamo sul «manifesto» nel luglio del 2013. Morsi aveva più volte
espresso il suo sostegno per i Fratelli musulmani siriani nella loro battaglia contro al-Asad
e per questo accoglieva i profughi. E così, pochi giorni dopo l’arresto di Morsi, il 3 luglio di
due anni fa, i rifugiati siriani sono stati associati, spesso a torto, alla Fratellanza nell’ondata
di xenofobia che ha attraversato il paese. Nei mesi successivi migliaia di siriani sono stati
deportati, arrestati, licenziati, i loro figli espulsi dalle scuole pubbliche. La stessa sorte
è toccata a migliaia di palestinesi, che dopo anni di tormenti, avevano ottenuto il passaporto egiziano per mano di Morsi, ma hanno visto i loro documenti strappati con l’arrivo di
al-Sisi. Anche l’odio per i palestinesi, considerati genericamente sostenitori del movimento
che governa Gaza, Hamas, si è ampiamente diffuso con l’avvento dell’ex generale tant’è
che la scorsa estate, durante gli attacchi israeliani (Margine protettivo) su Gaza, il valico di
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Rafah è stato permanentemente chiuso anche per i feriti. Ad esacerbare il business delle
migrazioni per ingrassare le tasche dei contrabbandieri e delle mafie locali, è stato poi il
tentato golpe in Libia di Khalifa Haftar, il sostegno a lui assicurato da al-Sisi e le sue mire
sulla Cirenaica. Non solo l’ex agente Cia ha rafforzato la presenza jihadista in Libia favorendo l’ascesa dei sedicenti componenti dello Stato islamico a Sirte, ma ha anche puntato
sull’aumento dei flussi migratori in accordo con la tribù al-Tabu, attiva nel trasporto e nello
spostamento di migranti da est a ovest. E così il consolidamento del golpe di al-Sisi non
è passato solo per repressione, morti, censura e confisca delle terre dei contadini, ma
anche per lo sfruttamento dei flussi migratori per innescare un attacco internazionale in
Libia o meglio ancora giustificare l’intervento egiziano nel paese vicino.
del 06/05/15, pag. 16
“Troppe violazioni la Fifa cacci Israele”
La Palestina alla sfida del calcio
“L’esercito limita pesantemente i nostri giocatori”. La risposta: “Così
politicizzate lo sport”. La mozione al vertice del 29
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO INVIATO
RAMALLAH .
C’è animazione nei modesti e sgangherati uffici della Federcalcio, perché la Palestina si
prepara alla sua prima “guerra del football”. Dopo anni di rinvii, mediazioni e promesse
non mantenute la Palestinian Football Association è riuscita a far mettere all’ordine del
giorno del vertice Fifa del 29 maggio a Zurigo la proposta di sospendere Israele dal calcio
mondiale per “violazione dell’etica sportiva”. La Federcalcio israeliana, dicono i palestinesi,
deve essere punita per le restrizioni imposte dalle forze di sicurezza che limitano il
movimento dei giocatori, bloccano le attrezzature. Una mossa che la Federcalcio
palestinese meditava da tempo e che finora le promesse dell’onnipotente Sepp Blatter
avevano allontanato dall’Olimpo del calcio mondiale. Israele ieri ha replicato: «I palestinesi
vogliono politicizzare il calcio».
Non sarà facile per la Palestina. Per ottenere la sospensione di una Federazione sono
necessari i tre quarti dei voti dei 209 Paesi aderenti. Una patata bollente che Blatter, che
corre per il quarto mandato da presidente, cercherà di tenere lontano dalla sede della Fifa
a Zurigo. I palestinesi sono convinti di poter raggiungere la quota necessaria, grazie ai voti
di Asia, Sudamerica e Africa. Per Blatter non sarà facile sventare stavolta la minaccia e
annuncia che farà «di tutto per convincere i palestinesi a ritirare la mozione». E’ contrario
anche il potente presidente della Uefa Michel Platini. Entrambi convinti che la politica
debba stare lontano dallo sport.
Giocare al calcio in Palestina, una terra sotto occupazione militare, non è facile, bisogna
davvero crederci. Ci vuole motivazione, impegno, passione e molta pazienza. Le trasferte
o gli allenamenti possono diventare un calvario fra check-point, controlli, fermi di
sicurezza. La Premier League palestinese, un torneo a 12 squadre, non riesce ad avere
un calendario regolare. Spesso i giocatori non ottengono il permesso delle autorità
israeliane per spostarsi da una città all’altra della Cisgiordania; altre volte non è stato
permesso di espatriare ai calciatori della nazionale, con la partita persa a tavolino.
Giocatori sono finiti in carcere per aver cercato di aggirare i controlli come Mahmoud al
Sarsak mediano della nazionale, detenuto senza processo per oltre due anni e uscito
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dopo uno sciopero della fame di quasi 90 giorni. Oppure come Jawhar Nasser Jawar e
Adam Abd al-Rauf Halabiya, falciati a febbraio dell’anno scorso a un check point perché le
loro borse — quelle con la tuta e gli scarpini — erano sembrate sospette ai militari
israeliani. Oppure ci sono casi come quello di Khaled Mahdi, mezzapunta di Gaza, che
non torna a casa da 4 anni: ha paura che una volta entrato nella Striscia gli israeliani non
lo facciano più uscire.
In Palestina il calcio è molto più di uno sport, è il modo per dimostrare di esistere, ripete
sempre con convinzione il presidente Abu Mazen. E’ lo strumento di un riscatto cercato
per anni con le armi in pugno. La mente di tutto questo è un uomo dai modi bruschi, con
un passato da guerrigliero. Jibril Rajub ha passato 17 anni nelle carceri israeliane prima di
diventare capo della Sicurezza preventiva ai tempi di Arafat. Adesso il suo nome circola
fra coloro che potrebbero correre per la presidenza dell’Anp dopo Abu Mazen. Ma il voto
non è per ora alle viste, adesso Rajub vuole vincere la “guerra del football”.
Del 6/5/2015, pag. 9
Regno Unito: domani al voto, con il «fattore
Scozia
Si vota domani 7 maggio. I sondaggi continuano a dare i Tories al 34, il
Labour al 33, lo Ukip al 14
Leonardo Clausi
Mentre l’immaginario da romanzo rosa dei media si sdilinquisce nell’accogliere la nuova
nata in casa Windsor, affacciatasi alla vita proprio mentre il regno di cui la sua famiglia
è titolare rischia di sfasciarsi, la nuova mappatura di Westminster sarà decisa fra poche
ore, con i leader delle forze politiche che concorreranno nelle più incerte elezioni politiche
dal secondo dopoguerra a scorrazzare su e giù per il Paese (o sarebbe più corretto dire
i Paesi) dell’Unione. I sondaggi continuano a dare i Tories al 34, il Labour al 33, lo Ukip al
14, i liberal-democratici all’8, i Verdi al 6 e gli altri, tra cui i nazionalisti gallesi del Plaid
Cymru e gli unionisti nord-irlandesi del Dup al 5. Gli schieramenti sono ormai definiti. Quotidiani liberal come il Guardian e l’Independent hanno indicato le proprie preferenze, il
primo nuovamente per il Labour, dopo aver sostenuto i Lib-dem alla tornata precedente, il
secondo per una rinnovata coalizione Tory– Lib-dem che porti avanti lo straziante programma di tagli di quella uscente. Murdoch ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte: il
Sun appoggia naturalmente i Tories, mentre lo Scottish Sun i nazionalisti di Nicola Sturgeon. Un endorsement, quest’ultimo, utilitarista anziché ideologico giacché al magnate
australiano fa buon gioco un drastico ridimensionamento della Bbc. Per tutto il periodo
antecedente all’apertura delle urne, fissato il prossimo 7 maggio, i sondaggi hanno indicato — e ancora indicano — l’impossibilità che conservatori o laburisti possano vincere
tutti i 326 (su 650) seggi che servono per governare senza appoggi esterni. Ciò significa
che un altro governo di coalizione è probabile. Meno probabili, ma non del tutto da escludersi, l’ipotesi di un effimero governo di minoranza e le elezioni anticipate, evitate già nel
2010 grazie al matrimonio riparatore della coalizione uscente. Di fronte all’impossibilità dei
due maggiori partiti di recuperare il terreno necessario a governare da soli, il dato è sempre più quello dell’obsolescenza del sistema elettorale uninominale secco, confermato in
un referendum del 2011 e concepito per assicurare «solide maggioranze», rispetto al
clima di un paese che sebbene paia costantemente sul punto di allontanarsi dall’Europa
finisce per somigliarle sempre più quanto a frammentazione politica. Lo scenario è dunque
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quello del voto tattico: non per qualcuno ma contro qualcuno. Ad esempio, per arginare la
quasi certa alluvione nazionalista che stando ai sondaggi spazzerà via quasi del tutto la
storica roccaforte laburista in Scozia, Ed Miliband ha ammonito che chi voterà l’Snp di
Sturgeon si ritroverà di nuovo i Tories sul groppone, mentre David Cameron ha più volte
ribadito che chi voterà Ukip dello xenoscettico Farage rischia di vedere «l’incompetente»
Miliband insediarsi a Downing Street. Al di là di simili esercizi propagandistici, è evidente
che le ambedue le possibilità che il Snp appoggi una coalizione Labour e l’Ukip una coalizione Tories sono concrete. I Lib-dem di Nick Clegg, dal canto loro, cercano di evitare la
temuta nemesi elettorale offrendosi di governare con entrambi i due partiti di maggioranza,
dando un contributo «di cuore» (leggi: dal volto umano) a una rinnovata coalizione coi
Tories e «di testa» (leggi: economicamente competente) in un’inedita coalizione con il
Labour. Tuttavia, il risultato indiretto di queste elezioni è quello di una possibile, duplice
uscita: quella della Scozia dalla Gran Bretagna e quella di quest’ultima dall’Unione Europea. La fine dello splendido isolamento istituzionale del paese — dotato di un sistema uninominale per il quale se per esempio i Verdi ottenessero il 10% dei voti otterrebbero
comunque solo un seggio — e che lo differenzia radicalmente dal resto d’Europa, dove
i governi di coalizione e il proporzionale sono la norma, rischia probabilmente di coincidere
con l’inizio di un nuovo — opaco — isolamento del Paese dall’Europa stessa. «Brexit»,
ennesimo sgraziato acronimo che definisce l’uscita del Paese dall’Ue, resa possibile dal
pericoloso referendum che Cameron, per calmare gli scalmanati euroscettici alla sua
destra, ha già promesso terrà se sarà lui il vincitore, è infatti il possibile sbocco di queste
elezioni. Porterebbe con buone probabilità a «Scoxit», similare appellativo per l’uscita
della Scozia dall’Unione in un secondo referendum che l’Snp è certo richiederebbe. Le
stesse secolari fondamenta dell’Unione tornano dunque a tremare per la fenomenale crescita degli indipendentisti scozzesi, che con la brillante leadership di Nicola Sturgeon —
che, va ricordato, nemmeno è candidata; l’ex-leader Alex Salmond lo è — hanno non solo
evitato un’emorragia di consensi dopo la sconfitta di misura del referendum, ma gettato
nuove basi per l’epocale secessione. Interconnessi come sono, le fisionomie di entrambi
questi due storici eventi si staglia minacciosa sulle altre questionidella campagna elettorale: welfare, salute, immigrazione. Nel frattempo, anche le celebrità fanno le proprie
dichiarazioni di voto. Oltre alla casalinga nazionale Delia Smith, che ha esortato a votare
per il partito di Miliband, va segnalata la non del tutto imprevedibile «inversione a U» del
bad boy Russell Brand, anche lui assalito in extremis da una toccante fiducia nell’istituto
della democrazia rappresentativa. Reduce da una serie di apparizioni a fianco di inquilini
sfrattati e in lotta per la casa, Russell, comedian e attore folgorato di recente sulla via
dell’anti-establishment dopo essersi reso conto di farne parte, ha appena esortato i moltissimi giovani lettori del suo recente libro, intitolato eloquentemente Revolution, a votare
Labour, guadagnandosi così a pieno titolo l’appellativo di «Milibrand». Tanto rumore
per nulla.
Del 6/5/2015, pag. 9
Atene nel Grimbo
Crisi greca. Appello di Attac, mentre Bruxelles lascia la Grecia cuocere
a fuoco lento, un Limbo che dovrebbe spingere Tispras ad accettare
l'aut aut del Brussel Group. Varoufakis ieri a Parigi e Bruxelles, oggi a
Roma, venerdi' a Madrid. Oggi la Bce decide sull'Ela. Il 12maggio scade
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un rimborso di 760 milioni all'Fmi, ma all'Eurogruppo dell'11 nessuno si
aspetta una soluzione
Anna Maria Merlo
Attac France ha messo in linea un appello: “La Grecia, una chance per l’Europa”. La petizione, firmata tra l’altro da Etienne Balibar, Edgar Morin, Susan George, Dominique Méda
e Dominique Plihon, constata che la crescita del debito è dovuta a un rialzo eccessivo dei
tassi di interesse e non a un aumento della spesa pubblica. Attac chiede a François Hollande di “opporsi allo strangolamento finanziario” della Grecia e invita i cittadini europei
a manifestare nella settimana contro l’austerità in Europa (20–26 giugno). Ma intanto, al
Brussel Group viene giocata la carta del Grimbo: Atene nel Limbo, cucinata a fuoco lento,
fino a quando il governo Tsipras cederà. Yanis Varoufakis, che ieri è stato due volte
a Parigi (in mattinata ha visto il ministro delle finanze Michel Sapin, in serata è tornato per
incontrare il responsabile dell’economia, Emmanuel Macron) ed è passato per Bruxelles,
dove ha avuto un colloquio con il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici, “non
aspetta un accordo” all’Ecofin dell’11 maggio. Cioè la vigilia della scadenza del rimborso di
760 milioni di euro all’Fmi, che Atene probabilmente potrà pagare. Varoufakis accelera per
uscire dal Limbo: oggi dovrebbe essere a Roma per vedere Pier Carlo Padoan e venerdi’
a Madrid, per un incontro con Luis de Guindos. Per Varoufakis, l’11 “ci saranno sicuramente discussioni proficue che confermeranno i grandi progressi fatti e verrà fatto un ulteriore passo verso un accordo finale”. Lo dice anche Thomas Wieser, capo dell’Euro Working Group, l’organizzazione tecnica: “lunedi’ è troppo presto per una decisione definitiva”.
Neppure Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze tedesco, si attende “decisioni definitive”. Ma Schäuble si spazientisce e ignora l’apertura del presidente tedesco Joachim
Gauck per un pagamento delle riparazioni di guerra ad Atene: “siamo tutti stupiti che sia
stato sprecato tutto questo tempo, oggi siamo il 5 maggio”. Anche se ha ammesso che c’è
“un’atmosfera più costruttiva”. Ma per Schäuble, “aiutiamo la Grecia ad aiutarsi, dipende
ora dalla Grecia se questo aiuto avrà senso, gli aiuti non sono una cosa scontata”.
Ieri, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha incontrato a Francoforte il vice-premier greco
Yannis Dragasakis e il negoziatore Euclide Tsakalotos. La Grecia chiede alla Bce di alzare
la soglia di emissione di Bot. Oggi, la Bce deve prendere una nuova decisione sull’Ela, la
liquidità di emergenza per le banche greche (oggi alzata a 77 miliardi). La Bce ha mandato
avanti il governatore della Banque de France, Christian Noyer, che ha emesso dubbi: il
sostegno della Bce alle banche greche non puo’ continuare “indefinitamente”, ha avvertito.
Dalla Germania, Schäuble insiste: “non speculiamo su un Grexit, non lo vogliamo, ma questo non vuol dire che siamo pronti a tutto, questo è forse un postulato erroneo di Atene”.
Un’informazione del Financial Times ha creato un terremoto ei giorni scorsi: l’Fmi potrebbe
ritirare l’ “appoggio” finanziario alla Grecia se i creditori dell’Unione europea non accetteranno un nuovo hair cut del debito greco, avrebbe fatto sapere all’Eurogruppo di Riga
a fine aprile Poul Thomsen, responsabile per l’Europa dell’Fmi. Lunedi’ sera, Alexis Tsipras ha avuto un colloquio telefonico con Christine Lagarde, direttrice dell’Fmi. La Commissione ha rivisto al ribasso le previsioni greche, un aumento del pil ridotto allo 0,5% contro un +2,5% previsto quest’inverno e un ritorno al deficit (2,1%, mentre si parlava di surplus primario dell’1,1%). A Bruxelles pensano che il Grimbo renda “più conciliante” Atene:
in ballo ci sarebbe la cessione della gestione degli aeroporti regionali all’operatore tedesco
Fraport per 1,2 miliardi di euro e un rilancio della privatizzazione del Pireo al 51%, che
potrebbe salire al 67% in cinque anni (con il cinese Cosco Group in corsa).
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del 06/05/15, pag. 2
Sempre più lontana l’intesa con la Grecia
Il governo Tsipras accusa Ue e Fmi: lo stallo è a causa delle spaccature
tra di voi
FRANCOFORTE
Scendono in campo i nuovi negoziatori della Grecia, che ieri pomeriggio hanno fatto tappa
a Francoforte dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, mentre si fa
strada la convinzione che neanche all’Eurogruppo di lunedì prossimo si arriverà a un
accordo sul programma economico di Atene, che possa sbloccare i fondi ancora pendenti,
circa 7,2 miliardi di euro.
Il vice primo ministro greco, Yanis Dragasakis, è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri alla
Bce, accompagnato dal viceministro degli Esteri, Euclidis Tsakalotos. È il nuovo team
designato dal premier Alexis Tsipras, dopo che l’irritazione dei creditori internazionali con il
ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, accusato di mancanza di concretezza nel
negoziato e di rivolgersi agli interlocutori con l’aria di chi sta impartendo una lezione,
aveva raggiunto il punto di rottura. A quanto risulta, lo stesso Draghi, che pure aveva
stabilito un rapporto con Tsipras già mesi prima che fosse eletto, ha condiviso la difficoltà
di procedere nella trattativa, i cui tempi e margini di manovra si fanno sempre più stretti,
con un team a guida Varoufakis, peraltro non ufficialmente esonerato.
L’incontro con il presidente della Bce era cruciale per il Governo di Atene, in quanto
dall’istituzione di Francoforte dipende l’assenso al continuo finanziamento delle banche
greche attraverso l’Ela, lo sportello di emergenza della Banca centrale nazionale. Oggi
stesso, il consiglio della Bce rivedrà l’ammontare dell’Ela, che ha ormai raggiunto 77
miliardi di euro, ma che dipende, come Draghi avrà ricordato anche ieri ai suoi
interlocutori, dal fatto che le banche rimangano solvibili e abbiano il collaterale da
presentare in garanzia. A quest’ultimo proposito, appare altamente improbabile che la Bce
decida oggi di alzare lo scarto di garanzia, il cosiddetto haircut, sul collaterale greco, in
quanto questo significherebbe di fatto uno strangolamento del sistema bancario e sarebbe
l’anticamera dell’uscita della Grecia dall’euro. Una decisione che Draghi non vuole
certamente prendere da solo, e soprattutto non ora che sono ancora in corso le trattative
fra Atene e i suoi creditori, secondo fonti Bce. Anche sulla rimozione del tetto dei 3,5
miliardi di euro di buoni del Tesoro greci che le banche possono usare come collaterale,
tetto imposto per evitare che venga aggirato il divieto di finanziamento monetario del
Governo, è improbabile una decisione prima che ci siano sviluppi nella trattativa.
Difficilmente però i negoziati arriveranno a un punto di svolta lunedì a Bruxelles. Lo hanno
ammesso ieri sia Varoufakis (che in mattinata ha incontrato a Parigi il ministro francese
Michel Sapin, ieri sera il commissario europeo Pierre Moscovici, oggi sarà a Roma e nei
prossimi giorni a Madrid) sia il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble.
Nonostante i progressi degli ultimi giorni, riconosciuti da tutti, viene ritenuto improbabile
che un programma definito sia pronto in tempo per l’Eurogruppo. Tuttavia, Sapin ha
sostenuto che «un buon compromesso è possibile». Dall’inizio della vicenda, la Francia ha
cercato di tenere una linea più conciliante nei confronti di Atene, rispetto ad altri partner
europei. Quel che ci si può attendere lunedì, secondo diverse fonti coinvolte nel negoziato,
è al più un attestato dei recenti progressi. Una fonte del governo di Atene ha attribuito ieri
l’impasse alla spaccatura tra i creditori internazionali, osservando che è impossibile un
accordo quando il Fondo monetario insiste su riforma delle pensioni e del lavoro, mentre la
Commissione europea esige il rispetto degli obiettivi di bilancio.Contraddizioni alla luce
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delle quali, secondo la fonte, il governo greco avrebbe deciso di non legiferare sulle
riforme in mancanza di un accordo. Ue e Fmi dovrebbero coordinare meglio richieste e
messaggi, ha detto la fonte.
Resta da vedere come la Grecia farà fronte agli impegni più imminenti, compresi gli oltre
900 milioni di euro dovuti all’Fmi martedì prossimo. Tsipras ha parlato in queste ore, oltre
che con il cancelliere tedesco Angela Merkel, anche con il direttore dell’Fmi, Christine
Lagarde, dopo che sono uscite indiscrezioni di stampa secondo cui il capo del
dipartimento europeo Paul Thomsen avrebbe indicato la necessità di una nuova
ristrutturazione del debito greco, oggi quasi interamente in mano a creditori pubblici, e
avrebbe chiarito che solo se i creditori europei accettassero di svalutare parte dei propri
crediti, l’Fmi sarebbe disponibile a sborsare la propria quota di aiuti. Fonti del Fondo
hanno però specificato che in realtà Thomsen aveva solo sottolineato il peggioramento
della sostenibilità del debito greco. In una nota, l’Fmi ha poi chiarito che Thomsen aveva
messo in evidenza il compromesso che servirebbe nella fase attuale: quanto più le misure
e gli obiettivi concordati si allontanano dagli impegni del 2012, tanto maggiore sarà la
necessità di finanziamenti aggiuntivi e di una riduzione del debito, per renderlo sostenibile.
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INTERNI
del 06/05/15, pag. 6
Italicum, oggi Mattarella firma parte la corsa
al referendum
Il premier: “Io non mollo”
Le opposizioni tentano la rivincita. Calderoli: “Tutto pronto” La
minoranza dem ora punta sulla riforma del Senato
MATTEO RENZI
ROMA . Dopo l’approvazione dell’Italicum in Parlamento, la nuova legge elettorale oggi
sarà firmata anche dal presidente Sergio Mattarella. I motivi alla base della decisione del
Capo dello Stato sarebbero tre. Escluso dunque un rinvio alle Camere, come invocato più
volte dalle opposizioni, che però insistono sul referendum.
Abbiamo già scritto il referendum per cancellare alcune parti dell’Italicum». Roberto
Calderoli, vicepresidente del leghista del Senato, padre del Porcellum appena andato in
soffitta, annuncia che il Carroccio è pronto a dare battaglia contro la legge elettorale
appena approvata e he oggi Sergio Mattarella dovrebbe firmare. Lo stesso grido di guerra
sale dal Mattinale, la nota politica forzista ispirata da Renato Brunetta. Del progetto
dovrebbero far parte anche i grillini. Anche se Alessandro Di Battista frena un po’: «Il
referendum io lo farei per battaglie più importanti, per la povera gente, non per la legge
elettorale», dice. «Possono fare quello che credono, dirci quel che vogliono, ma non
molliamo di un millimetro», replica Matteo Renzi, in Trentino Alto Adige in vista delle
regionali. «In questi giorni - dice il premier - abbiamo rischiato di andare a casa, non so
neanche se definirlo un rischio perché adesso è arrivato il momento di vedere se si fa una
cosa sul serio o no». E per chiudere la giornata Renzi scrive su Facebook: «Proprio ieri
con l’approvazione della legge elettorale abbiamo dimostrato che la politica è una cosa
bella e seria, che sa mantenere le promesse». Adesso però Renzi ha un nuovo obiettivo:
andare avanti «su questa strada con la testa dura. A un certo punto basta compromessi: si
decide». Ma vuole anche cercare di ricucire lo strappo dentro il Pd. Le risposte che
arrivano però non sono molto incoraggianti. Pippo Civati è con un piedi fuori dal partito e
ieri ha riunito i suoi per verificare la possibilità di costituire un gruppo al Senato con Sel e
spezzoni dei grillini usciti dal movimento. Gli occhi sono puntati su Palazzo Madama dove
andrà in aula riforma costituzionale e la minoranza dem ha i numeri per mettere in
difficoltà Renzi. Anche se le voci di palazzo danno per certo l’arrivo di un soccorso azzurro
per il premier sotto forma dei voti dei verdiniani in rotta con la linea dello scontro
propugnata da Brunetta. Ma nella minoranza del Pd si pensa anche alle mosse future. Un
“dissidente”, infatti, spiega che «per ora restiamo nel partito, non vogliamo lasciarlo al
premier. Ma in prospettiva l'alternativa è creare una sinistra di governo, in cui Landini può
essere solo una componente di questo spazio enorme che c'è tra il renzismo e la semplice
protesta».
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Del 6/5/2015, pag. 1-15
Italicum, al danno di oggi si aggiunge quello
futuro
Riforme. Regolamenti delle camere stracciati, deputati rimossi
d'imperio, fiducia cieca, lo strappo di Renzi alla democrazia resterà nel
tempo
Massimo Villone
Tutto secondo copione. L’Italicum è legge, le opposizioni – non tutte — scelgono
l’Aventino, la minoranza Pd valorosamente vota in ordine sparso, Renzi esulta. Ma su una
cosa ha torto. Non importa solo fare, in qualsiasi modo: è decisivo anche il come.
I 334 voti a favore dimostrano con certezza almeno tra cose.
La prima: senza i numeri drogati dal premio di maggioranza dichiarato costituzionalmente
illegittimo l’Italicum non avrebbe mai visto la luce.
La seconda: che la nuova legge elettorale non esprime gli orientamenti politici oggi prevalenti nel paese. La terza: che dunque tutte le forzature e violazioni di prassi e regolamenti
imposte per ottenere il risultato sono state prevaricazioni di una minoranza, e tali rimangono. Il tutto per approvare una legge che – come abbiamo già ampiamente dimostrato su
queste pagine — disattende in larga misura i principi affermati dalla Corte costituzionale
nella sent. 1/2014. Vengono dall’Italicum gravi danni collaterali. Sono tre i passaggi che
più si staccano dalle best practice di una democrazia moderna e avanzata: Il cd. «emendamento Esposito», che ha consentito il maxicanguro e ha fatto scomparire in Senato
migliaia di emendamenti; la sostituzione forzosa in Commissione dei dissenzienti; le questioni di fiducia poste alla Camera. Scelte che pongono una seria minaccia per il futuro
dell’istituzione parlamento. Nei casi indicati si è detto che esistevano precedenti. Qui bisogna intendersi. Il richiamo al precedente non è dato soltanto dalla mera ripetizione di un
comportamento tenuto in passato. Il precedente va visto anche nel contesto in cui il comportamento si colloca. Quindi, una prima considerazione di ordine generale ci dice che
dopo la sent. 1/2014 qualsiasi precedente doveva essere valutato con estrema cautela. La
sentenza poteva anche – secondo l’opinione prevalente e il suggerimento della stessa
Corte – non inficiare la legittimità formale del parlamento in carica. Ma certo determinava
una situazione eccezionale e priva di riscontro nel passato. Ne veniva ineluttabilmente che
il rapporto tra le forze politiche non era quello che avrebbe dovuto essere, per l’indebito
vantaggio nei numeri parlamentari concesso ad alcune dal premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Questo avrebbe dovuto togliere peso e significato ai precedenti volti
a garantire un dominio maggioritario dei lavori in Commissione e in Aula. Il fulmine che
colpisce la maggioranza nel suo momento genetico colpisce fatalmente al tempo stesso il
mantra del suo diritto a governare.Le Presidenze delle Assemblee avrebbero dovuto interpretare regolamenti, prassi e precedenti con intelligenza istituzionale volta a tenere conto
di tale eccezionalità. Non l’hanno fatto. Al contrario, hanno consentito un uso mai visto
prima di strumenti volti al governo maggioritario dei lavori parlamentari, senza affatto considerare che nelle condizioni date bisognava invece garantire in special modo ogni spazio
di opposizione e dissenso. Di qui l’aver ammesso in Senato il cd «emendamento Esposito», con la caduta di migliaia di emendamenti. Essendo genericamente riassuntivo di
principi poi specificati nel testo, poteva e doveva essere dichiarato inammissibile, in
quanto privo di un proprio contenuto normativo. Da qui l’inerzia di fronte a sostituzioni forzose di componenti di commissione, al dichiarato scopo di superarne il dissenso. La libertà
di ciascun parlamentare è pietra angolare dell’istituzione parlamento, e rimane affidata per
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la tutela al presidente dell’assemblea. Da qui, infine, le questioni di fiducia nonostante il
diritto di richiedere il voto segreto sulla legge elettorale sancito dal regolamento Camera.
Su questo punto in specie lo stesso discorso di De Gasperi sulla fiducia per la legge truffa
nel 1953 — citato in questi giorni sulla stampa – ci dice perché in quella lontana vicenda
non poteva vedersi alcun precedente.Un Renzi non vale un De Gasperi. L’avevamo
sospettato. Al danno di oggi si aggiunge quello futuro, se quanto è accaduto diventa a sua
volta precedente. Sarà facile bloccare ogni tentativo di opposizione o dissenso attraverso
emendamenti. Non dovrà nemmeno scomodarsi il governo: basterà un parlamentare
attento ai voleri del capo e abile nei riassunti. Si potrà imbavagliare chiunque alzi la voce
nel proprio gruppo, semplicemente lasciandolo fuori della porta al momento della decisione. E si è messo alla mercé del governo attraverso il voto di fiducia il diritto al voto
segreto a richiesta già ridotto a materie tassativamente determinate. Proprio nel momento
in cui ne veniva colpito il fondamento con la sentenza 1/2014, alla maggioranza numerica
in parlamento sono stati consentiti strumenti di ampiezza inusitata rispetto al passato.
Incombe sulle assemblee elettive lo spettro di una dittatura di maggioranza, per di più drogata dal sistema elettorale e piegata sul leader. Renzi twitta: basta dire no, avanti con
umiltà e coraggio. A dire il vero, fin qui abbiamo visto solo arroganza e prevaricazione,
e tanti sì estorti con ogni mezzo.
Rimane la domanda: ma un’assemblea di lanzichenecchi che non riflette il paese reale,
a che serve? Al più, è buona a occultare i conflitti, non certo ad affrontarli. È come ramazzare l’immondizia sotto il tappeto. E quindi concordiamo con Renzi quando a Milano dice
agli imprenditori che l’idea di fondo dell’Italicum – certezza immediata di chi vince
e governa — non è particolarmente geniale. Anzi, è del tutto sciocca.
del 06/05/15, pag. 7
Civati ha scelto l’addio “Non posso più
restare lascio il Pd, anche da solo”
L’ipotesi del gruppo con Sel
GIOVANNA CASADIO
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
«Sono pronto a uscire dal Pd anche da solo...». Pippo Civati ha tratto il dado. La sua
previsione di un gruppo parlamentare autonomo di almeno dieci senatori dem e di Sel a
Palazzo Madama sembra allontanarsi all’orizzonte. Ma per lo sfidante di Renzi alle
primarie del 2013, la coabitazione con il premier e le politiche di governo dopo la fiducia
sull’Italicum e il via libera, è diventata insostenibile. Non gli è piaciuta neppure l’ironia di
Renzi che a Bolzano a una militante che gridava “abbasso Civati”, ha risposto: “No, viva
viva Civati, vogliamo tenere tutti dentro, cosa le ha fatto di male il povero Pippo?”. E “il
povero Pippo” reagisce a muso duro: «Non ci sto a fare il cagnolino e, alla fine, sentirmi
pure deriso da chi dice “viva Civati”, ma scherziamo?». Poi mitiga ma annunciando l’addio:
«Renzi è molto spiritoso e non voglio far polemica con lui che fa una battuta spiritosa.
Rimarremo amici anche se in due partiti diversi».
A strappare tuttavia è per ora solo Civati. Anche se a sinistra del Pd, qualcosa si muove.
Nichi Vendola, il leader di Sel, pensa di sciogliere il gruppo dei 25 deputati per farne
qualcosa di più ampio e diverso. Porte aperte a chi vorrà starci. Tuttavia i dissidenti, anche
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quelli più radicali, non prevedono scissioni. Gianni Cuperlo parla dello scontro sulla legge
elettorale come di «una parentesi» da archiviare per prepararsi alla battaglia sulla riforma
costituzionale. Civati s’inalbera: «La posizione di Cuperlo è insostenibile...». Le grandi
manovre riguardano soprattutto il Senato. A Palazzo Madama un rassemblement di 21
senatori è pronto a nascere. Si riuniscono ieri per parlare di Italicum, del rischio per le
garanzie democratiche, di cambiamento della Costituzione e della battaglia da condurre.
Contestano anche la riforma della scuola e quella della Rai. Alla lunga assemblea non
partecipano soltanto i civatiani Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci ma pure
Vannino Chiti, i bersaniani Migliavacca e Gotor, Mucchetti, D’Adda, Pegorer, Fornaro,
Gatti, Guerra. «Se non ci squagliamo, possiamo imporre a Renzi di cambiare rotta sulle
politiche », commenta Mineo raccontando la preoccupazione politica dopo lo «schiaffo»
della fiducia sull’Italicum ». Ma la strada di un addio al Pd non è in vista. Intanto, Civati
lavora al referendum per abrogare l’Italicum. Lo fa con un gruppo di costituzionalisti guidati
da Andrea Pertici, docente di diritto costituzionale a Pisa. E prepara due quesiti che offre
come battaglia «a tutti coloro che non hanno votato la riforma, o che l’hanno votata
storcendo il naso ». «Purtroppo, attraverso il referendum abrogativo non è possibile
arrivare al maggioritario che avremmo voluto, o tornare al Mattarellum ». Così, i punti su
cui si vuole intervenire sono il ballottaggio e i capilista bloccati. «Attribuire un premio a chi
vince al secondo turno - spiega Andrea Pertici - significa permettere a chi vince anche di
un solo voto di ottenere centinaia di seggi in più. Il ballottaggio è una sorta di spareggio in
cui si vota per due simboli vuoti. Così com’è non funziona, e si potrebbe cancellare
lasciando il premio di maggioranza per chi ottiene il 40 per cento solo al primo turno. Se
nessuno raggiunge quella soglia, si avrà una ripartizione proporzionale pura». Anche per
Pertici, l’optimum sarebbe il Mattarellum, «ma dobbiamo lavorare sul materiale che
abbiamo. Le preferenze, ad esempio, possono non piacere, un’istituzione però non deve
essere condannata per il cattivo uso che se ne è fatto. Se vengono reintrodotte, devono
valere per tutti. Ed è per questo che proporremo l’abolizione dei capilista bloccati».
del 06/05/15, pag. 9
DI STEFANO FOLLI
I segnali di Renzi all’ex Cavaliere nascosti
nell’Italicum
Gli promette di non andare alle urne per dargli il tempo di riorganizzare
il partito e arginare l’ascesa di Salvini
FRA le righe dei suoi recenti discorsi il presidente del Consiglio ha mandato un messaggio
al suo ex partner nel patto del Nazareno. Ha fatto capire a Berlusconi che è una buona
idea procedere sulla via del cosiddetto “partito repubblicano” all’americana, in modo da
porre le premesse di uno futuro scontro elettorale fra il centrosinistra (il Pd) e la nuova
formazione di centrodestra (per la verità, Renzi si limita a definirla «di destra»).
Qui i sottintesi sono numerosi. In primo luogo si avverte la preoccupazione del premier per
la crescita delle liste populiste e anti- sistema (Grillo, Salvini ma anche, in misura minore, i
Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni). Ognuno di questi gruppi fa corsa a sé, ma cosa
accadrebbe con il secondo turno previsto dall’Italicum? La riforma elettorale era stata
concepita da Renzi come piedistallo per il proprio trionfo (il «partito della nazione») con
l’obiettivo di una vittoria al primo turno, ossia con il 40 per cento dei voti. In subordine, il
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ballottaggio: ma avendo di fronte un Berlusconi in disarmo, pronto a farsi sconfiggere.
Tuttavia il crollo di Forza Italia e la parallela ascesa dei partiti anti-sistema sono variabili
che forse Renzi non aveva considerato. Variabili da cui discendono non poche insidie.
Ecco allora l’idea di favorire la ricostruzione del centrodestra. Nella speranza che il fronte
berlusconiano riesca a riguadagnare un po’ di consensi, tagliando l’erba sotto i piedi dei
populisti. Se i «repubblicani» di Arcore conquistassero il diritto al ballottaggio, la minaccia
di Salvini e Grillo sarebbe rintuzzata e le urne del secondo turno sorriderebbero al
«listone» renziano. E si capisce: un ennesimo partito berlusconiano attirerebbe solo una
parte dei voti dei Cinque Stelle o della Lega o degli astenuti al primo turno. Al contrario, chi
può escludere che un candidato premier con il volto, ad esempio, del vice-presidente della
Camera grillino, Di Maio, otterrebbe consensi trasversali fra gli elettori disillusi, senza
partito o decisi a votare comunque contro il governo?
Ne deriva che il messaggio di Renzi ha una sua logica. È come se dicesse a Berlusconi: io
non voglio accelerare sulla via delle elezioni, così da lasciarti il tempo di riorganizzare il
tuo campo e di costruire un ante-murale contro il fronte anti-sistema; in cambio tu eviterai
di farti fagocitare dalla Lega, destinata a uscire dal voto regionale più solida di Forza Italia.
Non solo: a Palazzo Madama, tu Berlusconi troverai il modo, non diciamo di resuscitare il
patto del Nazareno, ma almeno di impedire che la sinistra del Pd affossi la riforma
costituzionale del Senato, ciò che renderebbe vana la legge elettorale immaginata per un
sistema monocamerale.
Si tratta solo di segnali, ma significativi. Il problema è che la rinascita del centrodestra non
è plausibile in tempi medi. Ha sorpreso molti, ad esempio, l’assenza di Berlusconi e dei
suoi, ma anche della Lega, nei giorni della riscossa di Milano. In quel corteo nelle vie della
città dove si è sentita l’anima dei milanesi, la destra era di fatto assente. Non aveva capito
la posta in gioco. In seguito Salvini e ieri la Gelmini hanno cercato di correre ai ripari, ma
forse troppo tardi e troppo poco. In altri tempi un errore così grave non sarebbe stato
commesso. Difficile credere che queste carenze, non solo politiche ma culturali, possano
essere sostituite da un dinamismo di tipo radicale. Come la tentazione di cavalcare l’onda
dei referendum abrogativi dell’Italicum. L’esperienza insegna che questa strategia ha
avuto un senso, in circostanze storiche precise, per una forza di minoranza come il partito
di Marco Pannella ed Emma Bonino. Nel caso di Forza Italia ha invece il sapore di una
mossa improvvisata per nascondere il vuoto politico. Un vuoto che a Renzi non dispiace
affatto, purché serva per arginare i pericoli che affiorano ai lati del «partito della nazione».
A riprova che l’Italicum non è la medicina che guarisce tutti i mali delle istituzioni.
del 06/05/15, pag. 6
PAOLO MADDALENA
“GIÙ LE MANI DALLA CONSULTA,
L’ITALICUM È CONTRO LA CARTA”
di Luca De Carolis
Nel momento in cui si accusa la Consulta di essere una casta, siamo già allo
sbriciolamento della democrazia. Non si possono toccare i pilastri dello Stato”. Il
presidente emerito della Corte costituzionale, Paolo Maddalena, commenta con durezza le
reazioni (anonime) alla sentenza con cui la Consulta ha bocciato la norma Fornero sulle
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pensioni. Ed è sferzante sulle leggi più rilevanti del governo Renzi, dallo Sblocca Italia fino
all’Italicum: “Cambia di fatto la forma di governo, introducendo il presidenzialismo. Ma
questo si può fare con una riforma della Costituzione, non tramite una legge elettorale”.
Non sono giorni facili per la Consulta. Dopo le polemiche per la sentenza sulle
pensioni, c’è chi già scrive e parla di pressioni prossime venture sull’Italicum.
Sono certo che la Corte rimarrà insensibile a ogni pressione esterna. E comunque io, in
nove anni alla Consulta, non ne ho mai subìte in via diretta.
Nei Palazzi hanno accusato la Corte di essere “una casta”.
Ma quale casta, se si dicono cose del genere si sbriciola tutto. Siamo alla fine dello Stato.
Partiamo dalla sentenza sulle pensioni, la 70 del 2015. Ora lo Stato dovrà trovare
svariati miliardi. Lei come la giudica?
La materia è complicata, ma la sentenza mi pare ragionevole. La Consulta ha valutato
che, con il blocco alla rivalutazione delle pensioni, tanti lavoratori avrebbero perso per
sempre risorse. Un danno forte, tanto più che si parlava comunque di pensioni non molto
alte.
La vicepresidente del Senato, Linda Lanzillotta (Pd), obietta: “La sentenza non ha
bilanciato il principio dell’equità con quello del vincolo di bilancio, sancito
dall’articolo 81 della Carta”.
Siamo nel campo del bilanciamento dei valori costituzionali. La sentenza afferma con
buona dose di realismo che non possono essere scavalcati il principio della proporzionalità
della pensione, derivante dall’articolo 36 della Carta (“Il lavoratore ha diritto a una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”) e quello della sua
adeguatezza, sancito dall’articolo 38: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità
e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Inoltre, la Consulta censura la norma nel punto
in cui giustifica il blocco della rivalutazione con “esigenze di bilancio”. Ecco, il governo
doveva spiegare meglio queste esigenze.
Insomma, Consulta promossa.
Non giudico i colleghi. Dico però che questa sentenza mi pare anche un segnale, un modo
per dire che non si possono sempre soffocare i lavoratori, chiedendo loro sacrifici. Anche
se forse questo è oltre le intenzioni di chi l’ha redatta.
Anche questo governo sta chiedendo troppo ai lavoratori?
Questo esecutivo sta portando avanti una politica neo liberista esasperata, come prova lo
Sblocca Italia, per me inaccettabile. Sto girando l’Italia per presentare un mio libro (Il
territorio bene comune degli italiani, edito da Donzelli, ndr) e sto toccando con mano
quanto sia profonda la crisi, non certo congiunturale.
Quindi…
Quindi il tema è che per uscirne serve lo sviluppo, come diceva Carlo Azeglio Ciampi.
Stiamo finanziando le grandi imprese e le banche, che i soldi se li mettono in tasca. E
invece dovremo puntare su altro, a cominciare dalla messa in sicurezza del territorio.
Serve una redistribuzione del reddito.
Sindacati e opposizioni hanno ventilato l’incostituzionalità del Jobs Act. Lei che ne
pensa?
La libertà di licenziare, con la sostituzione del principio del reintegro con quello
dell’indennizzo, è gravemente incostituzionale. Va contro i diritti della persona.
Inevitabile chiederle ora della legittimità dell’Italicum…
A me pare molto simile al Porcellum. Ma il nodo principale è che questa legge cambia la
forma di governo. Introduce il presidenzialismo, dando tutto il potere a un uomo solo: e io
c’ero quando comandava uno solo. Inoltre la soglia del 40 per cento per il premio di
maggioranza a mio avviso è troppo bassa.
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Quanto serviva?
Almeno il 45 per cento. La famosa legge truffa del 1953 prevedeva il premio per chi
avesse preso il 50 per cento più uno dei voti. Con questo Italicum siamo fuori della
razionalità.
Il referendum sulla legge è tecnicamente possibile?
Certo, come per ogni legge.
La Consulta è priva di due membri, e tra poco i giudici mancanti diventeranno tre.
Quanto influirà sulle nomine del Parlamento la partita dell’Italicum?
La politica sarà molto attenta, visti i temi sul piatto. Queste nomine peseranno.
Sia sincero, per la Consulta arriveranno mesi complicati?
Io ho conosciuto una Corte che ha fatto del bene all’Italia. Non abbiamo mai tenuto conto
di quanto si diceva fuori. E quella rimane la linea da tenere.
del 06/05/15, pag. 6
PARTE LA CORSA A OSTACOLI PER IL
REFERENDUM
di Antonella Mascali
LE OPPOSIZIONI LAVORANO AI QUESITI PER LA CONSULTAZIONE,
MA GLI ESPERTI AVVERTONO: “VANNO PREPARATI MOLTO BENE”.
L’Italicum è stato appena approvato e già da più parti si parla di referendum, anche se non
è chiaro se sia possibile. Tra costituzionalisti e avvocati ci sono pareri contrapposti perché
c’è la difficoltà di non creare un vuoto normativo. Pippo Civati, in dirittura d’uscita dal Pd,
ha spiegato al Fatto di avere pronti due quesiti referendari, mentre un terzo è in fase di
elaborazione. Annunciano referendum anche Forza Italia e Lega. Il padre del Porcellum,
Roberto Calderoli, afferma di avere “già scritto” una proposta di referendum per “togliere i
100 capilista bloccati, le pluricandidature e il ballottaggio: se una lista supera il 40 per
cento ha il premio, altrimenti scatta il proporzionale”. Anche Forza Italia è decisa a
proporre il referendum, dopo aver contribuito, con il patto del Nazareno, a scrivere
l’Italicum: “Contro chi briga, abroghiamo l’Italicum!”, scrive Il Mattinale, la nota politica del
gruppo alla Camera.
Ma tra i costituzionalisti c’è chi ritiene che la strada del referendum non sia percorribile
perché, come ha stabilito la Consulta, è necessario che, “tagliate” le parti da abrogare,
resti comunque in piedi una legge elettorale. La pensa diversamente la professoressa
LORENZA CARLASSARE, docente emerito di Diritto costituzionale all’Università di
Padova: “Il referendum è possibile, ma bisogna scrivere molto bene i quesiti perché le
norme che rimangono consentano di avere una legge in vigore, come ha stabilito la Corte
costituzionale più volte. E allora secondo me bisogna puntare ad abrogare le parti più
gravi di questa legge. A cominciare dalla possibilità del ballottaggio per ottenere il premio
di maggioranza se non si ottiene al primo turno il 40 per cento, ovvero quasi sempre.
Questa norma è fumo negli occhi, si può diventare maggioranza con il 20, magari con il 15
per cento dopo il ballottaggio.
Ecco, il ballottaggio si può abrogare con un referendum anche perché la Corte ha stabilito
che ci vuole un bilanciamento tra governabilità e diritto alla rappresentanza, ma in questo
caso la rappresentanza è totalmente sacrificata alla governabilità”. Non solo. “Un altro
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punto che si può abrogare – continua Carlassare – è quello delle pluricandidature,
addirittura in 10 collegi mentre la Consulta bocciando il Porcellum ha detto che i candidati
devono essere conoscibili dagli elettori. Basta togliere queste due norme che la legge,
sempre brutta, diventerebbe accettabile”.
Sono già sulla strada della via giudiziaria per arrivare davanti alla Corte costituzionale,
ancora una volta, gli avvocati che sono riusciti a ottenere la bocciatura del Porcellum
grazie alla loro battaglia passata attraverso tanti processi, approdata in Cassazione e poi,
grazie alla Suprema corte, davanti alla Consulta che gli ha dato ragione.
Il capofila è ALDO BOZZI, avvocato di Milano: “Ci risiamo. L’Italicum è peggio del
Porcellum”. Non crede, però, che possa essere cancellato da un referendum: “Temo che
la strada sia ardua date le sentenze numero 13 del 2008 e la 15 e la 16 del 2012 secondo
le quali non sono ammissibili referendum elettorali perché ci vuole sempre una legge in
vigore per farci votare. Il referendum è abrogativo, non fa rivivere le leggi precedenti:
dunque è inammissibile”. Avvocato, ricomincia la battaglia giudiziaria? “Purtroppo è
necessaria, ma stavolta spero in un percorso più breve, mi auguro che già un giudice di
primo grado riconosca i seri e rilevanti dubbi di costituzionalità dell’Italicum e sollevi la
questione davanti alla Corte.
Anche con l’Italiacum avremo un Parlamento largamente di nominati, abbiamo i capilista
bloccati e un premio di maggioranza che si dovrebbe chiamare di minoranza. E poi –
conclude – Bozzi, va ricordato che il premio di maggioranza fu introdotto da Mussolini con
la legge Acerbo. Dopo di lui l’ha riesumato Silvio Berlusconi con il governo che ha partorito
il Porcellum, bocciato dalla Consulta grazie al nostro ricorso. Secondo la Corte
costituzionale il premio di maggioranza nel nostro ordinamento non esiste, è un
alterazione grave del nostro sistema”.
Sul referendum è più possibilista l’avvocato Claudio Tani, altro legale che ha fatto parte
del team che ha vinto contro il Porcellum. “Prima di esprimersi sulla fattibilità, bisogna
vedere come saranno formulati i quesiti. Certo è che deve rimanere in vigore una legge, e
non è facile”. Intanto sta già studiando il ricorso: “Non resta altro da fare di fronte a una
legge perversa come l’Italicum. C’è una finta soglia del 40 per cento per ottenere il premio
di maggioranza, quando sappiamo che in realtà si andrà a un ballottaggio e una
minoranza del 20 per cento si prenderà tutto”.
del 06/05/15, pag. 9
LE SCELTE DEI PARTITI
La svolta di Berlusconi “In autunno il
congresso per il partito Repubblicano”
Il leader forzista ha già invitato un testimonial d’eccezione: Bush junior
A giugno la macchina organizzativa. Contatti con Lega e Fratelli d’Italia
CARMELO LOPAPA
ROMA .
«E poi vedrete che in autunno porto qui Bush, il mio amico George Bush, e lo lanciamo
alla grande il cantiere dei repubblicani ». Silvio Berlusconi ha deciso di trasformare così il
progetto di partito all’americana, il contenitore dei moderati da contrapporre ai Dem di
Renzi. L’unica vera novità spendibile, del resto, resa per di più obbligata dall’Italicum
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appena approvato. E infatti il progetto del leader forzista è di convocare subito dopo
l’estate una convention fondativa del nuovo soggetto politico.
Listone unico del centrodestra per tentare la resurrezione politica, tenere tutti dentro per
sopravvivere: dalla Lega di Salvini all’Ncd di Alfano passando per i Fratelli d’Italia della
Meloni. Più o meno un miraggio, in questo momento. Anche perché il rampantissimo capo
del Carroccio non fa che ripetere che «da giugno cambia tutto» nel centrodestra. Il
sorpasso su Forza Italia ormai è conclamato da tutti i sondaggi e quel gruppone unico,
semmai si farà, dovrà sottostare alle sue condizioni e semmai essere da lui guidato.
Berlusconi non si farà scalzare, come confidava ieri a Ballarò l’amico di una vita Ennio
Doris, fondatore di Mediolanum: «Un’uscita di scena? Lo escluderei, è uno che non molla
proprio mai». Piuttosto, «immagina per sé un ruolo in futuro più in regia, anziché da diretto
protagonista». Pronto a dare lui le carte, come sempre. Sulla storia del partito
“Repubblicano” raccontano abbia ritrovato un minimo di verve, dopo settimane di trattative
(ancora in corso) sulle aziende. Lancette giù puntate sul day after del voto del 31 di
maggio che non promette nulla di buono per Forza Italia. La convention del partito in “ Usa
style” è pensata per ottobre-novembre e lì il leader sogna di trascinare quel George W. col
quale dice di essere rimasto sempre in contatto. Per il momento, il detestato Nicolas
Sarkozy l’ha bruciato sul tempo, annunciando il cambio di nome del suo Ump proprio in
“Repubblicani”. Al leader forzista non importa. Ripete ai suoi che ha già tutto in mente:
«Partito leggero, nessun organismo dirigente, un comitato elettorale che entrerà nel vivo
giusto per il voto». Altro che ufficio di presidenza e direzione. E poi volti nuovi da mandare
in tv e in giro già da giugno, magari selezionati tra i giovani che la spunteranno alle
prossime regionali. «La lista unica di centrodestra con cui puntare alla maggioranza
assoluta in Parlamento è stata del resto il mio obiettivo da sempre», confida l’ex premier ai
fedelissimi a legge elettorale approvata. Peccato che tutti gli ricordino della indisponibilità
della Lega e senza Salvini non si andrà da nessuna parte. Berlusconi è tranchant: «Alle
regionali avranno vita facile perché io non sono in campo, ma alle politiche torneremo noi il
partito guida della coalizione». In ogni caso, è convinto che occorra fare in fretta, perché
«vedrete che Renzi sacrificherà anche la riforma del Senato, ci porterà al voto prima di un
anno, non aspetterà che scatti l’aumento dell’Iva nel maggio 2016».
Ma un nuovo partito, per quanto leggero, ha bisogno di risorse. «L’unica via in tempi di
magra è dare vita a una decina di fondazioni che lavorino sul territorio per produrre idee e
drenare finanziamenti », è il progetto che gli ha sottoposto Michaela Biancofiore. Ora si
tratta di coinvolgere tutti, nel progetto. «Si potrebbe partire con una federazione, la lista
solo in uno step successivo. E il modello non può che essere la Liguria – spiega il
candidato governatore Giovanni Toti – qui abbiamo messo tutti d’accordo, Salvini in prima
linea, si può fare. Non a caso il presidente Berlusconi lancia da Genova la sua campagna
sabato e forse qui la chiude». Comizio al chiuso per lo sbandierato «allarme sicurezza» e
pranzo con gli imprenditori, poi il 13 e 14 due giorni nella polveriera pugliese del ribelle
Fitto, prima di puntare sulla Campania. Rieccolo, insomma, il leader, ritorno in versione
campaigner dopo due anni di black-out post condanna. Prologo domani sera in sede a
Roma per un tuffo tra i giovani di Azzurra libertà. «Ha disertato perfino l’ufficio di
presidenza e va dai cento ragazzi dei fratelli Zappacosta, è la conferma che di noi non gli
frega più nulla», mugugnavano alcuni deputati ieri in Transatlantico.
Tutto questo mentre Denis Verdini affila le armi coi suoi dieci deputati e la pattuglia di
senatori in vista del ritorno della riforma costituzionale al Senato. E Raffaele Fitto è in
piena campagna reclutamento a Montecitorio in vista del lancio del suo progetto “Oltre”.
Inteso oltre Forza Italia, lontano da Arcore.
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del 06/05/15, pag. 13
LE SCELTE DEI PARTITI
Le elezioni in Campania
Il candidato del centrosinistra aveva detto: non accetto spezzoni del
vecchio ceto politico ma a suo sostegno ora ci sono numerosi
impresentabili. Ecco le loro storie
Fascisti, indagati, ex berlusconiani tutti in
lista con lo sceriffo De Luca
CONCHITA SANNINO
NAPOLI .
Il “nuovo”, a volte, fa strani giri. E tende agguati alla rivoluzione renziana. Un impasto di
contraddizioni e vecchia politica rischia di gravare sulle liste del candidato governatore Pd,
Vincenzo De Luca. Duri battibecchi e aspre polemiche, soprattutto sui social network,
infiammano la fase più calda della campagna elettorale per le regionali, dopo alcune storie
ricostruite da Repubblica, alla chiusura delle dieci liste a sostegno dell’ex sindaco di
Salerno, che tra l’altro rischia la sospensione dopo la condanna di primo grado, se eletto a
Palazzo Santa Lucia.
Le sue promesse di estrema discontinuità con il governo di Stefano Caldoro - «Rivoluziono
tutto, daremo il via al processo di modernizzazione e sburocratizzazione della Campania»
- convivono per ora con scelte che a molti appaiono discutibili: dal patto del primo Maggio,
siglato in extremis, di notte, con il leader ormai 87enne di Nusco, Ciriaco De Mita, ai profili
di candidati che poco somigliano all’innovazione chiesta dal “giglio” magico” del Nazareno.
Nomi di destra, di indagati o di loro congiunti, o di avversari di esponenti simbolo delle
battaglie democrat: tutti in pista per l’ex viceministro del governo Letta. Così, dopo i
sindaci democrat candidati “col trucco” - che si erano fatti multare dai propri vigili urbani
pur di decadere, per gabbare una norma regionale, poi costretti a dimettersi per entrare in
lista - ecco i consiglieri- migranti. Da un lato all’altro, pur di stare con chi vince, o si pensa
possa farcela.
Alla voce Pdl o Fi, ecco l’ex senatore Pdl ed ex candidato sindaco di Napoli di Berlusconi,
il prefetto Franco Malvano. Poi una sfilza di dirigenti di Fi o amministratori in carica fino a
pochi giorni fa, sotto l’insegna azzurra: è l’offerta “Campania in rete” il vero scrigno. Nella
lista di Caserta, vi figurano: l’ex vice coordinatrice Pdl di Caserta ed ex assessore di quel
comune, Teresa Ucciero; è in buona compagnia con il sindaco Alfonso Piscitelli, del
comune di Santa Maria a Vico, anch’egli eletto sotto il simbolo degli azzurri; e con
Angelina Cuccaro, assessore per Fi nell’altro comune di Santa Maria Capua Vetere. È lo
stesso elenco in cui brilla per attivismo anche Rosalba Santoro, moglie di quel Nicola
Turco, tuttora inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa, e referente di
Cosentino, che al nostro giornale ha rivendicato la sua convinta adesione al progetto di De
Luca: «Ma perché c’è qualcosa di sinistra nella coalizione di De Luca? Non direi argomenta la dottoressa, laureata in Lettere - Però questo candidato del Pd è uno che
combatte, una persona chiara. E Cosentino era un leader carismatico».
Alla voce Destra, ala estrema, ecco un sostenitore di De Luca che continua a replicare alle
polemiche. È Carlo Aveta, il mussoliniano doc, fedelissimo degli omaggi al Duce sulla
tomba di Predappio, che non rinnega la sua stima per la storia fascista ma contesta e
precisa, invece, il contesto in cui sarebbe stata pronunciata una frase «non contro gli
omosessuali, ma a favore della decenza». «Non ho mai detto che mi fanno schifo i gay,
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c’è stata confusione e strumentalizzazione su un mio post Facebook del luglio 2014 in cui,
legittimamente, dedico un giudizio personale a un’immagine che tuttora mi crea sconcerto:
tre uomini che sfilano, in una pubblica piazza, davanti a bambini e bambine, in baby-doll. È
una scena decente, quella? Secondo me: no».
Alla voce indagati, ecco sempre nella lista “Campania in rete”, ma a Napoli, la candidatura
di Attilio Malafronte, consigliere comunale d’opposizione a Pompei che, solo qualche mese
fa, è finito agli arresti domiciliari in un blitz sulla presunta compravendita di sepolture al
cimitero comunale. Nell’armadio della sua casa, la polizia trovò e sequestrò un fucile
calibro 12, una canna per fucile marca e oltre 30 cartucce per uso di caccia, dopo alcune
settimane il consigliere è stato scarcerato, ma Malafronte aveva già «fatto un percorso
nuovo», quindi di corsa verso De Luca. Analogo capitombolo capita alla candidata Rosa
Criscuolo, che corre come consigliere regionale per “Centro democratico”: è la bionda
avvocatessa che non disdegna pose ammiccanti e neanche il confine tra la cronaca rosa e
quella giudiziaria; e non solo per il suo lavoro. La Criscuolo, oltre ad essersi mobilitata
oltre un anno e mezzo fa, per una colorata manifestazione pro-Cosentino a Caserta con
tanto di slogan contro la carcerazione preventiva (fu bloccata in tempo da Fi, che la
indusse a recedere) è stata poi l’ultima signora con cui ha cenato l’ex ministro Claudio
Scajola, poche ore prima che venisse arrestato su ordine della distrettuale antimafia di
Reggio Calabria. L’avvocatessa ha sempre detto d’aver cominciato la sua militanza
politica nel centrosinistra, nel vesuviano, e di aver poi sempre scelto liberamente. Oggi
confessa, candidamente, che va verso il Pd «per esclusione. Non mi voglio candidare con
Caldoro e nella coalizione in cui ci sono i Cesaro ». E alle Voce Donne, o Mogli di, non
poteva mancare Annalisa Vessella Pisacane: è candidata nello stesso “Centro”, non solo è
consigliere regionale uscente di Caldoro, ma moglie di quel Michele Pisacane che in
Parlamento corse a sostenere Berlusconi con “i Responsabili” nel 2011. «Nelle liste non
accetto spezzoni del vecchio ceto politico», aveva detto Vincenzo De Luca in un’intervista.
Era meno di cinquanta giorni fa.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 06/05/15, pag. 1/21
“Stato e Cosa nostra la trattativa continua
La guerra ai complici non piace al Palazzo”
Il pm Nino Di Matteo svela in un libro le sue paure “Io, minacciato di
morte tra indifferenza e sospetti”
NINO DI MATTEO
VENT’ANNI di indagini e processi - che ho seguito da osservatori privilegiati come la
Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta prima e di Palermo poi – mi hanno fatto
capire che Cosa nostra, più delle altre mafie, ha sempre avuto nel suo Dna la ricerca
esasperata del dialogo con le istituzioni. Un dialogo finalizzato al raggiungimento di uno
scopo semplice, definito e micidiale per la libertà e la democrazia nel nostro Paese: la
creazione di un potere che pretende di non essere scalfito, parallelo rispetto a quello
istituzionale e che di fatto a esso vuole sostituirsi. (…) Eppure, ancora oggi, in molti fanno
finta di non vedere, di non capire la vera essenza della mafia siciliana. Nelle istituzioni,
nella politica, ma anche nella magistratura e tra le forze dell’ordine. Respiro un’aria strana
in questi ultimi tempi: un’atmosfera carica della falsa e pericolosa illusione che Cosa
nostra sia ormai alle corde. La consapevolezza del contrario fa crescere una sensazione
molto amara, di isolamento e di accerchiamento. (…) Subito dopo le stragi di Capaci e via
D’Amelio sembrava iniziata una vera e propria rivolta contro la mafia, a tutti i livelli.
Un’inversione di strategia: non più il contenimento e la difesa, ma l’attacco decisivo per
debellare il fenomeno, una volta e per sempre. In quei giorni percepivo il desiderio,
all’apparenza condiviso e irrefrenabile, di cercare tutta la verità su quanto accaduto. Ne
avvertivo la volontà in molti. (…) Invece è accaduto qualcosa. All’improvviso è iniziata a
montare una sorta di onda lunga di riflusso. Prima le campagne di stampa abilmente
organizzate contro alcune indagini eccellenti, e i tentativi, in gran parte riusciti, di instillare
nell’opinione pubblica un malcelato fastidio nei confronti dei collaboratori di giustizia. In
seguito, è arrivata addirittura una riforma legislativa che ha disincentivato il fenomeno del
pentitismo. (…) A quel punto, sono tornato a respirare un’aria di disinteresse sempre più
chiaro e generalizzato della politica nei confronti della lotta alla mafia. Il germe
dell’indifferenza ha camminato, si è diffuso, si è insinuato anche nei tessuti che
sembravano più resistenti. Poco alla volta ha provocato, persino in una parte della
magistratura e delle forze dell’ordine, una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti di
quelle indagini che miravano a scoprire in che modo la mafia sia ancora ben presente
dentro le stanze del potere. Quella è stata l’amarezza più grande. (…) La drammatica
consapevolezza che ho maturato è che per sconfiggere veramente Cosa nostra dobbiamo
guardare anche dentro lo Stato. Perché l’organizzazione mafiosa ha continuato a trattare,
a tanti livelli, con uomini e pezzi delle istituzioni. Politici in cerca voti, amministratori collusi,
esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. Coltivando questi e altri rapporti,
Cosa nostra ha superato l’isolamento in cui arresti e processi tentavano di ridurla. Ed è
stata riconosciuta come entità presente e ben ancorata nella nostra società. Ecco perché
voglio ribadire una mia considerazione, e credo ce ne sia bisogno in questo momento
storico: con la mafia non si tratta, in nessun momento e per nessuna circostanza o
contingenza. Non ci sono trattative cattive e trattative buone, magari ispirate dalla ragion di
Stato o giustificate dalla necessità di scongiurare chissà quale pericolo. Non si tratta. Non
è solo un’affermazione di principio legata a un passato ormai lontano: anche negli ultimi
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anni Cosa nostra è tornata a cercare il dialogo con le istituzioni, pretendendo il
riconoscimento della propria presenza.
Allora, per sconfiggere la mafia che vuole continuare a ritagliarsi un ruolo dentro le
istituzioni, dentro il potere, lo Stato deve avere la forza di guardare per davvero in se
stesso. Ha le energie e le capacità per farlo. (...) Quando mi hanno riferito per la prima
volta dell’ordine di morte emesso da Salvatore Riina nei miei confronti, ho subito pensato
che dovevo agire – e valutare quella prova acquisita nel corso di una mia indagine – come
se non si riferisse alla mia persona. Ho voluto ascoltare ripetutamente le frasi e osservare i
gesti, il volto di quel boss che parlava di me. In quelle ore, qualcuno mi consigliò di andare
via da Palermo, almeno per un certo periodo. È un’ipotesi che non ho mai preso in
considerazione. Ho cercato invece di impormi lucidità e compostezza, anche per affrontare
al meglio il «solito» problema del se e come presentare la novità a mia moglie e ai miei
figli. (…) Fino a qualche anno fa non mi ero mai realmente confrontato con il sentimento
della paura. Forse per incoscienza, forse per superficialità. Negli ultimi tempi, invece,
ammetto di aver cominciato a pensarci. (…) Ma negli ultimi mesi è accaduto anche
qualcos’altro, che non immaginavo. L’essere riconosciuto pubblicamente come bersaglio
dello stragista più spietato di tutti i tempi, per qualcuno è stato addirittura motivo di
ulteriore sospetto e diffidenza nei miei confronti. Ho provato una profonda amarezza di
fronte a quelle che non posso definire se non speculazioni assurde. Intanto, resto a fare il
mio lavoro. (…)
Da avvenire del 06/05/15, pag. 3
Aziende, rating legalità per rafforzare gli
onesti
Leonardo Becchetti
La storia del rating di legalità è un primo promettente esempio di come l’azione sinergica
di istituzioni, cittadini responsabili e imprese virtuose può rendere i valori un fattore
competitivo nell’economia di mercato avvicinando la stessa al bene comune. Legalità e
lotta alla corruzione sono due temi costantemente all’ordine del giorno e, purtroppo, agli
'onori' della cronaca nel nostro Paese. È ben noto che tra i famosi spread di economia
reale e i ritardi italiani rispetto agli altri Stati europei la questione della corruzione e
dell’illegalità rappresenta uno dei corni più spinosi del dilemma ed è uno degli elementi
ostativi, forse il principale, alla ripresa costante e ampia degli investimenti in Italia. È altresì
noto che illegalità e corruzione minano il successo della vita economica creando
incertezza relativa ai diritti proprietari e generando una concorrenza sleale tra imprese
'infiltrate' e imprese 'virtuose'. Le prime hanno infatti accesso a una fonte di finanziamento
abbondante e a basso costo (il denaro proveniente da attività illecite) a cui le seconde non
accedono. E questo vantaggio competitivo sleale diventa tanto più rilevante in periodi di
recessione in cui per le imprese sane l’autofinanziamento scarseggia e l’accesso alle fonti
esterne diventa più difficile.
Per combattere corruzione e illegalità non basta l’azione di una sola delle forze sane del
Paese (istituzioni, cittadini, imprese) ma è necessaria un’azione congiunta di tutte
realizzata con l’ausilio meccanismi efficaci in grado di rovesciare lo svantaggio competitivo
che le imprese sane hanno nei confronti delle imprese infiltrate. È per questo motivo che il
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rating della legalità rappresenta un’iniziativa di particolare interesse. Lanciata dai Ministeri
dell’Economia e dello Sviluppo economico, con il decreto del 20 febbraio 2014, essa
stabilisce i requisiti necessari affinché aziende iscritte da almeno due anni al registro delle
imprese e con fatturato di almeno due milioni di euro possano avere un rating da uno a tre
stelle e specifica le potenziali agevolazioni connesse all’attribuzione del rating stesso. Per
ottenere la prima stella, è sufficiente l’assenza di notizie negative come condanne, azioni
penali, infrazioni alle regole della concorrenza, assenza di accertamenti fiscali per reddito
maggiore rispetto a quello dichiarato. Per ottenere la seconda e terza stella, entrano
invece in campo comportamenti virtuosi come l’adozione di pratiche di responsabilità
sociale d’impresa, l’adozione di modelli di prevenzione e contrasto alla corruzione e l’uso
di sistemi di tracciabilità dei pagamenti anche per importi inferiori a quelli fissati dalla
legge.
Le due premialità espressamente menzionate dal decreto sono quelle relative all’accesso
ai finanziamenti pubblici (una a scelta tra preferenza in graduatoria, attribuzione di
punteggio aggiuntivo o riserva di quota di risorse finanziarie allocate) e ai finanziamenti
bancari. In quest’ultimo caso la premialità è necessariamente più vaga (non si può imporre
a soggetti privati di finanziare imprese solo perché virtuose) e stabilisce che «le banche
tengono conto della presenza del rating di legalità attribuito alla impresa nel processo di
istruttoria ai fini di una riduzione dei tempi e dei costi per la concessione di finanziamenti»,
«definiscono e formalizzano procedure interne per disciplinare l’utilizzo del rating di
legalità e i suoi riflessi su tempi e sui costi delle istruttorie», «considerano il rating di
legalità tra le variabili utilizzate per la valutazione di accesso al credito dell’impresa e ne
tengono conto nella determinazione delle condizioni economiche di erogazione, ove ne
riscontrino la rilevanza rispetto all’andamento del rapporto creditizio».
L’eventuale agevolazione creditizia ha una chiara ratio economica visto che una delle
componenti di rischio di non restituzione del prestito dipende senz’altro dall’assenza dei
requisiti di legalità. Non è un caso che la gestione del rating di legalità sia stata attribuita
all’Autorità garante della concorrenza in quanto, nelle intenzioni del legislatore, questo
strumento è un meccanismo che dovrebbe correggere attraverso i meccanismi premiali la
distorsione competitiva di cui
beneficia l’impresa illegale.
L'iniziativa, a oggi, come anche questo giornale ha segnalato, ha avuto un discreto
successo e l’elenco di chi ha ottenuto il riconoscimento, scaricabile dal sito dell’Agcm
http://www.agcm.it/rating-dilegalita/
elenco.html, include 467 imprese mentre centinaia di domande sono in corso di esame (si
veda anche box sotto).
Se vogliamo che il successo dell’iniziativa cresca è, tuttavia, necessario rafforzare la
componente premiale. Oltre ai benefici suddetti il rating di legalità può apportare altri due
benefici invisibili alle imprese beneficiarie: una maggiore reputazione nei rapporti con altre
aziende nella filiera produttiva che riduce i costi di transazione e una maggiore
disponibilità a pagare dei cittadini attraverso il 'voto col portafoglio' (consumi e risparmi dei
fondi d’investimento etici per imprese quotate). Tutto questo se il rating è opportunamente
pubblicizzato. I benefici dal lato delle istituzioni possono inoltre crescere se si aggiungesse
a quelli descritti – come ha proposto Vitalba Azzolini – la riduzione del premio assicurativo
Inail. La somma di tutti questi potenziali benefici presenti e futuri può rendere la scelta di
chiedere il rating ancora più conveniente. Nel caso in cui un’impresa sia già nel solco della
legalità, i costi dell’attribuzione sono in fondo minimi e i vantaggi possono crescere se la
sinergia tra istituzioni, cittadini e imprese virtuose viene rafforzata.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 06/05/15, pag. 19
Migranti, nuova strage “Almeno 40 annegati”
E un drone incastra gli scafisti, arrestati
Migliaia di sopravvissuti sbarcano tra Sicilia e Calabria. Per la prima
volta i tre individuati grazie all’apparecchio della nave soccorritrice
ALESSANDRA ZINITI
DAL NOSTRO INVIATO
CATANIA .
La morte a una bracciata dalla salvezza. C’è un video drammatico che racconta l’ultima
tragedia dell’immigrazione avvenuta domenica nel Canale di Sicilia: una quarantina le
vittime stando alle testimonianze dei sopravvissuti.
Due gommoni stipati di migranti che viaggiano a poca distanza l’uno dall’altro, il mercantile
maltese Zeran che si avvicina. « Easy, easy », grida un marinaio sbracciandosi per
invitare alla calma i migranti che già si agitano mentre l’equipaggio del mercantile cala a
mare il tender e da una fiancata viene srotolata una scaletta di corda. Uno dei due
gommoni è già sgonfio, i profughi hanno paura, non sanno nuotare, si scavalcano uno con
l’altro, si calpestano contendendosi quella scaletta e le altre cime che vengono lanciate
dalla nave insieme a giubbotti salvagente. Sono momenti frenetici, i migranti (tutti
provenienti dal centro Africa) gridano, qualcuno svuota freneticamente le taniche di
benzina di riserva sul fondo dell’imbarcazione per avere qualcosa di galleggiante cui
aggrapparsi, diverse decine si tuffano in acqua sperando di raggiungere la salvezza ma
vanno giù dopo pochi secondi.
«È stato terribile — racconta Astoy, 24 anni del Senegal — io mi sono salvato soltanto
perché so nuotare e sono rimasto accanto al piccolo gommone che avevano fatto
scendere dalla nave, ma tanti altri sono morti buttandosi a mare». Sisse, 17 anni, della
Costa d’Avorio, è ancora sotto shock. Ai volontari di Save the Children che lo assistono dal
momento dello sbarco sul molo di Catania, ha detto: «I marinai gridavano di stare calmi,
ma tutti spingevano, si picchiavano, erano pronti a tutto pur di prendere un salvagente o
una corda. Non so dire se quei ragazzi che sono morti sul gommone sono stati uccisi nella
rissa o se invece sono morti per altro». Cinque i corpi recuperati dai membri
dell’equipaggio del mercantile sul fondo di uno dei due gommoni e sbarcati ieri a Catania
insieme ai 194 superstiti che, con le loro testimonianze non sempre concordanti, hanno
indicato in una quarantina le vittime di questa nuova tragedia.
Da Catania a Pozzallo, da Palermo ad Augusta, da Trapani a Reggio Calabria: più di
tremila i migranti sbarcati nei porti dalle navi dei soccorsi. E puntuali sono arrivati gli arresti
degli scafisti. Per la prima volta le indagini sono state favorite dalle immagini riprese da un
drone che ha consentito di arrivare all’identificazione dello scafista eritreo che guidava
l’imbarcazione con 361 profughi a bordo soccorsa dalla Phoenix, l’imbarcazione privata
dell’imprenditrice italiana Regina Catrambone da anni residente a Malta che dall’anno
scorso è impegnata in una missione umanitaria nel Canale di Sicilia. A bordo della nave
che ospita l’ equipe di Medici senza frontiere anche un drone che è stato “inviato” sulla
zona dove era stata segnalata l’imbarcazione in difficoltà riprendendo chi era ai comandi
prima che, con l’avvicinarsi dei soccorritori, gli scafisti si mischiassero con gli altri migranti.
Le immagini, messe a disposizione degli investigatori della squadra mobile di Ragusa
all’arrivo nel porto di Pozzallo, hanno consentito di individuare gli scafisti tra i 361
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provenienti da Eritrea, Sudan, Somalia e Bangladesh. Poche ore prima, sempre a
Pozzallo, gli investigatori avevano arrestato gli scafisti di un’altra imbarcazione: due
tunisini (più volte arrestati per lo stesso reato e più volte espulsi dall’Italia) e — per la
prima volta — anche un cittadino libico.
È stata una giornata ad alta tensione anche a livello sanitario. Centinaia i casi di scabbia
segnalati tra i migranti sia a Pozzallo che ad Augusta dove i medici hanno messo in
isolamento ben 150 dei 675 migranti sbarcati dalla nave Vega, tutti colpiti da scabbia e
varicella.
Del 6/5/2015, pag. 7
«Annegati durante i soccorsi»
Migranti. Le testimonianze dei sopravvissuti a Save the Children. I morti
potrebbero essere almeno quaranta
Mentre nel Mediterraneo si continua a morire, l’Unione europea continua a prendere
tempo su come intervenire per mettere fine all’emergenza migranti. L’ultima tragedia
è venuta alla luce ieri dai racconti fatti da alcuni profughi ai volontari di Save the Children
che li hanno accolti una volta sbarcati a Catania dalla nave che li aveva tratti in salvo nel
Canale di Sicilia. L’incidente è avvenuto proprio durante le operazioni di salvataggio di un
gommone a bordo del quale si sarebbero trovati 197 profughi, tra i quali anche cinque
cadaveri. «C’è stato un incidente prima dell’intervento dei soccorritori», ha spiegato Giovanna Di Benedetto di Save the Children riferendo le testimonianze dei sopravvissuti. «Ci
sarebbe stata un’esplosione o il gommone si è sgonfiato, certo è che ha avuto dei problemi e alcune decine di persone sarebbero cadute in mare. Secondo una prima stima,
tutta da verificare, si parla di oltre 40 morti».
In rete è possibile vedere un video girato dall’equipaggio dei mercantile che ha prestato
soccorso ai migranti. Le immagini mostrano un gommone bianco molto lungo carico fino
all’inverosimile che improvvisamente comincia a sgonfiarsi e per chi si trova a bordo non
resta altro da fare che gettarsi in mare.
L’ultima tragedia non fa altro che confermare l’urgenza di un intervento nel mediterraneo
che no sia finalizzato al solo controllo delle frontiere marine, come invece sembra intenzionata a fare l’Unione europea. Sono giorni che da Bruxelles arrivano segnali non proprio
incoraggianti e nulla fa pensare a un possibile cambiamento di linea. Soprattutto per
quanto riguarda il punto più importante, la distribuzione tra i 28 Stati membri dei profughi
che sbarcano lungo le coste italiane. La speranza era che qualche governo si facessi
avanti offrendo la sua disponibilità volontariamente, ma è durata poco. «Nessuno si
è offerto in questa fase», ha smorzato ieri ogni entusiamo Natasha Bertaud, uno dei portavoce della Commissione, che ha rimandato al 13 maggio, giorno in cui i commissario
straordinario Avramopoulos presentarà l’agenda Ue sull’immigrazione. Intanto però Frontex, l’agenzia europea che si occupa del controllo delle frontiere, si lava la coscienza
annunciando nuovi mezzi per la missione Triton. Lo ha fatto due giorni fa e lo ha ribadito
ieri. «Stiamo integrando nuove navi nella nostra operazioni e stiamo lavorando ai dettagli
con gli Stati membri che hanno offerto un maggior numero di mezzi per triton. Nuove navi
entreranno nell’operazione nelle prossime settimane», ha assicurato il direttore di Frontex,
Fabrice Leggeri, ricordando come la missione europea abbia tratto in salvo 1.200 migranti
dal 30 aprile a oggi. Un rafforzamento del dispositivo messo in mare che non basta
e soprattutto serve a poco se lo scopo principale di Triton è quello di continuare a pattugliare le 30 miglia marine e no di intervenire in soccorso dei barconi che cercano di attra27
versare il canale di Sicilia. Come ha sottolineato anche ieri Paolo Gentiloni richiamando
per l’ennesima volta l’Europa a quelli che dovrebbero essere i suoi doveri. Dopo il naufragi
della notte tra il 18 e il 19 aprile scorsi al largo delle coste libiche, ha detto ieri il ministro
degli Esteri, l’Ue «ha prodotto l’esibizione di una volontà politica e qualche parziale risultato. Ma da q a dare una risposta a un’emergenza europea ce ne passa. Non basta qualche decina di navi che recupera le barche e le porta sulle coste di Sicilia e Calabria. non
è questa la condizione di una risposta europea».
Del 6/05/2015, pag. 19
Australia L’odissea dei giovani «schiavi»
italiani
Undici ore a notte, a raccogliere cipolle
BRISBANE Oltre 15.000 giovani italiani si trovano attualmente in Australia con un visto
temporaneo di «Vacanza Lavoro». Hanno meno di 31 anni e, spesso, una laurea in tasca.
Alla partenza, molti di loro neppure immaginano di rischiare condizioni di aperto
sfruttamento, con orari di lavoro estenuanti, paghe misere, ricatti, vere e proprie truffe.
Perlopiù finiscono nelle «farm», le aziende agricole dell’entroterra, a raccogliere per tre
lunghi mesi patate, manghi, pomodori, uva. L’ultima denuncia arriva da un programma
televisivo australiano, «Four Corners», durante il quale diversi ragazzi inglesi e asiatici
hanno raccontato storie degradanti di molestie, abusi verbali e persino violenze sessuali.
Gli italiani non sono esclusi da questa moderna «tratta». Ne sa qualcosa Mariangela
Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «In un solo anno ho
raccolto 250 segnalazioni fatte da giovani italiani sulle condizioni che avevano trovato
nelle “farm” australiane. Alcune erano terribili», spiega. Due ragazze le hanno raccontato
la loro odissea in un’azienda agricola che produceva cipolle rosse. Lavoravano dalle sette
di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo. «Non potevano
neanche andare in bagno, dovevano arrangiarsi sul posto», dice Stagnitti. Un ragazzo,
invece, era stato mandato sul tetto a pulire una grondaia piena di foglie. «È scivolato ed è
caduto giù, ferendosi gravemente. L’ospedale mi ha chiamata perché il datore di lavoro
sosteneva che aveva fatto tutto di sua iniziativa».
Secondo i dati del dipartimento per l’Immigrazione, nel giugno dell’anno scorso in Australia
c’erano più di 145.000 ragazzi con il visto «Vacanza Lavoro», oltre 11.000 dei quali italiani.
E il nostro è uno dei Paesi da cui arriva anche il maggior numero di richieste per il rinnovo
del visto per un secondo anno. Per ottenerlo, questi «immigrati temporanei» hanno
bisogno di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali
dell’Australia. E questo li rende vulnerabili ai ricatti. «Ho sentito di tutto», dice Stagnitti.
«Alcuni datori di lavoro pagano meno di quanto era stato pattuito e, se qualcuno protesta,
minacciano di non firmare il documento per il rinnovo del visto. Altri invece fanno bonifici
regolari per sembrare in regola, ma poi obbligano i ragazzi a restituire i soldi in contanti. E
poi ci sono i giovani che accettano, semplicemente, di pagare in cambio di una firma sul
documento». Non sono in molti a denunciare la situazione. «Quando mi chiedono cosa
fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il dipartimento
per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi
dicono che ormai sono abituati: anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano
spesso in nero e sottopagati». Stagnitti alza le spalle. «La verità è che spesso questi
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giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori
che gli australiani non vogliono più fare».
Sulla scia della denuncia di «Four Corners», il governo dello stato di Victoria ha
annunciato che darà il via a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle «farm», con
l’obiettivo di stroncare gli abusi e trovare nuove forme di regolamentazione che mettano
fine allo sfruttamento. Intanto, proprio nei giorni scorsi, il Dipartimento per l’Immigrazione
ha deciso che il cosiddetto «WWOOFing», una forma di volontariato nelle azienda agricole
in cambio di vitto e alloggio, non darà più la possibilità di fare domanda per il secondo
anno di visto «Vacanza Lavoro». «Nonostante la maggior parte degli operatori si sia
comportata correttamente — si legge in un comunicato stampa — è inaccettabile che
alcuni abbiano sfruttato lavoratori stranieri giovani e vulnerabili».
Roberta Giaconi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 06/05/15, pag. 11
Energia. Un emendamento al Ddl all’esame della Camera per evitare le
pesanti sanzioni all’«air gun» nelle ricerche petrolifere
Il Governo rilancia le «trivelle»
Galletti e Orlando: l’Ecoreati blindato al Senato - Confindustria: premiare chi bonifica
La Camera ieri ha ritoccato il disegno di legge sugli ecoreati, togliendo un passo che
puniva con il carcere, senza però vietarle, le ricerche di giacimenti in mare. Il Ddl ora torna
al Senato per il voto finale. I ministri Gian Luca Galletti (Ambiente) e Andrea Orlando
(Giustizia, all’Ambiente durante il Governo Letta) hanno rassicurato sul massimo impegno
per un voto accelerato del testo definitivo. Soddisfatta la maggioranza per il ritocco al
testo; polemici i parlamentari del Movimento Cinque Stelle e di altri gruppi, e alcune
associazioni ambientaliste come la Legambiente e Greenpeace, che auspicavano
un’approvazione secca della legge.
I contenuti dell’Ecoreati
Scritto dalla Camera, ritoccato dal Senato, ora rivisto dalla Camera, il Ddl Ecoreati ora
torna al Senato per il voto finale. Il testo unifica e razionalizza una parte del codice penale
sull’ambiente. Sono previsti reati come l’inquinamento ambientale e il disastro ambientale,
il traffico e l’abbandono di materiale ad alta radioattività, l’impedimento del controllo,
l’omessa bonifica. Le sanzioni sono assai severe.
Ravvedimento operoso
Sono previsti sconti di pena per chi, per errore o incidente, dopo un danno ambientale
s’impegna a risanare. È un passo molto dibattuto perché i tempi concessi per disinquinare
sono talmente brevi da essere nei fatti impraticabili. Inoltre il vero criminale ambientale che
asserisce di diventare un “pentito” ha agevolazioni assai più comode rispetto a chi inquina
in modo del tutto involontario o per responsabilità altrui (per esempio, se un automobilista
provoca un incidente stradale che coinvolge in modo disastroso un’autobotte carica di
inquinanti).
La polpetta avvelenata
Il passo più contestato dell’Ecoreati, quello sulle ricerche petrolifere, era stato aggiunto al
Senato con un emendamento all’ultimora da un gruppo di senatori di area centrista che
volevano somministrare a correnti e gruppi vicini quella che il deputato pd Alessandro
Bratti ha definito «una polpetta avvelenata».
Il ritocco impercettibile non vietava ma dava sanzioni severissime a chi facesse ricerche
petrolifere in mare con l’air-gun, un dispositivo ad aria compressa che, dando gran colpi
contro il fondo del mare, permette di fare un’ecografia del sottosuolo. Nessuna sanzione a
tutti gli altri usi dell’air-gun, come quelli scientifici.
Contro questa decisione si è mosso il Governo, che ha deciso di cambiare il Ddl, di
chiamare a raccolta la maggioranza e di ricorrere al voto segreto. Ciò ha impedito che
l’Ecoreati diventasse legge ieri, e ne impone ora il ritorno al Senato dove però, assicurano
i ministri Galletti e Orlando, avrà un percorso rapidissimo e blindatissimo.
Commenti
Soddisfatta la Confindustria per il tema air-gun, dove il Senato aveva assunto «una
posizione di retroguardia e demagogica», ma delusione sul ravvedimento operoso poiché
sarebbe stato opportuno ritoccare il testo per «rendere compatibili i tempi delle bonifiche,
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altrimenti rischia di essere un’occasione mancata» e in questa formulazione «prevale un
atteggiamento punitivo e ideologico».
Il deputato Andrea Mazziotti di Celso (Scelta Civica) osserva che la versione approvata dal
Senato era «pessima» e conteneva anche «errori tecnici»; indispensabile modificarla ora.
«La legge sugli ecoreati deve passare orasenza modificare neanche una virgola»,
ribadiscono i grillini facendo loro il riuscito slogan “neancheunavirgola” lanciato dalla
Legambiente.
Del 6/5/2015, pag. 1-4
Ecoreati, il governo si piega ai petrolieri
Montecitorio. Cancellata la norma che vietava l’uso dell’«air gun». Il
testo torna al Senato. Non è #lavoltabuona. Renzi ci ripensa e gli
ambientalisti protestano
Eleonora Martini
Niente tweet stavolta, per Renzi non era #lavoltabuona. E la Camera si adegua. Si aspettava solo il via definitivo: era previsto per il primo pomeriggio di ieri, e l’Italia avrebbe avuto
finalmente una legge sugli ecoreati. Ma, come sintetizzano bene Legambiente e Libera,
promotrici dell’appello «In nome del popolo inquinato», «a pochi metri dal traguardo il
governo cambia idea e, dopo tante rassicurazioni e prese di posizione pubbliche da parte
di diversi ministri, sostiene l’emendamento per togliere subito il comma sull’air gun dal ddl
e lo rispedisce al Senato, dove ora rischia l’affossamento».
Per le associazioni ambientaliste, per Sel e per il M5S la decisione di sopprimere la norma
che vieta la discussa tecnica di ispezione dei fondali marini, utilizzata per sondare la presenza di idrocarburi nel sottosuolo, è una dimostrazione di subalternità ai desiderata delle
compagnie petrolifere. Le stesse che hanno bombardato i mari della Sardegna, della Calabria o la costa adriatica. Ma il governo, rappresentato in Aula dal ministro dell’Ambiente,
Gianluca Galletti, e dal Guardasigilli Andrea Orlando, respinge le accuse e assicura
l’impegno ad approvare «entro maggio in via definitiva al Senato» — anche imponendo la
questione di fiducia — un provvedimento che «ha un valore storico per le politiche ambientali». «Si è parlato di poteri forti, non so se resuidino ma so che ci sono interessi legittimi
— ha aggiunto Orlando — E oggi siamo davanti a una impostazione ragionevole e condivisa. C’è l’impegno del governo ad approvare questo testo che non piaceva ai cosiddetti
padroni, ma ciò non ci ha impedito di andare avanti».
Le polemiche alla Camera sono scoppiate quando, poco dopo le 11 di ieri mattina, appena
ripreso l’esame del testo, il relatore di maggioranza Alfredo Bazoli, del Pd, annuncia di non
essere d’accordo con il governo che ha appena dato parere favorevole a tre emendamenti
che sopprimono il divieto, introdotti al Senato, di utilizzare la tecnica dell’air gun, considerata dal mondo dell’associazionismo ambientalista nefasta per la biologia e l’ecosistema
marino. Bazoli convoca la riunione del comitato dei nove (commissione e relatori) ma alla
fine si rimette alla decisione della maggioranza che si adegua al parere del governo.
«Avevamo chiesto che non cambiasse #nemmenounavirgola — scrive sul suo blog Pippo
Civati — e invece il governo ha deciso di cambiare il testo di una legge avviata quando al
governo c’era Letta e che attende una sua definitiva approvazione da più di un anno
e mezzo. Alcune cose si blindano, altre si rinviano, a seconda dei diktat che provengono
dall’esecutivo». Col voto segreto, l’Aula alla fine approverà l’emendamento abrogativo del
divieto con 283 sì, 160 no e 2 astenuti. E a sera, il testo così modificato viene licenziato in
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seconda lettura dalla Camera con 353 voti favorevoli, 19 no e 34 astenuti. E torna nel pantano del Senato. Ma il deputato Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente
e primo firmatario della proposta di legge non si scoraggia e ripone enorme fiducia sul
«forte impegno assunto dal governo per un veloce e definitivo passaggio in Senato» del
«provvedimento la cui urgenza è stata significativamente evidenziata dallo stesso capo
dello Stato, Mattarella». Sel non ci crede e promette «battaglia, insieme alle associazioni
ambientaliste, in difesa del nostro territorio». Greenpeace invece protesta con veemenza:
«Il governo Renzi conferma la sua spiccata vocazione di servizio alle compagnie petrolifere». Libera e Legambiente fanno appello al «presidente del Senato, Pietro Grasso, di cui
conosciamo bene la sensibilità sul tema della lotta all’ecomafia e alla criminalità ambientale, perché la legge sugli ecoreati sia davvero calendarizzata subito e definitivamente
approvata entro il 20 maggio».
Del 6/5/2015, pag. 4
Le pistole dei petrolieri texani puntate sul
mare sardo
Ecoreati. Dopo lo stop al ddl torna l’incubo «air gun». Con il blitz alla
Camera l’uso di bombe d’aria per esplorare le acque in cerca di greggio
è di nuovo possibile. Sindaci e ambientalisti in rivolta
Costantino Cossu
Il voto a scrutinio segreto che cancella dal ddl sugli ecoreati il divieto di usare l’air
gun apre in Sardegna prospettive inquietanti. Sui tavoli del governo giace infatti da tempo
un progetto che prevede l’utilizzo delle bombe d’aria per cercare petrolio al largo della
costa occidentale dell’isola. È stato presentato circa un anno fa dalla Schlumberger Limited, la più grande società per servizi petroliferi al mondo.
Da Houston, in Texas, i manager della multinazionale gestiscono 115 mila dipendenti di
oltre 140 nazionalità, che lavorano in oltre 85 paesi (gli uffici della filiale italiana stanno
a Ravenna). In Sardegna il colosso Usa ha proposto un intervento che ha come “teatro”
buona parte del litorale che da Alghero, a nord, va sino a San Vero Milis, a sud, passando
per Villanova Monteleone, Bosa, Magomadas, Cuglieri e Narbolia. Un’area marina di
20.922 chilometri quadrati. La Schlumberger ha inviato ai funzionari del ministero per lo
Sviluppo economico una richiesta di valutazione di impatto ambientale: il primo passo
della procedura di autorizzazione. Tutto però si è bloccato perché la tecnica dell’air gun,
che i manager Usa vorrebbero usare in Sardegna, è poi entrata nel ddl sugli ecoreati. Ma
dopo ciò che è accaduto ieri alla Camera, il quadro cambia. I cacciatori di petrolio di Houston possono nuovamente impugnare le loro pistole. Gigantesche pistole, che sparano
nelle profondità marine una paurosa quantità di aria compressa, che raggiunge il fondo del
mare e poi manda indietro un “rimbalzo” acustico dalla cui intensità è possibile capire se
negli abissi così “bombardati” si nasconde il prezioso oro nero. Unico ostacolo per le
aspettative di profitto della Schlumberger resta l’opposizione forte e determinata sia delle
popolazioni locali sia di un nutrito fronte ambientalista. Tutti i sindaci della zona interessata
hanno chiesto al ministero dell’Ambiente e a quello dello Sviluppo economico di fermare la
Schlumberger. E anche dal fronte dei deputati sardi si levano voci di protesta: «Con un
blitz a scrutinio segreto è stato cancellato il reato penale per chi ricerca petrolio in mare
con le bombe sismiche — attacca Mauro Pili, deputato del partito autonomista Unidos —
Non resteremo a guardare». «Rimandare al Senato il ddl sugli ecoreati è un errore — sot32
tolinea da parte sua il deputato del Centro democratico Roberto Capelli — L’air gun per la
ricerca di petrolio in mare va vietato e non si capisce perché dall’oggi al domani si sia
cambiato idea. Noi in Sardegna sappiamo bene quanto sia deleterio, per l’ecosistema
marino, per la pesca e dunque per la stessa economia, perché lo abbiamo già sperimentato. Il gioco non vale la candela nemmeno sul piano del ritorno economico perché i costi
sono sostenibili solo con giacimenti grandissimi, che in Italia non esistono. Ecco perché
non possiamo arretrare, anzi servono pene durissime per chi commettere reati contro
l’ecosistema». Una richiesta di stop alle ricerche petrolifere davanti alle coste della Sardegna arriva in particolare dal Gruppo d’intervento giuridico (Grig). L’associazione ambientalista denuncia che oltre ai texani della Schlumberger ci sono i norvegesi della Tgs Nopec
Geophysical Company pronti a puntare le pistole ad aria compressa sui fondali marini
sardi. Anche la società nord europea, infatti, ha inviato al governo una richiesta di valutazione di impatto ambientale per un intervento di rilevazione sulle coste occidentali
dell’isola, in una zona un po’ più a nord rispetto all’area che interessa alla Schlumberger.
«Le operazioni con air gun previste da tutte e due le multinazionali — ricordano i militanti
del Gruppo di intervento giuridico — si svolgerebbero in un’area contigua al cosiddetto
Santuario Pelagos, istituito dall’Unione europea come area marina protetta di interesse
internazionale e area protetta di interesse mediterraneo». «Una zona — spiega il Grig —
di straordinario valore naturalistico, abitata non solo da balene e delfini, ma anche da tartarughe marine. Se si usassero le bombe d’aria, il danno per queste specie sarebbe devastante: potrebbero perdere l’udito e insieme l’orientamento. E si rischierebbe una strage».
Del 6/5/2015, pag. 4
Assalto all’Adriatico, l’Abruzzo prova a
resistere
Trivelle. La mobilitazione non si ferma. Il 22 manifestazione nazionale a
Lanciano. Nell’area della Costa dei Trabocchi si rischia di dare vita a
un’area protetta costellata di perforazioni
Serena Giannico
Mobilitati. L’Abruzzo sta cercando di resistere all’assalto delle trivelle. E, prima ancora, al
governo Renzi che sta cedendo alle multinazionali del petrolio il futuro dell’Adriatico. Negli
ultimi due mesi sono parecchi i regali fatti ai signori del greggio a scapito dei cittadini.
Il 15 aprile scorso i ministri dell’Ambiente e dei Beni culturali, nonostante opposizioni
e ricorsi, hanno firmato il parere di compatibilità ambientale –Valutazione di impatto
ambientale e Autorizzazione integrata ambientale — per quattro nuovi pozzi della Edison
da aggiungere alla piattaforma Rospo Mare, attiva ad 11 miglia dal litorale tra Vasto
(Chieti) e Termoli. La Commissione Via (Valutazione impatto ambientale) a marzo ha dato
il nulla osta alle piattaforme Elsa2, della società Petroceltic, un pozzo esplorativo a 7 chilometri dalla spiaggia Lido Riccio ad Ortona (Chieti), e Ombrina Mare, della Rockhopper,
intenzionata a realizzare 4–6 pozzi di estrazione a 6 chilometri dalla costa di fronte a San
Vito Chietino. «Praticamente — afferma Augusto De Sanctis, del Forum Acqua —
è coperto tutto il litorale della provincia di Chieti, incredibilmente bersagliata, e anche parte
di quello del Molise». Si prospetta un mare, quello di fronte alla famosa Costa dei Trabocchi, orlato di trivelle. Questo mentre si lavora all’istituzione, nella stessa zona, del Parco
nazionale, per il quale è stata appena conclusa un’ipotesi di perimetrazione. «Insomma —
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commenta Fabrizia Arduini, del Wwf — si rischia di far nascere un’area protetta costellata
di buchi e perforazioni. E’ un’idea di tutela ambientale alquanto astrusa ed oscura».
«I pozzi di Edison — riprende De Sanctis — dovrebbero funzionare per ben 25 anni, come
quelli di Ombrina. Tra l’altro le operazioni di estrazione avverrebbero a controllo remoto,
senza creare dunque un solo posto di lavoro e a beneficio esclusivo della Edison, coinvolta nelle bonifiche delle megadiscariche di veleni a Bussi sul Tirino (Pe). Bonifiche che
restano al palo grazie ai continui e vittoriosi ricorsi nei tribunali da parte dell’azienda».
Questi progetti furono bloccati nel 2010 dal decreto Prestigiacomo che vietò nuovi insediamenti entro le 12 miglia. Sono stati rilanciati grazie al decreto Passera del governo Monti
che, nel 2012, ha riesumato i procedimenti in itinere. «Numerose le criticità procedurali
e di contenuto che si possono rilevare — fanno presente gli ecologisti -. Ad esempio non
viene considerato l’effetto cumulo tra i vari progetti che, tra l’altro, non sono stati assoggettati a Valutazione ambientale Strategica (Vas), con il paradosso che il ministero
dell’Ambiente la richiede al governo croato per le nuove concessioni in Adriatico e poi non
applica la procedura a quelle di propria competenza».
Il 13 aprile di due anni fa in 40mila sono scesi in strada, a Pescara, a protestare contro la
piattaforma Ombrina e l’unità galleggiante (o nave) di stoccaggio, trattamento e scarico ad
essa collegata. Contro l’impatto devastante che avrebbe, con gli scarichi in acqua e le
emissioni in atmosfera, compreso l’incenerimento a fiamma costante, 24 ore su 24, dei
rifiuti di scarto prodotti: la stima è di 80.000 chilogrammi al giorno, inclusi materiali speciali
e pericolosi. Il 23 maggio prossimo a Lanciano (Chieti) si terrà una nuova manifestazione,
a carattere nazionale. Per urlare no allo scempio di una realtà che, da tempo immemore
e con fiatone e a fatica, sta tentando di ritagliarsi un proprio posto nel settore turistico.
E che è decisa, in piazza e con la carta bollata, a difendere le proprie produzioni agroalimentari, le coltivazioni agricole — in particolare quei vigneti che significano occupazione
e reddito — e il proprio diritto alla salute.
Del 6/5/2015, pag. 15
Ci vuole una seconda Riforma Agraria
Agricoltura. La spinta che viene dai migranti è un’occasione storica per
far rinascere una parte rilevante del nostro paese destinato
all’abbandono e al degrado
Tonino Perna, Alfonso Gianni
Un fatto è certo: la nostra zootecnia, la pastorizia e gran parte delle grandi aziende agricole non esisterebbero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati.
Se sono clandestini o irregolari è ancora meglio, perché possono lavorare senza limiti orari
e essere sottopagati a 20 euro al giorno per 10 ore di lavoro, come capita ancora nella
piana di Gioia– Rosarno o nella terra dei fuochi, o in altri luoghi ameni del nostro Bel
Paese. Molti prodotti di qualità del made in Italy non esisterebbero senza il lavoro degli
immigrati. Il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata non è solo una conseguenza
delle leggi del mercato capitalistico, è anche il frutto di una visione miope e subalterna
della gran parte delle nostre aziende dell’agroalimentare.
Come testimonia l’esistenza di SOS Rosarno, di Calabria solidale, e di Galline Felici in
Sicilia e di tante altre esperienze, è possibile costruire una filiera agro-alimentare rispettando i diritti dei lavoratori, facendo guadagnare i proprietari delle aziende agricole
e dando ampie soddisfazioni ai consumatori. Una magia? No, solo basta uscire dal domi34
nio della grande distribuzione e creare una relazione diretta tra aziende, che rispettano
l’ambiente e i diritti dei lavoratori, e le organizzazioni dei consumatori responsabili, come
sono i Gruppi d’Acquisto Solidale o le organizzazioni del «fair trade».
Ci guadagnano i braccianti, i contadini, i proprietari di piccole e medie aziende agricole
che entrano in un percorso di legalità sociale ed ambientale. Infatti, le aziende agricole che
sfruttano gli immigrati a loro volta subiscono i ricatti della grande distribuzione che comprano i prodotti della terra a prezzi irrisori e li rivendono al consumatore con un ricarico
finale che arriva fino a dieci volte il costo di produzione agricolo.
Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra,
ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma
ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue
eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni
e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano,
della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la
bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30–40.000 nuovi posti di
lavoro reali. Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%,
ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine
non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo
grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima.
Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre
incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini
meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente
con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse
per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre
furono in parte nuovamente abbandonate, soprattutto dalle famiglie contadine con piccoli
appezzamenti, ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel NordItalia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa. Per non ripetere gli stessi errori occorre
pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati
che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto
idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di
nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della
popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti
e i movimenti sociali. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili, per creare quelle reti sociali capaci di
dare il «giusto valore» ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da
alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando
esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero
essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale,
l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno
fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa). Ma, questa «seconda Riforma Agraria»
abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione.
Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti,
e adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei
migranti potrebbe dare un aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti
i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano
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e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita. Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero
ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente.
I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il
soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di
difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al
recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello
di sviluppo. Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter
lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per
far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al
degrado. Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre
sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata
dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta
politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori
o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo
basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.
del 06/05/15, pag. 48
La manifestazione contro il vandalismo dei black bloc all’Expo riporta in
luce uno dei più alti valori repubblicani: i nostri centri urbani sono un
bene comune
Cittadini
Quel sentimento civile che unisce le persone
STEFANO RODOTÀ
SERVONO avvenimenti più o meno drammatici, o comunque tali da colpire fortemente
l’opinione pubblica, perché possa ridestarsi il sopito senso di appartenenza alla città,
dunque la versione più diretta della cittadinanza? La marcia dei ventimila milanesi per
reagire ai vandalismi del giorno prima suggerisce una risposta affermativa, che però
induce a concludere che qualcosa di quella cittadinanza persiste, sia pur latente e ormai
bisognosa d’essere riattivata da fattori eccezionali. Non è possibile, allora, accontentarsi di
risposte frettolose e consolatorie, poiché siamo di fronte all’emersione chiara di un
problema, non ad una soluzione.
La quotidianità urbana descrive una realtà fatta di divisioni, di contrapposizioni, di
distanze, di evidenti conflitti. Tutto questo ha avuto riflessi nei giorni successivi agli atti
violenti, non tanto per l’insuccesso del tentativo della Lega di farsi anch’essa protagonista
di una reazione, ma perché rimane aperta una questione assai complessa, nella quale
s’intrecciano il rifiuto d’ogni forma di violenza, l’uso strumentale da parte dei violenti delle
iniziative pubbliche di protesta, il diritto di manifestare come forma di partecipazione
collettiva alla vita della città, la salvaguardia della pace cittadina, fatta anche del diritto di
non vedersi bruciata la macchina o infranta una vetrina. Da qui bisogna partire per
chiedersi in che modo si possa tornare non ad una generica normalità del vivere, ma ad
un governo della città nel quale i cittadini possano ritenersi coinvolti.
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Una idea forte di cittadinanza nasce proprio da questo. Vi è, allora, una parola da
affiancare a cittadinanza, ed è solidarietà. Questo vuol dire che bisogna guardarsi
reciprocamente, non per appiattire le differenze, ma per riconoscerle nella loro realtà e
trovare così, fuori d’ogni forzatura o scomunica, la regola della convivenza. Conviene
leggere le parole conclusive della monumentale opera del nostro maggiore storico della
cittadinanza, Pietro Costa, dove si ricorda la più generale aspirazione verso una «città
dell’uomo, affrancata dalla paura della violenza, liberata dalla pressione del bisogno,
capace di fare dei diritti il simbolo di una nuova appartenenza».
La città, la grande città, oggi è piuttosto il luogo dove in modo più marcato compare
proprio la differenza nei diritti, e quindi diventa difficile creare appartenenza comune,
premessa obbligata perché si possa creare vera solidarietà, né occasionale, né coatta.
Diventa essenziale, allora, chiedersi come possano essere prodotte, insieme, solidarietà e
cittadinanza.
È al governo locale che bisogna in primo luogo rivolgere l’attenzione, senza liquidare in
modo sbrigativo iniziative come quella del sindaco di Milano, quasi che la marcia da lui
promossa avesse come unico obiettivo l’intento normalizzatore di altre “marce” del
passato. I tempi di reazione sono importanti, anche se poi esigono che le iniziative prese
non rimangano la fiammata d’un momento, ma avviino effettivamente una riflessione
rinnovata su città e cittadinanza.
Muovendo in questa direzione, si incontra una espressione che descrive la città come
“bene comune”. Questa espressione, per il suo uso spesso approssimativo e disinvolto,
suscita diffidenze, ma questa volte coglie la sostanza della questione. Infinite sono, da
tempo, le riflessioni sulla cultura della città, che hanno messo in evidenza l’impossibilità di
considerarla come una somma di aggregati fisici e di separare cose e persone che la
compongono. Parlarne come di un bene comune precisa ulteriormente questa sua
dimensione, aprendo la questione di chi debba “prendersene cura”, rendendo sempre
meno perentoria la separazione tra amministratori e amministrati. Lo spirito cittadino
solidale ha bisogno di partecipazione e di coinvolgimento.
In Italia, negli ultimi tempi, la discussione generale sulla città come bene comune è stata
accompagnata da una nuova attenzione di molti enti locali, che hanno dato alla
“democrazia di prossimità” sviluppi proprio nella direzione della collocazione di molti beni
nell’area della solidarietà e della gestione comune. Sono state messe a punto procedure
per la stipulazione di convenzioni per “la gestione partecipata” di «beni del patrimonio
comunale che versino attualmente in uno stato di inutilizzo o di parziale utilizzazione e che
la collettività percepisce come “beni comuni”, in quanto potenzialmente idonei ad una
fruizione collettiva e per il soddisfacimento di interessi generali». Esiste un modello di
regolamento, già operante, che disciplina forme di collaborazione tra cittadini e comuni
«per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani». Sono solo alcuni esempi di una
politica che va al di là degli appelli ai buoni sentimenti o si manifesta solo in occasioni
eccezionali. Sono indicazioni del fatto che si può passare ad una “normalità istituzionale”,
dove cittadinanza attiva, partecipazione e solidarietà si congiungono. Questi sono i luoghi
dove la democrazia può fare le sue nuove prove, mostrando pure come la crisi della città
non sia ormai un destino. Una studiosa acuta, Giulia Labriola, ha messo in evidenza la
possibilità di analizzare le città come “attori collettivi” e il rapporto stretto tra ricostruzione
dello spazio fisico e di quello politico. Proprio qui, allora, ritroviamo la cittadinanza nella
sua pienezza. Non lo stare insieme in un’occasione e in un momento, con spirito soltanto
oppositivo rispetto a qualcosa che si ritiene inaccettabile. Piuttosto il luogo della presenza
costante dei cittadini e del confronto continuo tra posizioni diverse. Torna così il punto del
riconoscimento reciproco, che non significa soltanto abbandono d’ogni violenza, ma
costruzione comune anche attraverso la legittima contestazione di assetti esistenti. Un
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risultato, questo, che non può essere affidato solo a dichiarazioni, ma esige la concreta
costruzione politica di un contesto istituzionale adeguato.
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INFORMAZIONE
del 06/05/15, pag. 15
Dopo il fallimento della società editrice le cause giudiziarie ricadono
sugli ex direttori e sui cronisti querelati in solido La denuncia di Concita
De Gregorio: “Incredibile. Neanche ci hanno avvertito”
In fuga dai debiti dell’Unità pagano solo i
giornalisti il Pd e Soru si tirano fuori
SEBASTIANO MESSINA
ROMA .
Un editore che sparisce, inghiottito dalla liquidazione della società. Un partito che
disconosce quello che una volta era il suo giornale, e ancora oggi la bandiera delle sue
feste. E così gli ex direttori dell’Unità – Concita De Gregorio, Claudio Sardo e Luca Landò
- si trovano da un giorno all’altro a dover risarcire di tasca loro i potenti che hanno fatto
causa al quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Otto mesi fa alla porta di De Gregorio ha
bussato l’ufficiale giudiziario, notificandole 40 pignoramenti: la casa, i redditi, i suoi beni,
tutto pignorato per pagare i risarcimenti danni chiesti – e ottenuti in primo grado – dai
potenti che hanno fatto causa a L’Unità quando lei ha diretto il giornale, dal 2008 al 2011.
Deve pagare una montagna di soldi, e deve pagarli tutti lei, perché l’editore non c’è più.
«Finora – racconta lei – ho già pagato 150 mila euro di risarcimenti per le condanne
subite, altrimenti per me e per gli autori degli articoli i pignoramenti sarebbero diventati
esecutivi. Mi aspettavo che intervenissero Renato Soru, l’editore che mi assunse, e il Pd,
che di fatto controllava il quotidiano. Ma Soru è sparito, anche se adesso fa
l’europarlamentare del Pd, mentre il Pd renziano sostiene che il partito non c’entra».
E’ una storia sconcertante, quella degli ex direttori dell’Unità (e anche dei loro giornalisti: a
una di loro, Natalia Lombardo, è stata pignorata la casa perché doveva pagare 18 mila
euro), una storia che ieri è stata raccontata dal presidente della Federazione nazionale
della stampa, Santo Della Volpe, in una conferenza stampa a Montecitorio, perché è la
politica che porta gran parte della responsabilità di questo pasticcio e perché è la politica
che ha il dovere di porvi rimedio.
Ma come può succedere che un direttore, anzi un ex direttore che ha lasciato il giornale da
quattro anni, si ritrovi improvvisamente sommerso dai pignoramenti? E’ semplice, per chi
conosce la legge sulla stampa: quando qualcuno cita in giudizio un giornale, vanno a
processo l’autore dell’articolo, l’editore e il direttore responsabile. Se il giornale viene
condannato, tutti e tre ne rispondono “in solido”: le quote del risarcimento le stabilisce il
giudice, ma se qualcuno non paga ne rispondono gli altri due. Nel caso dell’Unità, da un
anno l’editore non paga più, e i giornalisti ormai sono disoccupati. Così tutte le tegole
cadono sulle teste degli ex direttori. Sardo ha una dozzina di cause pendenti, Landò ne ha
altre sette. De Gregorio ne ha quaranta. «E la cosa più incredibile – racconta – è che io lo
scopro solo l’estate scorsa, dopo che la società editrice, la Nie, è andata in concordato
amministrativo per evitare il fallimento. Nessuno mi aveva avvisato che c’erano questi
processi, gestiti fino all’ultimo dallo studio Macciotta di Cagliari. Non so cosa abbiano fatto
questi avvocati, so che se io e gli autori degli articoli fossimo stati in grado di produrre le
carte avremmo vinto sicuramente. Ma non è finita. Ho presentato appello contro le 40
condanne di cui non sapevo nulla fino a dieci mesi fa, e lo faccio anche per conto dei
giornalisti che hanno firmato gli articoli, perché o sono disoccupati o sono collaboratori
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dalla Sicilia o dalla Calabria, e io mi sento responsabile verso di loro. A cinquemila euro ad
appello sono un sacco di soldi. E intanto mi pignorano i redditi».
A chiedere i danni sono un bel gruppetto di potenti, da Berlusconi ai generali dei servizi
segreti, personaggi ai quali non sono piaciute le inchieste e gli articoli che li riguardavano.
A risponderne, sono 26 giornalisti. E Concita De Gregorio. Che a quel punto va dal
sottosegretario Lotti, che ha la delega per l’editoria, e dal nuovo amministratore del Pd,
Bonifazi, raccontando tutto e chiedendo di fare subito qualcosa: io mi assumo le mie
responsabilità, dice, ma l’editore si deve assumere le sue. «Noi non possiamo fare niente,
mi hanno risposto. Risultato: se non vogliamo che ci pignorino la casa, dobbiamo
continuare a pagare noi i risarcimenti che spettano a un editore che è sparito. Pazzesco.
Pazzesco che sia successo, pazzesco che possa succedere ancora in qualunque altro
giornale».
Il conto che gli ex giornalisti dell’Unità rischiano di pagare, 530 mila euro, l’ha fatto la
Federazione della Stampa, chiedendo alla politica di intervenire subito. Intanto con la
costituzione di un “fondo per la tutela della libera stampa” che paghi le spese legali non più
evitabili, con i contributi fondamentali del nuovo editore dell’Unità, Guido Veneziani (che
ha promesso un accantonamento per pagare gli indennizzi del passato) e del Partito
democratico, che finora si è chiamato fuori. E poi come ha detto la presidente della
Camera Laura Boldrini, «individuando idonei strumenti legislativi », ovvero una norma che
obblighi le società editoriali in liquidazione a tutelare in sede giudiziale i giornalisti e a
pagare i risarcimenti. Senza farli ricadere mai più sui direttori, o sugli ex direttori.
Del 6/05/2015, pag. 15
«Unità», dopo il fallimento pignorati i beni
dell’ex direttore
L’allarme di Grasso e Boldrini E alla Veneziani, che ora ha la testata, è sciopero a
oltranza
ROMA I conti, fino ad ora, dicono: i giornalisti della ex Unità devono risarcire oltre mezzo
milione di euro. Ma le cause civili e le querele non sono ancora finite, mentre sono
cominciati — e di gran carriera — i pignoramenti ai danni dei redattori. Prima fra tutti:
Concita De Gregorio, direttore dal 2008 al 2011 del quotidiano che fu di Gramsci . A lei
sono stati pignorati beni per circa 400 mila euro, come lo stesso ex-direttore ha detto in
un’intervista che andrà in onda nella puntata di domenica di Report su Raitre, anticipata da
Corriere.it . Il fatto è che non c’è più un editore alle spalle ( l’Unità ha sospeso le
pubblicazioni nell’agosto scorso, sull’orlo del fallimento) ed è così che il carico economico
delle querele e delle cause civili grava direttamente sulle finanze dei giornalisti. E dell’ex
direttore, appunto, che per legge si accolla la responsabilità di tutto quello che scrivono i
suoi redattori. Si sta cercando di correre ai ripari. Ieri in una conferenza stampa, è stato
Santo Della Volpe, presidente della Fnsi (il sindacato dei giornalisti), a parlare di un fondo
di solidarietà a sostegno dei colleghi della ex Unità, una proposta la sua che non è caduta
nel vuoto. Anzi. Perché proprio ieri Guido Veneziani,— l’editore che ha rilevato l’Unità — in
un’intervista al Fatto Quotidiano aveva dichiarato che avrebbe usato i soldi del
finanziamento pubblico destinati al giornale per pagare gli indennizzi del passato. «Una
decisione che Veneziani aveva già annunciato tre settimane fa nell’intervista aReport che
andrà in onda domenica», ha garantito Piergiorgio Sposato, il legale di Veneziani. I
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giornalisti del gruppo che edita diversi periodici proprio ieri hanno proclamato sciopero a
oltranza, «dopo non aver ricevuto la tredicesima e gli ultimi tre stipendi» .
Ma ieri anche Francesco Bonifazi — il tesoriere del Pd che ha seguito passo passo in
tribunale la vicenda del quotidiano — ha annunciato l’intenzione di destinare i soldi rimasti
del fondo per l’editoria per pagare i risarcimenti dei redattori dell’ex Unità. Tutto comincia
(o, meglio: finisce) nell’agosto scorso, quando la Nie, la società che stampava il
quotidiano, è costretta a portare in tribunale i libri contabili: sul giornalegravano debiti per
oltre 30 milioni. È da allora chel’Unitàha sospeso la sua presenza in edicola. Ed è
cominciata la corsa ad ostacoli per evitare il fallimento del quotidiano. Con oltre 30 milioni
di debiti si poteva rilevarel’Unitàcon una cifra di 10 milioni. La prima proposta l’aveva
avanzata l’imprenditore Matteo Arpe in cordata con il giornalista Paolo Madron (quello di
Lettera43), ma alla fine è stato Guido Veneziani ad assicurarsi il quotidiano in società
(minima) con la fondazione Eyu che fa capo al Pd. Adesso mancano poche ore alla
completa formalizzazione dell’accordo.
«Voglio esprimere la mia solidarietà ai giornalisti dell’Unitàper la grave situazione nella
quale molti di loro si sono venuti a trovare », ha scritto la presidente della Camera Laura
Boldrini. E dal Senato ha voluto far sentire la sua voce anche il presidente Pietro Grasso:
«Sono d’accordo con la presidente Boldrini e faccio il mio appello per l’individuazione di
idonei strumenti legislativi a tutela della libera informazione».
Alessandra Arachi
del 06/05/15, pag. 10
Mediaset, nuova bufera indagati i vertici Ei
Towers “Aggiotaggio su RaiWay”
Perquisizioni della Finanza nella società del gruppo Berlusconi Azienda
“non contendibile”, ma l’Opas ha fatto salire i titoli del 18%
WALTER GALBIATI
EMILIO RANDACIO
MILANO .
Ei Towers sapeva che la società non era «contendibile» e che lo Stato non sarebbe sceso
sotto il 50%. Eppure la controllata di Mediaset, proprietaria delle torri che trasmettono il
segnale radiotelevisivo in tutta Italia, non si è fatta scrupoli a lanciare un’offerta pubblica di
acquisto e scambio (Opas) sulla società gemella della Rai. Ora la procura di Milano vuole
vederci chiaro: ha disposto le perquisizioni della sede di Lissone e ha indagato i vertici di
Ei Towers per aggiotaggio. Il 24 febbraio a sorpresa Ei Towers usciva allo scoperto con un
comunicato stampa in cui annunciava di voler strappare Rai Way allo Stato. L’azienda era
stata quotata a novembre dal governo Renzi per fare cassa a 2,95 euro per azione, il
prezzo minimo della forchetta. Sembrava un trionfo essere riusciti a portarla in Borsa dopo
una stagione di ritiri e fallimenti di altre matricole. Renzi incassa poco meno di 250 milioni
di euro e altri 35,4 milioni dalla vendita di ulteriori 12milioni di azioni (la Greenshoe),
briciole di fronte al debito pubblico italiano, ma che servono al governo per mostrare a
Bruxelles che il piano delle privatizzazioni prosegue.
Passano tre mesi ed Ei Towers, gestita da Mediaset col 40% del capitale, mette sul piatto
4,5 euro per azione, un corrispettivo che lascia tutti a bocca aperta anche perché di gran
lunga superiore ai 3,5 euro indicati dagli advisor del governo come possibile massimo
incasso dal collocamento in Borsa. La mossa, inoltre, giunge inaspettata, perché il
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governo nel prospetto di quotazione di Rai Way aveva lasciato intendere che avrebbe
mantenuto la maggioranza della società. A pagina 87 del documento il Tesoro si era
premunito di avvisare gli eventuali nuovi azionisti della “non contendibilità” della società.
Significa che anche dopo aver venduto il 35,5% del capitale al mercato, il ministero
avrebbe mantenuto il 65,5% di Rai Way, una quota sufficiente per controllare e gestire la
rete sulla quale corre il segnale televisivo italiano, considerata strategica per il Paese.
Da qui parte l’inchiesta milanese del procuratore aggiunto Francesco Greco e del sostituto
Adriano Scudieri: «È emerso - si legge nel decreto di perquisizione - come Ei Towers spa
fosse a conoscenza, all’atto di Opas, del fatto che Rai Way fosse società non contendibile
così come si poteva evincere dal prospetto informativo della quotazione di Rai Way». E
ancora: «Tale prospetto informativo prevedeva l’intenzione della Rai di mantenere quote di
capitale di Rai Way non inferiore al 51%». Perché allora Mediaset, attraverso la
controllata, avrebbe lanciato l’offerta?
Gli inquirenti hanno ipotizzato un tentativo di aggiotaggio, dopo aver osservato
l’andamento dei titoli nei giorni successivi l’annuncio, avvenuto con il comunicato stampa
del 24 febbraio. Dai 45,6 euro per azione iniziali, Ei Towers vola a 48 euro e raggiunge il
22 aprile il culmine di 54 euro. Ray Way invece sale da 3,7 a 4 euro per poi toccare i
massimi a Pasqua (4,4 euro). Dal lancio dell’Opas ai rispettivi picchi, per entrambi i titoli il
guadagno è stato di oltre il 18%. Ieri Rai Way ha perso il 2,1% a 4,31 euro, Ei Towers il
2,4% a 53,75. In ogni caso, l’annuncio dell’Opas, ritirata dopo l’intervento della Consob, il
no del governo alla cessione e le perplessità dell’Antitrust ha riportato attenzione e valore
su un settore che appariva stagnante (vedi articolo in pagina). Per capirne di più, invece, il
Nucleo valutario della Guardia di Finanza di Milano ha perquisito la sede di Ei Towers,
mentre l’intero consiglio di amministrazione è stato iscritto nel registro degli indagati. Sono
il presidente Alberto Giussani, l’amministratore delegato Guido Barbieri, già finito sotto
inchiesta a Roma e poi assolto come dirigente Mediaset per la compravendita dei diritti
nella vicenda Mediatrade, e i consiglieri Michele Pirotta, Manlio Cruciatti, Piercarlo
Invernizzi e Richard Hurowitz. All'assemblea degli azionisti del 21 aprile, il cda di Eitowers
è stato rinnovato con la conferma di tutti e sei gli indagati, escluso Hurowitz.
del 06/05/15, pag. 10
L’irruzione della magistratura non ferma il
risiko delle antenne ora il predatore è a viale
Mazzini
ETTORE LIVINI
MILANO .
La guerra delle torri va alle carte bollate. Mediaset però, malgrado l’entrata in scena delle
Fiamme Gialle, può essere soddisfatta: se è vero che l’Opa di Ei Towers su RaiWay era
solo un modo per scuotere la foresta pietrificata delle antenne tv, il risultato è stato portato
a casa. L’offerta — come immaginavano da sempre a Cologno — è stata respinta al
mittente con tanto dei “niet” di Consob e Antitrust. Il Moloch delle infrastrutture televisive
ha iniziato però a muoversi. E l’ipotesi del decollo di un operatore unico di set- tore, un
miraggio fino a poche settimane fa, non è più tabù nemmeno in viale Mazzini.
Prede e predatori, in questo scenario seguito con i fari accesi dalla politica italiana, stanno
solo cambiandosi i ruoli come in un gioco di specchi. «Stiamo esaminando varie
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opportunità di crescita esterna attraverso acquisizioni», ha detto ieri in una nota RaiWay.
«Con Ei Towers sono possibili accordi commerciali» ha significativamente aperto il
presidente Camillo Rossotto. Mediaset invece non ha mai chiuso la porta ai rivali:
«Impedire l’integrazione tra i due gruppi è una battaglia di retroguardia — ha detto
all’assemblea del gruppo Fedele Confalonieri — L’idea di creare un’unica grande
infrastruttura nazionale del segnale tv tornerà in primo piano”.
La partita, insomma, è tutt’altro che chiusa. È sparita dal tavolo l’Opa, ma i protagonisti
non hanno mai smesso di parlarsi tra di loro. Il mercato, del resto, ha dato con chiarezza il
suo responso: unire le forze tra i big delle torri è un modo di creare valore. Entrambi i titoli
hanno guadagnato il 20% in seguito al lancio dell’offerta. E dopo aver tirato il fiato per un
attimo quando è saltata, hanno ripreso subito a salire, fiutando di nuovo profumo di fiori
d’arancio. «Una cosa deve essere chiara: noi non abbiamo mai avuto intenzioni
egemoniche — assicurano in casa Berlusconi — Tant’è che prima del tentativo di scalata
avevamo bussato sia in Rai che alla Cassa Depositi e prestiti per trovare una soluzione
meno traumatica e politicamente più accettabile».
Il discorso sta continuando ora proprio in questa direzio- ne. E sul dossier dell’operatore
unico starebbero ragionando anche nuovi protagonisti in grado di annacquare il ruolo di
Arcore nella partita, depoliticizzandola. Non è un mistero che i vertici di RaiWay abbiano
acceso un faro sulle antenne tlc che Telecom Italia sta spingendo verso la quotazione. E
lo stesso Rossotto ha annunciato che andrà a incontrare i vertici di Abertis — freschi
acquirenti delle torri di Wind — «per verificare ipotesi di collaborazione ». L’obiettivo
implicito è allargare il perimetro delle alleanze e tenere Viale Mazzini nel ruolo di regìa, un
percorso che consentirebbe di portare Cologno nel mucchio lasciandole un ruolo di
comparsa. Questa soluzione va benissimo anche a Mediaset, che ha sempre puntato solo
a trovare una sistemazione finanziariamente vantaggiosa alle sue attività nel settore,
destinate secondo diversi esperti a un’obsolescenza abbastanza rapida visto che i segnali
tv viaggiano sempre più spesso sulla fibra delle telecomunicazioni.
Il vero ostacolo resta la politica e la necessità di non lasciare le chiavi dell’operatore unico
in mano a due aziende (Rai e Mediaset) che sono poi clienti dei suoi servizi. Il fondo
infrastrutturale F2I non a caso ha già dato un’occhiata alle carte per valutare un eventuale
ruolo di ago della bilancia. La stessa Cdp potrebbe tornare in campo come ha fatto sulle
reti di trasporto di gas e elettricità. L’Opa è saltata, ma il matrimonio Ei Towers-RaiWay
(allargato a nuovi protagonisti) è ancora oggi più che una possibilità.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 6/5/2015, pag. 1
Lo strappo della scuola
Sciopero generale. Se la piazza di S. Giovanni convocata dalla Cgil il 25
ottobre era stato il primo, vero strappo tra Renzi e una larga parte degli
elettori del Pd rappresentata dal sindacato e dal largo mondo del
precariato, le piazze piene contro la «buona scuola» rappresentano il
secondo grande solco tra il governo e l’immensa fabbrica della scuola
pubblica
Norma Rangeri
Sarà perché ha la prof in casa (la moglie, tra i pochi insegnanti a non aver scioperato),
o sarà perché aiuta la costruzione dell’immagine pubblica, sta di fatto che il segretario del
Pd, ancora prima di diventare presidente del consiglio girava per leopolde e talkshow ripetendo che avrebbe risollevato le sorti del nostro malconcio paese proprio
a cominciare dalla scuola.
Se ne andava a spasso per l’Italia promettendo che avrebbe dedicato un giorno alla settimana del suo tempo a visitare bimbi e maestri. E la televisione gli correva dietro per incorniciare il giovane premier accolto dalle scolaresche festanti con fiori, canzoncine, cori, battimani, sventolio di bandierine. Poi di quelle visite si sono perse le tracce, i soffitti
dellescuole hanno continuato a crollare sulla testa dei ragazzi mentre a palazzo Chigi si
metteva a punto un disegno di legge per una nuova, l’ennesima, riforma della scuola.
Che piace moltissimo al governo e pochissimo a insegnanti e studenti. Che la giudicano
una delle peggiori degli anni recenti, al punto da riempire le piazze delle nostre città con
uno sciopero come non si vedeva dal 2008, dai tempi della coppia Gelmini-Berlusconi.
Le ragioni della protesta, pacifica, di massa, articolata, plurale saranno difficili da disinnescare. Siamo solo all’inizio della mobilitazione e a meno di considerare gli insegnanti, di
tutte le sigle sindacali, degli inguaribili guastafeste che non vedono la manna di miliardi
e la valanga di assunzioni in arrivo, bisognerà passare dalle promesse ai fatti. Qui non
basta un voto di fiducia per neutralizzare la forza di motivazioni che sono materiali e culturali insieme. È un fronte che salda il disagio sociale di una professione tra le più precarizzate alla contestazione di un modello aziendale dell’apprendimento.
Il rifiuto del simbolo di questa controriforma renziana è il preside trasformato in capo
azienda, una sorta di dirigente di reparto che individua e seleziona il corpo insegnante più
idoneo a formare i ragazzi secondo i bisogni del mercato. In perfetta coerenza con tutta la
filosofia politica del renzismo.
Né può funzionare il gioco mediatico, reiterato in queste ore, del «con questa riforma cambieremo l’Italia», replica del «con questa legge elettorale cambieremo il paese», a sua
volta ripetizione del «con il jobs act abbatteremo la disoccupazione».
Se la piazza di S. Giovanni convocata dalla Cgil il 25 ottobre era stato il primo, vero
strappo tra Renzi e una larga parte degli elettori del Pd rappresentata dal sindacato e dal
largo mondo del precariato, le piazze piene di ieri con tutti i lavoratori e gli studenti in
campo contro la «buona scuola» del presidente del consiglio rappresentano il secondo
grande solco tra il governo e l’immensa fabbrica della scuola pubblica.
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Del 6/5/2015, pag. 2
La rivolta della scuola contro Renzi
Sciopero generale. La protesta più grande dal 2008. L’80% dei docenti
ha scioperato, 500 mila persone in piazza contro il governo e il Pd.
Docenti e studenti spingono i sindacati al conflitto contro la riforma
della scuola. Il premier apre al confronto ma conferma la sua linea
Roberto Ciccarelli
Cinquecento mila docenti, precari, studenti, genitori e personale scolastico nelle piazze di
Aosta, Bari, Catania, Cagliari, Palermo, Milano e Roma (e in altre decine di città in tutto il
paese) contro la riforma della scuola targata Renzi-Giannini-Pd non fanno arretrare di un
millimetro il governo. Non è bastata la più grande protesta della scuola pubblica dal 2008
(80% aderenti allo sciopero generale) per allentare la presa sul progetto della sua trasformazione aziendalista e autoritaria che il partito Democratico persegue sin
dall’approvazione della legge Berlinguer-Zecchino del 2000, quando approvò anche la normativa sulle scuole paritarie. Ieri, da Bolzano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha
risposto così alle richieste dei maggiori sindacati di fermare lo’iter di approvazione del Ddl
sulla «Buona Scuola», stralciare l’assunzione dei 100.701 precari in un decreto e abolire la
contestatissima norma sui «presidi-manager»: «Abbiamo intrapreso il percorso di grandi
riforme e andremo avanti con la testa dura» ha detto Renzi che ieri ha proposto di adottare
il modello del Sud Tirolo alla scuola italiana.«Coniuga qualità e praticità» ha detto.
L’ostinazione delle «teste dure» al governo, e delle loro appendici nel «partito della
Nazione» è presto spiegato: con l’Italicum e il Jobs Act, la riforma della scuola è parte di
un tris d’assi che Renzi intende presentare prima dell’estate mostrando così il profilo compiuto della sua personale rivoluzione conservatrice. «Siamo pronti ad ascoltare e condividere» ha ribadito Renzi, fermo restando però il principio dell’«autonomia».
Lo scontro sulla scuola verte proprio su questo concetto di «autonomia», la base di tutte le
riforme della scuola da quindici anni. La riforma Renzi ha avuto il merito di chiarirlo definitivamente: l’«autonomia» è quella del preside a capo di una scuola-azienda. La stessa che
Renzi ha auspicato per sé imponendo l’Italicum. I miti fondatori della sua «narrazione»,
cioè il decisionismo, l’aziendalismo e la «pedagogia del capo», sono al centro di una
riforma della scuola che autorizzerà i presidi a «individuare» dagli albi territoriali triennali
i docenti di loro gradimento, introducendo nella scuola il sistema corruttivo dello spoil
system o quello nepotistico che governa l’università italiana. Un rischio denunciato da FlcCgil, Cisl e Uil scuola, Snals, Gilda e Cobas (che a Roma erano al Miur e poi in un presidio
a Montecitorio). Sul senso delle proteste il governo fa lo gnorri. «Perché uno sciopero di
queste dimensioni non si vedeva da sette anni ?» si è chiesta ieri la ministra dell’Istruzione
Giannini (Pd), colei che ha definito «squadristi» i docenti che l’hanno contestata a Bologna
e «corporativi» tutti coloro che si oppongono alla sua riforma. Per Giannini il preside è «un
leader educativo» e le ricostruzioni fatte in questi giorni sarebbero «fantasiose». Le assunzioni dei docenti precari porteranno «il precariato alla sua dimensione fisiologica del
2,5%». Percentuali senza fondamento, visto che da quelle previste (alla presentazione
della «Buona Scuola» a settembre erano 148.100) sono stati esclusi almeno altri 100 mila
aventi diritto, senza contare i precari tra il personale Ata cancellati dalla «riforma». Affermazioni che giustificano la richiesta di dimissioni avanzata ieri dai sindacati.
La conflittualità dei sindacati più rappresentativi della scuola è il prodotto di una spinta dal
basso da parte dei docenti e dei precari che, dopo mesi di tentennamenti, li hanno spinti
ad una mobilitazione tardiva. Se avessero dichiarato uno sciopero generale al mese, da
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ottobre a oggi, a Renzi avrebbero sottratto tempo e spazio per la sua «narrazione». Non
l’hanno fatto e oggi scoprono il conflitto. Alcune organizzazioni hanno paventato il blocco
gli scrutini a giugno. Un’azione clamorosa, se decideranno di andare fino in fondo. Altra
questione politica non secondaria è la richiesta di ritiro del Ddl emersa ieri dal mondo della
scuola. Quanto incideranno sulla determinazione dei sindacati gli emendamenti che
saranno approvati alla Camera su spinta del Pd?
del 06/05/15, pag. 2
La rabbia dei professori invade le piazze
italiane
Renzi: vi ascolteremo
“Ma senza questa riforma il Paese non cambia” I sindacati: eravamo
mezzo milione, basta promesse
CORRADO ZUNINO
ROMA .
Piazze piene e classi (quasi) vuote per lo sciopero di tutti i sindacati: i cinque confederali
da una parte, l’area Cobas dall’altra. Un successo, contro la Buona scuola. «Siamo mezzo
milione», hanno detto gli organizzatori enfatizzando a sera dati che hanno visto
settantamila presenti a Roma, trentamila a Milano, ventimila a Bari. Duecentomila in
piazza, seguendo le indicazioni del ministero dell’Interno, rappresentano comunque una
delle più grandi manifestazioni “a tema” viste in Italia. La parola d’ordine della base era
“ritiro del disegno di legge” sulla scuola: autoritario, anticostituzionale, sfruttatore. I toni
nella mattinata di ieri sono sempre stati pesanti, le scenografie allegre: le “balle spaziali”
lanciate sotto l’Arco della pace di Milano, le mani colorate dei prof nella capitale.
Insegnanti dall’infanzia ai licei, precari di tutte le fasce, studenti e universitari, bidelli,
qualche preside, genitori con bimbi per la mano. Bella ciao in versione conosciuta e in
versione rifatta sulla “Buona scuola”: «Te ne devi vergognar». A Cagliari c’erano gli operai
del Sulcis, a Palermo in cinquanta hanno occupato l’assessorato alla Pubblica istruzione.
Nelle piazze i segretari generali Camusso e Barbagallo, mentre Annamaria Furlan (Cisl)
ha detto: «Così si creano scuole di serie A e di serie B». C’era il leader della Fiom,
Maurizio Landini, e a Roma è stato contestato Stefano Fassina, della minoranza Pd
contraria al disegno. I sindacati parlano di un’adesione allo sciopero tra il 70 e l’80 per
cento, oggi il dato ufficiale. «Noi ascoltiamo la protesta, è giusto affrontarla ed entrare nel
merito, ma questo paese si deve togliere la polvere di dosso e la scuola è degli studenti e
delle loro famiglie, non del sindacato. Nei prossimi giorni discuteremo delle assunzioni di
determinate categorie piuttosto che di altre. Se facciamo la scuola dell’autonomia e non
delle circolari cambiamo l’Italia sennò non andiamo da nessuna parte». Toni concilianti da
parte del ministro Giannini, che ha chiesto «rispetto per lo sciopero e anche per il governo
che propone un progetto innovativo». Il presidente della Camera, Laura Boldrini, su
Facebook ha scritto: «Ho apprezzato l’atteggiamento di apertura mostrato negli ultimi
giorni dal governo rispetto alle critiche ricevute, mi auguro che i docenti possano avere le
risposte che meritano». Francesco Scrima, Cisl, ha detto: «Andiamo avanti insieme che
vinciamo». Il sottosegretario Davide Faraone: «Non ci fermiamo, il ritiro se lo scordano.
Tre miliardi destinati alla scuola pubblica e 160mila assunzioni in due anni: in nessun
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settore della pubblica amministrazione c’è una dotazione così grossa». Ma in Puglia ed
Emilia il centrosinistra chiede a Renzi di fermarsi.
del 06/05/15, pag. 2
LA RIFORMA DELL'ISTRUZIONE
“Non ci comprerete con un’assunzione”
Anche i precari tra i ribelli
MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA .
Il cinque maggio di Renzi-Napoleone si apre con un cordone di bambini che sventola rotoli
di carta igienica. E’ la scuola pubblica - dicono - che va a rotoli. Dietro, in un mare di
bandiere rosse, gialle, bianche, sfila l’orgoglio dei centomila prof. Tanti, tantissimi,
nessuno si aspettava un corteo così folto, nella prima manifestazione sindacale unitaria da
oltre sette anni. Renzi-Pinocchio, Renzi- orecchie-d’asino, Renzi&Giannini come la
Gelmini. Ovunque il cartello “mai più Pd”, fischietti e “Bella ciao” nel caldo pazzesco
dell’estate improvvisa, ma ad ogni slogan un pezzo della “buona scuola” di Renzi, “la
riforma tradita”, cade giù in frantumi, lungo i muraglioni del Pincio che portano a piazza del
Popolo piena a metà e invasa di palloncini blu. E blu è il simbolo della protesta, il
fiocchetto appuntato sul petto: come si fa per le battaglie campali, quelle dei diritti civili.
È la sinistra delusa che attacca la sinistra di Governo, anche Stefano Fassina, che pure
sfila con i prof, viene contestato, mentre Pippo Civati dice chiaro: «Il Pd ha tradito i propri
impegni elettorali, ha fatto una riforma della scuola lontanissima dalla nostra cultura
politica». Beatrice ha 46 anni, è insegnante di ruolo nella scuola primaria “Malaspina” di
Roma, cammina insieme a Maria Pia, precaria, dietro un cordone di bambini che
imbracciano palette di cartone. «Dopo vent’anni di lavoro — si sfoga Beatrice — è come
se la mia storia, il mio punteggio non contassero più. Il preside da un giorno all’altro
potrebbe trasferirmi, con decisione assolutamente arbitraria». E infatti nel mirino della
protesta contro Renzi, accusato di “bonapartismo”, (complice il calendario che ha fatto
coincidere il giorno della manifestazione, il cinque maggio, con il titolo della poesia di
Manzoni su Napoleone) c’è prima di tutto il “preside sceriffo”. E quindi la fine, dicono i
docenti, della democrazia nella scuola, la morte degli organi collegiali, l’alternanza scuolalavoro, le donazioni dei privati, i precari che resteranno fuori dalle assunzioni, ma anche lo
“spettro” di essere costretti a cambiare sede ogni tre anni.
Antonio Marra, fa l’insegnante di Matematica a Caserta. Porta appeso al collo un cartello
con il numero 25. «Vede i miei capelli? Sono bianchi. Ho mezzo secolo, due lauree, oltre
cento alunni e sono precario da 25 anni. Dovrei rientrare nei centomila assunti promessi
da Renzi. Ma sarà vero? E quando? E poi perché non dovrei essere in piazza? Questa
riforma fa schifo comunque. Non è il Governo che ci assume, ma l’Europa che l’ha
imposto. Precario-assunto mica vuol dire crumiro». Antonio sorride. «Sì, è un termine che
oggi non usa più nessuno». Invece sono più o meno le stesse parole che Susanna
Camusso griderà dal palco di piazza del Popolo: «Le assunzioni sono un atto dovuto, non
possono essere usate come strumento di divisione tra insegnanti e precari... Qui c’è il
mondo che fa la scuola, insegnanti, studenti, famiglie, il futuro del Paese».
Sfilano le bandiere di Cgil, Cisl e Uil, i leader ci sono tutti, ma anche Gilda, Snals, e poi
migliaia di istituti primari e secondari con i loro striscioni dipinti a mano, il centro e le
periferie, i cortei arrivati da Napoli, dalla Toscana, l’orgoglio dei quartieri: “Da San Basilio a
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Garbatella, Renzi, Giannini, fate la cartella”. Si ballano pizzica e taranta, ci sono almeno
diecimila studenti scesi in piazza, lo storico liceo artistico “Ripetta” è tra i gruppi più folti.
Ma il corteo è anche duro, teso, molti sono, anzi erano, elettori del Pd, e nella riforma ci
avevano creduto. “Riforma sì, ma non così” gridano infatti dai megafoni. I ragazzi hanno la
vernice rossa e arancio sulle mani, l’effetto è splatter e metropolitano.
Enrico Castelli insegna Lettere alla scuola media “Mazzini” di Roma, uno dei primi istituti
multiculturali della Capitale, salda tradizione di accoglienza nel cuore del centro storico, a
pochi passi dal Colosseo. «Questa riforma mina alle fondamenta l’istruzione pubblica. E
punta ad un sempre maggiore divario tra le scuole ricche e le scuole povere. Le donazioni,
ad esempio. Privati cittadini potranno offrire contributi in cambio di vantaggi fiscali. Con i
risultato che nei quartieri benestanti le scuole avranno mezzi e negli altri no. È questo il
principio di uguaglianza che lo Stato dovrebbe garantire?». Un gruppo di precari mostra
una gigantografia del film “Il marchese del Grillo” con la faccia di Renzi al posto di quella di
Alberto Sordi: «Io so io e voi nun siete un ca... ». E il premier con il cappello di Napoleone.
Sotto: «Vai a Sant’Elena... ». Paragoni irriverenti. Ma la protesta è dura.
Aggiunge Enrico Castelli, mentre il corteo approda a piazza del Popolo, tra migliaia di
bandiere rosse della Cgil. «Uno degli elementi più controversi è la figura del preside
manager, nelle cui mani verranno accorpati poteri enormi, azzerando così ogni tipo di
democrazia nella scuola. Con quali criteri potrà scegliere i professori? Con quanta
trasparenza? Questa riforma è un’occasione perduta, produrrà soltanto cattiva scuola».
Una folla enorme canta “Bella Ciao”, due, tre, cinque volte. La manifestazione è finita,
bandiere arrotolate le prof e i prof tornano a casa. Seduta nel rifugio del bar Rosati la
giovane dirigente scolastica commenta pacata: «Non è bello sentirsi nel mirino della
protesta, ma gli insegnanti hanno ragione. Noi abbiamo tra le mani le vite dei ragazzi,
come possono i presidi decidere tutto da soli? Pensate che responsabilità terribile...».
del 06/05/15, pag. 31
LA SCUOLA PUBBLICA DA DIFENDERE
NADIA URBINATI
QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del
Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non
dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo
Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara
l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa
cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la
figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero
le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).
La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di
una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare
come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola
pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del
Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il
principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde
dell’abbandono scolastico e delle bocciature?
Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che
abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo
caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di
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degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto
arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza:
non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a
promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non
sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati
quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata
come un successo.
I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché
il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di
recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente,
non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in
prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un
indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside
la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in
denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza
che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla
competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per
le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.
Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte
della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla
qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma
prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più
facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e
finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono
destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità
economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno
verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni
scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York
Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che
questa riforma può avere, ha ragione.
Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico:
quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie
delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà
intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente:
l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una
clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori
diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e
ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e
questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico.
L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le
migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È
proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere
quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità
dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 06/05/15, pag. 14
Film. Franceschini: provvedimenti allo studio
Nuovi sostegni al settore cinema
ROMA
Più film, meno investimenti per titolo, meno coproduzioni anche se le produzioni
internazionali tornano in Italia. “Si accettano miracoli”, insomma, per la cinematografia
italiana radiografata dai dati elaborati dall’Anica, associazione delle industrie del settore,
insieme alla Direzione Generale per il Cinema del Ministero delle Attività Culturali.
Nuovi provvedimenti a favore del settore sono stati annunciati, nell’occasione, dal ministro
della Cultura, Dario Franceschini: dalla revisione della categoria di “interesse culturale”,
generosamente concessa a un’ottantina di titoli, alla riforma del meccanismo della
percentuale sugli incassi. «Sarà collegata, al 90%, alla realizzazione di un nuovo film da
parte di chi la percepisce. Saranno premiati i film in uscita nei mesi estivi, quelli presenti
nei festival e gli indipendenti» precisa Franceschini.
Nel 2014 si sono prodotti in Italia, o, meglio, hanno richiesto il visto di censura, ben 201
titoli, di cui 180 al 100% italiani, rispetto ai 167 del 2013 e ai 166 del 2012. Un boom della
produzione? I film sono diventati più “piccoli” e troppi sono quelli invisibili: nel 2014, infatti,
hanno un costo, 323 milioni di euro, inferiore a quello totale dell’anno precedente (335
milioni), con meno film. Si riduce, quindi, l’investimento medio per titolo e le coproduzioni,
sia quelle maggioritarie sia quelle in cui i partner italiani sono in minoranza, segnale di
debolezza a livello internazionale. «Gli incassi, tranne rare eccezioni, si allineano ai costi afferma Riccardo Tozzi, presidente dell’Anica - e quindi si abbasserà l’incasso medio dei
nostri film. C’è poco da fare: oggi un film italiano deve diventare “un caso” se vuol avere
speranze sul mercato».
Analizzando i 194 film nazionali e quelli a coproduzione maggioritaria, si scopre che ben
69 hanno un costo medio di 77mila euro, un costo da prodotto amatoriale o “amicale”. Altri
43 hanno un costo medio di 447mila euro, al di sotto della soglia di visibilità sul mercato.
Solo 25 titoli sono costati da tre milioni e mezzo di euro in sù.
Il credito fiscale si è ormai consolidato come principale fonte di finanziamento. Quello per
la produzione è stato richiesto per 123 pellicole, tra le quali tutte le 25 da 3,5 milioni in sù.
Gli investitori esterni, ovvero 135 imprese, tramite il tax credit, hanno apportato quasi 68
milioni di euro, nel 2014, ai film italiani. Le produzioni internazionali in Italia, grazie a una
modifica più favorevole dei relativi decreti, sono salite da 12 a 30 in un solo anno.
del 06/05/15, pag. 28
Se mamma Rai volta le spalle al cinema
italiano
Nei dati ufficiali 2014 segnali di crisi di pubblico E la rete dei film
tricolori è diventata Canale 5
Fulvia Caprara
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Il cinema italiano ha perso fascino, gli spettatori lo scelgono sempre meno (nei primi tre
mesi del 2015 il calo di affluenza nelle sale è di -8% rispetto allo stesso periodo del 2014),
ma la tv può aiutarlo, magari sostenerlo, magari rilanciarlo.
Però bisogna crederci. Secondo i dati diffusi ieri da Anica e Mibact, presente il Ministro
Dario Franceschini, la rete che scommette di più sui nostri autori è Canale 5. Su 62 film
made in Italy messi in onda in prima serata nel 2014, ben 45 sono stati trasmessi
dall’ammiraglia Mediaset. Su Raiuno, invece, se ne sono visti solo quattro, su Raitre nove,
su Rete 4 e su Italia 1 due a testa.
E il pubblico gradisce
Il pubblico gradisce, lo confermano i dati sull’audience di Canale 5, non solo nel caso della
Grande bellezza, programmato all’indomani dell’Oscar, ma anche in quelli di Benvenuti al
Sud (6 milioni e mezzo di telespettatori) e di Benvenuti al Nord (5 milioni 96 mila).
Nell’elenco dei top 10 trasmessi dalle tv generaliste l’anno scorso, Raiuno appare solo al
quinto posto, con l’americano Sister Act (platea pari a 4 milioni 318 mila).
Tocca al Ministro in persona far notare che si potrebbe dare di più: «Bisogna fare sistema,
o discutendo o intervenendo legislativamente per migliorare il rapporto fra produzione
cinematografica italiana e televisioni, cercando di non ragionare in contrapposizione.
Soprattutto il servizio pubblico televisivo deve fare sempre di più rispetto a ciò che già di
positivo fa, aiutando la distribuzione e spingendo perchè la programmazione sia fatta in
fasce orarie importanti. Non si tratta di un piacere fatto a un settore dell’industria italiana,
ma di un bene che si fa al Paese».
Insomma, è polemica. Il presidente dei distributori Anica Andrea Occhipinti, alla guida
della prestigiosa Lucky Red, rincara la dose sottolineando «l’evidenza di quanto poco la
Rai valorizzi il proprio investimento... Raicinema è colonna portante per gli investimenti,
ma la casa madre non crea altrettanti appuntamenti che possano suscitare affezione nel
pubblico».
Dal fronte dei produttori Anica, il presidente Francesca Cima parla di «dato allarmante per
il servizio pubblico», che indica una «progressiva scomparsa del racconto da proporre al
Paese».
Prime visioni in arrivo
L’ad di RaiCinema Paolo Del Brocco ribatte ricordando che la Rai ha «obblighi di
programmazione da rispettare, derivanti dal contratto di servizio». Sicuramente, aggiunge,
l’azienda di Stato «può fare meglio e si sta attrezzando per farlo, ma non bisogna
dimenticare che c’è una rete “all cinema” e che la Rai supporta i film prodotti, anche
quando vengono invitati ai festival».
Di certo c’è che Raiuno è il tempio della fiction (con 164 serate dedicate al genere) e che il
suo stesso profilo la obbliga a programmare tenendo presente il pubblico più generalista
che c’è. Però, a fine maggio, la prima rete promette due serate di film italiani, prima
Benvenuto Presidente con Claudio Bisio mattatore, e poi La mafia uccide solo d’estate di
Pif, in onda il 23, nella Giornata nazionale della legalità.
Su Canale 5, spiega il direttore Giancarlo Scheri, «il cinema è da sempre un genere
principe della programmazione, e deve continuare a esserlo. Lo consideriamo un
contenuto pregiato, che registra un enorme gradimento, le produzioni di Medusa e di Tao2
lo confermano».
Il 21 maggio, dopo che Sorrentino avrà presentato a Cannes La giovinezza (di cui la rete
ha trasmesso il primo trailer in esclusiva), è già decisa la nuova messa in onda della
Grande bellezza. Nei prossimi mesi saranno poi trasmessi La migliore offerta di Giuseppe
Tornatore e Venuto al mondo di Sergio Castellitto: «Sono prime visioni importanti, il
cinema è una delle risorse principali della tv generalista, inserirlo nel nostro palinsesto è
un modo per restituire quello che ha dato al nostro Paese».
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In fondo un modo per risarcire il grande schermo di tutto quello che perse, a suo tempo,
con l’avvento del piccolo.
del 06/05/15, pag. 35
Per la prima volta il regime ospita una rassegna internazionale Star il
regista Kiarostami finora bandito
Nuovo cinema Teheran via alla diplomazia dei
film
VANNA VANNUCCINI
TEHERAN
«NON mi sarei aspettato che il Festival facesse un tale gesto di favore non solo nei miei
confronti ma verso tutti i film che erano stati a lungo vietati». Davanti al pubblico stipato
nella Sala 2 del Mellat Cinema Center, Abbas Kiarostami non nasconde il suo stupore. Da
cinque anni il pluripremiato (all’estero) regista iraniano non lavorava più nel suo Paese.
Ora Copia Conforme, girato nel 2010 in Italia e fino a oggi vietato in Iran, inaugura a
Teheran il primo Film Festival Fajr Internazionale. In versione integrale: solo le scollature
generose di Juliette Binoche sono state leggermente appannate.
Kiarostami è la star del festival. Il suo ritratto spicca su tutte le pubblicazioni, in immagini
multiple come la Marilyn di Andy Warhol. È la prima volta che si tiene in Iran una rassegna
di film internazionale. Il cinema ha una lunga tradizione, è sempre stato molto popolare,
anche se proprio per questa ragione è spesso una spina nel fianco per i mullah. Lo era
anche ai tempi dello scià. Dopo la Rivoluzione, Khomeini, che amava il cinema, non lo
vietò come fece con la musica, si limitò a fissare delle linee rosse: per esempio che le
donne debbano comparire sullo schermo sempre velate o che non ci sia nessun contatto
fisico nemmeno fuggevole tra un uomo e una donna. Ogni anno, da 33, in occasione delle
celebrazioni dell’anniversario della Rivoluzione, si svolge a febbraio un festival, chiamato
Fajr perché “fajr” significa alba e s’intende l’alba della rivoluzione. Ma i film stranieri sono
sempre stati praticamente assenti dal festival come lo sono dalle sale cinematografiche, e
gli iraniani da sempre comprano sul mercato nero i dvd dei film che escono in Occidente.
Ecco invece quest’anno la grande novità: una settimana del Fajr distinta dal festival di
febbraio e dedicata alla rassegna di film stranieri e alla vendita dei film iraniani sul mercato
internazionale. Oltre alle sanzioni economiche devono cadere «le sanzioni mentali», ha
detto il direttore del Festival Hojatollah Ayoubi. Più di 200 produttori e registi di tutti i Paesi
del mondo affollano le sale del Mellat Cinema Center. Mancano solo le attrici, rimpiange
qualcuno, a Dubai era venuta perfino Nicole Kidman. Ma l’operazione seduzione ha successo. Per molti addetti ai lavori è la prima visita in Iran e tutti sono stupefatti di come l’Iran
sia un Paese ben diverso da quello che avevano conosciuto dal pur premiatissimo film
Argo.
Al bazar di Tajrish, uno dei più antichi di Teheran, una équipe di giovani gira dei “corti” che
vogliono presentare al festival. Sono i migliori allievi di Kiarostami, che il regista ha portato
con sé dal corso che ha tenuto a Barcellona per farli lavorare insieme ai suoi ex studenti
iraniani, che aveva dovuto abbandonare cinque anni fa quando aveva lasciato l’Iran.
L’entusiasmo è incontenibile: per gli spagnoli un’esperienza straordinaria, per gli iraniani
un sogno che sperano non finisca nello spazio del festival.
Kiarostami se n’era andato nel 2010, quando il cinema iraniano viveva i suoi momenti
peggiori. Dopo le proteste nel 2009 per la rielezione contestata di Ahmadinejad, qualsiasi
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film che avesse successo all’estero acquistava agli occhi del regime una valenza politica,
diventava un’eco della “sedizione” (come furono chiamate le proteste), e i suoi autori,
come è successo con Jafar Panahi e tanti altri, processati e a cui è stato impedito di
esercitare il loro mestiere. «Ci sono cineasti di fama internazionale assenti in questo
festival e di cui auspichiamo il ritorno », ha detto il ministro della Cultura Jannati e il
pensiero di tutti è andato appunto a Panahi, a cui la magistratura ha vietato di lavorare —
anche se evidentemente non tutti la pensano allo stesso modo tanto è vero che il regista
ha potuto girare (in taxi) un film con questo titolo che è stato premiato a Berlino.
Alla cerimonia di premiazione al Teatro Vahdat, una straordinaria orchestra di donne
percussioniste (una trentina di strumentiste insieme a tre cantanti e a una direttrice
d’orchestra) ha chiuso il festival suonando bellissima musica tradizionale — anche questo
un segnale. L’obiettivo del festival è palesemente quello di cominciare a realizzare
quell’apertura al mondo annunciata dal presidente Rouhani. Gli iraniani sperano che
l’accordo nucleare, se si arriverà a firmarlo il prossimo 30 giugno, non solo promuoverà lo
sviluppo economico e renderà possibili relazioni più aperte con l’Occidente, ma porterà
anche a una maggiore libertà e diversità culturale all’interno. Nell’attesa, un nuovo tipo di
politica si sta sviluppando in Iran. È una politica che non sta sulle barricate né mira a
sfidare l’autorità centrale — diversamente da quello che era successo agli inizi della
presidenza riformatrice di Khatami o durante le proteste del 2009. Si svolge nel mondo
della cultura e della vita di tutti i giorni. Se c’è una cosa che unisce gli iraniani di tutte le
posizioni politiche è l’orgoglio per la propria cultura e il timore di una umiliazione nazionale.
Il suo obiettivo è trasformare gradualmente la qualità della vita negoziando via via con
l’autorità centrale nuovi modi di vivere e di pensare — dalle minuzie dell’esistenza, per
esempio quanti capelli di una ragazza possano fuoriuscire dal foulard, quali libri o quali
film si possano pubblicare o vedere.
Queste aperture sono diventate possibili perché il clima politico si è stabilizzato. Il regime
si sente più sicuro, l’eco della “sedizione” è lontana. Rouhani gode della fiducia della
Guida Suprema ed è riuscito a trovare un certo modus operandi con i vari centri di potere
della Repubblica islamica in continua lotta per il predominio. Mentre all’estero gli intensi
negoziati sul nucleare hanno almeno messo la parola fine al tempo in cui (grazie anche
alle intemperanze di Ahmadinejad) l’Iran veniva considerato un attore irrazionale e
incalcolabile. Il direttore del Festival Ayoubi cita Rumi e potrebbe sembrare il nuovo motto
della leadership: «State lontani dai venti d’autunno, che fanno male a voi quanto ne fanno
agli alberi; ma accogliete i venti dolci di primavera perché vi saranno di vantaggio».
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ECONOMIA E LAVORO
del 06/05/15, pag. 5
Pensioni, l’Ue in pressing sull’Italia
“Una settimana per la soluzione”
Bruxelles: la ripresa è partita. Ma il mercato del lavoro resta al palo
Marco Zatterin
Appuntamento a lunedì. «Ci attendiamo che all’Eurogruppo il ministro Padoan spieghi la
situazione e come intende agire», sussurra un pezzo grosso della Commissione Ue. Il
problema del giorno è il pronunciamento della Consulta che ha bocciato i tagli
previdenziali voluti dal governo Monti nel 2012, una decisione che potrebbe costare al
Tesoro una decina di miliardi e minacciare l’equilibrio europeo dei conti pubblici. «Spetta
alle autorità italiane valutare l’impatto della sentenza e definire le misure compensatorie
per restare in linea con gli obiettivi del patto di Stabilità», dice il Commissario per
l’Economia, Pierre Moscovici. Bisogna però agire rapidamente, anche perché fra una
settimana arrivano le raccomandazioni di Bruxelles che, ovviamente, vuole avere un
quadro molto preciso per poter dire la sua.
La congiuntura
Come va la congiuntura lo ha spiegato ieri. «Gli indicatori confermano che c’è una vera
ripresa ciclica in Europa», ha assicurato il francese, presentando il rapporto previsionale di
primavera dell’esecutivo Ue. Il capitolo italiano segnala un ritorno alla crescita sotto forma
di ripresina, i conti pubblici imbrigliati ma con qualche fattore di rischio, l’inflazione in
ripresa (netta, se non sarà congelato l’aumento dell’Iva) e disoccupazione purtroppo
ancora in zona dramma. Il Bel Paese appare concentrato a spingersi oltre la metà del
guado, con un pil che nel 2015 salirà dello 0,6%, soprattutto grazie alla domanda esterna,
mentre l’anno prossimo sarà all’1,4%, anche per merito degli investimenti pubblici
finalmente riattivati.
Si può fare, sebbene restino due gruppi di incognite: l’equilibrio e la sostenibilità del
bilancio che va ulteriormente garantita e il male dei senzalavoro che si fatica a estirpare.
C’è infatti l’incognita dei rimborsi post Corte Costituzionale che i tecnici di Bruxelles
assicurano essere puro deficit in aumento per il 2015. A Roma studiano come
disinnescarne almeno in parte gli effetti: la sensazione è che si troverà una via, attraverso
la solita elaborata trattativa con l’Unione. A ciò si aggiunge il fatto che gli obiettivi delle
previsioni di primavera - il deficit al 2,6% nel 2015 e al 2 nel 2016 - vengono calcolati al
lordo della clausola di salvaguardia con l’aumento dell’Iva a gennaio (dal 22 al 24%) che il
governo vuole evitare. Sono 12,8 miliardi. Implica che per centrare i numeri delle
europrevisioni il governo deve mettere insieme, in un modo o nell’altro, circa 23 miliardi.
Il nodo dei disoccupati
La buona notizia della ripresa reale è in parte oscurata dal mercato del lavoro. Nel 2014 è
rimasto a casa il 12,7% della forza attiva: nel biennio appena cominciato la previsione va
al 12,4, non un gran che, anche se il dato è meglio delle stime invernali. I numeri spiegano
il problema. Avanza l’occupazione (+0,6% nel 2015) ma la disoccupazione è congelata ad
alta quota. Vuol dire che la ripresa non è in grado di alimentare meccanismi virtuosi, e che
le imprese - intorno al 60% della capacità produttiva - rifiatano senza aprire nuovi varchi. Il
vero cruccio del governo è - e resterà per qualche anno - la situazione occupazionale.
Oltre che la competitività complessiva del sistema.
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Il resto è sulla strada giusta. Il 2016 dovrebbe essere un anno sostanzioso per la crescita,
il primo dal 2011. A dicembre l’aumento dei prezzi sarà dello 0,2%, dato che arriverà
dell’1,8% nel 2016 (se ci sarà l’aumento dell’Iva), indebolendo i redditi reali (-1,2%). Siamo
al sicuro? Avverte Moscovici: «La maggiore sfida è l’elevato debito con la crescita che
resta debole, perciò bisogna articolare una politica di bilancio prudente con un’agenda di
riforme ambiziosa». Il francese avverte che proprio la «ritrovata primavera non deve far
rinunciare allo sforzo riformista». Per una volta, non lo dice soprattutto all’Italia.
del 06/05/15, pag. 11
“GARANZIA GIOVANI”: CHI S’ARRICCHISCE
COL MILIARDO E MEZZO DI POLETTI
di Salvatore Cannavò
Che il progetto Garanzia Giovani sia un flop è ormai assodato. Che lo stanziamento
previsto dall’Unione europea, 1,5 miliardi per l’Italia, sia stato un affare per aziende
private, agenzie del lavoro o Enti di formazione, è invece un fatto poco noto. Eppure,
leggendo le circolari applicative, guardando i contratti che vengono fatti firmare ai giovani
interessati, quelli tra i 15 e i 29 anni, i compensi previsti per chi si accredita al progetto e
gli incentivi per chi assume, magari solo per sei mesi e poi ciao, sono indicati chiaramente.
Si tratta di centinaia di milioni.
Lunedì sera, intervistato da Piazzapulita, l’amministratore di Manpower, una delle più
grandi agenzie del lavoro del mondo, Stefano Scabbio, alla domanda su quali cifre la sua
azienda ricavi dalla Garanzia Giovani ha parlato di un generico 1% del fatturato. Stando ai
risultati pubblicati dal sito dell’azienda – 819 milioni di euro il fatturato italiano – si
tratterebbe di circa 8 milioni. In realtà si tratta di una cifra molto superiore. Sia perché a
godere della possibilità di accreditarsi a Garanzia Giovani e quindi lavorare come strutture
di supporto ai giovani in cerca di impiego, ci sono diverse società (nel Lazio sono 14, in
Calabria 21, per fare alcuni esempi), sia perché le possibilità di guadagno diretto sono
molteplici e, spesso, di difficile individuazione. Cosa che, comunque, cercheremo di fare.
Come funziona. Garanzia Giovani è rivolta ai giovani tra i 15 e i 29 anni con l’obiettivo di
proporre un’offerta di lavoro “qualitativamente valida” entro quattro mesi dalla presa in
carico. Il progetto punta a valorizzare le esperienze fatte, i curricula, gli studi e, nel caso di
non completamento degli stessi, di formarsi per proseguirli. È affidata alle Regioni che
hanno predisposto dei piani attuativi specifici. I giovani che intendono usufruirne si
rivolgono ai Centri per l’Impiego (Cpi) a livello provinciale dove ricevono “l’accoglienza” e
usufruiscono del primo “orientamento”. In questa fase i Cpi si incaricano di “profilare” i
soggetti, facendo conoscere il funzionamento di Garanzia Giovani e cercando di
conoscere i giovani, le loro competenze e aspirazioni. A questo punto verrà proposto un
percorso di inserimento personalizzato che spazia sulle varie offerte del programma:
Formazione, Accompagnamento al lavoro, Tirocinio, Apprendistato, Servizio Civile,
Autoimprenditorialità, Bonus occupazionale alle imprese. Qui, iniziano i conti di chi ci
guadagna.
Al momento di accettare il percorso, l’utente firma un “Patto di servizio” con il quale
entrano in gioco le società accreditate, gli enti di formazione o agenzie per il lavoro. Per
capire come funziona si può prendere ad esempio il Piano di attuazione della Regione
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Lazio. Qui sono previste due misure, “l’orientamento specialistico, misura 1.C” e
“l’accompagnamento al lavoro, misura 3”. Nel primo caso, l’orientamento viene condotto
da un operatore del soggetto accreditato che per questo servizio ha un compenso di 35
euro l’ora. I programmi sono di 4 o 8 ore a giovane con compensi, quindi, di 142 euro e
284 euro per ogni giovane che usufruisce del servizio di orientamento. Ricordiamo che, al
29 aprile, i giovani che si sono registrati a Garanzia Giovani sono stati 542.369, quelli presi
in carico sono stati 279.653 e quelli a cui è stata proposta almeno una misura 83.061. Le
cifre vanno quindi commisurate su questi grandi numeri.
Molto più caro, invece, il servizio di “Accompagnamento al lavoro”. Qui la società è
retribuita in due forme: ha un rimborso elevato in caso di “raggiungimento del risultato”,
cioè la stipula di un contratto di lavoro ma, in subordine, ha una “quota fissa” in caso di
mancato raggiungimento. Il rimborso è differenziato a seconda del tipo di contratto e del
profilo dell’utente. Nel caso di un tempo indeterminato o apprendistato si va da 1.500 a
3.000 euro a utente (a seconda della difficoltà a collocare il soggetto interessato), nel caso
di tempo determinato, apprendistato o somministrazione di 12 mesi si va da 1.000 a 2.000
euro che scendono, rispettivamente, a 600 e 1.200 se il contratto è tra i 6 e gli 11 mesi. La
“quota fissa” invece, è stabilità al 10% delle cifre sopra descritte facendone una media: si
tratta di 130-160 euro a utente.
L’intervento degli enti privati è rilevante anche nel percorso formativo, finanziato con 280
milioni e che prevede corsi tra le 50 e le 200 ore mentre la misura di “accompagnamento
al lavoro” è finanziata con 205 milioni.
Poi c’è l’altro rivolo dei finanziamenti, il bonus occupazionale. Questa misura è finanziata
con 190 milioni. Alle aziende che si fanno carico del contratto di lavoro proposto, viene
riconosciuto un “bonus” consistente. A essere finanziati sono i contratti a tempo
determinato per 6-12 mesi, a tempo determinato superiore a 12 mesi e a tempo
indeterminato. In quest’ultimo caso, a seconda della difficoltà del soggetto, si va da 1.500
a 6.000 euro a lavoratore, mentre per i tempi determinati a 6 mesi si va da 1.500 a 2.000
euro e per quelli fino a 12 mesi da 3.000 a 4.000 euro. Si tratta di soldi freschi, che
finiscono nelle casse delle imprese, non al lavoratore, e che possono essere cumulati con
altri incentivi pubblici, ad esempio quelli per il contratto a tutele crescenti.
Poi ci sono altri incentivi cospicui. Da 2 a 3 mila euro per l’apprendistato di primo livello,
fino a 6.000 euro per l’apprendistato di terzo livello. Infine, il tirocinio (minimo 300 euro)
che viene erogato dalla Regione alle aziende (ma l’Inps non ha ancora sbloccato i
pagamenti e c’è voluta la manifestazione dei precari della Coalizione 27 febbraio per far
muovere il presidente Tito Boeri) che spesso utilizzano i giovani a tempo pieno.
Facendo il conto complessivo di come le Regioni hanno stanziato i fondi loro assegnati, si
scopre che le voci Accompagnamento al lavoro (205) e Formazione (280) sommano 485
milioni di euro. Le voci Tirocini (300), Bonus occupazionale (190) e apprendistato (63)
cumulano 553 milioni. Il resto se ne va per Servizio civile, accoglienza, autoimpiego,
Mobilità professionale.
Il grosso della Garanzia Giovani se ne va così. A vigilare sembra non ci sia nessuno. I
giovani disoccupati aspettano di avere un lavoro. Vero.
del 06/05/15, pag. 27
Le municipalizzate rompono l’ultimo tabù
dall’Emilia a Milano Comuni sotto il 50%
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E’ iniziata la serie di assemblee delle utility che diventano “a
prevalente” controllo pubblico In arrivo più investimenti e aggregazioni
LUCA PAGNI
MILANO .
C’è chi, come il gruppo Hera, ha già preso la sua decisione nell’assemblea dei soci. E chi,
come la lombarda A2a, ha avuto l’avvallo politico all’operazione dai sindaci. Ma il risultato,
in entrambi i casi, porta allo stesso risultato. Per le utility pubbliche quotate in Borsa è
caduto anche l’ultimo tabù: la discesa sotto il muro del 50 per cento di azioni controllate
dalla mano pubblica. A fare da apripista, come in altre occasioni quando si parla di ex
municipalizzate, è stata Hera (retto da una patto di sindacato composto da una
cinquantina di Comuni emiliano-romagnoli) la cui assemblea ha votato a stragrande
maggioranza il passaggio da “società pubblica” a società a “prevalente” controllo pubblico.
Ma la decisione - anche se per ora limitata alla sfera politica - è già stata presa dai comuni
di Milano e di Brescia, i quali controllano il 25 per cento a testa del gruppo A2a.
Nonostante i timori della sinistra e dei sindacati che temono in questa decisione un primo
passo per la privatizzazione delle utility locali, i sindaci interessati - in qualità di soci di
controllo - hanno fatto intendere che a guidare le scelte sono altre ragioni. E non per forza
la necessità di fare cassa per coprire i tagli imposti dal Governo, come in effetti hanno fatto
Milano e Brescia negli ultimi mesi che hanno collocato in più tranche sul mercato un 2,5
per cento del capitale di A2a a testa. E come si appresta a fare anche il comune di Parma
che si appresta a cedere il 3,6 per cento di Iren (l’utility che controlla assieme a Genova,
Torino, Reggio e Piacenza).
Ma i motivi non sono solo finanziari. Si vuole così lanciare un segnale agli investitori
privati: una società in cui il socio di controllo scende sotto il 50 per cento, tra le altre cose,
si apre alla possibilità di avere consiglieri indipendenti nel cda e/o di rappresentanti delle
minoranza. E lo stesso discorso vale per il monte dividendi: i minori incassi da parte del
Comune potrebbero essere compensati dall’ingresso di nuovi soci che scommettono sulla
crescita dell’azienda.
Il secondo motivo è politico. Il governo Renzi ha lanciato da tempo una campagna per
favorire la riduzione delle società controllate da enti pubblici, con lo scopo dichiarato di
scendere dalle circa 8mila totali a non più di un migliaio. E le utility quotate in Borsa
potrebbe svolgere il ruolo di poli aggregatori. Non per nulla sia il presidente di Hera, l’ex
manager Telecom Tomaso Tommasi, sia il presidente di A2a, il docente della Bocconi
Giovanni Valotti hanno detto chiaramente che la strada delle fusioni passa per le piccole
realtà regionali. Bocciando di fatto il progetto coltivato in passato di una grande multiutility
del nord che comprenda le due realtà in questione e il gruppo Iren. Che non sia questa la
strada, del resto, lo ha confermato nei giorni scorsi il presidente di Iren, l’ex ministro
Francesco Profumo: «La maxi fusione tra utility del nord non è all'ordine del giorno, il
nostro interesse è forte ed è nei territori di riferimento». Infine, la vendita di quote sotto il
50 per cento ha un valore industriale: il ricavato servirà per garantire nuovi investimenti. E,
in ultima istanza, le azioni potrebbero essere usate anche per scambi carta contro carta
con quei comuni che decidessero di fare parte di realtà più grandi.
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