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Giovani promesse, venerati maestri.
Per un dialogo tra saperi nelle scienze aziendali
FRANCESCO IZZO*
Siamo orfani ora.
Se non si divide il buio,
si tradirà sempre la luce
(Vinicio Capossela, Orfani ora)
Abstract
Il saggio intende offrire un contributo di analisi al dibattito che ha animato negli ultimi
tempi la comunità degli studiosi italiani di discipline aziendali. L’articolo muove dalle
suggestioni del saggio del prof. Canziani, e in particolare dalle critiche che l’Autore rivolge
alla deriva empirista dei nostri studi, per configurare forme condivise e meccanismi di
dialogo fra la tradizione italiana e i nuovi standard della comunità accademica
internazionale.
Parole chiave: metodologia della ricerca; criteri di valutazione della ricerca; scienze
aziendali
The purpose of this paper is to contribute to the growing debate on the evolution of
business studies in Italy. Drawing on the suggestions and criticism within the essay written by
prof. Canziani, the paper looks at how research methods and evaluation practices embedded
in our traditional institutions could dialogue and be enriched with new streams of
international academic community.
Key words: research methods; research evaluation; management science
1. Ipotesi di complotto
Mi perdonerà il professor Canziani, che dimostra nel suo saggio
un’insospettabile e formidabile cultura cinematografica, accanto a una ben più nota
passione per la filosofia, se le mie riflessioni partono dagli ultimi movimenti della
sua macchina da presa, dai titoli di coda.
*
Ordinario di Strategie d’Impresa - Seconda Università degli Studi di Napoli
e-mail: [email protected]
sinergie n. 87/12
ISNN 0393-5108
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GIOVANI PROMESSE, VENERATI MAESTRI
È nelle Conclusioni, difatti, che il prof. Canziani affonda il suo colpo. È nelle
ultime pagine, dove stigmatizza i «complessi di inferiorità» che serpeggiano nella
nostra accademia e mette in guardia dai rischi di una «competitività infondata e
bislacca» che sembra animare una porzione ampia della nostra accademia di studi
aziendali, che si chiede se non sia in atto «una ben mascherata battaglia
generazionale di alcuni giovinotti rampanti ansiosi di “successo”, evidentemente
dimentichi di quanto ci ha insegnato Flaubert, il successo non può mai essere essere
un obiettivo, semmai sarà una conseguenza» (Canziani, 2011, p. 65).
Il piano di guerra (di colpo di stato?), contando sulla conoscenza dell’inglese dei
golpisti e recando in dote pubblicazioni «su riviste straniere», si porrebbe due
obiettivi fondamentali: «di poter centrifugare tutti i propri predecessori in quanto
appunto privi di “pubblicazioni straniere”; di poter nel contempo cancellare dal
sistema tutti i loro contemporanei anche più giovani, ove essi non accettino di
piegarsi a voler divenire gli ultimi dei presunti primi» (Ibidem).
L’idea del prof. Canziani è che siamo in presenza di un complotto, di una trama
organizzata: «Si tratterebbe in sostanza di un processo coordinato - aggregato per
età, progetti, interessi - teso a propugnare ed imporre nuovi, strumentali e
inqualificabili “metodi di valutazione” per condurre la competizione accademica
non sulla base della ricerca o dell’avvicinamento al vero, ma viceversa in modi per
descrivere i quali occorrerebbero termini che non stanno bene in una rivista
scientifica» (Ibidem).
Vorrei rassicurare il prof. Canziani. Non credo all’esistenza di un complotto di
young turks, né all’azione mascherata di un processo “coordinato” che intenda
imporre con la forza o con l’astuzia «strumentali e inqualificabili metodi di
valutazione». Non credo ai pogrom né alle pulizie etniche. Non vi è dubbio che il
prof. Canziani colga nel segno quando si scaglia contro i pasdaran della ricerca
come dogma, delle scienze sociali come costellazioni di algoritmi, degli studi
aziendali come sistemi di equazioni; contro gli iconoclasti che si dedicano con
ardore e incrollabile “fede nell’avvenire” a bruciare in un rogo catartico i lavori non
coerenti con i canoni epistemici che avanzano. E coglie nel segno quando svela il
complesso di inferiorità delle nostre discipline non solo verso le hard sciences, ma
ancor più verso le scienze economiche che già da tempo, come avverte il prof.
Canziani, hanno abbracciato il mantra del matematismo, sperando di guadagnarsi
per tale via il paradiso come «Scienza rebus ipsis dictantibus» (Canziani, 2011, p.
61). Tuttavia, non vorrei che di un processo evolutivo che, non senza errori e
clamorose contraddizioni, non senza compromessi e passi falsi, è inarrestabile come
una marea, ne guardasse ipnotizzato solo la dimensione ideologica e i caratteri
caricaturali, come quelli che a ragione ha riscontrato nelle critiche (i “vituperi”) al
modello delle “Scuole”.
Siamo in presenza di un radicale cambiamento di scenario nel nostro mondo
accademico, avvenuto con una rapidità forse imprevista e con un rovesciamento di
regole e principi non sempre condivisibile nei modi. Come una marea, anzi come
un’esondazione dei fiumi sacri, reca con sé anche l’impronta di una rinnovata
fertilità. In uno scenario che muta, nella storia come nell’accademia, ci sono
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posizioni di rendita che improvvisamente crollano, sommovimenti e frane, rincorse
affannose a recuperare la testa del plotone, alleanze alla luce del sole e
abboccamenti nascosti, nuove cordate che emergono, nuovi leader che tentano di
imporsi. Ha ragione il prof. Canziani: è «un’epoca disordinata» e «spiritualmente
confusa». Ma, non c’è una strategia deliberata; ci sono attori di questo processo che
godono di risorse scarse e in un campo di gioco à la Bourdieu con nuove regole (e
ammettiamolo, con arbitri discutibili) dispiegano una strategia legittima cercando di
trarre il massimo beneficio da una situazione favorevole. Ma il kairos, il tempo
opportuno, la situazione favorevole non è stata creata ad hoc; è l’effetto di un
processo di cambiamento cominciato molto tempo prima che ha investito con ritardo
l’accademia italiana e che ha in sé non pochi benefici, senza dubbio qualcuno in più
ai pochi che al “nuovo corso” attribuisce il prof. Canziani.
2. Il potenziale della situazione
Vorrei provare a spiegare meglio il concetto di “potenziale della situazione” per
sgombrare il campo dal rischio (e dall’equivoco) del complotto. In un meraviglioso
piccolo libro, il filosofo francese François Juillien spiega le differenze tra il pensiero
strategico all’occidentale e la strategia secondo la filosofia cinese, mostrando come
la seconda fondata sul potenziale della situazione si distingua dalla prima, costruita
sul potere della modellizzazione.
“Leggendo Sun Tzu o Sun Bin, ci si rende facilmente conto di come due fra le più
pregnanti nozioni del pensiero strategico da essi espresso non passano per la
distinzione fra modellizzazione ed applicazione, e anzi procedono a dissolverla.
Queste nozioni sono da una parte quella di ‘situazione’, ‘configurazione’, ‘terreno’
(xing), dall’altra ciò che tradurrei con ‘potenziale della situazione’ (shi). Lo stratega
viene invitato a partire dalla situazione, non da una situazione quale potrebbe essere
preliminarmente modellizzata, ma dalla situazione in cui ci si trova e all’interno della
quale si tenta di scoprire dove risiede il potenziale e come sfruttarlo. L’immagine
privilegiata dai trattati di strategia cinese ci rinvia a un’esperienza assai comune,
senza che venga chiamato in causa alcunché di misterioso (…) Prendiamo per
esempio un caso tipico: se raccogliamo una certa quantità d’acqua alla sommità di una
pendenza costruendo uno sbarramento per trattenerla, potremmo calcolare, in
funzione della massa d’acqua e dell’inclinazione della pendenza, la forza con la quale,
nel caso si aprisse una falla, l’acqua scenderebbe, portando con sé tutto ciò che si
trova sul suo cammino. È esattamente la stessa immagine che troviamo sul versante
cinese. Ma sul versante europeo, se ne ricava un teorema della fisica, mentre sul
versante cinese l’immagine viene sfruttata dal punto di vista della strategia. Il grande
generale sarà infatti proprio colui che è sempre in grado di trovare una pendenza sotto
di sé: egli vedrà allora scorrere le sue truppe come l’acqua che segue la pendenza del
terreno, senza sforzo. E allo stesso modo dell’acqua, travolgerà tutto quello che
incontrerà sul suo cammino, senza che niente gli possa resistere (…) L’iniziativa non
verrà tutta da me, ma vi sono, nella situazione stessa, fattori favorevoli sui quali mi
posso appoggiare per farmi portare. I cinesi hanno particolarmente sviluppato l’idea
secondo cui la strategia non sarebbe altro, in linea di principio, che la ricerca dei
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fattori favorevoli da cui trarre profitto” (Jullien, 2006, pp. 27-29).
È quanto sta accadendo. Anch’io, come il prof. Canziani, vorrei citare un
memorabile scambio di battute da Grosso guaio a Chinatown in un dialogo tra
Wang Chi e Jack Burton:
-
L’uomo coraggioso ama sentirsi la natura sulla pelle.
Sì, e l’uomo saggio ama usare l’ombrello quando piove!
Sta piovendo. E il saggio ci consiglia di aprire l’ombrello. Non di lasciarci
bagnare fino ad affogare, travolti dal temporale. Né di sostenere che la pioggia è
ingiusta. La pioggia, ci insegna il Qoelet, cade sul giusto e sull’ingiusto. Per tali
motivi ritengo che le parole del prof. Canziani siano forse ingenerose. Nondimeno,
hanno il potere di illuminare una scena che rischia di restare immersa in un
colpevole cono d’ombra, ovvero di spiegarci quali conseguenze potrebbero
determinarsi accettando in modo rassegnato che norme, tradizioni, canoni maturati
in discipline differenti si estendano senza adattamenti della nostra area scientifica,
cancellandone per sempre i canoni, le tradizioni, le norme. E le conseguenze,
soprattutto quelle non intenzionali, sono decisive e il monito del prof. Canziani è
quanto mai opportuno. «La conseguenza - avverte il Malaussene di Pennac - è un
atterraggio di fortuna di una conclusione tratta male». Ma su questo punto, su che
cosa rischiamo di perdere affidandoci al (e fidandoci del) “nuovo” che avanza,
tornerò fra poco.
3. Il falò delle vanità
Spiegati i miei dubbi sull’ipotesi complottista, sul «processo coordinato», vorrei
tornare sulla mutazione di scenario, sul cambiamento nelle regole del gioco, sul
salto evolutivo della nostra disciplina. Così va il mondo caro Polonio, cita, il prof.
Canziani sconsolato, il Grande Bardo. E a me tornano in mente le parole
dell’epilogo di un’altra Chinatown, quella mirabilmente raffigurata da Roman
Polanski nel suo capolavoro del 1975: «Lascia perdere, Jack. È Chinatown!». Un
mondo stabile, formule consolidate, meccanismi che avevano resistito all’usura del
tempo e alle pressioni ambientali - ne cito solo una: la politica - sono stati scardinati.
E in modo irreparabile. È Chinatown e non abbiamo altri mondi dove scappare.
Sono cresciuto nella terra di mezzo, a metà tra la generazione dei Maestri e il
tempo delle Scuole e, ora, l’Era del Fattore d’Impatto. Ho avuto la fortuna di avere
un Maestro, il prof. Lucio Sicca - aperto al nuovo e alle sperimentazioni, mai
rinnegando i principi e i valori dell’accademia -; di formarmi in una Scuola di
antiche tradizioni, la Facoltà di Economia dell’Università Federico II di Napoli; ho
letto e scritto negli anni della mia formazione quelle monografie che «giungono al
culmine di anni di ricerche sul tema». Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente
internazionale come quello disegnato dall’utopia breve di fondare una business
school nel Mezzogiorno, sostenuta nei miei anni da una palestra eccezionale di
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cultura manageriale come l’IRI, e da una prestigiosa istituzione americana, il Mit di
Boston. Ho avuto la fortuna di incontrare e di confrontarmi con colleghi e maestri
statunitensi, svedesi, finlandesi, francesi; di apprezzarne il rigore metodologico, il
confronto in campo aperto senza reticenze o false ipocrisie, le critiche rudi senza
alcun rispetto della gerarchia, perché è così che avanza la conoscenza; al contempo,
di ammirarne, però, la disponibilità costante al dialogo, a ragionare con i più giovani
senza i pregiudizi e senza l’allure che quasi sempre marcava l’atteggiamento e i
comportamenti dei “maestri” italiani, a mettersi in gioco.
Nel passato, sono stati commessi errori, sono state percorse strade sbagliate. E
Canziani ricorda a ragione «le camarillas concorsuali ammantate di appartenenza»;
«le alleanze economico-professional-scientifiche che intrecciano giovevolmente ma solo per i partecipanti - cattedre e affari e finanziamenti alla ricerca»; «i centoni
compilativi o copiazzati, i c.d. libri da concorso facili da scrivere (…) usciti
urgentemente a stampa con la tipografia sottocasa» (Canziani, 2011, p. 52). E
ricordiamo i convegni disegnati come “fiere della vanità”, per omaggiare il potente
di turno, per stringere o sciogliere alleanze, per accelerare o stroncare carriere.
Possiamo allora discutere di impact factor e di citation index - personalmente,
per i motivi e i limiti che ricorda il prof. Canziani e per altri ancora, sono contrario
all’applicazione di tali criteri senza un’indispensabile gradualità; temo la
discrezionalità di applicazione della peer review e giudico inaccettabile sotto il
profilo metodologico una valutazione secondo criteri fissati ex post - ma è
innegabile che il nuovo Weltanschaaung, la nuova visione del mondo informata da
un nuovo spirito del tempo («Questione di riflessi», commenterebbe Jack Burton in
Grosso guaio a Chinatown), abbia recato con sé maggiore trasparenza, maggiore
competizione, maggior rigore metodologico. E rigore, competizione, trasparenza
sono tutti ingredienti fondamentali per il progresso della conoscenza scientifica.
Competere per pubblicare in una rivista giudicata eccellente; essere valutati dalla
comunità dei tuoi “pari” per poter presentare un paper a un convegno; discutere in
modo franco, senza pregiudizi, senza bandiere da difendere a ogni costo e al di là di
ogni ragionevole dubbio, senza il riparo dell’ombrello delle scuole e dei maestri,
senza l’alibi comodo delle guerre di religione: è una conquista della comunità degli
studiosi di discipline aziendali italiani e non un tradimento dei nostri padri fondatori.
Naturalmente, soprattutto quando si giunge tardi a comprendere la necessità di
cambiare (e si subisce, piuttosto che guidare, il processo di adattamento), si
commettono errori. Errori di ingenuità, di fretta, di pressappochismo. Si imboccano
scorciatoie pericolose perché solo in apparenza le più facili e immediate da
percorrere, per esempio “importando” tel quel criteri e meccanismi di valutazione
germogliati in differenti campi di ricerca e ad altre latitudini scientifiche, proprio
ora, paradossalmente, oggetto di critiche, di rivisitazioni, di ripensamenti 1 . È il
1
Un’esperienza personale. Dal 2010 sono a capo dell’Organismo indipendente di
valutazione - l’OIV, una delle “invenzioni” della Riforma Brunetta per la pubblica
amministrazione - della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. Fondata nel 1872 da
un allievo di Darwin, è una delle più prestigiose istituzioni di ricerca nel campo della
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paradosso dell’Italia, del suo rincorrere continuo, della dynamique du rattrapage,
dove inseguendo i battistrada capita di sbandare, dove accettando ricette e terapie
raccomandate per altri “pazienti” si finisce per inseguire il miraggio di miracolose
guarigioni.
Siamo una disciplina giovane, se confrontata con le scienze dure. Si avanza per
salti, lungo una traiettoria di punctuated equilibrium, di trasformazioni rapide
seguite da lunghe fasi di stabilità. Le transizioni da uno stadio all’altro non sono mai
“leggere”, mai indolori, soprattutto se mettono in discussione certezze “indiscusse”,
principi “inviolabili”, regole “indissolubili”2.
Se c’è una contraddizione nel saggio del prof. Canziani è nell’adoperare nella
critica al “nuovo” approccio come termine di confronto proprio gli eccessi che
vengono “rinfacciati” alla “tradizione”. Lo scientismo, il matematismo,
l’onnicentrismo (e tutta la batteria di - ismi contemporanei, come ci ammonirebbe
Capuana) sono le “derive” del nuovo modo di affrontare i nostri studi, ne
rappresentano le caricature e gli eccessi laddove non si dimostrino in grado di
raggiungere obiettivi conoscitivi. Vituperare un eccellente articolo pubblicato da
un’eccellente rivista internazionale somiglia a “vituperare” una Scuola o a
disprezzare le Monografie tout court solo per falso conformismo. Così come
Canziani giustamente avverte del pericolo delle generalizzazioni - tutte le
Monografie secondo i Modernisti sono «centoni compilativi o copiazzati» - in modo
analogo commette l’errore di generalizzare: tutti i paper internazionali sono da
buttare, perché contaminati irrimediabilmente da forme contagiose di empirismo
anglosassone, perché infarciti di «errori strutturali e applicativi», commessi da
apprendisti stregoni incapaci di maneggiare una «strumentazione tipicamente
regressiva» della quale tuttavia «ne ignorano le regole e le sottigliezze», soprattutto
perché non «in grado di guidarne il procedere inferenziale (p. 61).
Per fortuna, non tutti i saggi pubblicati da riviste di prestigio, in Italia come
all’estero, sono solo scientisti o matematisti, solo equazioni e algoritmi («solo
chiacchiere e distintivo», per citare i Grandi Classici). Per fortuna, non tutti si
dedicano, prendendo in prestito le gustose metafore del prof. Canziani, ad inferire
(infierire?) sulle zampe del povero grillo o a regredire il numero dei giorni di sole
con un guardaroba di camicie a quadretti. Questa è la caricatura della ricerca
quantitativa - un approccio metodologico che, per amore di verità, non prediligo e
2
biologia marina. Ha un comitato scientifico in cui siedono tre premi Nobel. Da tempo, e
con il sostegno dei Grandi Saggi, ha deciso di affidarsi in modo pressoché esclusivo a una
valutazione della ricerca secondo i canoni della peer review, proprio per sottrarsi ai rischi
ricordati dal prof. Canziani, alla tirannia non sempre trasparente dei fattori di impatto, alla
circolarità delle citazioni, al potere di veto e di indirizzo delle riviste, agli effetti distorsivi
della conversione in numeri di principi in apparenza validi.
Alla “transizione” del settore scientifico dell’Economia e Gestione delle Imprese sono
stati dedicati gli incontri romani della prima metà di febbraio e maggio del 2012. Ma
come osserva il prof. Baccarani in una sua nota in margine al primo raduno, citando il
grande Flaiano, «viviamo in un periodo di transizione, come sempre d’altronde». Potrei
aggiungere che «la situazione in Italia è grave, ma non è seria».
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che frequento poco -, è la sua versione deformata, è la sua raffigurazione
parodistica.
Non esiste un metodo migliore nelle scienze sociali. C’è la buona ricerca e la
cattiva ricerca. E la buona ricerca è quella che adopera il metodo adeguato agli
obiettivi conoscitivi che il ricercatore intende raggiungere. Credo nella lezione di
Edgar Morin, credo nella pluralità dei metodi e nella contaminazione dei metodi;
temo il dogmatismo e i valori assoluti. Per fortuna, la varietà delle forme e dei modi
di pubblicazione è diventata sempre più ricca e, per fortuna, esistono ancora
eccellenti riviste italiane e internazionali disposte a pubblicare eccellenti lavori
qualitativi, perfino speculazioni puramente teoriche. Non lanciamoci in battaglie di
retroguardia; combattiamo piuttosto per garantire la pluralità dei metodi, la pari
dignità degli approcci di ricerca, la par condicio fra design alternativi di ricerca se
però nella contrapposizione di metodo e nelle pluralità di tecniche obbediscono alle
medesime e condivise regole di rigore.
Siamo attori di un “mercato” imperfetto, quello della reputazione. E se in
passato, in un mercato nazionale, a volte regionale, con una manciata di giocatori in
campo, la reputazione si guadagnava con le monografie e con la capacità di creare e
preservare Scuole, in questa «epoca disordinata» e «spiritualmente confusa», come
scrive Canziani, in uno scenario diventato globale, dove gli spazi e il tempo si sono
contratti e la varietà si è dilatata - come scriveva in una “monografia” di alcuni anni
fa Enzo Rullani con Roberto Grandinetti - la reputazione si conquista e si difende
partecipando a un dibattito per sua natura senza confini geografici. Sono cambiate
non solo le regole, non solo i sistemi di valutazione e le fonti della reputazione, ma i
giocatori in campo, le Scuole come i Maestri.
4. Scuole e Maestri. L’età dell’innocenza
4.1 Le Scuole
Le Scuole non esistono più. Almeno come le abbiamo intese in passato. Come
mostrano i saggi del prof. Canziani e di Daniele Dalli, le Scuole, istituite a
immagine e a somiglianza dei fondatori, le Scuole segnate da miti fondativi, riti di
iniziazione, valori (e disvalori) condivisi, linguaggi esoterici, sono evaporate. Le
Scuole - scrive Canziani - «prima o poi decadono, e inverano soltanto il proprio
proseguire stanco, formale e insterilito: finiscono in niente oppure divengono
soltanto la caricatura di se stesse». Decadono come decadono le famiglie
imprenditoriali, secondo la sindrome dei Buddenbrook narrata da Thomas Mann;
decadono quando si affievolisce l’imprinting del Genio e gli “scolari”, per citare don
Benedetto Croce, ne lasciano «spegnere lo stile animatore».
Le “Scuole”, nel resto d’Europa e in un buon numero di università italiane, si
sono trasformate in centri di ricerca quasi sempre molto focalizzati, in grado di
attrarre talenti e fondi, di stabilire relazioni con altri “nodi” di ricerca in giro nel
mondo. Soprattutto, mi sembrano in deciso e inarrestabile declino le Scuole-feudi.
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Molti nostri dipartimenti hanno cominciato a evolversi, convertendosi - per
adoperare le parole che Charles Sabel una volta ha utilizzato per enfatizzare il salto
evolutivo del modello distrettuale italiano - da “mondi in una bottiglia” a “finestre
sul mondo”.
Il sistema internazionale della ricerca assomiglia sempre più a un club planetario,
con un’architettura eterarchica, dove attorno a grandi o piccoli “soli” ruotano pianeti
e satelliti, in una galassia in espansione dove la costellazione italiana non sempre
gode di posizioni privilegiate. Il valore di una “scuola” - intesa dunque come nodo
di una rete, come stella a luminosità variabile di una costellazione -, cresce al
crescere del valore delle sue relazioni stabili, della reputazione dei suoi partner. Si
formano “federazioni” di ricerca; emergono e si consolidano cluster di eccellenza;
affiorano e brillano centri di competenza internazionale focalizzati su un tema di
indagine.
A qualcuno potrebbe non piacere la rivoluzione urbana, lo sconvolgimento di
una mappa da dove scompaiono o si affievoliscono nodi una volta strategici, le
piazze del centro diventano periferia e compaiono sulla carta nuove strade e
quartieri rinnovati. Quale potrebbe essere l’alternativa? Le Scuole-Castello? I
sistemi auto-referenziali? In tutta sincerità, alle oligarchie benevole e illuminate del
passato, sento di preferire la democrazia imperfetta delle reti internazionali della
ricerca, all’autarchia rigida di un tempo sento di preferire le regole a volte
asimmetriche dell’integrazione, agli equilibri immobili la libera (e disordinata)
circolazione delle idee e dei talenti.
4.2 I Maestri
La figura del Maestro era, come dire, “consustanziale” a quel modello di
“Scuola”. Crollata o vacillante quell’architettura classica, è svanito anche il ruolo
tradizionale del Magister, del capo-scuola. È il segno di un ciclo culturale, non solo
biologico. Di “maestri” all’antica non ne vedo molti in giro. Le nuove generazioni si
sono ibridate: è cambiato il mestiere e il compito, il ruolo e le funzioni. Il “maestro”
del nuovo millennio rassomiglia al Filottete di Hercules, il cartoon di Disney: è
chiamato a selezionare talenti, ad allenare competenze, a guidare un’orchestra di
strumentisti che conoscono bene lo strumento che suonano e sono già in grado di
leggere la musica dallo spartito. È un metaorganizzatore, è l’animatore di un
laboratorio di ricerca non per forza radicato in un luogo fisico. È una guida che
suggerisce piste, non impone canoni. Agisce come mentor affiancandosi per qualche
tempo a collaboratori più giovani, insegnando il mestiere e curando le scelte
metodologiche, ma sovente sorpassato per capacità di padroneggiare tecniche
evolute di analisi dei dati. A volte, opera come un play-maker, come regista di team
di ricerca a geometria variabile, che si estendono o si accorciano come elastici,
senza relazioni stabili, senza legami permanenti. A volte, si afferma come
gatekeeper, come guardiano del recinto, come editor di riviste prestigiose, come
capi dipartimento, come coordinatori di progetti di ricerca. Assomigliano a dei
direttori d’orchestra: davanti hanno professionisti, che conoscono lo strumento che
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suonano e in grado di leggere uno spartito. In uno scenario in profondo
cambiamento, dove cluster di eccellenza si contrappongono ad aree periferiche, a
volte sopravvivono relazioni di prossimità con i colleghi di sede, all’insegna della
stima reciproca e del buon vicinato; a volte, partnership occasionali si estendono e
si rafforzano, in particolare quando ciascun partner è a sua volta collegato con altre
reti, altri cluster, altri nodi, inverando la profezia di Granovetter della forza dei
legami deboli. Alla dimensione verticale (non vorrei dire “verticistica”) delle
tradizionali relazioni tra Maestro e allievi, si è sostituita - nei casi più fortunati:
affiancata -, una dimensione orizzontale, basata soprattutto, se non esclusivamente,
su reti personali, gli ego-network. Più dense le reti, più centrale la posizione,
maggiore è il potere. Potere di mercato, potere politico, potere di pubblicazione.
Anche per tali motivi, l’accademia rischia di implodere. Per la frammentazione di un
sistema una volta stabile nella sua architettura e prevedibile nei suoi meccanismi di
funzionamento. Per i pericoli di una spaccatura tra le research universities e le
teaching universities, un modello auspicato da molti che trasfigurerà la mappa del
paesaggio universitario italiano, con poche cattedrali, una manciata di chiese di città
e molte pievi di campagna. Il nostro raggruppamento, la nostra tradizione culturale,
le nostre radici sopravviveranno?
La mia generazione ha vissuto una profonda tensione: da un lato siamo stati
spinti a diffidare dei Maestri, e in particolare dell’autorità dei Maestri, come
minaccia alla libertà di ricerca; dall’altro, di tale autorità abbiamo avvertito
indubbiamente il bisogno. Abbiamo vissuto la crisi, talvolta il collasso del modello
tradizionale di autorità: come allievi e come allievi maturi con ambizione di Maestri.
In realtà, come abbiamo compreso forse tardi, l’autorità è un processo, è la ricerca di
una relazione. Mi aiuto con le parole di Richard Sennett e di George Steiner:
“Una buona autorità è quella capace di determinare la partecipazione attiva di chi è
chiamato a seguirla (…) Nessuno è forte per sempre; i genitori invecchiano e
muoiono, i figli prendono il loro posto, l’autorità non è uno stato ontologico, ma un
evento temporale (…) Essere consapevoli del legame tra forza e tempo vuol dire
sapere che nessuna autorità è onnipotente. È soltanto un processo, un flusso, una
relazione, una pratica (…) La buona autorità è quella che si mette perennemente in
discussione” (Sennett in Marcoaldi, 2011).
“Dopo aver insegnato per mezzo secolo, in numerosi Paesi e in differenti sistemi di
educazione superiore, ho sentito crescere in me l'incertezza riguardo alla legittimità,
alle verità sottostanti, di questa «professione» (...) Il mestiere del «professore», un
termine in qualche misura di per sé opaco, abbraccia ogni sfumatura possibile tra gli
estremi di una vita di routine, disincantata, e un esaltato senso di vocazione. È un
termine che comprende diverse tipologie, da quella del pedagogo distruttore di anime
a quella del maestro carismatico (…) Dove risiede la fonte dell'autorità
dell'insegnamento? (…) Semplificando, si possono identificare tre principali scenari o
strutture di relazione. I maestri hanno distrutto i loro discepoli sia psicologicamente
sia, in qualche caso, fisicamente. Ne hanno spento gli spiriti, consumato le speranze,
sfruttando la loro dipendenza e la loro individualità. Il dominio dell'anima ha i suoi
vampiri. Come contrappunto, discepoli, allievi, apprendisti hanno rovesciato, tradito e
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rovinato i propri maestri. Di nuovo, questo dramma ha attributi sia mentali sia fisici.
Appena eletto Rettore, un trionfante Wagner allontanerà con sdegno un Faust
morente, già suo magister. La terza categoria è quella dello scambio, di un eros di
reciproca fiducia e invero d'amore («il discepolo amante» nell'Ultima Cena).
Attraverso un processo di interazione, di osmosi, il maestro apprende dal discepolo
mentre gli insegna. L'intensità del dialogo genera amicizia nel più alto senso della
parola. Prevede sia la chiaroveggenza, sia l'irragionevolezza dell'amore. Si pensi a
Socrate e Alcibiade, Abelardo ed Eloisa, Heidegger e Arendt. Ci sono discepoli che si
sono sentiti incapaci di sopravvivere ai loro maestri. Ciascuna di queste modalità di
relazione, e le illimitate possibilità di incroci e sfumature tra di esse, hanno ispirato
testimonianze religiose, filosofiche, letterarie, sociologiche e scientifiche” (Steiner,
2008).
5. La monografia e gli standard dominanti
Come ricorda il prof. Canziani, il “simbolo” e l’epitome di Scuole e Maestri
dell’ancien regime, era la Monografia. «Esse giungono al culmine di anni di
ricerche sul tema, e dettano la natura del problema nel suo esatto perimetro
husserliano nonché le vie pro tempore risolutive, l’estensione-applicazione di
categorie fondative a campi ulteriori o più nuovi, dunque con declinazioni originali
nell’evolversi senza fine della realtà, e dello scibile» (Canziani, 2011, p. 52). La
monografia ha avuto, e ancora possiede a mio parere, un valore fondamentale come
strumento di comunicazione privilegiato per diffondere i risultati di una ricerca. Va
difesa come è avvenuto fra i colleghi dell’area giuridica. Soprattutto, va tutelata
quando rappresenta un punto di arrivo - dopo aver provato e temprato i risultati in un
confronto aperto e non ideologico, non protetto e confermato dai giudizi della
comunità internazionale - e non come un rito obbligatorio di iniziazione, né il carnet
per il ballo dei debuttanti3. Tuttavia, è innegabile che non sia più la moneta corrente
3
Molti della mia generazione sono stati colpiti sulla via di Damasco da un libro, da «una
vituperata monografia», da un ragionamento di lungo respiro dell’autore che solo un libro
può consegnare al lettore (Potrebbe essere un’idea per un numero speciale di Sinergie in
difesa della monografia. Dieci professori che raccontano e commentano, mostrandone la
capacità di lunga durata, il libro che più ha contato negli anni della formazione). A me è
capitato con un lavoro di Salvio Vicari, Nuove dimensioni della concorrenza, del 1989.
Avevo cominciato da poco a scrivere la tesi di laurea. Frequentavo già da tempo lo studio
del mio Maestro come apprendista stregone - il mito da inseguire era allora la consulenza
di alta direzione, il traguardo (come del resto capitò a molti altri allievi dell’epoca del mio
Maestro) era andare a lavorare in McKinsey - e cercavo libri da cui trarre ispirazione. Mi
colpì il linguaggio, chiaro e senza ghirigori barocchi, come purtroppo mi era capitato di
incontrare da studente, e la capacità di adoperare e combinare le teorie economiche e
manageriali per proiettarsi oltre. Mi aveva affascinato in particolare l’introduzione dove
raccontava di uno studente del programma di PhD della Wharton School cui aveva
spiegato le linee del suo lavoro e ricordava che il libro era «il frutto di uno sforzo di
studio percorso da una linea comune, che in questi anni ha guidato la mia ricerca. E mi
FRANCESCO IZZO
43
nella comunità scientifica, l’unica ad avere corso nel “mercato” internazionale della
ricerca e della reputazione accademica, rimpiazzata dai paper e dagli articoli
pubblicati in riviste. Anche qui, come rileva il prof. Canziani, i limiti e le
controindicazioni sono non pochi, ma qual è l’alternativa? La condanna
all’isolamento dell’accademia italiana? Il confinamento - in particolare degli
studiosi più giovani - ai margini dell’arena della ricerca internazionale? Non riesco a
scorgere alternative al confronto in campo aperto: un confronto ricco di stimoli, di
sollecitazioni, di suggestioni. È un processo che hanno compiuto in Europa già da
tempo gli economisti d’impresa dell’area latina - i francesi (nonostante le proverbiali
resistenze all’adozione dell’inglese come lingua franca) come gli spagnoli (nel
Paese più aggressivo nel dischiudere i propri confini alle contaminazioni con
l’estero) - e nondimeno i tedeschi, che condividono con l’Italia il culto
dell’Accademia e delle tradizioni, hanno spalancato le proprie maggiori riviste
scientifiche all’inglese e ad editorial board internazionali. È la strada obbligata per
consentire ai nostri giovani ricercatori di non essere discriminati nel confronto
europeo. La generazione dei ricercatori dell’ultima leva è cresciuta con la
rivoluzione digitale, frequenta i social network, ha trascorso un periodo lungo della
formazione universitaria in un Paese europeo beneficiando dell’Erasmus, ha almeno
un anno di dottorato all’estero. Vanta una rete di relazioni che solo pochi della mia
generazione, e della generazione del prof. Canziani, potevano esibire. Network
relazionali essenziali per sprovincializzare un mondo a lungo troppo
autoreferenziale. I giovani ricercatori sono quasi sempre padroni di strumentazioni
se non decisive almeno utili per guardare da prospettive differenti una questione di
ricerca. Molti hanno rintracciato all’estero i maestri che qui andavano estinguendosi
o dei quali si estingueva la spinta verso il nuovo. Soprattutto, hanno maturato
l’abitudine alla submission, alla valutazione attraverso i meccanismi della blind
review, che consente di ricevere commenti e pareri impagabili.
Negli ultimi anni, personalmente, ho imparato moltissimo dalle review ricevute e
quasi mai vi ho riscontrato atteggiamenti ideologici, posizioni pregiudiziali, intenti
polemici. Occorre evitare il rischio dell’arroccamento, della difesa a oltranza di
posizioni, di restare schiacciati nella morsa di economisti “puri” e di ingegneri
gestionali che sbandierano, a torto o a ragione, il vessillo della “correttezza
metodologica”. Occorre definire le nostre regole, non subirle o accettare
l’imposizione da altri, e applicarle. Senza sconti.
piace pensare che questo lavoro non rappresenti una tappa e tantomeno un punto d’arrivo,
quanto piuttosto un nuovo punto di partenza, che credo sia quanto di meglio uno studioso
possa chiedere ai propri sforzi». Decisi che la consulenza poteva attendere. Per qualche
tempo, almeno, avrei proseguito a studiare. Potrà sembrare a chi legge un ricordo
romantico, ma assicuro che non è così. Pochi anni dopo, incontrai il prof. Vicari in un
luogo insolito, lontano dai riti imbalsamati e dai protocolli rigidi dell’accademia, un
matrimonio in Toscana, nel Chianti, fra un suo allievo e una mia compagna di università.
Non ero ancora ricercatore. Avrei voluto avere il coraggio di confessargli quel piccolo
segreto, ma naturalmente, nonostante il paesaggio meraviglioso e un vino inebriante che
avrebbe meritato ben altre verità, non ci riuscii.
44
GIOVANI PROMESSE, VENERATI MAESTRI
Credo che solo in questo modo possiamo preservare la tradizione delle nostre
Scuole e restare fedeli all’insegnamento dei nostri Maestri, non asserragliandoci
dietro barricate ideologiche destinate a crollare, ma piuttosto cercando di
incoraggiare il confronto su una scena per sua naturale evoluzione diventata
internazionale e non più confinata entro i limina di territori parrocchiali.
Il dispositivo del call for paper, a dispetto dell’esotismo della locuzione, è stato
negli ultimi anni un fattore innegabile di rottura dai riti del passato, un sasso nello
stagno della cultura aziendale italiana, eppure era il modus operandi già praticato
abitualmente da chi frequentava i convegni internazionali. In passato, era un élite;
ora i ricercatori italiani sono fra le pattuglie più numerosi a molte importanti
conference. È un male? Non credo4.
La monografia rimane lo strumento più valido ed efficace per le scelte
coraggiose, soprattutto quando nello small world delle riviste scientifiche è sempre
presente il rischio di comportamenti settari, di scelte editoriali che tendono a
premiare l’appartenenza a codici statutari, il metodo davanti al merito, ad esaltare
l’omofilia e a raffreddare nel contempo gli spiriti eterodossi. Come avverte il prof.
Canziani, gli spazi per la libertà di ricerca al di là del mainstream dominante
rischiano di restringersi; innegabile è il pericolo di incamminarsi, soprattutto per i
più giovani, lungo sentieri lontani dalle piste battute. Temo l’appiattimento dei temi
e i rischi di omologazione, la rinuncia a rischiare e le scelte conformiste 5.
4
5
Eppure, ricordo quando nel 1995 con pochi colleghi, chiamati dalla neonata Società
italiana di economia d’impresa a organizzare il primo convegno nazionale destinato ai soli
giovani - e ripenso con nostalgia alle spensierate e interminabili discussioni con colleghi
diventati amici come Maurizio Sobrero e Michele Costabile -, introducemmo per la prima
volta in Italia il meccanismo della tripla revisione cieca, fummo inseguiti letteralmente
dai nostri Maestri e colleghi senior per impedire delitti di lesa maestà. Naturalmente non
cedemmo, ma fui spedito io - l’unico che all’epoca non era in ballo per i concorsi
nazionali che da lì a pochi mesi si sarebbero tenuti - a illustrare alla platea dei Grandi,
convenuta a Torino, come era avvenuto il processo di selezione.
Giacomo Rizzolati, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma e
scopritore dei neuroni-specchio, una scoperta rivoluzionaria nel campo della medicina e
della psicologia, ha raccontato in un’intervista il senso del rischio nella ricerca: «Da
giovane ero a Pisa e lavoravo con il professor Moruzzi: nei nostri laboratori regnava
un’atmosfera quasi mistica. Anche allora non c’erano abbastanza soldi per la ricerca (…)
Ma noi lavoravamo come dannati, nella convinzione che non avremmo mai guadagnato
come dei chirurghi o dei medici alla moda, ma in compenso facevamo quello che ci
piaceva. E quello che ci piaceva era utile anche alla società. Si può ambire a qualcosa di
più? È lo stesso insegnamento che ho cercato di trasferire ai miei allievi: perseguire la
ricerca della verità con tenacia e pazienza. Assumendosi però, al momento opportuno,
tutti i rischi necessari. È una lezione che mi dette il premio Nobel John Eccles. Controlla
bene tutti i dati che hai a disposizione: ma quando sei intimamente convinto di quello che
hai fatto, compi l’azzardo. Esponiti al pericolo di essere criticato, ma prova finalmente a
dire la tua» (Marcoaldi, 2012). Il tratto “mistico” della ricerca è ormai diventato
evanescente; tuttavia, mi sembrano ancora fondamentali la tenacia e la pazienza, così
come la “responsabilità” di rischiare, il “dovere” di abbandonare le piste tracciate. Ha
FRANCESCO IZZO
45
Difficilmente, per ricordare ancora una volta una monografia di Vicari che segnò
nei primi anni Novanta del secolo scorso un intenso dibattito nella nostra comunità
scientifica (L’impresa vivente. Itinerario in una diversa concezione, 1991), ci si può
proporre di «ripensare l’economia d’impresa» o di proporre un nuovo itinerario di
ricerca, stabilendo concetti fondativi (in quel caso, l’impresa come sistema
autopoietico), gli assunti fondamentali, la sintassi e il linguaggio di riferimento,
senza il medium di un libro, senza godere del respiro lungo e della riflessione
approfondita che solo un libro, una monografia, è in grado di offrire al ricercatore 6.
Le prime pagine di Vicari a tal proposito mi sembrano illuminanti:
“Questo potrebbe essere considerato da qualcuno come un libro deviante, nel campo
delle discipline economico-aziendali (…) La devianza potrebbe essere attribuita al
rimettere in discussione alcune delle ipotesi su cui sono fondate l’economia aziendale
nel nostro Paese e gli studi di management all’estero. Oppure potrebbe essere
individuata nelle teorie su cui si basa, da qualcuno considerate eterodosse, in
particolare modo se utilizzate in domini diversi da quelli da cui sono state tratte (…)
Non credo si tratti di devianze, ma solo di nuove concezioni, che inevitabilmente sono
diverse rispetto a quelle precedenti (…) Questo libro si inserisce infatti in una
prospettiva di impresa diversa rispetto a quelle oggi prevalenti. Se tuttavia fossero
devianze, si tratterebbe di filoni che a poco a poco trovano un crescente consenso in
moltissime discipline, e anche in alcuni filoni degli studi economico-aziendali e di
management, anche se per ora riguardano una sparuta pattuglia, che va tuttavia ogni
giorno ingrossandosi. Questo libro vuole infatti essere un piccolo contributo a uno
scopo tuttavia ambizioso: ripensare l’economia d’impresa. Che essa debba essere
rifondata, è esigenza ormai affermata non più solo da frange marginali nell’ambito
accademico e nel mondo operativo. Il punto di partenza secondo qualcuno dovrebbe
essere la circostanza che l’impresa che oggi osserviamo non ha nulla in comune con
quella che fu oggetto di studio delle discipline madri: l’economia politica e
l’economia aziendale. Al cambiamento che l’impresa ha subito negli ultimi anni non
ha corrisposto un’analoga evoluzione teorica. Ciò non perché non vi sia stato sviluppo
dei modelli interpretativi, ma perché questo non ha rimesso in discussione una realtà
oggi irrimediabilmente persa (…) Questo lavoro vuole contribuire a trovare una
rappresentazione dell’impresa più soddisfacente, più coerente con ciò che noi stiamo
diventando, con la nostra crescita di complessità. Credo che questa rappresentazione
possa essere quella dei sistemi autopoietici, quella cioè dell’impresa vivente. La
prospettiva dell’impresa vivente, alla luce delle conoscenze scientifiche attuali e alla
6
ragione Canziani scegliendo in epigrafe il Paolo Conte di Boogie. In un mondo adulto,
occorrerebbe sbagliare da professionisti.
Quel libro turbò non poco le acque placide dell’accademia. Lo ricordo bene perché mi
trovai immerso in una battaglia epica fra riformatori, progressisti, difensori della
tradizione. Una battaglia che ricordo ora per almeno due motivi. Viviamo un periodo di
crisi di identità della nostra disciplina come allora. Quello scontro, solo di idee, quel
coinvolgimento orizzontale e verticale di tutta l’accademia, con numeri ad hoc di riviste,
con convegni dedicati (per motivi sentimentali, ricordo quelli napoletani dell’effimera
Società italiana di Economia d’impresa), con libri (dagli eccellenti ai mediocri,
naturalmente) e pamphlet, sarebbe irripetibile oggi.
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GIOVANI PROMESSE, VENERATI MAESTRI
luce della complessità di tutte le aziende, può essere molto utile per comprendere oggi
l’impresa. Obiettivo di questo lavoro è dunque quello di accompagnare il lettore lungo
l’itinerario rappresentato da tale prospettiva, fermandosi solo brevemente in alcuni
“luoghi” che questo particolare punto di vista rende visibili” (Vicari, 1991, pp. 3-5).
La lunga citazione non intende, a distanza di vent’anni, verificare le ipotesi
predittive di Vicari. È però un exemplum di che cosa una monografia potrà sempre
offrire come plus che un paper non è in grado, di norma, di garantire: l’esplorazione
di nuovi confini, l’approfondimento di una prospettiva differente, l’illustrazione di
un nuovo percorso o itinerario di ricerca. La monografia, inoltre, è stato a lungo il
mezzo più adatto al modello di indagine ricorrente nell’accademia italiana fra gli
anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: gli studi di settore; un approccio
metodologico che solo difficilmente poteva essere compresso nei confini di un
paper secondo il taglio di analisi qualitativa che all’epoca costituiva lo standard
dominante. Gli studi di aziendalisti italiani (così come in quegli anni della ricerca
europea) non potevano disporre di un format differente dal libro, di una scelta
metodologica che non contemplasse la monografia 7.
Ammonisce il prof. Canziani delle insidie di un mercato imperfetto, dove è vero
che «dei referaggi c’è il mercato e la compravendita» così come nelle riviste «la
competizione risulta non sempre fair». Tuttavia, quello che descrive mi sembra il
coté patologico di una trama complessa, dove si annidano i broker delle riviste
scientifiche che prosperano attraverso le rendite di arbitraggio in modo non dissimile
da «quel potente “Maestro” dell’Italia del Nord, che si procurava alleati al motto
“scrivi un libro in due mesi che ti metto in cattedra”, e se ne vedono i risultati» (p.
51). Patologie le prime, patologia la seconda.
Dall’alto del suo magistero e della sua esperienza, il prof. Canziani naturalmente
coglie nel segno quando avverte dei pericoli di “derive” eccessive nei nostri studi.
Ne segnalo in particolare una che condivido assolutamente nella sostanza: il rischio
di cadere nella trappola, nell’illusione ottica del numero.
7
Ricordo qui, in un rapido e incompleto viaggio nell’accademia italiana gli studi di
Baccarani (1985) e di Bursi (1984, 1988) dedicati al settore delle piastrelle in ceramica; di
Bonel (1967), Paoli (1984) e Selleri e Velo (1986) all’industria siderurgica; ancora di
Bursi (1985, 1988) all’abbigliamento. Ricordo il prof. Canziani (1989) curatore di uno
studio sul settore cotoniero; Collesei (1969) e l’industria dolciaria; Faccipieri (1988) e il
settore delle macchine copiatrici; Farinet (1989) e l’industria cartaria; Gandolfi (1985) e
l’industria saccarifera; Genco (1983) e il settore petrolifero; Golinelli (1965) e l’industria
conserviera; Maggioni (1985) e l’industria farmaceutica; Mercurio (1985) e le costruzioni
ferrotranviarie; Rispoli (1967) e l’industria delle fibre tessili; Rullani e Volpato e il
lattiero-caseario (1971); Sicca e l’industria alimentare (1977); Silvestrelli e il settore
mobiliero (1980); Varaldo (1988) e le calzature; Vicari (1991) e l’industria aeronautica;
Volpato(1983) e il settore automobilistico.
FRANCESCO IZZO
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6. La legge dei numeri e altre sindromi
L’approccio quantitativo è diventato lo standard internazionale, il misuratore
presunto della qualità della ricerca, la cartina di tornasole del rigore metodologico.
Sappiamo bene che non è così. Tuttavia, non possiamo negare che il metodo
quantitativo (o per meglio dire, a predominanza di tecniche di indagine quantitative)
sia il sentiero più efficace e da privilegiare per raggiungere determinati risultati, né
va dimenticato che per pubblicare in talune e prestigiose riviste non vi è alternativa.
Non è qui che occorre intervenire; anzi, credo sia opportuno investire per rafforzare
le relazioni di prossimità fra l’economia d’impresa e i metodi statistici, diffondere la
conoscenza di strumenti evoluti di indagine nelle nostre discipline. Non possiamo
“strappare” i germogli delle piante che con fatica, e con ritardo se confrontiamo il
“terreno” italiano con altri Paesi europei, cercano di crescere; né possiamo far finta
di nulla. Mi soccorre ancora una volta Jullien e la filosofia orientale:
“Mencio narra la seguente storiella. Un contadino, rientrando la sera a casa, dice ai
suoi figli: oggi ho lavorato molto, ho dovuto dissotterrare i semi germogliati dal mio
campo. Dissotterrare i germogli di un campo, uno dopo l’altro, uno stelo dopo l’altro,
è evidentemente una faticaccia; e quando i bambini si recano al campo, ovviamente
vedono che tutto è ormai seccato. Ecco l’esempio di ciò che non bisogna mai fare, ci
dice Mencio. Volete che qualcosa cresca, e vi mettete a dissotterrare i semi
germogliati. Volete ottenere più direttamente l’effetto, in funzione dell’obiettivo che
vi siete fissati, e, facendo ciò, andate incontro al fallimento, perché lo avete forzato.
Voglio che la pianta cresca, e allora dissotterro il germoglio. Volendo affrettare la
crescita, agire direttamente su di essa, mi muovo in senso contrario al processo
avviato e così ho fermato, annientato, la possibilità che l’effetto si realizzasse sponte
sua. La crescita del germoglio, infatti, era implicata nella sua situazione, si trovava nel
seme sepolto nella terra. Anziché intervenire e faticare, bastava sfruttare tale
potenziale: lasciare maturare. Ci sono, dunque, due scogli da evitare, ci dice Mencio.
Da una parte quella di dissotterrare il seme germogliato per ottenere direttamente la
crescita, senza rispettare più, con il mio attivismo finalizzato, il processo spontaneo
della crescita; in altre parole, non lascio maturare l’effetto. Dall’altra parte, quello di
restare ai bordi del campo, limitandomi a osservare quel che accade: attendo la
crescita. Che cosa si deve quindi fare? Risponderei: ciò che tutti i contadini sanno.
Non dissotterrare il germoglio e nemmeno guardarlo crescere: bisogna lasciar fare (il
processo) senza per questo trascurarlo. Mencio ci dice: si sarchia, si rimonda, ai piedi
dello stelo; muovendo la terra, facendola respirare, si favorisce la crescita. Bisogna
guardarsi sia dall’impazienza sia dall’inerzia. Né volontarismo né passività; ma,
assecondando il processo di crescita, trarre partito dalle propensioni all’opera
portandole a loro pieno regime” (Jullien, 2006, pp. 44-45).
Piuttosto, come a ragione avverte il prof. Canziani, occorre combattere l’aridità
dell’eccesso tecnicistico; l’adoperare tecniche che si ignorano candidamente; le
unioni di fatto con sapienti statistici i quali ignorano assolutamente obiettivi e temi
di indagine, ma sono perfetti come sherpa, i portatori “preziosi” dello strumento di
rilevazione e di analisi; il crogiolarsi nell’eleganza sterile del modello matematico
senza che la ricerca abbia alcuna implicazione manageriale. In una battuta:
48
GIOVANI PROMESSE, VENERATI MAESTRI
combattere chi pretende che il contenitore debba prevalere sul contenuto; e in questa
battaglia il prof. Canziani mi avrà sempre come suo alleato.
Il rischio, per i ricercatori più giovani, innamorati degli algoritmi e dei software
sofisticati per l’analisi dei dati - talvolta così sofisticati da rendere risibili i risultati
cui si perviene, poco o punto rilevanti - è restare vittime del tecnicismo, incapsulati
in un formula o in un’equazione che nulla racconta della complessità dell’impresa,
delle strategie aziendali, delle decisioni del management. A preoccuparmi è il
distacco del ricercatore dall’impresa, dall’impresa come unità di analisi. Un gran
numero di giovani ricercatori delle nostre discipline - un numero ben più alto di
quanto si possa ragionevolmente ritenere, ed è una statistica in crescita - non ha mai
varcato la soglia di un’impresa; non ha mai intervistato un manager né ha rovistato
negli archivi aziendali per chiudere una “triangolazione”. Nell’era dei data-base, il
rischio profondo è che il progredire della nostra disciplina avvenga attraverso la
produzione di “numeri a mezzo di numeri”.
In un libro delizioso appena pubblicato, Andrea Segrè ammonendo che la realtà
economica e sociale e ben più complessa di un modello matematico, ricorda la
lezione del biologo austriaco Rupert Riedel:
“Il biologo austriaco Rupert Riedel suggeriva che le scienze naturali sono semicieche,
hanno cioè una struttura teorica forte, ma un orizzonte inadeguato ai problemi della
contemporaneità. Le scienze sociali sono invece semimute: abbracciano ampie
prospettive, ma non hanno sviluppato un sufficiente rigore metodologico. In altre
parole, l’uomo deve ridurre la frammentazione dei saperi facendoli dialogare
costantemente: Dante con la teoria della relatività, Goethe con la fisica quantistica,
Shakespeare con la termodinamica, Kant con il Dna. I saperi non vanno mai soli:
scienziati e umanisti devono parlarsi sempre di più. Ma succede assai raramente, e
quando avviene si pretende di ridurre tutto a un calcolo” (Segrè, 2012, p. 9).
Da semimuti, abbiamo il dovere - per evitare di cadere nella trappola del
provincialismo d’antan - di rafforzare le metodologie alternative e complementari ai
metodi quantitativi, di porre enfasi sulla richness che solo i metodi qualitativi, come
ci insegnano Weick o Eisenhardt e come ci ha insegnato la tradizione italiana, sono
in grado di restituire al ricercatore. Abbandonando i generi letterari dell’aneddotica,
dell’agiografia e del romanzesco, per crescere piuttosto nelle tecniche di analisi
longitudinale, nell’etnometodologia e nei metodi che con uguale rigore di quanto è
già accaduto in altre scienze sociali, possano a ragione godere di un pieno diritto di
cittadinanza nel campo degli studi aziendali.
Vorrei chiudere queste note di commento aggiungendo due altre mie
preoccupazioni al cahier de doléances del prof. Canziani, due eccessi di enfasi:
l’ansia di prestazione e la sindrome di specializzazione.
Nel primo caso, è innegabile che si avverta nei nostri dipartimenti un senso
diffuso di ossessione della pubblicazione. «Tutto (il top delle riviste), e subito».
Come forse in qualche amabile conversazione davanti a un bicchiere di Aglianico in
una trattoria napoletana il prof. Ferrara avrà rammentato al prof. Canziani, «’A
pacienza vale cchiù d’ ’a scienzia » («La pazienza vale più della scienza»). Il nostro
FRANCESCO IZZO
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compito di ricercatori senior è insegnare anche questo, perché come ha scritto il
prof. Canziani «incombe ad ogni studioso di confrontarsi in modo non retorico né
copista con i problemi del proprio tempo; e ciò nelle scienze sociali richiede appunto
tempo, giacché si tratta di campi speculativi ad accumulazione, e non come le
scienze della natura - ad intuizione» (Canziani, 2011, p. 52)8.
Nel secondo caso, temo il diffondersi di una popolazione di “trivellatori”, di
mestieranti dell’economia d’impresa, abili a perforare una determinata porzione di
terreno in una dimensione puramente verticale, estraendo paper come pepite, uno
dopo l’altro, dal medesimo filone. Temo, in altre parole, la scomparsa di navigatori
in grado di esplorare nuove terre («Il mare più bello è quello che abbiamo non
ancora navigato», scriveva un poeta turco, Nazim Hikmet; «Ci sono cattivi
navigatori che dicono che non c’è più terra se vedono solo mare», ammoniva il
filosofo inglese Francis Bacon), di lasciarsi guidare dalla ricerca mossa dalla
curiosità, di lasciarsi sorprendere dalla serendipity.
7. L’eterna disfida
A ben vedere, nella contesa raffigurata con il tocco del Maestro del prof.
Canziani sembra riecheggiare ancora una volta l’eterna disfida tra “Antichi” e
“Moderni”. In un bel libro dello storico francese Marc Fumaroli, la disputa che corre
lungo i secoli è raccontata con una metafora, quella delle api e dei ragni. Le api (gli
antichi) traggono dalla natura, da una moltitudine di fiori, la materia per il miele e
8
C’è un altro coté a rischio in una certa misura collegato alla questione delle monografie.
Sono rimasto molto colpito in tempi recenti dal rifiuto - non dalla freddezza riscontrata o
dalla ricerca stentata di giustificazioni, ma proprio dal rifiuto categorico - di giovani
ricercatori a partecipare al progetto di un manuale universitario. «Tempo buttato», «Non
serve a nulla», «Viene valutato zero», «Meglio un articolo di 2 pagine su una rivista che
un capitolo di 50 in un manuale». Per me - che ho partecipato da ragazzo di bottega
all’edizione italiana di un manuale fortunato di strategie d’impresa, La gestione strategica
dell’impresa, di Hax e Majluf, del 1991, curato dal prof. Sicca; che ho collaborato come
autore alle tre edizioni di un manuale di strategie d’impresa curato dal mio Maestro, uno
dei primi scritti da un docente italiano; che curo dal 2006 l’edizione italiana di un
manuale di management dell’innovazione -, l’ammetto con il rischio di sembrare un
marziano a Roma, di apparire ingenuo o demodé, quelle parole mi sono risuonate come
una bestemmia. Scrivere per gli studenti è un dovere istituzionale non meno che tentare di
pubblicare su riviste dotate di impact factor. E qui, ma sorvolo perché andrei fuori dal
seminato e toccherei un terreno non calpestato dal prof. Canziani nel suo saggio, si apre
un altro fronte critico. Il pensiero dominante, i criteri di valutazione, il modello Anvur
sembrano considerare solo la ricerca. L’assioma è noto: solo chi fa ricerca di eccellenza, è
in grado di insegnare. In attesa di incontrare in giro per la mia facoltà (pardon,
dipartimento) solo premi Nobel o colleghi in odore di Nobel, mi scontro quotidianamente
con il fastidio, la seccatura, l’irritazione che provano molti miei giovani colleghi
nell’andare in aula, nel confrontarsi con gli studenti, nel trasmettere e nel condividere
sapere.
GIOVANI PROMESSE, VENERATI MAESTRI
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per la cera che fabbricano, mentre i ragni attingono tutto da se stessi e dal loro
orgoglio per filare la ragnatela della propria conoscenza.
“L’ape degli Antichi riconosce e presuppone nella sua attività il fatto che il linguaggio
sia preesistente al poeta, e che l’invenzione poetica non sia una creazione, ma un
trovare e un ritrovare, che ha per merito principale il rinnovo dei luoghi di una eterna
dimora comune. Il ragno individualista dei moderni crede di dover tutto al proprio
patrimonio, e si affida all’oggettività del caso e a una mano invisibile affinché la sua
creazione autofaga incontri la simpatia o le affinità di un’altra isola nell’arcipelago
culturale degli individui, senza memoria né dimore condivise” (Fumaroli, 2005, p.
14).
Degli antichi esalta il sentimento alimentato dallo studio e dall’amore per le arti,
fondato sul risoetto della tradizione e delle sue istituzioni. Dei moderni teme le
degenerazioni della cultura di massa, l’ipertrofia dell’io, la tirannia dell’opinione, la
deriva sperimentale e razionalista. Contrappone a chi nel creare conoscenza si
collega a una tradizione antica, chi invece spezzando quel legame si affida alla
propria esperienza in modo esclusivo.
La modernità, ammonisce Fumaroli (che meravigliosamente parteggia per gli
“Antichi”), si svela come «atrofia della memoria, negazione di ogni retaggio».
Tuttavia, dietro una «funesta e narcisistica sterilità», nei “Moderni” lo storico
riconosce il coraggio di credere nello sviluppo e nella diffusione di un sapere libero
da vincoli. I Moderni vinceranno, pure quando avranno torto, «per la forza
incontrastabile della giovinezza, del talento e della follia» (Baricco, 2012, p. 56).
Uno scrittore, commentando quel libro, ha riassunto così il punto del contendere:
“Gli Antichi sostenevano che nell’antichità fosse stato raggiunto un apice di civiltà
culturale a cui ritenevano necessario rifarsi costantemente, lavorando alla permanenza
di quei valori di bellezza, moralità e sapienza senza i quali non c’era civiltà; i Moderni
invece spingevano per un superamento di quei valori nella convinzione che il presente
avesse in sé tutte le potenzialità per forgiare una nuova civiltà degna di questo nome,
a livello di gusto, di linguaggio, di princìpi. I primi si rifacevano ai padri come ad
autorità assolute, i secondi pretendevano il diritto e la capacità di essere padri di se
stessi” (Baricco, 2012, p. 56).
Intanto, nella nostra accademia, mentre qualcuno faticosamente cerca di
diventare padre di se stesso, altri ammettono che rimarranno figli per sempre.
Alcuni, infine, in modo sereno e consapevole vivono la condizione di essere orfani,
ora.
Bibliografia
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delle piastrelle in ceramica per pavimentazione e rivestimento, Cedam, Padova.
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FRANCESCO IZZO
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