Gioia di vivere Gioia di vivere: rolling stones rolling stones
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Gioia di vivere: vivere: rolling stones Il titolo associato al commento del Vangelo odierno ripropone emozioni e profumi che hanno intriso i giorni della mia adolescenza, negli stessi anni in cui soffiava il vento nuovo del Vaticano II. “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore! »”. Parole che concludono un capitolo intero di “Guai a voi” e che dobbiamo imparare a leggere ed accogliere come rivolte a tutti noi, perché ci prendano di petto e, al pari delle beatitudini (“Beati voi”), suscitino in noi più di una perplessità. I “Guai a voi” possiedono la violenza dei sassi, suonano come minaccia, aggressione, punizione ma descrivono insieme la faccia opposta di una identica realtà: sono la faccia opposta della grazia accolta (“Beati voi”), presentano la faccia della grazia rifiutata (“disgraziati voi”). Potremmo addolcire un po’ e tradurre “sfortunati voi che rifiutate la grazia”. Sfortunati perché nulla ci porta vantaggio di ciò che possediamo e ci riduciamo a gridare “siamo soli!”, attestando la disperata verità di un amore che non abbiamo saputo accogliere. Negli anni del Concilio lo stesso bisogno di verità attraversava anche l’universo della musica decisa a liberarsi dalle costrizioni dettate dalle esigenze di un pubblico sclerotizzato nelle emozioni, incapace di guardarsi dentro con onestà. Sensazioni ed invettive ci facevano vibrare come la musica e ci aiutavano a sgretolare la maschera di un vissuto fatto di comodità ma per nulla soddisfacente. Inarrestabili come una mandria, incontrollabili come i sogni, incontenibili come pietre che rotolano, la musica ci rendeva liberi di seguire la nostra strada, ci consentiva di affrontare la paura di essere sinceri con noi stessi. Immedesimati con la passione e la rabbia che la musica esprimeva ci sentivamo, seppure per un momento, profeti di ciò che “i nostri padri non capivano” ….e che “noi padri non comprendiamo ancora”. E noi, che non riuscivamo ad essere attratti dal “Beati voi”, facevamo i conti con la ipocrisia che albergava sull’altra faccia della medaglia, al punto di spronarci ad un agire diverso, coscienti che era più facile gridarlo che esprimerlo concretamente. Sentivamo l’urgenza di una grazia, di uno spirito assolutamente nuovo che attraversasse la nostra vita. Gesù, con parole fortemente polemiche, suona qui una musica che ci piaceva, diversa da quella della tradizione religiosa. Denuncia a muso duro la maschera di religiosità costruita e portata dagli Scribi e Farisei e mai definitivamente dismessa. Si possono dire, leggere, commentare parole sante senza che il cuore batta un palpito d’amore. Se ne ottiene la prova quando il fichi, alla stagione adatta, non fanno i fichi; cioè quando dire e fare sono separati non solo da una distanza indefinibile (“tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”) ma la stessa distanza palesa l’assenza della grazia che sempre è fruttuosa. Senza la grazia i pesi sono sempre e solo sulle spalle di chi se li trova da portare e ci si impiega a fornire buone ragioni perché chi ne è schiacciato non abbia troppo a lamentarsi. La grazia, invece, impone al credente l’obbligo di soccorrere e portare sollievo rinnovando l’invito del Signore: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Se le nostre azioni e scelte non alleggeriscono il peso della vita nostra e degli altri anche noi ci incateniamo ad una mentalità religiosa che non aiuta a vivere e smentisce, nei fatti, le parole del Signore venuto di persona a portare ristoro ad affaticati ed oppressi. Se la preghiera non ci aiuta a vivere non è vera preghiera; se le proposte pastorali, a partire dalla fede comune, non servono ad illuminare la vita ma si aggiungono peso ad una giornata già stracolma di impegni e doveri, noi corriamo il rischio di pesare ulteriormente sulla esistenza delle persone senza fornire occasioni di ascolto, di conforto, di fraternità condivisa. Dobbiamo guardarci da una religiosità fatta di appuntamenti che non servono a nessuno, che si fanno perché si devono fare, senza che la spiritualità abbia a distendersi e riposare per riprendere energia e forza. Diventeremmo anche noi artefici di una religiosità dell’apparenza, imbellettata con i trucchi dell’ambizione, del prestigio e della esibizione di titoli di onore. Invece siamo “inviati” per servire, cioè per mettere sempre le persone a proprio agio, accogliendole così come sono, come il Signore ce le fa incontrare, togliendole dalla condizione di esclusione e solitudine che noi tutti riconosciamo come peso insopportabile. Alla fine il lamento odierno di Gesù trasuda di dolcezza: “quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!”. La stessa dolcezza è richiesta agli inviati, perché l’amore risulti più forte dell’ostinazione e del rifiuto. Possiamo cogliere la bellezza di questa similitudine accostando un’altra immagine che il Cantico di Mosè aveva profondamente impresso nel cuore e nella mente di ogni pio israelita: “Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali ”. Alla immagine che evidenza l’azione potente, forte e protettiva di Dio nei confronti del popolo strappato dall’Egitto, dalla condizione servile, Gesù aggiunge i tratti della dolcezza, della umiltà e della mitezza del Dio incarnato, del Figlio che è profezia … e definitivo compimento. 11 Agosto 2013