I. KANT LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA La ragione non è

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I. KANT LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA La ragione non è
I.
KANT
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La ragione non è solo teoretica (pura), ma è anche ragione pratica: ossia non guida solo
la conoscenza ma anche l’azione e determina la volontà di azione. Vi è, inoltre, un’altra
suddivisione operata da Kant, in ragione pura pratica e ragione empirica pratica. Da tale
distinzione dipende il portato morale di un’azione. Se un’azione è contemporaneamente
pura e pratica, allora ci sarà azione morale.
Nella Critica della ragion pratica Kant definisce i criteri per distinguere dalle altre
un’azione morale. Come per la ragion pura il problema qui è di capire se esistono e quali
sono le forme a priori (o leggi) razionali che regolano l’agire morale. Kant sostiene che
tali leggi non possano essere riferite ad un oggetto separato dal soggetto. Questo
assunto è conseguenza della critica che il filosofo muove contro tutti quegli impianti
filosofici seicenteschi e settecenteschi eudemonisti che vedevano nella felicità il motore
dell’azione morale, identificando l’azione stessa con la ricerca della felicità.
Kant, contro l’eudemonismo, sostiene
che non è il fine (la felicità) a rendere
morale l’azione ma l’intenzione che la
motiva: dunque non si deve agire per la
felicità ma per il puro dovere.
Egli considera che l’unico mezzo per
arrivare
all’universalizzazione
della
volontà di azione è costituito da un
principio logico-formale. Ci sono cioè
delle massime, ovvero dei principi che
valgono per un soggetto particolare e ci
sono anche delle leggi, ossia principi
validi oggettivamente, che determinano
l’azione di ogni essere dotato di ragione. L’unico modo per giungere all’azione morale è
quello di cercare quanto più possibile di far coincidere le massime soggettive con le
leggi oggettive.
Per suo fondamento l’uomo, dato che può commettere azioni contro le leggi, non è
naturalmente indirizzato verso l’azione morale. Non è cioè santo per costituzione, ma
può essere buono per scelta. L’elemento che gestisce questa scelta verso il dovere
dell’azione morale è chiamato da Kant imperativo categorico o voce della coscienza, che
universalmente in ogni individuo spinge al rispetto di regole morali universali che si
traducono in azioni differenti fra i vari contesti.
Sono tre le diverse formule dell’imperativo categorico, tutte di carattere formale, ossia
non indicano il contenuto della morale:
La filosofia di I. Kant (terza parte) – pag. 1
•
agisci in modo tale che la tua massima corrisponda a una legge universale ;
•
agisci in modo tale da trattare l’uomo in genere (compreso te stesso)
esclusivamente come un fine e mai come un mezzo;
•
agisci in modo tale che la tua volontà possa essere considerata come istitutiva
di una legge universale.
Agendo in base a queste tre dimensioni dell’imperativo categorico, l’uomo partecipa alla
realtà sovrasensibile entrando a far parte di quello che Kant chiama regno dei fini,
luogo ideale in cui attraverso l’aderenza della volontà alla legge morale che costituisce il
sommo bene, gli uomini vivono in perfetta comunione.
Far parte del regno dei fini significa trattare se stessi e le altre persone in modo tale da
non lederne i diritti soggettivi, ossia rispettandone l’integrità fisica e morale.
Al di là di quest’ultima fondamentale dichiarazione di ordine morale, la Critica della
ragion pratica risulta rivoluzionaria nella considerazione della volontà dell’azione, in
quanto scorpora l’azione morale dalla necessità e la accorpa, invece, all’autonomia del
singolo soggetto in cui la ragione si autodetermina. Ne deriva che se l’uomo obbedisce a
una legge morale intrinseca alla sua natura, obbedisce a se stesso.
Un’iscrizione incisa su di una targa posta sopra la
tomba di Immanuel Kant riporta una frase del
filosofo di Kònigsberg che chiude la Critica della
ragion pratica e nella quale è riassunta la doppia
natura dell’uomo, sottoposto da un lato alle leggi
fisiche come tutti gli esseri naturali, e dall’altro a
una legge morale che è tipica solo degli esseri
razionali. L’iscrizione recita:
''Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova
e crescente ammirazione e soggezione, ed hanno
occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo
stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. ''
Dai diversi imperativi categorici derivano
successivamente i cosiddetti postulati
della ragion pratica che corrispondono a
delle conclusioni indimostrabili, ma
necessarie in ragione del fatto che
determinano le condizioni di possibilità a
priori dell’esistenza della legge morale
nell’uomo.
I postulati individuati da Kant sono tre:
✔
✔
Il postulato dell'esistenza di Dio
[...] il sommo bene nel mondo è possibile solo in quanto si
assuma una causa suprema della natura, che abbia una causalità
conforme all’intenzione morale. Ora, un essere capace di azioni
fondate sulla rappresentazione di leggi è un’intelligenza (un
essere razionale); e la causalità di un tal essere, fondata su detta
rappresentazione di leggi, è la sua volontà. Dunque, la causa
suprema della natura, quale la si deve presupporre in vista del
sommo bene, è un essere che causa la natura con intelletto e con
volontà (dunque, ne è l’autore). In altri termini, è Dio.
la libertà della volontà umana,
postulato necessario, basilare
nella definizione dell’etica. Esso
è necessario in quanto la
presenza di una legge implica la
libertà di osservarla: se è un
dovere dell’uomo fare qualcosa
allora
egli
può
anche
liberamente non farlo;
✔ l’immortalità dell’anima,
postulato necessario perché
rende possibile il processo di adeguamento della volontà alla legge morale. Dal
momento che tale adesione risulta irrealizzabile nella vita terrena perché la natura
empirica dell’uomo lo rende imperfetto, la immortalità dell’anima consente un
perfezionamento del comportamento all’infinito;
✔ la esistenza di Dio, postulato necessario che ammette l’esistenza di un ente
(Immanuel Kant, Critica della ragion pratica)
La filosofia di I. Kant (terza parte) – pag. 2
onnipotente che garantisce corrispondenza tra Virtù (il perseguimento del dovere che
corrisponde al comportamento morale) e felicità.
Il conformarsi all’imperativo categorico e l’accettazione dei tre postulati innalzano
l’uomo al di sopra del mondo sensibile e fenomenico regolato dalle leggi meccanicistiche
della natura e lo rendono partecipe del mondo intellegibile e noumenico nel quale egli è
assolutamente libero. Nella Critica della ragion pratica Viene recuperata, dunque, la
sfera noumenica inaccessibile teoreticamente, ma accessibile praticamente.
LA CRITICA DEL GIUDIZIO
Il giudizio è una facoltà che permette di considerare in relazione il particolare e
l’universale. Esso si trova a metà strada tra l’intelletto e la ragione. Ci sono due modi
per trovare relazioni tra particolare e universale, ossia due tipi di giudizio:
✔ il giudizio determinante che considera il particolare come parte dell’universale in
base a leggi determinate (qui l’universale già esiste);
✔ il giudizio riflettente che trova un universale per un particolare dato (in questo
caso l’universale deve essere ricercato).
Il primo tipo di giudizio è stato da Kant analizzato nella Critica della ragion pura, mentre
nella Critica del giudizio il filosofo di Kònigsberg analizza il secondo tipo.
I giudizi riflettenti, a loro volta si suddividono in due tipologie (entrambe derivate a
priori dalla mente), in base a come essi si pongono nei confronti della finalità della
natura:
•
•
i giudizi estetici che giudicano la natura per quanto riguarda la sua bellezza e nei
quali la finalità viene considerata in riferimento al soggetto (finalità soggettiva);
i giudizi teleologici che giudicano la natura considerando la finalità contenuta
nell’oggetto stesso (finalità oggettiva).
In questo modo la Critica del giudizio si sviluppa in due grandi parti:
> critica del giudizio estetico;
> critica del giudizio teleologico.
Nella critica del giudizio
estetico Kant prende in
esame il gusto, e in base
a questo traccia un
percorso sulla capacità
dell’uomo di operare un
giudizio estetico a partire
dal sentimento di bello e
di sublime.
I giudizi estetici, continua Kant, non aggiungono nulla alla conoscenza, ma creano una
sorta di comunità estetica tra giudizi soggettivi, un termine di paragone convenzionale.
La filosofia di I. Kant (terza parte) – pag. 3
Per questo motivo la loro universalità non è oggettiva ma è soggettiva. Il bello, dice in
sostanza Kant, non esiste in sé; è l’uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti;
ma, pur appartenendo al soggetto è anche riferito (è termine che ha comparazioni) ad
uno schema di giudizio estetico che vale per i soggetti.
Il sublime, invece, non ha alcun termine di paragone, esso ha una grandezza assoluta e
infinita e vive in perfetta armonia la mediazione tra immaginazione e ragione.
Argomentando circa i giudizi teleologici, invece, Kant sottolinea come questi evidenzino
due finalità nelle cose: una interna e una esterna. Ossia una che viene attratta
dall’esterno e una che viene dall’interno (per esempio la riproduzione dell’essere umano
corrisponde alla finalità di autoconservazione).
La modalità di giudicare tramite direzioni teleologiche, tuttavia, appartiene solo alla
conoscenza umana. Infatti, secondo Kant, la natura segue semplicemente uno schema
meccanicistico, ossia si basa sulle cause e non sui fini.
La filosofia di I. Kant (terza parte) – pag. 4