Roberto Longhi e Carlo Braccesco 1942 File
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Roberto Longhi e Carlo Braccesco 1942 File
Roberto Longhi, Carlo Braccesco, Conferenza tenuta alla « Società del Giardino » di Milano il 16 Maggio 1942, sotto gli auspici del Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento, sezione lombarda, e da questo pubblicata in edizione di mille esemplari nello stesso anno. CARLO BRACCESCO /1942/ I ricordi di uno storico dell'arte non sono soltanto, coe molti inclinano a credere,ricordi di tavolino e di scintille scoccate, automaticamente, tra la pila fotografica e la pila documentaria, ma anche, e molto più, di viaggi senza mèta, d'incontri fortuiti, dilunghi approcci con le opere, ostinatamente mute, nei pomeriggi che spiovono dai lucernari dei musei: questi amatissimi paesaggi della nostra vicenda particolare. E quando io mi provassi a mettere in iscala di potenze la schiera ormai lunga di codesti miei ricordi, credo che il primo luogo toccherebbe sempre all'incontro tanto atteso, e poi tante volte replicato, col Maestro dell'Annunciata del Museo del Louvre: numero 1676. E' uno dei dipinti che conosco meglio ed amo di più da oltre trent'anni, e cioè dai miei venti. Quando lo incontravo per la prima volta, nell'immediato dopoguerra, era, s'intende, un incontro preparato, dopo molto inutile rovello sulla fotografia dell'Alinari e sulla strana vicenda dell'opera. Sapevo che, nel 1806, essa era stata acquistata in un oratorio di Genova dal Barone Denon, e che poi, per circa ottant'anni, aveva recato al Louvre il nome di Giusto d'Alemagna, quasi per null'altro che di costui si conosceva l'Annunciazione genovese del 1451: un motivo che la generica inclinazione nordica del dipinto, così comune in Liguria, non bastava a convalidare; mentre poi, a rinforzo d'errore, si presumeva, con quanta mia insofferenza rammento, che i pannelli laterali non facessero corpo, stilisticamente, con la tavola centrale. Mi rattristava che, verso il 1875, nella sua Storia della Pittura Fiamminga, non raddrizzasse i due errori il nostro grande Cavalcaselle; ma trovavo pur commovente che, citando a memoria il dipinto, egli ne parlasse come di cosa su fondo di oro, forse perché stordito dalla profusione degli ori che vi circolano, in verità, un po' dappertutto, fuorché nel fondo; e poi che, rilevando l'intonazione delicatissima e la levità delle ombre (ed era già un apprezzamento), emettesse, con fare quasi clinico, il dubbio che il quadro non avesse avuto finitura; senza prima chiedersi se non si trattasse della sola finitura possibile nella tempra del singolare artista. Non trovavo d'interessante, verso gli stessi anni, che il passaggio dedicato all'opera dallo Chaumelin, in quel curioso emporio romantico-positivista che fu l'« Histoire des peintres de toutes les écoles » sotto la direzione di Charles Blanc, quel delizioso Flammarion della storia dell'arte. Non vi fa progressi la definizione storicofilologica: si parla infatti dell'opera sempre al nome di Giusto d'Alemagna; però s'insiste sull'impronta dominante del genio italiano, tanto da includer Giusto tra i genovesi, e, che conta di più, si dichiara nettamente l'unità di mano e di fantasia tra il mezzo e i lati, osservando, fra l'altro, « que la dalmatique bleue de St. Etienne a la méme valeur de ton que le manteau de la Vierge »; garbato appunto d'« atelier » che ha pure il suo senso. Che, del resto, anche il riferimento a Giusto di Ravensburg andasse ormai perdendo quota, si arguiva già da questo che, verso il '90, nella sua informatissima storia della pittura tedesca, il Janitschek non desse più cenno affatto dei dipinto del Louvre. E sia pure che la prima esplicita refutazione di quel riferimento sbadato venisse soltanto nel 1896 col noto articolo della signora Logan-Berenson sulla « Gazette des Beaux-Arts ». Era il momento buono per 30 indirizzarsi al vero. Purtroppo, però, la recente emozione turistica cagionata nelle giovani coppie anglo-americane dalla riscoperta rivierasca di Ludovico Brea porta alla mediocre trovata di versar sul suo conto anche l'Annunciazione del Louvre; al cui paragone il Brea è poco più di un ilota. E non è detto che a questo grado la giovane viaggiatrice non si provi a ridurre anche un simile capolavoro quando ci comunica « qu' il ne révèle pas une grande maitrise de forme, non plus qu'une profonde connaissance de l'anatomie, de la lumière ou de l'ombre; il ne provoque ni l'admiration pour le génie de l'auteur, ni la curiosité de connaitre la personnalité intime de cet artiste ». Par che si voglia insomma situare questo dipinto coltissimo a uno stadio di piacevole folclore, di vellicante decorazione: è infatti lo stesso stampo di giudizio che, poco più tardi, servirà con più ragione al Berenson per l'interpretazione artigianesca di Defendente Ferrari, pittore di lacche orientali. Sorprende che la nuova deviazione, sia pur corredata da qualche buon rilievo marginale sui legami dell'opera col Quattrocento lombardo, sembrasse ben diretta anche al Frizzoni quando, nel 1909, recensiva il bel libro della signora Ffoulkes e di Monsignor Maiocchi sul Foppa. Senza accorgersi, per giunta, che, proprio in quel volume, il riferimento era impugnato con il rammentare garbatamente quanto la Liguria formicolasse, sullo scadere del secolo, di pittori lombardi; intendendo che fra costoro avrebbe potuto utilmente cercarsi. Non mancava neppure, in quel mentre, uno di quei futili giochi combinatoti nei quali i documentisti immaginano consistere il succo, il pregio e il comodo delle prove d'attribuzione: alludo al tentativo provinciale di spiegare il quadro del Louvre con la mano del Brea bensì, però coadiuvata non più da quella di Giusto ma di Corrado d'Alemagna, un altro tedesco spatriato in Liguria sulla fine del Quattrocento. In verità, l'ascrizione al Brea moriva prima d'essere adulta se la mostra nicese del 1912, quasi tutta a maggior gloria dell'onesto pittore locale, non curava neppure di procacciarsi il dipinto del Louvre; e se, verso gli stessi anni, forse sulla traccia delle buone e men buone osservazioni del Labande (sul moto della Vergine che non può essere del Brea e sugli ornati che gli sembrano di stile... fiorentino), la vecchia targhetta parigina è sostituita da un'altra, più anodina, che dura ancor oggi: «Ecole du Nord de l'Italie verso 1500». Poco tempo dopo era il Venturi a rifiutare nettamente per l'opera il nome dei pittore nizzardo e parlarci invece, con bell'entusiasmo, di un « ignoto artista ligure squisitamente dotato »; ma, per la verità, anche se sono costretto a darvi un ricordo di corridoio, debbo dire che in quei giorni, a Roma, accanto al mio pronto e geniale maestro, io m'ero già assunta la parte di eminenza grigia della fama del grande anonimo. L'interruzione della guerra non mi permetteva di conoscerlo di persona al Louvre che nel 1920; ma dal quel primo incontro, e dopo tant'altre ore consumate nell'interrogatorio diretto, venivo ad intenderne sempre meglio la nazione lombarda e il trapianto in Liguria e i legami con quella cultura franco-provenzale, o addirittura delle coste mediterranee, dove rifiorivano, con Fouquet e Charonton, le rose dell'Angelico, e persino scaldava un poco il sole di Piero. Ecco perché, in un passaggio del mio libro su Piero, dove si parla di quell'ammirevole facoltà compensatrice fra nord e sud, fra l'occhio fiammingo e la misura italiana, propria negli ultimi decenni del Quattrocento a tanti pittori di Francia e Spagna, un cenno è dato non solo dei lontani del Bergognone e della luminosa partitura dello Spanzotti, ma anche delle sottilità del Maestro dell'Annunciata al Louvre. Dalla stessa frequentazione mi trovavo anche preparatissimo a ravvisare di lui, quando la fortuna mi sovvenisse, altri lacerti dispersi e, proprio come il corpo dell'Innominato, « buttati chi sa dove ». Ne incontravo infatti più d'uno fra il '20 e il '30 e di essi davo un cenno fugace in nota ad un mio saggio del '28. Qui l'immaginazione un po astratta della rosa culturale lombardo-mediterranea faceva posto 31 all'accenno sui riflessi dell'artista nel gusto pavese del primo Cinquecento, così evidenti da farmi supporre una sua origine da quella città e più insistere sull'analogia del suo caso, ma in un piano anche più alto, a quelli del Foppa e del Bergognone. Da buon marinaio della storia dell'arte non mancavo neanche di promettere su di lui, e a breve scadenza, uno studio speciale. Perché poi abbia atteso a darlo fin oggi, e sono altri quindici anni, non è cosa da spiegare diversamente che dal corso sempre divagante, sempre pronto a nuovi imbarchi (un artista ad ogni porto) delle nostre passioni di studiosi, dalla mia quasi nulla sensibilità per il rapido rotolare degli anni e anche dalla speranza di potere un giorno (che tardava a venire) cavar finalmente dall'anonimato il grande pittore lombardo; sapendo per prova esser tanto più difficile convincere i molti all'evidenza che persino dei grandi autori abbian potuto smarrire i documenti per istrada, che non trascinarli ad ammirare lo splendore di una nuova stella fissa, dopo averle trovato un bel nome e cognome. Ma al cortese invito di questo Istituto, che cosa offrire di più adatto che una breve presentazione del grande anonimo lombardo? Se la mia avventura personale con lui può avere ancora un séguito, questo, si può dire, interverrà mentre ne discorro. Torniamo assieme, intanto, anno millenovecentoventi, nel museo del Louvre, dinnanzi al trittico appeso a mano manca, sul finire della prima campata di quella Grande Galerie che ha ormai, nel ricordo, la pace di uno stradone esposto alle grandi piogge: i primi appunti, stesi, rammento bene, nella sosta meridiana in una « crémerie » di rue de Rivoli, sono abbastanza significativi. «Apparizione d'oro e di avana, azzurro e grigio. Le carni lievemente aduste; quasi un sospetto di meticciato. Sui visi più chiari le ombre ardesia. Le babbucce di Sant'Alberto come olive nere. Toni caldi e toni freddi (che cosa importa ?) da non distinguersi. Ori, ori: non però appiattiti sulla luce, anzi che smagliano nella luce, bruciati dalla penna nera dell'ombra. Sentimento degli ori. Coltivazione degli ori. Civiltà degli ori lombardi (Monza, Treviglio, Lodi). Intelligenza della forma da screditare più d'un fiorentino, però non fiorentina: confidenziale, accostante, non insolente e saputa. La città nel pomeriggio torpido: una Pavia immaginaria, di ricordo? E l'angelo che sembra smartellinato da uno scultore della Certosa. Viola come nel Bergognone. Gli azzurri, invece, di lago, intatti, come il Fouquet e Charonton. Del resto, anche la Madonna, 'fermière'. Elezione della spalliera di rose come in un antico 'lai' provenzale; i garofani che tremano nell'afa entro il vaso, ahi, 'rinascimento'. Ironico, però, anche nel frammento di girale troppo bello, impeccabile. Tutto scritto e tutto dipinto; largo e minuto. Un miniatore di genio. Un gran pittore di minimi. Il più alto colloquio tra nord e sud, tra van Eyck e Piero. L'apice della pittura lombarda del Quattrocento ». Perché non mettere in piazza queste vecchie spuntature d'impressione immediata? Con tutto il loro piglio ambizioso, tra Fromentin e Baudelaire, esse sono, almeno per me, ancora insostituibili: e, del resto, quel tuffo della prima emozione non tornerà più; meglio confessarlo, com'era. Oggi non si potrà che dilatarsi a qualche osservazione d'insieme (quelle che negli appunti, sempre un po' crittografici, di specialista, si sottintendono); e poi scendere ai particolari. Per l'insieme, quel che più spicca è la sovrana intelligenza con cui le due vecchie prescrizioni, probabilmente imposte dal gusto ligure, della partitura a trittico e del fondo d'oro sono state, ad un tempo, sublimate ed eluse. La prima, in quel contrasto calcolato (oggi meno sensibile per l'assenza della cornice che a quei tempi sempre fungeva da schietta introduzione spaziale) fra i quattro casieri che sussurrano nelle guardiole laterali a fior d'opera, quasi a fior di strada, e l'apertura sfogata della loggia e del paese nella tavola centrale. La seconda, nella surrogazione del vecchio fondo aureo, ai lati, con quella specie di tendina sottilmente tirata in curva e che, sebbene contesta a broccatello rosso e 32 oro dove i Santi gettano ombra vicinissima, per le intaccature trasverse ed aspre della luce rammenta uno stoino di ginestra or ora abbassato a schermarsi dal riverbero; al centro, con lo sciamare degli ori per ogni dove, restandone un sospetto persino nel cielo appannato, pulviscolare, di un biondo incenerito; su cui, di fatto, l'oro vero del nimbo della Vergine stacca appena. Passata così in giudicato la dimostrazione dell'unità di complesso fra le varie parti, giova ormai avvicinarsi ad esse singolarmente; e prima, s'intende, al soggetto principe dell'Annunciazione. Già il modo di eludere e insieme sublimare le antiche esigenze astrattive e simboliche dell'« auro fino » e dell'« azzurro fino », come traboccano dai tanti documenti genovesi di allogazione, faceva prevedere che il pittore avrebbe meditato da par suo anche sulla difficoltà di un argomento che, per pittori troppo astuti, vorrebbe correre sul filo di rasoio di un simbolismo, poco manca, freudiano. Qui invece si leva un'immagine dove l'ironia punge prima sommessa come dicesse, intanto: mi chiedete le Annunciazioni di gran lusso e io ne trarrò le conseguenze. Il lusso è di questo mondo e l'oro non starà dunque in cielo ma qui e costì, sulle vesti, sul leggìo, sui capitelli, e chi più ne ha, più ne mette: sarà sempre un ricco, un raffinato, un prezioso. Così una elegante loggia lombardesca sorge su esili colonnine di pietra di Loano e inquadra un terrazzino scoperto dove la scacchiera bianca e rosso-pepe del pavimento, in prospettiva esattissima eppur come levitante nel contrasto cromatico, presto s'interrompe al parapetto marmoreo impeccabilmente fregiato. « Rinascimento » se volete, ma sulla punta di fioretto di una beffarda eleganza ornamentale. Quelle basi di colonna coi fermagli delle targhe dorate, esilissime, e più quel grande ornato vegetale (i passi che al Labande sembravano fiorentini e sono invece, filologicamente, lombardi, fra l'Amadeo e il Solari) paiono interpretati da un lirico della Pléiade, da un du Bellay che rievochi lontane calligrafie polverose dell'Italia romana, annerendole, però, nei sottosquadri, con l'ombra d'inchiostro delle piogge nordiche. Tutt'assieme, quell'architettura rintocca fragile e cava come un gran gioiello a sbalzo, al pari del vaso di peltro dove s'arricciano, nell'aria, i garofani. E, alla fine, la norma cristallina dello spazio nostrano, della prospettiva insomma, s'intacca e smaglia paurosamente libera sul contorno spinoso e seghettato del manto blu della Vergine che si apre sulla vestaglia di orpello, scritta d'ombra, come l'elitra metallizzata di una mosca d'oro. Che ne è, in questa figura, della forma italiana, del platonico «disegno »? Il fatto è che qui si tratta di modulazione piuttosto che di modellazione; ogni precedente normativo si scioglie come dicono che le perle si sciolgano nell'aceto. Parlare di anatomia per queste mani come risucchiate, consunte dall'aria e che non cambierei, questa soprattutto, madida, sulla colonnina freddiccia, neppur con quella studiosamente, propensa da Leonardo nella Vergine delle Rocce? Forse un'anatomia animistica, macerata dall'interno, non prepotente e biologica; biografica, semmai. Sempre un riflesso interiore, e come mormorante, che dà l'abbrivo ai « moti ». Ed è forse per tutto questo che, nell'occasione, quasi si desidera fare, alla maniera vecchia, della psicologia; ma bisognerebbe sottile. Chi sarà intanto questa Signora della loggia? La « pucelle » dello stile cavalleresco, suggerita dai miniatori francesi del Duecento ma trovata soltanto da Simone? O non più che un ricordo di essa, già divenuta castellana un po' greve di riviera ligure e magari della Costa Azzurra? Ancora alquanto «bas bleu » ma, ormai, non senza sospetto di «bas de laine ». Quello aperto sul leggìo tutto d'oro, non c'è dubbio, è il « livre d'heures »; ma, più in basso, nello scaffaletto dove ridono le legature di prezzo, è forse anche il Roman de la Rose e il taccuino orlato di platino delle spese segrete. O, ad attentarsi in una domanda anche più elementare: bella o brutta questa Signora della loggia, non so chi sarà da tanto da rispondere. Chi ne saprà mai 33 nulla di questo viso quasi albino, pienotto e minuto, i capelli platinati a bandelle sotto l'antico maforion bizantino, ciglia spelate, orecchie da rosicante, pelle tesa come un guscio d'ovo, con un sospetto d'efelidi e d'acari nel tessuto un po' grasso? E il segreto di quello sguardo accorto e smarrito, di quell'ombra sorniona accoccata agli angoli della bocca, di quell'aria di castellana saputa, di parrocchiana del primo banco che non si lascerebbe, per nulla al mondo, sorprendere alla sprovveduta, me lo vorrete spiegare? Perché arriva ronzando, sul suo piatto dorato in prospettiva, questo calabrone violetto, la tunica smartellinata dal vento, la tracolla di nastro che brandisce, i piedi impigliati nelle ultime trinelle di nubi, il serto ridotto a tre sole roselline stiacciate e all'«aigrette » che struscia sul cielo caldo? Ah! una distrazione, finalmente, nella filza di questi pomeriggi così grevi che le rose dormono bianche e rosse sulla spalliera di marmo e la veduta d'ogni giorno trema assopita fra gli acquitrini e i cespugli: anche oggi le lavandaie vanno a lavare i panni al Ticino, anche oggi è laggiù, senza perché, la già vecchia città di provincia col ponte coperto, il castello, e la cattedrale, bramantesca, di Nazareth-Pavia. Capziosa, non nego, la lettura; ma forse non tanto da non rendere, per punte, la ricchezza di motivazioni che diramano nello spirito dell'anonimo mentre regge l'opera e sull'argomento, così stremato e stravolto, va stillando questa sua squisita decantazione, senza più feccia affatto. Chi visiti poi i Santi nelle loro caselle, non è mai stanco di scoprire come tanto porgere e discettare e variar di gesti e attributi possa volgersi accordarsi capire in quelle due sezioni esigue, dove, lì per lì, le persone non sembravano poter figurare che come quintessenze di santi, bastoni animati di santità, stradivari nella custodia. E, oltre che d'azioni, che pesatura di valori e di toni: bigi e avana, ori rossi, neri e azzurri. A sinistra, il San Benedetto, come una vecchia gazza, blu a furia d'esser nera; la cocolla che sta scivolando dal cranio di ardesia; e quel pastorale dimenticato fra le braccia, ché la mano era corsa a segnare il libro. Accanto, il Sant'Agostino, come una moneta tosata, di peso quasi scarso a reggere, ormai per la sola forza di nervi, mitria e cappa d'oro massiccio, mentre le mani inguantate tentano il poco vano concesso. Un altro grammo d'oro sarebbe di troppo ed è forse per questo che il pittore, con infrazione iconografica quale soltanto un padrone della lingua illustre poteva concedersi, ha soppresso, dietro la mitria, il nimbo, segno di santità. A destra, incantato come il San Leonardo di Donatello, ecco il Santo Stefano in dalmatica azzurra a riporti d'oro, coi ciottoli d'argento sul capo e, accanto, il Sant'Alberto come un tronco di giovane betulla appena scorzata dove da poco si confissero a segno quei pugnali piegiatissimi; mentre la cannuccia, cresciuta in palma di taglio sottile, va rispondendo al pastorale di San Benedetto. Ma si può portarsi anche più dappresso a questi alberelli sensitivi per meglio esaminare la cosiddetta «sede dell'espressione ». Non varia il metro ma si vede più chiaro come la testa di San Benedetto sembri scalfita da uno scultore in pietra tenera, in grafite; nel Sant'Agostino, gli occhi d'acqua purissima, come le gemme nei castoni della mitria; e, nella gola, la luce che sembra scattare, cronometrica, all'urgere di un polso iperteso. Nei Santi Stefano e Alberto si legge più intensa la vivace affabulazione delle quattro mani, sospese nell'aria come maglioli riarsi, venosi; il piombare di una tonaca liscia e il crepitio leggero della goletta dei polsini dei riporti d'oro che reggono a stento la filza; poi quella affabile intrepidezza del viso di Stefano che si fa viva nell'intonaco all'orbita, nei riccioli compatti, nelle labbra soprammesse, quasi incollate; mentre nel Sant'Alberto un filo di voce sembra uscire dalla bocca schiusa, dall'alidore delle labbra come da uno scafo consunto; « levigato da fioca febbre » come nel mito ungarettiano. Di nuovo, anatomia? Sì, ma più libera e sottile che nel Pollaiolo, perché con mezzi tutt'altri e quasi evasivi, senza nulla di quel demonismo organico, anzi con il sentimento 34 affettuoso del corpo come di una povera cosa, fra tante. Linea? Sì, ma che passi come un'impuntura celata tra le fibre di un ordito consunto. Tono? Anche questo, ma che, occorrendo, può arrivare senza sperdersi fino al cromatismo puro, squillante; e poi tutta la scala inversa. Così l'impressione piena, chi voglia per un momento « storicizzare » dopo le tante allusioni a tutti i punti cardinali del gusto d'allora, dalla Liguria alla Lombardia alla Fiandra alla Francia alla rinascenza toscana, è che a questo grande autore nulla o quasi sia sfuggito della più alta cultura europea del Quattrocento, nulla sia spiaciuto; ma, perché intendere è ritrovarsi, nulla poi sia stato da lui ridetto, soltanto espresso e irripetibilmente. La sua cultura non sembra aver limiti appunto perché la sua persona, cresciuta dal pieno di una storia ricca e contrastata, la consuma affatto nel punto di farsi opera. Ma era poi una «persona »? Quando nel 1925 m'imbattei nelle sale della Ca' d'Oro, in questo pannello della Crocefissione di un Santo apostolo, non so se Filippo o Andrea, fu per me un segno notevole perché sentivo di uscir finalmente dal cerchio magico e beffardo di quell'unicum dove è facile sospettar l'immaginazione del critico che si pensi di avvistare una nuova e particolare realtà storica, un nuovo « valore », e non stia invece che brancicando alla cieca sulle parti di un corpo già noto. La certezza di una identità poetica con il trittico del Louvre era qui per me acquisizione immediata, anzi, per dirla all'ermeticobancaria, scontata, e senza spese; tanto più probante in quanto il pannello sembrava indicare una zona più antica nel grande anonimo e lo faceva dunque già consistere in due momenti intimamente uniti, storicamente distinti. Il pittore racconta qui il martirio dell'Apostolo con una semplicità quasi arcaica di partitura, mentre poi la scioltezza di collocazione interna nei gruppi affrontati rammenta da vicino la libertà scenica del Foppa, intorno al '65, negli affreschi di Sant'Eustorgio. Come in quelli, ritorna il rosso inesprimibile dei mattoni lombardi, rigati dalle vene di calce bianca; qui servono per le mura di Jerapoli o di Patrasso, oltre le quali si apre una cala di mar ligure in giornata coperta, sotto le ripe magre, sbavate di verde. Sul dinnanzi, ai lati del Santo crocefisso, dal corpo asciutto ed elastico, quasi sportivo, la folla si separa in buoni e cattivi come per una sacra rappresentazione. A sinistra, ancora sobillati da falsi monaci bianchi, gli ordinatori ed esecutori del martirio nei colori più rari e vivaci del mondo, accordati in chiave aurea: velluti rossi, e ori; verdi, e ori; azzurri, e ori; avana, e ori. Sulla destra i buoni, ritti, o in ginocchio, o a sedere su certe panchette, tutti contesti nella stessa gamma ma con l'aggiunta eccezionale dell'asiatico in zimarra a striscioline vivide di rosso e verdebruno, e stivaletti dorati, come nelle più sottili miniature persiane. Credo che a guardar più davvicino questi tiranni e scherani non è sforzo per alcuno riconoscervi, trasposta, la stessa razza vibrata e animosa del dipinto del Louvre; la stessa elezione di costumi e d'attributi, qui anche più insueti, di scimitarre, giannette, spadoni, picche infioccate, lo stesso modo di maneggiarli; lo stesso gusto di cavillare lo spazio con incidenze sottili, astutissime di moti minuscoli, eppur tanto perentori che vien fatto di dire: qui hanno ragione anche costoro. Ma la stessa ragione è nei convertiti a destra, in questa loro magrezza spiritate ed arsiccia, nelle mani sfinite e consunte dai lumi passanti come nel Sant'Agostino del Louvre, nella indicibile modulazione della casacca persiana in primo piano. Irreperibile poi, fuor che nel nostro anonimo, vi è soprattutto la resa degli ori : lisci, graniti, scritti e parlati con tutti i pregi di una variazione tonale, eppur con tutta l'efficacia dell'antico simbolico fulgore trecentesco. Se appena si pensi che il dipinto può esser suppergiù degli stessi anni coll'abbacinante altare del Butinone e dello Zenale a Treviglio, ciò basterà per intendere che qui è pur sempre la pregiata coltivazione degli ori lombardi. E' la stessa che rinforza, sul registro arcaico, anche nei Quattro Dottori della Chiesa della stessa raccolta e che 35 perciò dovettero, insieme con la predella, figurare un tempo in un polittico oggi disfatto. S'intende che, allogandoli nei pilastrini di una cornice fulgente, il pittore potesse fingersi anche più antico, tornando persino a valersi dell'oro per il fondo delle figure. A vederle di primo acchito e in distanza, quasi si pensa ad un senese in Avignone centosettant'anni prima; tanto è lo splendore degli ori diversi e l'antichità dei motivi che vi s'imprimono, a rosoni astratti, quasi bizantini. Eppure il Sant'Ambrogio è bene lombardo come un moderno Zenale e, sotto i piviali, nei cannelli sottili del camice, sulle basi dei piedi leggeri, la forma si leva ed oscilla come nei Santi del Louvre, mentre il San Gerolamo occhialuto, vestito in rosso sangue rappreso, muove le due mani nel contrappunto ormai cognito. La predella apostolica intanto, dal seguito delle mie ricerche, si arricchiva d'altri pannelli. Questo, per esempio, ch'era, circa il '27, del barone von Hadeln, oggi nella raccolta Kress di New York, e palesemente mutilo, perché il gesto del Santo e di alcuni tra gli spettatori alludono a una conclusione che cade fuori del frammento. O è San Filippo che dal pulpito esorcizza il pestilenziale dragone di Jerapoli o, più probabilmente, Sant'Andrea che trasforma in cani i sette diavoli di Nicea. La donna nimbata sulla destra potrebbe in tal caso esser Massimilla, la moglie convertita del console di Nicea. Anche qui l'apertura narrativa rammenta subito la Predica di San Pietro Martire dipinta dal Foppa a Sant'Eustorgio, persino in quella semplice carpenteria di pulpito e banchette; e, come nella Crocefissione del Santo, il rosso pepato dei mattoni lombardi ritorna nel muretto, sbreccato in alto dove cresce l'erba, interrotto a destra per dar luogo a un frammento di colline alberate e digradanti sul cielo coperto. La gamma è sempre identica, con la serie inesprimibile dei colori coronati dagli ori scritti e dagli orpelli increspati, soffiati d'ombra sui margini; stessa la gente, soprattutto le donne in profili canteruti di pinzochere digiunatrici, labbra quasi leporine spaccate dall'ardore mistico, ciglia che saltellano come zampe di mosca. Però, che fusa dolcezza nei capelli sciolti! Un terzo pannello incontravo nel 1929 al Museo di Cluny, ove porta il numero quasi magico del nostro pittore, 1676, che, per mera coincidenza, è lo stesso del trittico del Louvre. Divertiva vedere il dipinto accolto in quel museo d'arte « industriale », forse per la sua mirifica applicazione negli ori: sempre però modulati da un animo che gioca liberamente sul limite, se ne fa anzi un abito d'intelligenza più acuta.Qui, salvo errore, la figurazione è quella del periodico miracolo amalfitano sulla tomba di Sant'Andrea: la «manna », sudore del Santo, aspirata entro una bacinella sopra l'altare e distribuita ai fedeli, secondo il recipe, a cucchiai. Ma la scena si svolge in una chiesetta di rinascenza lombarda, ché lombarda è la struttura del trittico d'oro sull'altare, lombarda sulla destra la porticella dorata a timpano, bipartita dal pilastrino. Un'aria di certosa padana spira in questo interno in cui la luce spiove blanda dalle finestrine che inquadrano un po' di cielo, un po' di paese liquido e smorto, e dove, al gesto del sacerdote crespigno e quasi impaziente, i devoti s'inginocchiano come caprette arsicce pronte a brucare il pan degli angeli, che è poi la sapienza alata del nostro pittore. Così vi ho aperto, come l'ho trovato al deposito, tutto il poco bagaglio dell'anonimo lombardo. Sull'unicità e, insisto, anche sull'altezza della sua statura artistica, credo non resti ombra di dubbio; ma s'era alluso anche alla indicibile complessità del suo gusto e questo importerebbe un discorso fuor di misura in questa occasione. Fermiamoci al passo dove si dichiarò senza riserve che l'Annunciazione delLouvre è il culmine dell'arte lombarda del Quattrocento e, soggiungiamo ora, sulla fine di quel secolo; se siam d'accordo su questo punto potremo anche presumere (e le opere più antiche già ritrovate sembrano suggerirlo) che una simile altissima maturità fosse partita da una buona formazione iniziale di venti o trenta anni prima. Ci troveremmo dunque in Lombardia verso il 1460-70. 36 Senonché a quegli anni, secondo l'opinione del Toesca, che con essa conclude anzi il suo bellissimo volume del 1912, «per ogni via ormai penetrava in Lombardia lo stile del Rinascimento ». E in questo caso parrebbe inutile continuar la ricerca, perché, a proposito del nostro pittore, di « Rinascimento » non è da parlare, almeno nell'accezione più stretta. Io però mi son provato più volte a refutare quell'opinione: prima ricomponendo il prevalente gusto lombardo tra Milano e Pavia ai giorni di Bonifacio Bembo e di Cristoforo Moretti, poi limitando fortemente l'asserzione comune che anche nel gusto del Foppa e del Bergognone abbia a rinvenirsi alcun tratto positivo di « ragione » rinascimentale. Il gusto più antico, eppur duro a morire, la singolare estetica che ancora verso il '60 e oltre, per dirla con Dante, i « melanesi accampa », è il trionfo di una lussuosa follia gentilesca, araldica, arciprofana. « Qua se sfogia et triumpha cum recami de perle ». Si fanno, non so se a fondo d'oro, persino i ritratti dei cani delle mute ducali: « retrato de un cane giamato Bareta ». Tutto il cosmo sembra volersi incurvare, depresso, entro la doga breve e dorata di una carta da tarocco. Nell'ordinare affreschi profani per le sale dei castelli la preoccupazione del committente è che si veda bene « la sua Signoria mangia in oro ». Su quei muri, duchi e famigli, addobbati nei capolavori degli « zibelari » lombardi, passeggiano o cavalcano in un sogno di profanità fulgida e assurda. Ai loro piedi i prati si tramutano d'incanto in bordi di alto liccio; i boschi dei feudi lontani si decalcano sur un firmamento ormai tutto percorso e vergato, come una gran barda, dalle perizie matematiche delle costellazioni araldiche famigliari; al di là delle prealpi brune come di cuoio impresso, coronato da manieri in pastiglia dorata, il cielo a scaglie bianche e morelle scricchiola, come, nell'ossatura di peltro, la vetrata dell'oratorio ducale; ogni veduta e ogni atto si rinserrano, bendati dal fasto greve e vacillante di un orizzonte privato. Questa poetica, un po' sfrondata ma non affatto stanca, regge ancora fino ai tempi di Galeazzo Maria, per esempio nella cappella ducale, che è del '72. Qui, sotto la pastiglia dorata, geme ancora la linea dolce e molle del gotico in extremis, tante volte rifiorente in Lombardia, da Michelino a Masolino agli Zavattari. Ma sarebbe troppo arduo immaginare se il nostro anonimo abbia potuto crescere piuttosto accanto a Stefano de' Fedeli che a Jacopino Vismara, o a qualche altro dei tanti di cui si sa troppo poco; o nulla fuori che il nome; o neppure il nome; com'è il caso del pittore che, dalle poche tracce leggibili nel portico dell'Elefante del vostro Castello, sembra tutt'altro che scarso. Sento insomma che, nel nostro anonimo, oltre alla cultura degli ori, già pervenuta a un raffinamento ch'egli doveva ancora sublimare, qualche fonda cadenza di quei giorni ancor gotici restò appresa: il modo di diramare le figure quasi molleggiandole dal basso in alto, l'intattezza dei blu e dei gialli, persino la dolcezza felice del Santo Stefano dei Louvre, trovano, per esempio, un qualche preludio d'anima in queste sagome appena arcate di Santini del Museo Poldi Pezzoli, che provenendo, come ho potuto accertare, da una chiesa di Mantova, potrebbero, chissà, convenire al lombardo che allora vi dominava, l'ancora nebuloso Michele da Pavia. Simili, in ogni caso, alla cultura di Bonifacio Bembo, come si rivela in questi due Santi, inediti, della raccolta Harris; ma forse anche meglio ispirati. Anche un'altra parte essenziale, quella della lucida attenzione fiamminga, poteva essergli instillata qui fin da quando, nel 1463, Zanetto Bugatto ritornava dalla bottega del van der Weyden; m'invoglia all'ipotesi un esempio come questo, di Santi amatissimi a Milano, che, appartenendo chiaramente ad un altro nobilissimo anonimo lombardo di quei giorni, sembra figurare uno stretto parallelo alla cultura del nostro pittore, e proprio per l'inclinazione nordica. S'intende poi che, prima di esulare, egli dovette conoscere anche il gusto del Foppa già assodato e, forse, del giovine Bergognone. E perché qui, mi avvedo, sarebbe di nuovo di scena il « Rinascimento », non posso che rimettermi a quanto ho scritto in proposito nel saggio sugli antichi precedenti lombardi di quella « pittura diretta » che comincerà, più di un secolo dopo, col lombardo Merisi. Qualcuno forse ha letto quel saggio. Il Venturi di certo che, con mia inevitabile soddisfazione, ha rinnovato su quella traccia, nel 1930, l'intero suo quadro della pittura lombarda del Quattrocento. Qualcun altro non ha voluto leggerlo. Certo, se ci si lascia imporre, fin dagli inizi del Foppa, dall'arco di trionfo e dai medaglioni antichi nella Crocefissione del '56, allora non c'è che dire, per quell'arco il Rinascimento invade la Lombardia; ma se si vuole avvertire che l'arco storce e pencola e i medaglioni son modulati come in cera all'aria aperta, si può risparmiar la spesa dell'entrata e intender meglio perché, ad esempio, il cattivo ladrone sia intriso di luce ed ombra come in un secentista e la traversa della croce si faccia quasi un tizzo rovente in quel suo scorcio luminoso. Non confondiamo, insomma rinascenza raffigurata nel dipinto con rinascenza espressa dal dipinto; non dovremmo confonderla neppur nel Mantegna, che sì pone di solito come aulico precedente del Foppa e che invece, per quanto diverso da lui, non mi pare affatto quell'aquila romana che sì va bucinando, ma piuttosto un vecchio falchetto addestrato a incidere con l'artiglio, sul logoro, certi segni evocanti antichi mondi smarriti. Che una simiglianza essenziale d'intenzioni sia tra il Foppa, il Bergognone e il nostro grande anonimo non è dubbio; lo s'è già avvertito rilevando che tutti raffigurano talora la rinascenza, ma non la esprimono; amano fruirne come apparatura trionfale, ma eluderla nel cuore dell'arte che è diversa, e si dichiara, infatti, non per forme organizzate e per spazi di misura, ma per cose materiate di lume aria colore, e per profondità tentate, intuite in una soave empiria. La poetica libera dalle strette formalità del Rinascimento, che ha dettato al nostro maestro l'indimenticabile lontananza dell'Annunciazione, è bene la stessa che aveva già dettato al Foppa il viottolo calpesto e il lago manzoniano dell'Uccisione di San Pietro Martire o l'interno-esterno del Miracolo del Santo, dove quel che importa non è già l'esattezza, incontrollabile, della prospettiva nel voltone, ma la luce che sfiora sotto il voltone, e l'albero che trema nel cielo grigio oltre il muro merlato: sentimenti più vicini ad un Peter de Hooch di due secoli dopo che a un fiorentino contemporaneo. E' ancora lo stesso spirito che detta in corsivo al Bergognone tanti passaggi famosi, o che lo diventeranno. L'aja dietro la Madonna di Bergamo, con le galline a razzolare fra ombra e sole, e la luce in alto che unge la bocca della cella campanaria; il cortile di villa che s'apre assolato, e l'ombra in tralice segna l'ora del giorno, sulla oscurità dell'Annunciazione di Lodi, con gli acuti delle rondini sui ferrami degli archi, lo strido del pavone che riga il mormorio del brolo e, al di là del muricciuolo, nella lieve caligine, la borgata di Lombardia; il tramonto insanguinato e violetto della Pietà di don Guido Cagnola, un tratto così colmo di sentimento fattosi pittura, in quelle forme incerte di torri, monti, campanili, sfilacciati dalle luci ultime, da richiamarci ai passi più immediati e alla prima del nostro Carrà. Non è neppur da dimenticare che anche nel Foppa e nel Bergognone, come nel nostro anonimo, seguita la coltivazione degli ori, lombardi; anche in essi talora smagliati e modulati e scritti d'ombre a penna in mezzo ai rossi e ai bianchi, agli avana e agli azzurri più interi. Penso all'Annunciazione del Foppa in casa Borromeo o al San Quirino del Bergognone a Bergamo; un portento di accordo tra oro e tabacco biondo.E sia pur vero che nei due noti lombardi il Rinascimento resti talora un limite da superare e che, talvolta, intoppandosi nell'ostacolo, venga la squalifica. Questo, intendo, sta per il grado del loro gusto che non è sempre il più alto. Disposizione, telaio prospettico, e simili, sono in essi, quando accada, remore provinciali; e la forma troppo cercata sembra allora che urti contro un imballaggio riuscito male. Il Rinascimento rimane in quei casi come un precipitato; e il precipitato si avverte: è lì, in fondo al bicchiere. Ma dal filtro del maestro dell'Annunciata, la decantazione scende perfetta. Non si tratta di delibare in lui avventurosi frammenti, ma tutto il complesso ci appaga, ché ogni precedente, anche rinascimentale, vi è liberamente rifratto come entro un castone perennemente mobile, retrattile, sensibilissimo; ironico, se occorre. S'immagini dunque che il nostro pittore, formatosi nelle corti di Milano e di Pavia verso il '70, fra i latrati degli ultimi mastini e le canzoni degli ultimi teneri doratori e lineatori gotici degli anni di Galeazzo Maria, dopo avere inteso le tante cose di cui s'è detto e, forse, visto al lavoro anche quegli scultori che, come il Mantegazza e l'Amadeo, facevano volare in ischegge molti cristalli platonici del Rinascimento, abbia per tempo, e cioè prima di lasciar sicura traccia del suo genio fra voi, spatriato quasi stabilmente in Liguria: quella strana regione artistica di cui pur tengono, invincibilmente, tutte le cose sue, fin qui ritrovate. Che cosa sarà allora la parte ligure? In Liguria, egli si trovava a poter fruire di una sola grande lezione artistica, quella, ormai vecchia, di Donato de' Bardi, il misterioso «comes papiensis » già morto nel '51 e di cui non si può riconoscere, contro l'opinione corrente, che una sola opera certa, il grande Crocefisso di Savona. Su questa, che era una lezione nordica, perché l'opera è più amica di van Eyck e di Petrus Christus che non di Masaccio, egli avrà meditato da par suo, proprio mentre il giovine Brea l'andava invece prestamente riducendo a catechismo dorato da beghinaggio ligure; variandone poi la tipografia secondo i sempre nuovi apporti fiamminghi che giungevano per via di mare ai signori genovesi: prima Dirck Bouts, poi Gerard David, in ultimo perfino Ysenbrandt. E mi par probabile che quanto di più fiammingo o francese e provenzale suona nel nostro anonimo, in confronto al Foppa e al Bergognone, possa rimontare a quella lezione esemplare: fosse anche soltanto per lo stimolo a un viaggio in Provenza per vedervi Simone e Matteo da Viterbo, che potevan suggerirgli nuovi accordi d'oro e d'azzurro; e il Charonton, che poteva stillargli persino un po' del lume diafano, dell'estratto solare di una Firenze e di un'Umbria mai viste, verso il '50. Ché il nostro pittore sapeva scherzar da grande con le epoche, limare i secoli, meticciar le culture, e così trovar modo di venire incontro al gusto tradizionale dei liguri senza rimettervi nulla del suo. I liguri erano affezionati all'« auro fino » e all'« azzurro fino » ancor da prima dei tempi di Barnaba da Modena e di Taddeo di Bartolo che, alla metà del Quattrocento, non suonavano neppur troppo antichi. Di una vera cultura artistica locale, neppur l'ombra. Genova, per l'arte, era di chi se la pigliava. Ogni novità era ammessa purché consentisse a celarsi sotto quel manto d'oro e d'azzurro. E rifletto che, fosse il nostro anonimo un ligure, avrebbe difficilmente mancato di formare un più alto tono regionale e la Liguria non avrebbe dovuto sempre rivolgersi alla massa dei lombardi d'importazione, o ai piemontesi che non erano, lo Spanzotti a parte, i primi pittori del mondo. Non lo erano Galeotto Nebbia e Bartolomeo d'Amico da Castellazzo Bormida, non lo era il Canavesio, non il novarese Baudo, non Manfredino da Castelnuovo Scrivia; non lo era neppure (peggio, non volle esserlo) l'alessandrino Massone che, giunto in Liguria con un bagaglio discretamente padovano di ghirlande festoni e rocce scheggiate, dopo le prime buone prove è costretto, come tutti, a indorare, a broccare ogni cosa; e così cammina a rovescio. Fu dunque tra la folta dei lombardi e dei piemontesi scadenti, fra i pavesi poco più che artigiani, come i Bertolino della Canonica, i Francesco Ferrari, i Francesco Grassi e simili, che dovè imbarcarsi anche il nostro geniale anonimo. Si gradirebbe, è vero, immaginarlo come un nuovo «comes papiensis », che dipinga d'estate, per diletto, nella sua villa 39 in riviera; ma è più savio ammettere che anch'egli non fu altro che un artista d'importazione in cerca di fortuna. Questa sorte non ha poi nulla d'eccezionale, soltanto di lamentevole, stante l'altezza del pittore. Eppure, dalla possibilità, esperita per tant'altri casi, che un così grand'uomo sia stato cancellato affatto dalla storia locale, la nostra amarezza si ritorce verso il desiderio almeno che, ai suoi tempi, una qualche diversa considerazione gli fosse riserbata nei confronti della turba artigiana. Ora esiste, per la verità, non posso ormai tacerlo, e questo sia per l'ultima parte della mia personale avventura, esiste un pittore che ha più di un titolo per risolvere in sé l'anonimato del grande maestro del Louvre. E' questi un milanese, citato ancora dal Lomazzo, in pieno Cinquecento, insieme col Foppa e altri minori, fra i rappresentanti dell'arte del «far ben vedere », che sarebbe poi la ragione proporzionale; ed è il medesimo che, in confronto ai mediocri, veramente domina nei documenti genovesi dal 1480 al 1501 (date che calzano benissimo al nostro assunto) con incarichi di primo piano, tanto da meritarsi una volta il titolo, non di « pictor » soltanto, ma di « artium doctor »; che non è definizione di arte servile. t ancora di lui che, a mezzo il Seicento, sur una traccia di un secolo prima, il genovese Soprani stende una biografia che è l'unica (oltre il cenno su Giusto d'Alemagna) riservata a un quattrocentista forestiere, fra i tanti che fioccavano in Genova; e dove è subito significativo legger l'elogio dei «lumi di finissimo oro » in un San Giorgio a cavallo, ancora visibile, fin oltre la metà del secolo scorso, sulla facciata della Dogana. L'opera, del resto, è accertata al maestro anche da documenti del 1482; mentre altre carte di quegli anni ci dicono, preziosamente, di una sua attività come pittore di vetri. Anche questo ci fa tender l'orecchio. Scusatemi se vi tengo così sulla corda, ma si è che il nome di battesimo e più ancora il casato dell'artista suonano quasi incredibili nella storia della pittura quattrocentesca; sembrando più adatti per un condottiero o, tutt'al più, per un gentiluomo dilettante. Chi avrebbe pensato che uno dei più bei pittori del secolo potesse chiamarsi Carlo; Carlo Braccesco? Eppure è di lui che parlano le carte genovesi; ed è lui in persona a firmarsi Carolus Mediolanensis in quel polittico del 1478 nel santuario di Montegrazie, sette chilometri sopra Porto Maurizio, dove se la qualità par meno alta che nell'opera del Louvre, ciò è imputabile solo in parte alla minor maturità dell'artista e molto più al restauro di forse un secolo dopo che v'imprigiona, sordamente, le sottigliezze più arcane; eppure i tratti più integri non mancano di convergere, più che in ogni altro dipinto conosciuto, sul gruppo che io fido di aver fermamente connesso alla suprema Annunciazione di Parigi. A richiesta dei tradizionalisti liguri, la partitura del polittico di Montegrazie é, come si vede, ancora quella gotica e plurima dei tempi di Barnaba da Modena e di Taddeo di Bartolo; insomma, di un secolo innanzi. E tutto fonda sur un oro a quadrelli bulinati come nei tarocchi lombardi contemporanei. Ma chi si avvicina al dipinto può subito ravvisare nella Vergine, sebbene sformato dal restauro che imbratta poi più gravemente il manto, il modulo femminile dai capelli platinati, la pelle a guscio d'ovo, le palpebre battenti, che ritorneranno, più studiatamente, nella dama del Louvre; come negli angeli, così patetici (eppure con che fermezza di scorto nelle mandòle ancora intatte), già ride sulla fronte il noto serto delle tre roselline stiacciate. Nella parte sinistra, i Santi Luca e Giovanni son troppo lordati dal rifacimento per leggersi correntemente, ma, nel pilastrino contiguo, il San Francesco dalla tempia emaciata e pulsante mormora come il carmelitano dei Louvre. Sulla destra, sotto l'imbratto del piviale di San Niccolò, è possibile intravedere un sottilissimo arabesco forse di azzurro e oro, mentre sono ancora bene leggibili sui bordi le figurine finte a ricamo in forme di estremo gotico lombardo; quanto al Sant'Antonio, nero, lucido e scricchiolante, egli sembra scendere, come un parroco 40 accaldato e spicciativo, dalla montagna del Finale. Nel registro superiore, alquanto meno guasto, il San Sebastiano figura in costume di paggio o armigero moderno, come usò anche il maggiore fra i piemontesi, lo Spanzotti; e sta accanto alla Santa Caterina tenerissima, e pallida come una rosa bianca. Sull'altro lato, il San Maurizio, schermidore senza paura, porta, come si vede, lo stesso spadone del guerriero orientale nella predella Franchetti; quanto alla Santa Chiara, segaligna e stremata, essa non mette tempo in mezzo per regger pulitamente, già nel 1478, un ostensorio prettamente bramantesco, quasi prima dell'arrivo di Bramante (un mistero, questo, che forse potrà spiegarci Costantino Baroni). Seguitando l'elenco, nel pilastrino accanto, il San Cristoforo è del tipo arsiccio, caprigno che prevaleva negli astanti della nota predella; nelle tavolette apicali, infine, mentre l'Annunciazione, assai guasta, è di modulo quasi provenzale, il Crocefisso, per il nudo asciutto ed elastico, rammenta moltissimo il Sant'Andrea in croce della tavoletta veneziana e del pari inconfondibili sono le figure dei dolenti, con gli ori bruniti e pirografati, e il profilo alitante del San Giovanni che geme a bocca schiusa. Anche da una così breve ricognizione mi par perfettamente piano assumere che quest'opera del '78 ci mostri la prima forma del pittore, tuttavia già aggiornato sulle preferenze, miste di nordico e di nostrano, della Liguria occidentale; mentre i tre pezzi ricongiunti della predella apostolica ce lo dimostreranno nel tratto fra I' '80 e il '90; e l'Annunciata del Louvre al colmo del suo genio, nell'ultimo decennio del secolo; dopo di che tacciono le carte. Ma si sospenda pure il responso decisivo finché una provvida ripulitura (alla quale sono lieto che già si voglia attendere, dietro mia preghiera, per le cure della Sovrintendenza genovese) non lasci rifiorire nel polittico di Montegrazie più qualità, e più sottili, che ora non vi appaiano. Per me non resterebbe dubbio egualmente che Carlo Braccesco, l'unico pittore lombardo che, anche spatriato, ebbe tanto peso da trasmettere la propria fama fino alla cultura del tardo Cinquecento milanese - e, per converso, l'unico pittore forestiere che dalla Liguria del Quattrocento riescì a raccomandarsi durevolmente al ricordo degli scrittori locali fino al pieno Seicento; il pittore che dipingeva a lumi di finissimi ori il San Giorgio della Dogana e, chi sa con che fulgide trasparenze, i vetri della cattedrale di San Lorenzo - debba pur esser l'autore del più grande, indimenticabile capolavoro creato a Genova sugli ultimi del secolo: e, dunque, sciogliere in sé l'enimma dell'Annunciata del Louvre. Per questa via tortuosa, ma precisa, Carlo Braccesco da Milano, « eques auratus » o vogliamo chiamarlo il re di ori del Quattrocento lombardo, sceglie, dignus intrare, il suo posto sicuro nell'empireo già tanto stivato di genio della pittura italiana; debba poi essa, nel suo caso, e in questa sede qualificatissima, chiamarsi, oppur no, pittura dei Rinascimento. Carlo Braccesco: Annunciazione fra quattro Santi, Parigi, Louvre Carlo Braccesco, particolare del paesaggio nella "Annunciazione", Parigi, Louvre Carlo Braccesco: Crocefissione di Sant'Andrea, Venezia, Ca' d'Oro Carlo Braccesco: i quattro Dottori della Chiesa, Venezia, Ca' d'Oro Carlo Braccesco: una Storia della vita di San Filippo, New York, coll. Kress Carlo Braccesco: La 'manna' di Sant'Andrea, Parigi, Museo di Cluny Anonimo lombardo c. 1460: Santo Stefano e Santo diacono, Milano, Museo Poldi Pezzoli Anonimo lombardo del 1460-70: cinque Santi, Buenos Ayres, coll. privata Vincenzo Foppa: particolare della "Crocefissione", Bergamo, Accademia Carrara Vincenzo Foppa: Miracolo di San Pietro Martire, Milano, Sant'Eustorgio Vincenzo Foppa: Uccisione di San Pietro Martire, Milano, Sant'Eustorgio Bergognone: il paese nella "Madonna" di Bergamo, Accademia Carrara Bergognone: il cortile nella "Annunciazione", Lodi, Chiesa dell'Incoronata Donato de' Bardi: Crocefisso fra Maria e Giovanni, Savona, Pinacoteca Giovanni Massone: Crocefisso e Santi, Genova, San Giovanni d'Albaro Massone: l'Arcangelo e Tobia, già Zurigo, coll. Coray Carlo Braccesco: polittico con Madonna fra Santi, Montegrazie, Santuario