N°3 – 1 Febbraio - Pro Civitate Christiana

Transcript

N°3 – 1 Febbraio - Pro Civitate Christiana
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
$#
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
Rocca
1 febbraio 2006
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A2,00
sommario
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America Latina: Un inedito arcobaleno
Culture e religioni raccontate: Due storie israeliane
La voce del dissenso: Denaro e coscienza
NUMERO
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La campagna dei veleni Morale sinistra
Laici o pecore? Il cuneo della riserva profetica Ripensare Dio
Diritti violati in Europa Oms: Poveri perché malati
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1 febbraio
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brava
ma... è donna!
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
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ISSN 0391 – 108X
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Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
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Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Pro o contro
Maurizio Salvi
America latina
Un inedito arcobaleno
Luciano Bertozzi
Europa e diritti
Violare si può?
Filippo Gentiloni
Politica italiana
La campagna dei veleni
Fiorella Farinelli
Lavoro femminile
Efficienti, competenti, ma... son sempre donne
Pietro Greco
Denuncia Oms
Poveri perché malati
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Morale sinistra
Romolo Menighetti
Parole chiave
Democrazia
Inserto
Ri-comprendere la laicità
Rosy Bindi
Laici o pecore?
Giovanni Bianchi
Il cuneo della riserva profetica
Raniero La Valle
Ripensare Dio
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Una storia fragile
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Attacchiamoci alla bici
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
Due storie israeliane
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Esperienza e coscienza
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Carlo Molari
Teologia
Laici nel mondo
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
Denaro e coscienza
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Riflessioni post-natalizie
Adriana Zarri
Controcorrente
Segni e simboli
Giacomo Gambetti
Cinema
Polizia a Los Angeles
Contatto fisico
Roberto Carusi
Teatro
Cabaret diluito
Renzo Salvi
RF&TV
Dopo Tg1
Mariano Apa
Arte
Tito Amodei
Enrico Romani
Musica
L’era delle copertine
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Internet, quale democrazia?
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Sri Lanka
Nello Giostra
Fraternità
➨
l’articolo
INSERTO
democrazia
ROCCA 1 FEBBRAIO 2006
Romolo
Menighetti
emocrazia è parola esprimente
una realtà di convivenza che si
attua entro un insieme di valori
e regole che stabiliscono, queste
ultime, chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive, e con
quali procedure. Essa ha come principio
fondamentale che il potere (kratos) è del
popolo (demos).
Regola fondamentale della democrazia è
quella della maggioranza, nel senso che
sono vincolanti per tutti le decisioni approvate dalla maggioranza dei cittadini.
Questi però devono poter godere di un’ampia possibilità di scelta fra diverse opzioni. Perciò la democrazia postula i diritti di
libertà (di opinione, di riunione, di associazione, di partecipazione), di uguaglianza, il diritto alla privacy, nonché uno status economico e sociale tale da permettere a ogni cittadino di attuare le proprie
scelte svincolato dalle urgenze causate dai
bisogni essenziali. Perché il potere sia effettivamente del popolo e per il popolo è
inoltre necessario che gli interessi collettivi prevalgano su quelli particolari, che si
realizzi la perfetta identificazione tra chi
pone e chi riceve le regole della convivenza, e che il potere sia visibile e contestabile, secondo regole.
Questo è l’idealtipo, a grandi linee, della democrazia, peraltro oggi ancora molto disatteso.
Infatti, il potere reale è nelle mani di oligarchie politiche ed economiche, il godimento
delle diverse libertà è limitato dalle ristrettezze economiche entro cui ancora vivono
molti individui, gli interessi dei poteri forti
prevalgono su quelli della collettività, spesso le leggi si modellano sui privilegi e non
viceversa, il potere è sempre più opaco nonostante le molte finestre informative, la
partecipazione popolare trova grosse difficoltà pratiche a esplicitarsi; la critica poi, più
che un contributo per il buongoverno, viene
spesso recepita come un «remare contro».
Oggi inoltre le democrazie vivono situazioni inedite rispetto ai tempi e ai contesti entro i quali vennero elaborati i modelli classici di democrazia. Questi perciò esigono
un ripensamento e un aggiornamento.
Le situazioni che maggiormente impongono un ripensamento della democrazia sono
D
la globalizzazione, le ricadute nella partecipazione e nella privacy delle tecnologie elettroniche, e il terrorismo senza frontiere.
In epoca di globalità si deve tener conto che
la rapida crescita delle interconnessioni tra
stati, società ed economie determina degli
apporti estranei alle democrazie nazionali,
che possono indurre una limitazione della
loro sovranità ed autonomia. Il problema
che allora si pone è come impedire che la
globalizzazione non solo non veicoli principi e comportamenti antidemocratici (si
pensi ad esempio alla crescente prevalenza
a livello mondiale delle ragioni del profitto
sui diritti individuali fondamentali), ma
invece metta in circolo valori e metodi democratici. In tal senso sarebbero auspicabili, tra l’altro, nuove dichiarazioni dei diritti e dei doveri nell’ambito politico economico e sociale, e la separazione degli interessi economici da quelli politici (con conseguente profonda ristrutturazione di organismi quali la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio).
Circa la democrazia elettronica, vanno valorizzate le potenzialità offerte in materia
di partecipazione dei cittadini, con particolare attenzione alle nuove forme di distribuzione del potere e all’emersione di nuovi
soggetti e di nuove forme della politica. Per
contro si dovranno prevedere e arginare le
conseguenze negative derivanti dal moltiplicarsi di strumenti di controllo sempre più
occulto, invasivo e capillare.
Le maggiori esigenze di difesa, infine, conseguenti alla globalizzazione del terrorismo,
pongono un problema di equilibrio tra libertà individuali e sicurezza. A fronte di minacce terroristiche contro i pilastri stessi del
regime democratico, si rendono necessarie
restrizioni della libertà di tutti i cittadini,
restrizioni che possono diventare più severe verso coloro che sembrano configurarsi
come «nemici». C’è il rischio di scivolare
nell’antica distinzione fra cittadini e barbari. Si tratta dunque di equilibrare il principio di proporzionalità con quello dell’irrinunciabilità dei diritti fondamentali.
La democrazia, in conclusione, non è una
conquista irreversibile, ma una realtà viva
su cui vigilare, in continua interazione con
la storia, dalla quale riceve input di segno
diverso e contradditorio.
Rosy Bindi
Giovanni Bianchi
Raniero La Valle
ri-comprendere
la
laicità
interventi
al Seminario promosso dalla Pro Civitate Christiana
coordinato da Renzo Salvi
l’intervento di Marco Politi
è stato pubblicato nel precedente n. 2 di Rocca
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ri-comprendere la laicità
laici
o pecore?
Rosy
Bindi
o credo che siano sostanzialmente tre
i motivi per i quali il tema della laicità è tornato così di attualità, dopo
una sorta di affievolimento.
Il primo è il protagonismo, nella vita
politica e sociale del nostro Paese,
dell’episcopato, non della chiesa, dell’episcopato, anzi del presidente della
Conferenza Episcopale italiana. Un protagonismo che oscura una vitalità, una
vivacità, una ricchezza che non è venuta meno nella comunità ecclesiale italiana. Anzi, da certi punti di vista potremmo anche dire che essa è un interlocutore del quotidiano della vita delle
persone forse molto di più di qualche
anno fa; penso al lavoro meraviglioso
che la Caritas sta facendo nei confronti
di una situazione sociale italiana sempre più precaria e sempre più difficile,
che chiaramente ripropone il tema di
una sorta di rischio di conflitto tra le
istituzioni, la politica, la vita di una società che è avvertito e interpella la coscienza di molte persone.
Si ripropone il tema dell’autonomia della
politica, della società e delle istituzioni rispetto alla chiesa, rispetto alla fede, rispetto al vangelo. E riecheggiano in qualche
modo anche temi di categorie della separazione e anche di conflitto che – io essendo figlia di un determinato periodo
storico – avevo ritenuto in qualche modo
anche superato.
I
fondamentalismi
ROCCA 1 FEBBRAIO 2006
L’altro elemento che ha riproposto con forza il tema della laicità è legato a quello
che chiamerei lo scontro tra due diversi
fondamentalismi.
Uno è quello che banalmente potremmo
ricondurre al tentativo di strumentalizzazione di una certa parte politica che in
qualche modo si sta impadronendo dei
temi religiosi, soprattutto dei temi con forte contenuto etico. È la riscoperta di quelli
che noi chiamiamo con una battuta «gli
atei devoti» del cristianesimo e della chiesa che vengono asserviti, in qualche modo,
ca di un Dio che può far comodo, ma
che può anche essere una via che conduce a un rapporto vero di fede e di incontro con il Signore.
Allora torna secondo me di forte attualità riflettere sulla laicità per questi motivi
che hanno delle spiegazioni nella vita del
nostro Paese.
a difesa di una parte politica, e, ancora
più preoccupante, di una civiltà. Io ritengo il discorso sul meticciato del presidente
del senato a Rimini, forse il manifesto più
evidente, ma anche più pericoloso, di questa tendenza che è presente oggi nel nostro Paese.
C’è stato poi chi ha proprio detto: «noi
difendiamo il cristianesimo, perché è il
fondamento di una civiltà che oggi è attentata da altre civiltà». Questo tentativo di fare prigioniero il cristianesimo
dentro la civiltà occidentale in maniera
così eclatante, così rozza, ha scandalizzato le persone sensibili, ma comunemente viene interpretato, anche da qualche autorevole esponente della gerarchia
come il superamento del muro tra laici e
cattolici. A me vengono i brividi, però è
così.
Ma c’è sicuramente anche un nuovo ritorno di fondamentalismo laicista che è
molto preoccupante, anche se non siamo
più negli anni Settanta nei quali una certa impostazione radicale di pensiero debole nei confronti di alcuni grandi valori,
di alcuni grandi temi che interessano la
nostra vita aveva un seguito forte nella
vita di questo nostro Paese.
Io non leggo il 75% dell’astensione al referendum sulla procreazione assistita
come un’obbedienza al richiamo del cardinale Ruini ad astenersi e soprattutto mi
auguro che non lo faccia la chiesa. Perché temerei per la sua missione evangelizzatrice se potesse pensare di essere stata ascoltata dal 75%.
Chi vuole identificare la laicità come la
negazione della fatica di ricercare la verità, secondo me oggi si rende responsabile di un altro fondamentalismo che
è un forte attentato al valore positivo
della laicità. Io ritengo che ci sia un bisogno di pensiero forte in questo momento; il diverso atteggiamento nei confronti di Dio, della chiesa, anche fortemente positivo, che si riscontra pure in
mezzo a mille contraddizioni, è anche
legato al fatto che forse la nostra società ha molte meno certezze, è alla ricer-
il carisma laicale
Incomincio dal versante interecclesiale. Io
ho vissuto un periodo straordinario di crescita ecclesiale ed uno di questi eventi straordinari era la maturità dei laici nella vita
della chiesa. La fatica di vivere il concilio
per cui è il laico cristiano che costruisce il
regno di Dio, non nonostante le cose del
mondo, ma attraverso le cose del mondo.
La sua missione è quella di contribuire alla
missione della chiesa passando attraverso
le cose del mondo, sporcandosi le mani e
entrando nella comunità ecclesiale con la
polvere del mondo attaccata alla scarpe.
Contribuendo attraverso questa fatica alla
presenza e al messaggio della chiesa nel
mondo. Che è un messaggio profondamente religioso, carico di fede con una forte
pregnanza umana, sociale ed anche politica, frutto di un reciproco ascolto dentro
la comunità ecclesiale che poi diventa
messaggio al mondo.
Nel Concilio Vaticano II si legge che tra
pastori e laici devono esserci rapporti familiari: spetta al vescovo e all’episcopato
indicare i valori, il Vangelo, ma spetta al
laico la fatica di attuare quei valori nel
contesto storico e insieme così parlare al
mondo.
Ma io questa chiesa oggi faccio un po’ fatica a trovarla.
Il paradosso è che quando manca il discernimento della comunità nei confronti dei fatti storici, e la costruzione dell’incontro tra i vari carismi e i ministeri, di
quello che è il messaggio della chiesa al
mondo, le strade sono sempre due: o c’è
una chiesa in grado, attraverso il suo
messaggio spirituale, di entrare nel profondo della vita, o c’è una chiesa che non
è capace di fare questo per cui tu ti puoi
ascoltare tutte le omelie del mondo, ma
rivai a casa tranquillo come se niente fosse successo; oppure arrivi a ridurre il
messaggio spirituale-evangelico in un
messaggio temporale, politico che gli toglie l’essenza fondamentale che è quella,
appunto, della novità del Vangelo, del suo
coinvolgimento nei confronti del mondo,
del Dio che ha le sue vie rispetto alle no-
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stre.
la gerarchia
Il primo punto sul quale bisogna aprire
un discorso intraecclesiale, chiaro e netto, è questo. È mai possibile che un cardinale possa permettersi di giudicare la costituzionalità di una legge, e che questo
non possa farlo, nella sua autonomia
l’Azione Cattolica Italiana, perché altrimenti esce fuori da quelli che sono i suoi
binari di collaborazione con la gerarchia?
Ma, stiamo scherzando? Mi è dispiaciuto
molto di avere avuto un momento di difficoltà con una straordinaria donna qual
è Paola Bignardi, per l’invito a Fini, lo
scorso anno a Loreto. Le ho detto: va bene,
io non mi scandalizzo che sia stato invitato Fini a Loreto, il vicepresidente del
Consiglio, non è un’autorità di garanzia,
ma è pur sempre un’istituzione del Paese;
non mi scandalizzo per quello, mi scandalizzo del fatto che stiamo passando anni
terribili nei quali i fondamenti democratici di questo Paese vengono messi a rischio, e la mia Associazione tace su queste cose perché non può avere manifestazioni pubbliche, l’unica manifestazione
pubblica che fa è un pellegrinaggio a Loreto e in quel pellegrinaggio mi invita il
vicepresidente del Consiglio!
Oppure: io sono andata a votare ed ho votato «no», ma io non avrei avuto nessuna
difficoltà a vedere dei comitati di laici che
decidono di chiamare a raccolta il mondo cattolico e gli dicono «non si va a votare», perché riteniamo che di fronte a
questi valori bisogna fare fallire questo referendum, usando l’argomento dell’astensione che è quello più efficace, benissimo!
Sarebbe stato un protagonismo del mondo cattolico con il quale il mondo laico si
sarebbe confrontato.
A me, invece, è arrivato a sei mesi dal
referendum un dictat durante un discorso in una sede nella quale forse mi sarei
aspettata una riflessione più seria sul valore della vita, sulle frontiere della scienza, sulla responsabilità dello scienziato
e quant’altro! Ma vi pare possibile che
si facciano le settimane sociali dei cristiani ed in quel contesto noi che facciamo politica, che ogni giorno stiamo
a tribolare in quel contesto, ad interrogarci se facciamo bene o facciamo male,
non veniamo neanche invitati? Ma dov’è un momento nel quale nella mia comunità, nella mia chiesa, posso dire
quello che vivo e sentirmi magari sgri-
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ri-comprendere la laicità
dare per quello che faccio?
i cattolici e l’Italia
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C’è un rapporto tra la chiesa e l’Italia che è
cambiato perché è cambiata la presenza
politica dei cattolici in questo Paese. Noi
ci siamo trovati impreparati di fronte a
questa nuova stagione, forse più i laici che
l’episcopato. Noi siamo un Paese nel quale la presenza dei cattolici non è mai stata
marginale specialmente nella costruzione
della democrazia. Non si può fare la storia
dell’Italia se non si fa la storia del movimento cattolico italiano, nel bene e nel
male. Non c’è un testo laico più avanzato
rispetto ai nostri valori della nostra carta
costituzionale in cui il movimento cattolico ha avuto un suo valore fondamentale.
Certo ha avuto anche i suoi torti, io semplifico sempre molto, dico che quando i
cattolici italiani hanno un rapporto corretto con l’Italia, scrivono la Costituzione,
quando ce l’hanno sbagliato contribuiscono al fascismo, e così è stato.
Se io devo fare delle grandi tappe storiche vedo il Partito Popolare di don Sturzo come il grande strumento attraverso il
quale si è creata una riconciliazione tra
la democrazia e i cattolici. La Dc, nel bene
e nel male, è stata lo strumento con il
quale si è superato il conflitto tra cattolici e stato. Ma la Dc non c’è più e occorre
trovare un nuovo strumento, e quelli che
sono in campo sono deboli, compresa la
mia parte politica.
Vorrei che l’Ulivo fosse lo strumento con il
quale si crea la riconciliazione fra i cattolici ed il bipolarismo. Perché l’entrata in crisi del valore della laicità è frutto di un mancato rapporto maturo con il bipolarismo.
Non è maturo il bipolarismo in questo Paese, ma non c’è dubbio che noi siamo stati
colti di sorpresa, perché votando Dc andavamo in Paradiso; improvvisamente non c’è
più stata quest’autostrada, e allora ecco la
tentazione di dire: «vi diciamo noi quello
da fare volta per volta, non vi preoccupate!»: è un’altra via comoda per andare in
Paradiso, forse, non lo so. E noi siamo impreparati di fronte a questa situazione.
Non siamo più maggioranza del Paese,
siamo una minoranza, lo dice la chiesa,
lo possiamo dire noi e le strade possono
essere solo due. Giustamente Politi ci dice:
o prendendone coscienza ci s’impaurisce,
e allora, come è piena la storia nella Bibbia, si va alla ricerca di strumenti materiali di cui impossessarsi, in qualche
modo, oppure quando si apprende che si
è in minoranza, si reinterpreta la nostra
presenza e si ricomincia per un’altra strada.
Io appunto, venendo qua oggi, con la nebbia se avessi acceso gli abbaglianti sarei
arrivata ancora più tardi; si accendono i
fendinebbia quando c’è la nebbia, perché
quello è l’unico modo con il quale tu riesci a penetrare, e lo fai con uno strumento delicato, ma riprendi maggiore fiducia
nel tuo percorso. Allora io vedo in questa
ricerca, chiaramente, l’altro elemento che
noi non possiamo non tenere in considerazione.
autonomia della politica
A me dispiace che arrivino gli emendamenti dalla conferenza episcopale nella commissione parlamentare. Qualcuno dice che
è un rapporto molto più chiaro di quanto
fosse il rapporto con la Dc, è vero, forse è
più chiaro che arrivino gli emendamenti
firmati «Conferenza Episcopale» anziché
una telefonata da oltre Tevere al politico
di turno, può darsi; ma io mi chiedo se non
c’è un’altra strada. Diciamo che i nostri
vescovi non devono parlare? Ma ci mancherebbe altro! Ci mancherebbe altro che
venisse a mancare in Italia, in tutto il mondo, ma in Italia in maniera particolare una
parola chiara e netta su quelli che sono i
valori in gioco nel passaggio difficile che
stiamo attraversando. Io credo che questa
sia la responsabilità non dei vescovi, della
chiesa! Della quale io mi sento parte facendo politica e vorrei contribuire a dire
quali mi sembrano in questo momento i
valori più importanti ai quali una comunità dovrebbe essere richiamata; poi però,
rivendico la mia responsabilità di laico impegnato in politica come rivendico l’autonomia della politica nell’individuare le
strade, i percorsi, gli strumenti, i processi
con i quali quei valori si traducono in un
bene possibile giorno dopo giorno, nell’uso
autonomo degli strumenti propri della
politica.
Perché l’altro valore della laicità è questo, è che noi siamo chiamati ad essere i
servitori di quei valori usando correttamente tutte le cose del mondo, e questo è
l’altro punto sul quale io vorrei che ci sforzassimo davvero di riscoprire la laicità
come grande valore perché la laicità ci
consente di dare valore alle cose e di ricercare il senso vero delle cose. Io credo
che il modo giusto sia quello di diventare
in qualche modo interlocutori dell’altro
fondamentalismo, perché arrivano degli
attentati alla laicità anche da chi la vuole
far coincidere con il relativismo etico e
con l’indifferenza rispetto ai valori.
morale e diritto
La politica oggi è interpellata su frontiere
che fino a qualche tempo fa erano sconosciute, le conoscenze, le sfide della scienza,
alcuni temi eticamente sensibili che riguardano la nostra vita personale dai quali la
politica non può più stare fuori. Se un tempo potevamo permetterci di non normare
la fecondazione assistita perché il problema non c’era, oggi la politica non può non
farlo, il legislatore non può non intervenire
sul limite della vita.
A questo punto si apre anche il grande tema
tra morale e diritto, tra valori e democrazia, è un discorso enorme. Io credo che c’è
una verità sull’uomo e sulla persona umana e noi lo sappiamo, e questo va messo a
fondamento del vivere democratico. Ma
l’unica garanzia che abbiamo nei confronti del rischio della dittatura della maggioranza è il senso del limite della maggioranza che è dato esattamente dall’essere e dal
sentirsi al servizio di quella verità. Se noi
cristiani ammettiamo di aver sbagliato a
ritenere che ne siamo i proprietari, i possessori e non i servitori e i ricercatori per
tutta la vita, mi permetto di dire all’interlocutore laicista venato da qualche fondamentalismo, che vorrei che riconoscesse
che la verità c’è e va cercata insieme.
Io il termine «diritto naturale» non l’ho
mai usato, e faccio anche fatica ad usare
il termine «oggettività» rispetto ad alcune grandi questioni, però io so che c’è una
verità sull’uomo, sulla donna, sulla vita,
sul senso della storia, dell’universo, che
non pretendo di possedere, perché il popolo di Dio con la sua storia ci ha dimostrato che non la possiede ancora.
Non credo che avesse meno fede il popolo di Dio che aveva nei confronti del valore della pace un atteggiamento ben diverso da quello che abbiamo noi oggi. Vi
porto l’esempio storico più evidente: la
chiesa ha fatto la guerra, ha promosso le
guerre, oggi è la più grande autorità morale che parla di pace. Questo significa
che il popolo di Dio ha scoperto questo
grande valore della pace, scritto nel Vangelo da sempre, attraverso le contraddizioni dei secoli.
unire insieme le nostre parziali verità
Io non pretendo di possedere oggi tutta la
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conoscenza, però so che c’è e che la devo
cercare; e chiedo ai nostri interlocutori
laici di fare questo insieme.
Quando mi si oppone che non c’è una verità, un’etica che può essere contenuta
dentro una legge, di solito dico sempre che
è pura illusione perché un’etica dentro
una legge c’è sempre, sempre e comunque, perché ciascuno di noi che lo sappia
o che non lo sappia la possiede. Quello
che dobbiamo sforzarci di fare insieme è
d’individuare un’etica condivisa dentro il
Paese e di riuscire a mettere insieme le
porzioni di verità che però insieme dobbiamo dichiarare di voler cercare e servire.
Non è la negazione dell’esistenza di quella verità, è il tentativo di unire insieme le
nostre parziali verità e parziali fatiche di
ricerca della verità rispettando il Paese nel
quale si vive, al quale non possiamo imporre, insieme al bipolarismo politico, anche un bipolarismo etico, che è davvero
la violenza più grande che si possa perpetrare nei suoi confronti.
Se si riesce a fare questo insieme, io credo che siamo in grado di dare una risposta all’altro tentativo di fondamentalismo,
che è quello di imprigionare il Vangelo
dentro una parte politica, di porlo al servizio di una determinata civiltà, di poteri
costituiti. Siamo in grado, secondo me,
di poterlo fare perché è l’idea positiva di
laicità che ci guida, in questo momento,
e alla mia chiesa chiederei di capire la
nostra fatica.
percorsi di mediazione
Perché se io devo mettermi al servizio di
quel bene possibile che posso realizzare,
che è la sintesi delle parziali verità che insieme abbiamo cercato, non mi si può dire
né che la devo perseguire tutta intera, perché questo non è possibile storicamente,
né essere giudicata, oltre la mia responsabilità e la mia fatica, sui singoli atti che
si compiono.
Non mi scandalizzo quando mi viene detto: «secondo la visione della chiesa così
stanno le cose», mi scandalizzo quando
mi si dice: «su quella legge lì o su quella
presa di posizione lì noi possiamo essere
d’accordo, su quest’altra no». Se si inizia
un percorso di mediazione che viene persino dagli ultimi responsabili di una comunità ecclesiale, va consentito che il primo giudizio spetti a chi ha questo carisma e questo servizio e questo ministero
dentro la Chiesa. Sarà innanzitutto chi ha
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ri-comprendere la laicità
fatto la fatica a poter dire: «si arriva fin
qua, è un passo avanti, non può essere
contenuta tutta la nostra visione etica
dentro questa legge, però qui c’è una sintesi che è un bene oggi possibile, storicamente determinato, condiviso da una comunità». È un po’ faticoso sentirsi dire:
«quella sintesi sì, quell’altra no», per quale
motivo? In base a che cosa?
Io credo che ci sia anche una strada propriamente politica oggi per fare questo ricercando anche nuovi strumenti visto che
quelli perduti non ci sono più. Si è anche
prefigurato in questo Paese una sorta di
nuovo bipolarismo, semplificabile intorno a un nuovo blocco clerico-moderato
della destra, che si poteva contrapporre
ad un blocco laicista radicale anticlericale. Dove va a finire la fecondità del pensiero cristiano in un bipolarismo politico
come questo?
Io vedo nel percorso dell’Ulivo la ricerca
di una nuova maturità del cattolicesimo
democratico nella vita del nostro Paese.
Credo che siamo anche in grado d’interloquire sia con l’area radicale che con la
destra più ragionevole e anche in qualche
modo di continuare ad essere forti nei
confronti dell’altra grande tentazione clerico-moderata, perché quando in Italia c’è
uno scontro fra il fondamentalismo laico
e radicale ed il fondamentalismo clericomoderato, politicamente vince il fondamentalismo clerico-moderato.
Allora io credo che noi dobbiamo continuare su questa strada che è la strada
del tentativo della contaminazione delle culture democratiche della vita di
questo Paese, del loro meticciato. Perché in questo modo io credo che c’è anche la possibilità di prendere quel percorso faticoso che ci porta ad un’affermazione della laicità come valore positivo nella politica.
Rosy Bindi
(testo ripreso al magnetofono)
il cuneo della riserva
profetica
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Giovanni
Bianchi
questa una stagione di grandi accelerazioni, anche nelle retromarce, se è sotto i nostri occhi la messa in discussione del Concordato
con accenti che paiono talvolta intenzionati a resuscitare, senza alcun guadagno per la politica, pare a me, la
stessa «questione romana». Un tempo di
secolarizzazione e di ritorni clericali e laicisti, uguali e contrari. Inutile però stracciarsi le vesti. Si tratta piuttosto di ricondurre il dibattito su un piano di decente e
nuova laicità.
So bene che da troppo tempo l’aggettivo
«nuovo» viene usato in salse disparate per
legittimare operazioni spericolate. Non è
questo il caso della nuova laicità chiesta
dal Patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, in un’intervista al «Corriere della Sera» del luglio scorso.
Dice Scola: «Il 1989 con la caduta delle
utopie marca il passaggio a una nuova fisionomia dell’umanità, che ha segni clamorosi: la globalizzazione, la civiltà delle
È
reti, le biotecnologie, l’interculturalismo,
che io preferisco chiamare ‘processo’ di
meticciato di civiltà. Se a questi segni si
connette l’evoluzione del rapporto tra nazioni e ordine mondiale, tra guerra e terrorismo, ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale della democrazia e della società civile. Si tratta di attuare una
pratica e di pensare ex novo una teoria
della laicità. Dobbiamo impegnarci con
pazienza a rivedere le cose».
E più avanti: «Noi occidentali non possiamo continuare a pensare che la nostra
visione della società civile e delle istituzioni statuali, la nostra idea di razionalità, valgano anche per le altre aree culturali, dalla islamica all’induista-buddista.
Asia, Africa, America Latina hanno altri
parametri».
crisi del rapporto laicità-modernità
Dunque, anche la laicità, come la democrazia, non è un guadagno fatto una volta
per tutte. Di più, siamo di fronte ad uno
spiazzamento. È in crisi il rapporto della
laicità con la modernità. Modernità e laicità sono cresciute insieme: non a caso gli
Stati europei nascono per chiudere la tragedia delle guerre di religione.
Non è più così. Dal momento che il clericalismo e il clericomoderatismo si sono
fatti moderni. Il clericalismo, pensato
come residuo storico e resto medievale,
veste i panni della modernità: affronta il
binomio sicurezza/istituzioni. Ricordo
come dopo lo scoppio della guerra crudelissima nei Balcani le prime elezioni a Sarajevo facessero registrare una grande
avanzata dei partiti religiosi. La gente della Bosnia-Erzegovina si era convertita in
massa? Niente affatto. La gente cercava e
trovava nella religione identità e rassicurazione, legami protettivi. Non la religione di Abramo, di Mosè e di Gesù. Probabilmente neppure quella di Maometto.
Piuttosto la religione di Durkheim, interessante per la sua capacità di ricreare tessuto sociale connettivo.
Torniamo in Italia. Cosa c’è di più moderno dell’«otto per mille?» Funziona meglio
e con più trasparenza del metodo di tassazione tedesca legato all’appartenenza confessionale e al certificato di battesimo. Il
cardinal Nicora ha prodotto un modello
di modernità. La stessa chiesa ruiniana,
uscita vincitrice dal referendum sulla procreazione medicalmente assistita, non sogna riedizioni impossibili di partiti cattolici. Si comporta (e conta assai di più) da
lobby trasparente (a differenza del lobbismo tradizionale che frequenta i corridoi
di Montecitorio e Palazzo Chigi) difendendo e promuovendo valori e interessi. Una
moderna concentrazione nella istituzione,
così come il lungo pontificato di papa
Wojtyla, ricco di carisma e di visione, aveva prodotto una inedita ed efficace concentrazione nell’immagine.
Orbene, il credente sa che l’istituzione è
giudicata dal suo Fondatore e dal Vangelo. Sa che il cuneo da introdurre tra modernità e laicità è quello della riserva profetica.
Del resto anche i non addetti ai lavori teologici non possono ignorare la figura di don
Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, autore di Lettera a una professoressa.
Non proprio evidenti i caratteri della modernità nel vestire e in certi atteggiamenti
di don Milani. Indomabile il fuoco profetico che lo animava: dal rapporto con la
scuola alla polemica con i cappellani militari.
Può essere che abbia ragione Giorgio Cam-
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panini quando reclama un forum dei laici
cattolici. Come aveva ragione don Giuseppe De Luca a ricordare che in Italia di cattolici ce n’è sempre almeno 12 specie, come
le tribù d’Israele...
Restano comunque i punti di confronto
utilmente posti dall’intervista del Patriarca di Venezia. Il problema del limite, di un
termine dal quale partire. Esso è ancora
una volta rappresentato dalla Caduta del
Muro di Berlino nel 1989. Dinanzi alle
macerie del Muro Giovanni Paolo II disse
a Gniezno: «È crollato il più grande esperimento di ingegneria umana che la storia
ricordi». Sembra Orwell e invece è il Papa.
ai tempi della Dc
In Italia di fronte ai tentativi di riattizzare
la questione romana vi è il termine rappresentato dalla difficile e tardiva gestazione dello Stato unitario e poi quello che
fa riferimento al mezzo secolo della Democrazia Cristiana. Dove l’esaurimento
della Dc sta al culmine di una storia ed è
l’epilogo di una grande esperienza di laicato cattolico, nell’approccio al mondo
come nelle pratiche socio-politiche.
Ma non solo la Dc si sentiva interpellata
dall’interlocutore ecclesiastico: diciamo
pure che la consapevolezza del peso della
tradizione cattolica in Italia faceva sì che
ogni grande cultura politica si misurasse
con essa. Valeva per i liberali, il cui principio di «libera Chiesa in libero Stato» era
comunque il portato di una logica che superava lo stesso giurisdizionalismo settecentesco. Ma valeva soprattutto per la sinistra, in particolare per quella comunista
che, nella logica togliattiana del «partito
nuovo e nazionale», aveva l’ambizione di
uscire dalla logica settaria del terzinternazionalismo e di porsi come sintesi di tutte
le tradizioni progressiste, dall’idealismo
liberale filtrato da Gramsci fino al cattolicesimo, sia nella versione tradizionale di
Franco Rodano sia in quella più problematica dei cattolici cresciuti nell’ambito
conciliare come La Valle, Pratesi e Masina.
Si badi bene, elaborare in termini strategici il rapporto con la Chiesa cattolica non
significava semplicemente fare diplomazia
o dire sempre di sì o di no: era il tentativo
di una più ampia comprensione delle istanze di un mondo ecclesiale che (lo comprese Berlinguer meglio di Togliatti, come dimostra il suo carteggio con mons. Bettazzi) non si riduceva alla dimensione gerarchica ma constava di presenze associative
significative che erano esse stesse un in-
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INSERTO
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ri-comprendere la laicità
terlocutore sul piano dell’azione storica
prima che sui principi.
In questo senso, sarebbero state allora incomprensibili reazioni come quelle viste
negli ultimi anni in cui, in una visione completamente laicizzata e deproblematizzata, la questione dei «principi» e dei «valori» viene ridotta a merce di scambio elettorale, e la valutazione dell’interesse politico di breve momento paralizza la visione di prospettiva e anche il legittimo compito di sintesi «laica» delle diverse istanze
che sarebbe il vero compito delle culture
politiche, se ne esistesse almeno una.
uscita dalla cristianità
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Ma d’altro canto ciò non sarebbe possibile
se in campo cattolico non permanesse
un’irresolutezza di fondo circa le modalità per uscire dalla lunga agonia della cristianità.
Il regime di cristianità aveva implicato l’esistenza di una società organica in cui l’appartenenza cristiana era stata lo sfondo e
l’ispirazione necessaria della vita della persona umana dall’inizio alla fine. Ovviamente non erano mancate neppure in quella
fase errori, omissioni, violenze, negazioni
dirette del significato del messaggio evangelico, ma l’humus sociale ne era rimasto
pregno, e la reazione più tipica da parte
dell’intellettualità cattolica di fronte alla
cesura rappresentata dalla Rivoluzione
francese (che significava ben più del tentativo degli eretici e degli scismatici di costruire un’«altra» forma della cristianità,
ma addirittura di costruire una società in
cui la Ragione e non Dio fosse il fondamento) non era tanto quella di rimpiangere un «ancien Régime» che si era rivelato
esso stesso corrotto, ma addirittura quella
di una restaurazione della società medievale, della quale il corporativismo, che tanta parte ebbe nella prima fase del pensiero
sociale cattolico, era stato il più visibile
fondamento nella vita economica.
Furono pochi, in campo cattolico, a prendere atto dell’ampiezza di questa crisi, e
fra di essi vi fu Emmanuel Mounier, per il
quale, all’indomani dell’ultimo conflitto
mondiale, era evidente la non reversibilità
del processo di superamento delle forme
tradizionali di cristianità; d’altro canto una
figura centrale nella vita del cattolicesimo
francese come l’arcivescovo di Parigi il
cardinale Emmanuel Suhard non aveva
avuto paura di tematizzare, in una famosa
lettera pastorale per la Quaresima 1947,
se ci si trovasse di fronte al declino della
Chiesa o se non ci si trovasse di fronte alla
opportunità di un nuovo slancio.
Mounier consentiva con questa impostazione, e per lui era chiaro che tale opportunità poteva essere perseguita solo a condizione che si avesse il coraggio di guardare la realtà sociale e culturale per quello che era, senza alimentare nostalgie tanto più dannose in quanto rischiavano di
schiacciare la comunità ecclesiale a difesa
di interessi contingenti.
Annotava Mounier: «Molti cristiani dicono: «Noi abbiamo una dottrina di salvezza, non c’è che da incarnarla nel mondo
così com’è». Questa logica dell’incarnazione copre sempre più frequentemente un
inganno che ci conviene rifiutare una volta per tutte (…). In ambito politico, sociale, economico, ecc. un’elementare onestà
morale ed intellettuale vuole che invece di
dogmatizzare, di dedurre frettolosamente
qualunque conclusione da qualunque premessa, il cristiano rivada a scuola (…) Egli
oggi avrà ben più spesso da assumere (correggendo, senza dubbio) che non da incarnare».
luoghi di confronto aperto e plurale
Dunque il cristiano deve ritrarsi dal mondo? No, senz’altro: piuttosto egli ha un
compito più complesso, ed insieme semplice, quello di portare al mondo il Vangelo e nient’altro che questo, prendendo atto
dell’estinzione del modello storico della
cristianità e sostituendo alla logica delle
moltitudini quella dei piccoli gruppi, dei
foyers (in italiano si tradurrebbe «focolai»,
ma l’espressione ha un senso più ampio,
perché implica sia un luogo in cui ci si ritrova ma anche uno da cui si riparte) che
potessero essere dei luoghi di semina del
Vangelo in cui i credenti, nell’attuare la loro
vita di fede e di Chiesa, possano esercitare
un influsso benefico sulla vita sociale seguendo l’esempio dei monaci benedettini
nei secoli bui (e credo che una riflessione
di questo tipo non sia assente dal pensiero
di colui che recentemente ha assunto per
sé il nome di Benedetto).
È una via possibile, indubbiamente, come
pure è possibile un’altra uscita dalla cristianità che indichi l’accettazione della logica mondana come calcolo degli interessi e dell’influenza intesa in senso politico,
magari mettendo l’accento sulla dimensione «culturale» piuttosto che su quella spirituale. Una scelta, indubbiamente, che
potrebbe pagare sul breve periodo, ma sarebbe alla lunga perdente in una società
di uomini incerti, delusi dalle promesse
mancate della secolarizzazione e per que-
sto alla ricerca, per usare le parole di San
Paolo, di un solido cibo spirituale e non di
un altro placebo.
Vi è secondariamente un problema ineludibile di metodo. Anche qui Scola non è
reticente: «Sono convinto che esista la verità, ma non la voglio imporre: la voglio
rischiare attraverso la testimonianza. Non
posso rinunciare a mettere in campo la mia
idea nel gioco democratico. Lo impoverirei». E, come conclusione: «Ma se io non
impongo assoluti, tu non mettere in campo assoluti come il «vietato vietare». Io
dico la mia idea, tu la tua, il popolo giudichi qual è la migliore e lo Stato laico la
assuma. La democrazia mi pare funzioni
così».
Ma per funzionare questa democrazia ha
bisogno di luoghi d’incontro e di confronto. Esigenza che ci rimanda all’ormai famoso colloquio tra Habermas, il filosofo
erede dei Francofortesi, e l’allora cardinale Ratzinger. Per Habermas la religione si
esercita come critica opportuna delle patologie sociali della modernità. Ratzinger
apprezza la formula habermasiana dell’ap-
ripensare
Dio
a laicità di cui si parla qui non è la
laicità onde si è laici nella Chiesa,
che è il luogo dove essa massimamente manca (senza una riforma
della Chiesa non può esserci laicità, se non come sofferenza e come
cimento), ma la laicità in rapporto alla società tutta intera.
E anzitutto bisogna fare un elogio della
laicità. La laicità è un concetto molto fecondo. Ha permesso lo sviluppo della
scienza e dello Stato moderno. È alla base
della nostra Costituzione, nonostante i
Patti Lateranensi invocati nell’art. 7. È stata rivendicata come «sana» da Benedetto
XVI al Quirinale, al seguito di una lunga
tradizione che va da Pio XII (Discorso alla
colonia delle Marche a Roma, 23 marzo
1958) a Giovanni Paolo II che, scrivendo
ai vescovi di Francia l’11 febbraio 2005 nel
centenario della legge francese di separazione tra le Chiese e lo Stato, l’aveva inclusa nella dottrina sociale della Chiesa. È
L
Raniero
La Valle
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prendimento reciproco fra fede e ragione
e definisce «strumento inefficace» il diritto naturale come ponte fra fede e ragione
perché superato dalla teoria evoluzionistica accettata dalla Chiesa.
Quanto alla proposta è segnata da una profonda analogia: perché Habermas propone «luoghi di virtù» e Ratzinger parla di
«piccole comunità creative». Il percorso è
tracciato e indica un processo. Indica in
particolare l’esigenza di luoghi di confronto aperti e plurali e di un consenso etico
tra le culture. Perché se il recinto dei temi
sociali è rimasto invariato negli ultimi cinquant’anni, il perimetro dei temi eticamente sensibili è in via di costante e rapidissima espansione. Sollecita drammaticamente il legislatore in Italia come in Europa. E
non consentirà di rispondere all’infinito fidando nella libertà delle singole coscienze.
Le culture sono dunque chiamate a misurare distanze e vicinanze. A provare convergenze. La laicità è il luogo di questo ineludibile processo.
Giovanni Bianchi
espressa nella formula parallela della Costituzione («Lo Stato e la Chiesa cattolica
sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani») e nel documento conciliare «Gaudium et Spes» al n. 76 («La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo»).
Dalla laicità non si può tornare indietro.
Tuttavia oggi è diventato un concetto monco; essa è gestita e concepita in un modo
che la rende impraticabile ed appare come
una forzatura inaccettabile quando è intesa non solo come separazione tra istituzioni, ma come separazione e reciproca
indifferenza tra ragione pubblica e religione, sicché in tutto ciò che è pubblico la
religione non deve entrare.
una critica infondata
Si possono fare degli esempi di questa crisi nel modo di intendere la laicità.
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ri-comprendere la laicità
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Il primo esempio è la reazione suscitata
dalla lettera dell’11 ottobre 2005 di papa
Ratzinger a Marcello Pera, come presidente onorario della Fondazione «Magna
Charta». Lasciamo stare la qualità dell’interlocutore e l’errore di rivolgersi a lui,
nonostante sia noto come militante dello
scontro di civiltà; quello che qui interessa
è la ragione di merito dello scandalo suscitato dalle parole del Papa.
Che cosa aveva scritto Benedetto XVI? Aveva scritto che i «diritti fondamentali rappresentano valori previi a qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, ma
sono inscritti nella natura stessa della persona umana, e sono pertanto rinviabili ultimamente al Creatore». Ciò, secondo i critici del Papa, sarebbe contrario alla laicità, perché se i diritti fondamentali vengono da Dio, non ci sarebbe l’autonomia e la
laicità dello Stato.
Questa critica è infondata. Il fatto che i
diritti fondamentali siano innati, non derivabili da una concessione del potere, inalienabili e irrevocabili perfino da una maggioranza o addirittura da una unanimità
parlamentare, è il cuore del costituzionalismo e ne rappresenta la più grande conquista. Lo Stato costituzionale è precisamente quello Stato dove i diritti fondamentali sono riconosciuti come precedenti a
ogni ordinamento, per cui ad esempio devono essere rispettati e tutelati anche se i
loro titolari sono immigrati clandestini,
profughi e fuorusciti, sbattuti sulle coste
di Lampedusa. Le Costituzioni moderne,
e soprattutto le Costituzioni postbelliche,
sono Costituzioni e non semplici leggi rafforzate, nella misura in cui al centro di
tutto mettono i diritti fondamentali dell’uomo, e li presidiano con adeguate garanzie.
Essi, come dice il costituzionalista Enzo
Cheli, vengono a configurarsi come «diritto naturale secolarizzato», ciò che richiama l’antica categoria giuridica del diritto
naturale inteso come sovraordinato al diritto positivo.
Non a caso la Carta dell’Onu, nel suo preambolo, parla di «fede nei diritti fondamentali dell’uomo» che i popoli delle Nazioni Unite sono «decisi a riaffermare»;
dunque sono diritti che esistono già, e che
come tali sono oggetto di fede, insieme alla
dignità e al valore della persona umana, e
alla «eguaglianza dei diritti degli uomini e
delle donne e delle nazioni grandi e piccole». Inoltre l’art. 51 della Carta, che contiene l’unica deroga alla proibizione generale dell’uso della forza, riconosce «il diritto naturale di autotutela» per la difesa
contro un’aggressione, diritto il cui esercizio non ha evidentemente bisogno di essere legittimato dall’aggressore o dall’occupante. E la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948 dice che i diritti
dell’uomo devono essere protetti – non creati! – da norme giuridiche, se non si vuole
che «l’uomo sia costretto a ricorrere, come
ultima istanza, alla ribellione».
nella coscienza il fondamento dei diritti
In Italia una importantissima sentenza del
dicembre 1991 della Corte Costituzionale,
in tema di obiezione di coscienza, poneva
nella coscienza il fondamento dei diritti;
la Corte infatti affermava il primato della
coscienza anche rispetto a doveri pubblici
qualificati dalla Costituzione come inderogabili (servizio militare) basandosi sul
fatto che la coscienza «costituisce la base
spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico» delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo
riconosciuti e garantiti dall’art. 2; ragione
per cui la coscienza «esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati
diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei
valori espressa dalla Costituzione italiana».
E se questi sono i diritti fondamentali per
le Costituzioni, per le Corti Costituzionali, per la Carta dell’Onu e la Dichiarazione
universale, se questi diritti sono connaturati all’uomo, che cos’altro deve dire il
Papa, che è un cristiano, ed anzi un vescovo, se non che questi diritti vengono da
Dio? È contro la laicità per un credente
dire che la coscienza è il luogo attraverso
cui Dio si manifesta? Altrimenti, che crede a fare?
D’altra parte ciò non vuole affatto dire che
se c’è di mezzo Dio, l’azione umana è misconosciuta e negata. Nella «Pacem in terris» Giovanni XXIII incrociò i due movimenti: da una parte, dalla storia, dall’esperienza, c’è la scoperta e la conquista umana dei diritti (i segni del tempo!); dall’altra
c’è Dio stesso che vuole così, che vuole proprio quell’ordine della libertà e dignità
umana che con tanta fatica gli uomini riescono, quando ci riescono, a costruire.
laicità nell’Islam
Un altro esempio lo traggo da un’esperienza fatta nella nostra piccola scuola romana, «Vasti», dove da qualche anno stiamo
cercando di capire che idea d’uomo c’è dietro le politiche e le dottrine sempre più
catastrofiche della modernità. Abbiamo
interrogato un musulmano, Adnane Mokrani, per capire qualcosa della giustizia
nell’Islam. Non è un musulmano integralista, non è un terrorista, non è un kamikaze, non è un nemico dell’Occidente. Anzi è
uno spirituale, di scuola sufi, tollerante e
pacifico. E ci ha detto: la laicità è stata introdotta in modo sbagliato nell’Islam; separazione di religione e Stato vuol dire che
lo Stato è senza etica, perché per noi non
esiste un’etica senza religione. Inoltre noi
pensiamo che Dio governa la nostra vita.
Dunque la laicità viene rifiutata come una
imposizione occidentale.
invadenza temporalista
C’è una invadenza temporalista che la laicità non riesce ad arginare; non si è potuto evitare che la Chiesa italiana intervenisse
addirittura dettando il comportamento
dell’astensione nel referendum sulla procreazione assistita, non si sa come fare per
distogliere la medesima Chiesa dalla propensione a far uso del governo delle destre, così accreditandole, c’è l’effetto devastante del flusso di denaro che passa dal
bilancio pubblico alla Chiesa, compreso lo
sgravio dell’Ici per le proprietà ecclesiastiche. Qui la laicità patisce tutta la sua debolezza politica.
come se Dio non ci fosse
C’è un quarto esempio della crisi della laicità che si ricava da un volume di parte
laica tutto dedicato alla laicità. Si tratta di
un numero della rivista semestrale «Parole chiave», nuova serie di «Problemi del socialismo», fondata da Lelio Basso e di cui
ora si occupa la Fondazione Basso.
La parola chiave di questo volume (n. 33
giugno 2005) è appunto «laicità». In uno
dei saggi della rivista, Massimo Rosati,
docente di Storia del pensiero sociologico
presso l’Università di Salerno, autore di un
Libro, «Solidarietà e sacro», spiega perché
la laicità è andata in crisi. È andata in crisi perché è andato in crisi il compromesso
che la modernità aveva fatto con la religione nel Seicento (il compromesso espresso nel celebre detto di Grozio: facciamo
come se Dio non ci fosse). In che cosa consisteva quel compromesso? Rosati lo descrive come basato su «una divisione rigida tra pubblico e privato, sulla visione liberal-protestante della soggettività, sulla
creazione di uno spazio pubblico secolarizzato, sulla prevalenza del giusto sul
bene»; questo è il compromesso che nel
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Seicento pose fine alle guerre di religione
in Europa tra cattolici e protestanti, e che
in sostanza dice: espelliamo la religione,
mettiamola tra parentesi, ovvero immunizziamo la società dalla religione, creiamo un
terreno neutralizzato – immunizzato, appunto – in cui essa non è più oggetto di contesa politica e separiamo Stato e Chiese.
crisi del compromesso
Questo non funziona più. Da che cosa dipende?
Questa immunizzazione dello spazio pubblico dalla religione era possibile, secondo Rosati e gli altri interlocutori della rivista che ne discutono le tesi, grazie a un
lungo processo di protestantizzazione della
religione, che aveva diverse implicazioni:
1) una «individualizzazione della religione, ossia il suo trasformarsi, da Agostino
fino ai Riformatori, sempre più in una
questione soggettiva di credenze interiormente vissute dal singolo credente, una
questione in altri termini di coscienza»;
2) una «privatizzazione e neutralizzazione, avendo ridotto la religione a qualcosa
che attiene essenzialmente all’interiorità
della vita individuale»;
3) la creazione di uno spazio pubblico di
ragioni condivise da tutti – che sarebbe poi
lo spazio della laicità – dove però le ragioni condivise sono quelle che residuano
dopo che le ragioni religiose sono state circoscritte all’individuo e isolate nel privato, cioè appunto dopo la immunizzazione,
sterilizzazione e disconoscimento pubblico della religione;
4) sottratta allo spazio pubblico (non solo
politico ma anche sociale) «la religione è
costretta a scavare nell’unica direzione di
marcia rimasta, ossia nell’interiorità». Il che
avrebbe portato anche a una progressiva
deritualizzazione della religione moderna,
perché il rito finisce per non corrispondere
più ad alcuna dimensione della vita reale, e
quindi si ridurrebbe a pratica filistea, priva
di alcun valore proprio, e la religiosità si
riduce così sempre più a esperienza soggettiva (eventualmente mistica), senza valore
pratico, performativo e pubblico, e magari
finisce in un bricolage religioso, col diffondersi di un «credere senza appartenere».
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INSERTO
la contestazione dei cattolici
Nell’analisi di Rosati tutto questo si troverebbe iscritto in un processo di protestantizzazione; e come tale starebbe stretto ai
cattolici. Come osserva un altro interlocutore della rivista, Alessandro Ferrara, do37
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ri-comprendere la laicità
cente di Filosofia politica a Roma Tor Vergata, cattolici e protestanti, che nel ’600 si
sarebbero accordati su questo compromesso laico, «hanno due antropologie notevolmente diverse dell’individuo. L’antropologia protestante è un’antropologia dell’interiorità», e perciò per i protestanti «la soluzione funziona un po’ meglio che per l’altra parte»; i cattolici; la cui antropologia
«ha una matrice storica e culturale in cui
la dimensione istituzionale, pubblica, se si
vuole rituale, è fondamentale». Dunque
intesa così, la camicia della laicità ai cattolici sta troppo stretta.
Infatti oggi i cattolici contestano questa laicità, che sarebbe quella non «sana»; e tutti
gli sforzi di papa Benedetto, prima da cardinale, nei suoi dialoghi con la cultura moderna, e ora, da papa, nel suo magistero,
sono diretti a recuperare la risorsa della fede
per la vita congiunta degli uomini, per il
mondo, una fede non neutralizzata; ma
questa valenza generale, pubblica, questo
proporsi come risorsa per il mondo, appartiene allo statuto stesso del cristianesimo,
come di ogni altra religione che comprenda se stessa come religione di salvezza. Una
laicità che rifiuti questo non può funzionare. Quindi la critica alla laicità così intesa
non è solo dei fondamentalisti, ma è in qualche modo di tutti i cristiani per dir così non
privatizzati, ivi comprese le Chiese riformate, ed è dell’Islam, come dell’ebraismo, che
addirittura si è fatto Stato ebraico, ed è di
altre religioni dell’umanità.
Questa è la ragione per cui la laicità, così
descritta, come dogma della modernità,
oggi è in crisi; una crisi che va ben al di là
delle piccole controversie di bottega sul
finanziamento delle scuole confessionali o
della sorte dell’Ici per le istituzioni ecclesiastiche.
riaprire la questione di Dio
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D’altra parte di fronte ai fondamentalismi,
agli integralismi, alla richiesta degli atei
devoti di una religione civile, di fronte al
Dio della guerra perpetua di Bush o al Dio
della guerra santa islamica di Bin Laden,
di fronte al muro in Palestina e alla rivendicazione del possesso esclusivo della terra promessa da parte degli ebrei ortodossi, come si è visto con i coloni di Gaza, la
laicità è più che mai necessaria; in tempi
di guerre di religione Dio non appare più
come colui che ci salva, ma come colui che
ci può perdere, per cui chi si professa laico si propone come l’unica speranza rimasta al dialogo e alla pace, alla tolleranza e
alla ragione, come pretende Eugenio Scal-
fari quando dice: «Perché non possiamo
non dirci laici» (in «Dibattito sul laicismo»,
La biblioteca di repubblica, Roma 2005).
Ma allora, se il problema è di mettersi al
riparo non dalle Chiese ma da Dio, non
basta la laicità, ci vuole l’ateismo; di fronte a un Dio tanto pericoloso da dover essere neutralizzato, non basta più il compromesso di rinchiuderlo nel privato; la soluzione più coerente, a cui la modernità non
può non arrivare, è l’ateismo. Il vero problema che sta dietro alla attuale crisi della
laicità, non è quello della distinzione tra
spazio pubblico e spazio privato, ma è
quello dell’esserci o non esserci di Dio.
Dunque io credo che «ripensare la laicità»
vuol dire riaprire la questione di Dio, vuol
dire «ripensare Dio».
La discussione sulla laicità che si dimentichi del suo vero oggetto, non è una vera
discussione, è una discussione falsata; non
si può dire: a noi non importa niente di
Dio, a noi basta immunizzarci dalle religioni e dalle Chiese. Aveva più coraggio
Grozio quando non diceva: facciamo come
se le Chiese non ci fossero, ma diceva: facciamo come se Dio non ci fosse. Se Dio
non c’è non ci sono nemmeno le Chiese,
perché le Chiese senza Dio sono un mostro. La società laica, moderna di oggi dice:
tagliamo i ponti con le Chiese (salvo a trasmetterne in Tv i riti filistei); ma la vera
sostanza è quella di tagliare i ponti con Dio;
perciò la soluzione più coerente non è la
laicità ma è l’ateismo; e infatti questa è la
verità interna di questa società.
la Chiesa ridotta a legge
Allora dobbiamo ancora tornare al punto
di partenza, dobbiamo capire meglio la
storia da cui veniamo, dobbiamo rivisitare la genesi della soluzione laica della
modernità, di questo compromesso laico
della religione come affare privato. Non
credo che esso possa essere messo tutto
sul conto della protestantizzazione, della
riduzione protestante della religione all’interiorità e alla coscienza. Tra l’altro, si tratta di una lettura riduttiva e banalizzante
della stessa dottrina dei riformatori.
Alla svolta secolarizzatrice del ‘600 si arrivò in effetti attraverso un processo che riguarda tutta la Chiesa e soprattutto la Chiesa d’Occidente ancora indivisa, prima della rottura protestante. Bisogna leggere il
libro di Paolo Prodi, «Una storia della giustizia» (Il Mulino, Bologna, 2000), per vedere come a partire dalla «rivoluzione papale» dell’XI secolo, con la riforma di Gregorio VII, la Chiesa avesse incorporato Dio
in se stessa, ponendosi essa stessa al posto di Dio, cancellando la polarità, il dualismo, la infinita differenza qualitativa tra
il divino e l’umano; e ciò ha fatto soprattutto proponendosi come l’interprete e
l’esecutrice della giustizia divina sulla terra; la giustizia non era più una funzione
della misericordia di Dio, non era più giustificazione, ma diventava la giustizia della Chiesa che pretendeva essere anche giustizia per il mondo. La Chiesa si trasformava in una grande giurisdizione.
I canoni della giustizia umana e della giustizia divina erano salutarmente discordanti? Ed ecco nel 1140 il decreto di Graziano con la «concordanza dei discordanti canoni»; ecco la traduzione della giustizia divina nei moduli della giustizia retributiva, la sua riduzione nei termini dell’«unicuique suum», a ciascuno il suo, di
Ulpiano, ecco la rivendicazione del potere
di coazione anche materiale della Chiesa
sino alla condanna a morte e alla guerra,
che Anselmo da Lucca nell’XI secolo, sulla scia di Gregorio VII, esplicitamente riconduceva senza soluzioni di continuità
alla legge di Mosè; ecco la deriva che condurrà fino all’Inquisizione e alla tortura.
In questa riduzione del divino all’umano
il peccato diventa il fondamento del sistema. Se la Chiesa è ridotta alla legge, senza
trasgressione non c’è Chiesa. L’etica viene
positivizzata e processualizzata, acquistano crescente importanza i «Libri penitenziali», nei quali i peccati vengono, per così,
dire, tariffati. Nel XII secolo la penitenza
diventa un sacramento, nasce il Purgatorio, le cui pene possono essere anticipate
in vita; e Bernardo da Chiaravalle spiega a
Eugenio III che il potere della Chiesa non
sta nei possessi terreni, ma sta in criminibus, cioè nella gestione dei delitti e delle
pene, della punizione e del perdono.
Tutto veniva così giuridicizzato; anche la
coscienza (il luogo per eccellenza di Dio)
veniva trasformata in tribunale, «naturale iudicatorium». La centralità del peccato generava un’antropologia pessimistica:
anche la servitù, non che essere imputata
all’ingiustizia dei rapporti sociali, era fatta derivare dal peccato, e perciò irrimediabile; e anche il potere temporale della
Chiesa sui principi terreni sarà rivendicato «ratione peccati», in ragione del peccato; niente peccato, niente potere. Il tutto culminerà nel tentativo di Innocenzo
III nel IV Concilio lateranense (1215) di
stabilire un generale controllo sulle coscienze, attraverso l’obbligo della confessione «proprio sacerdoti», al proprio sacerdote, inteso come giudice naturale;
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tentativo destinato peraltro a fallire.
ritrovare il Dio espulso
Nei riguardi di questo Dio risuonerà nel
’900 la protesta di Bonhoeffer dal carcere
di Tegel: Dio non approfitta dei nostri peccati ma sta al centro della nostra vita; non
corrisponde a questo Dio, secondo Bonhoeffer, «l’atteggiamento che chiamiamo clericale, quel fiutare-la-pista-dei-peccatiumani, per poter prendere in castagna
l’umanità» («Resistenza e resa», Bompiani, Milano, 1969, p. 259).
Ed è per difendersi da questo Dio insopportabile che la modernità lo metterà tra
parentesi, tenendo la Chiesa fuori da sé.
Si era creato un dualismo tra la società e
la Chiesa, tra potere ecclesiastico e potere
civile (dualismo che giustamente Paolo
Prodi considera determinante per la nascita dell’Occidente) ma si era perso il dualismo tra il divino e l’umano, la Chiesa aveva smesso di annunciare l’altro da Sé, come
aveva fatto Gesù annunciando il Padre e il
suo regno, e annunciava se stessa.
È quel Dio espulso, perché reso irriconoscibile, che oggi va ritrovato. Ritrovare Dio
vuol dire ritrovare il Dio della differenza, il
Dio della pace, della misericordia, della gratuità, della grazia, il Dio della unità e mai
più della separazione e dell’elezione esclusiva: sarebbe questo un Dio non utilizzabile né dall’etica del capitalismo, né dalle teorie politiche della sovranità, né dalla trascendenza della Mano Invisibile del Mercato, né dai mafiosi che si fanno giustizia da
sé senza farsi mancare i conforti religiosi,
né da Bush, né dalle nuove guerre di religione, né dalle Chiese invidiose o gelose
della libertà dei fedeli. Sarebbe questa la
vera fondazione della laicità.
Certo non si tratta di fare un nuovo «identikit» di Dio, presentarlo come il Dio di Gesù
Cristo, e imporlo a tutti come l’unico vero.
È un Dio che va cercato nel pluralismo delle culture e delle fedi, un Dio plurale, che in
modi diversi sta nel cuore anche delle altre
tradizioni, che sono tutte chiamate a un
nuovo discernimento e ad una conversione; questo è il problema ecumenico e interreligioso per eccellenza, è il problema del
dialogo ebraico-cristiano, ed è il problema
della nostra Chiesa, che sempre di nuovo
deve ascoltare il Figlio che lo rivela e lo
Spirito che a Lui conduce. Infatti anche il
tempo dei profeti è concluso, ma resta l’ultima profezia, quella del Padre che dice: «questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo».
ROCCA 1 FEBBRAIO 2006
INSERTO
Raniero La Valle
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38-39
18/01/06, 9.11