Le donne arabe

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Le donne arabe
Le donne arabe, la vera rivoluzione
di Sara Picchi per www.ingenere.it
Durante il regime di Ben Ali, Sihem Bensedrine, attivista per i diritti umani e giornalista
tunisina, è stata torturata, perseguitata e costretta all’esilio. È ritornata in Tunisia il giorno in
cui Ben Ali ha lasciato il paese, il 14 gennaio 2011.
È tra le fondatrici del Conseil pour les Libertès en Tunisie e di Radio Kalima.
Il codice sulla famiglia che conferisce pari diritti a uomini e donne, adottato in Tunisia nel
1956, era descritto da Ben Ali come uno dei più avanzati del mondo arabo, ma la realtà era
lontana dall’immagine costruita ad uso e consumo dell’Occidente. Durante un’intervista
concessa mentre era in esilio, l’attivista ha dichiarato “Il regime ha trattato gli attivisti e le
attiviste per la libertà di stampa come paria. L’ex presidente considerava le inchieste e le
denunce come atti di ribellione. Abbiamo sofferto ogni tipo di repressione, eravamo sotto
costante sorveglianza della polizia ed esposti ad attacchi anche di tipo fisico. Le donne hanno
ricevuto un trattamento speciale. I giornali di regime hanno trattato in particolare noi
giornaliste come sgualdrine e prostitute. Siamo state accusate di tenere orge. Sono stata
vittima di ogni tipo di campagna diffamatoria. Dovete capire che la condizione delle donne è
stata la vetrina del regime di Ben Ali. Quindi noi giornaliste che contraddicevamo la
propaganda
ufficiale,
eravamo
doppiamente
colpevoli.”
Noi l’abbiamo incontrata e intervistata durante la conferenza organizzata da Il Manifesto, “La
speranza scende in piazza. L’Europa e le primavere arabe”, tenutasi a Roma il 9 – 11 giugno.
La prima giornata del ciclo seminariale era dedicata alla partecipazione delle donne alle
rivoluzioni in Nord Africa. Le donne, infatti, hanno avuto un ruolo fondamentale e pubblico nei
movimenti che stanno cambiando il volto della regione.
Qual è in questo periodo l’attività che il Conseil pour les Libertès en Tunisie sta
conducendo con le donne?
In quanto associazione per i diritti umani, dopo la rivoluzione, ci siamo aperti alla società. Nel
vero senso del termine perché prima ci avevano proibito di lavorare e di esistere.
Con la liberazione, abbiamo individuato una Road Map basata su più punti: l’osservatorio sul
processo elettorale, l’introduzione delle quote, la riforma della giustizia e della polizia e la
revoca dell’impunità.
Abbiamo iniziato programmi diversi, elettorali, contro la tortura, ecc. Uno di questi si chiama
Implications Citoyenne des Femmes. È un programma attivato per espressa esigenza delle
donne. Il comitato non è composto solo da donne perché è importante far capire che i problemi
di genere non sono solo questioni femminili, ma appartengono a tutti e tutte.
Bisogna considerare che nelle future elezioni la posizione delle donne è cruciale perché è lo
spazio in cui potranno agire il loro ruolo di attive cittadine. Per le prossime elezioni i partiti
sono obbligati a garantire il 50% di partecipazione femminile nelle loro liste. Questo è
importante perché le donne che hanno avuto un ruolo fondamentale durante la rivoluzione, ora
non devono tornare nelle case, ma appropriarsi del loro spazio pubblico e politico.
Quindi abbiamo iniziato un lavoro di sensibilizzazione anche sulla possibilità di candidarsi, di
fare le osservatrici delle elezioni, a rinnovare la loro carta di identità. Bisogna spiegare loro che
il sistema di votazione è cambiato e che possono partecipare al processo costituente.
In Tunisia, la tortura a fini politici si è intensifica sotto il regime di Ben Ali. Il braccio
armato della dittatura era la polizia politica, che aveva il compito di reprime il
dissenso interno. Che lavoro state facendo per riformarla?
Una delle prime cose che abbiamo iniziato a fare all’indomani della fine della rivoluzione è la
riforma della polizia politica. Non possiamo avere un reale sistema democratico fino a quando
questa struttura rimane così com’è: il nostro compito è limitarne il peso politico. Abbiamo
iniziato rivendicando due cose principali: la sua dissoluzione e l’allontanamento dei principali
responsabili delle torture dalla pubblica amministrazione. Il risultato positivo è che le abbiamo
ottenute
entrambe.
Tuttavia, per noi non è sufficiente. Anche se è legittimo che esista un apparato di sicurezza
nazionale, il nostro lavoro è quello di tenere sotto controllo costante tutte le forze che lo
compongono, come il corpo contro il terrorismo che continua a svolgere un’azione di
repressione interna. È per questo che abbiamo chiesto e ottenuto che la società civile, che la
nostra organizzazione rappresenta, fosse parte attiva nel processo di riorganizzazione del
sistema
securitario
nel
suo
complesso.
Il comitato che abbiamo messo in piedi, di cui fanno parte anche le più alte cariche
dell’apparato, lavora su tre livelli: la riforma delle leggi, la formazione degli agenti e la riforma
del Ministero dell’Interno stesso. Per fare al meglio questo lavoro abbiamo chiesto la
partecipazione di esperti tunisini e internazionali che stanno studiando gli standard
internazionali
che
dovrebbero
regolamentare
una
polizia
democratica.
Abbiamo svolto un seminario, al quale hanno partecipato il Ministro dell’Interno, il Gran
Direttore della polizia, il sindacato e gli esperti, in cui si è discusso e aperto un dialogo, uno
scambio molto positivo. E’ solo l’inizio di un lungo e virtuoso percorso, espressione di una
partecipazione dal basso, il miglior modo per ottenere un cambiamento reale anche a livello
istituzionale.
Considera i movimenti islamici una minaccia in questa fase di transizione
democratica?
I gruppi estremisti islamisti esistono ma sono veramente piccoli e minoritari. Il problema è che
sono manipolati dalla polizia politica che li paga per inserirsi nella manifestazioni, nelle
assemblee e durante i sit-in per commettere degli atti di intolleranza e di violenza. Sono
strumentalizzati perchè alla base di queste provocazioni c’è la propaganda dell’ Ancien Régime,
secondo cui l’unico che protegge le minoranze e le donne è ancora Ben Ali. Questo è
messaggio vogliono far passare.
In Europa si enfatizza il problema del fondamentalismo ogni volta che si affronta il problema
della transizione democratica. Io non dico che questo non costituisca una minaccia in sé, ma
questa si riduce in rapporto a quella delle forze controrivoluzionarie. Il processo democratico è
ancora fortemente ostacolato, ma le correnti islamiste moderate sono del tutto integrabili. Più
si riesce in questo processo di collaborazione laica meno le parti fondamentaliste possono
costituire una minaccia. Non bisogna vedere il movimento islamista come corpo unico, è molto
eterogeneo al suo interno. Ci sono gruppi moderati e gruppi fondamentalisti, ma allontanarli
dal processo di transizione significherebbe spingere tutti verso una loro progressiva
radicalizzazione. Il mio obiettivo invece è che il movimento islamista partecipi e non che si
radicalizzi. Se noi li includiamo e non li stigmatizziamo, è possibile avviare un processo sicuro e
laico.
Per tutto il regime di Ben Ali, abbiamo criticato l’Occidente che utilizzando la scusa dell’islam
fondamentalista, appoggiava di fatto la dittatura. Era questo il ricatto. Ma noi da sempre
sappiamo che abbiamo una terza scelta: la democrazia. Ora invece il discorso è “ma la
democrazia non è per gli islamisti!”, io rispondo che non è vero!
L’Europa è molto sensibile alla questione dei migranti e del velo per le donne. Questi
problemi sono altrettanto dibattuti nel mondo arabo?
Penso che in questo momento di crisi, in Europa la questione dei migranti e del velo siano
fortemente strumentalizzati a fini elettorali. Sono dibattiti che servono a distogliere l’attenzione
dai problemi reali.
Il velo non rappresenta il mondo arabo, è un modo di minimizzare il problema della condizione
femminile. Poter indossare il velo è espressione della libertà individuale e non tema di dibattito
pubblico. Perché le donne che si spogliano sono accettate e quelle che si coprono no?
Rispetto ai migranti, l’Europa che ha detto di voler appoggiare la rivoluzione, è bene che lo
faccia concretamente dando i permessi di soggiorno. La Tunisia deve avere il tempo di
ricostruire un paese dall’eredità di una dittatura e di un economia dilaniata. I giovani che
hanno fatto la rivoluzione non hanno ancora opportunità di lavoro e prospettive. L’Europa che
ha sostenuto a braccia aperte questa dittatura, che l’ha finanziata, è bene che faccia un piccolo
gesto per la rivoluzione, compresa la gestione di questi flussi migratori. Anche perché se vanno
è perché c’è una domanda di lavoro.
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