A Hisham Matar il Premio Vallombrosa Gregor von Rezzori 2007 pe

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A Hisham Matar il Premio Vallombrosa Gregor von Rezzori 2007 pe
CLAUDIO MAGRIS
Gregor von Rezzori, epigono precursore
“Non ti chiedo di approvare tutto questo, ti chiedo soltanto di capire.”
Quando la storia dell'Ermellino a Cernopol si avvia verso la fine e il signor
Tarangolian, prefetto della Teskovina, si congeda dalla famiglia del narratore
annunciando la sua partenza destinata a essere indefinitamente rimandata, anche il
narratore – l'elusivo e irrequieto flatus vocis sempre sul punto di confondersi nel brusìo
del bazar e delle voci che sta raccogliendo, intrecciando e inventando, dissolvendosi
come un volto riflesso nell'acqua smossa – prende congedo, dopo una lunga malattia.
Congedo dall'infanzia e da quella Cernopol che ne è la sostanza e il miraggio, albero di
Natale adorno di globi multicolori che si rivelano bolle di sapone. Deve entrare nella vita,
come gli dicono parenti ed educatori, decantandogli con insistenza le gioie di questa vita
che lo attende. Ma lui, ascoltandoli, ha l'impressione che quegli imminenti e annunciati
piaceri non lo riguardino e gli sembra che essi stiano parlando delle mercanzie
dell'emporio Dobrowoski & Dobrowoski.
Che significa entrare nella vita, nella realtà? Dove ci si trova prima di addentrarsi in
quell'emporio che mette in mostra tante cose acquistabili e consumabili; dove si resta se –
come accade allo sfuggente e abusivo personaggio che nei romanzi e nei ricordi di
Rezzori dice “io”, con l'aria dolorosa e sorniona di chi compie un illecito – non si entra
mai e si resta fuori, all'aperto, nell'estraneità? A restare fuori è indubbiamente,
quell'”Apatride” che è, nei diversi travestimenti, il personaggio di Rezzori, suo alter ego
ma anche controfigura, stuntman e ghost writer, creatura e creatore di quell'alternarsi
e scambiarsi di autentico e falso, gioco “spassoso e inquietante” immortalato,
nell'Ermellino, nell'immortale signor Tarangolian.
Gregor von Rezzori è uno straordinario poeta di quello iato che, per l'uomo moderno, si
è aperto fra l'io e la vita, per cui essa non è più la sua vita, bensì un territorio nel quale
egli non riesce a penetrare e ad inserirsi, un'estraneità che egli ama di un amore
struggente e disincantato, ma alla quale non sente di appartenere, in una continua fuga da
qualcosa ch'egli non ha mai posseduto e che quindi non è sua, ma di cui egli ha nostalgia,
come se l'avesse perduta. E' un tema che la sensibilità e la letteratura europea - e
specialmente centroeuropea – hanno sentito fortemente. Hofmannsthal, in una lirica
giovanile, piange “un rimpianto senza nome / muto in me della vita”; per Richard Beer
-Hofmann, “muta dai bordi delle erte sponde ci guarda la vita, da cui ci dipartiamo”;
nell'Oblomov di Gončarov, per gli abitanti del villaggio di Oblòmovka la vita scorre
“accanto ad essi”, come un fiume sulle cui rive essi siedono a contemplarla; Niels Lyhne,
nel romanzo di Jacobsen, crede di tuffarsi nel fiume della vita e invece resta seduto sulla
sua riva, a gettar l'amo per tirar su non si sa che cosa, attende sempre di partire “verso le
terre di Spagna della vita” e sente “il tintinnio delle monete della vita”, che ballano nella
sua tasca senza che egli possa mai estrarle e spenderle; Rilke, in una lettera a Lou
Andreas-Salomé, si chiede “quando è il presente?”, ossia l'unica vita concretamente
esistente, che sempre si attende e invece si brucia, scrive Michelstaedter, in quanto la si
sacrifica al futuro e si spera passi più velocemente possibile, perché si aspetta il responso
del medico, l'esito delle elezioni, il matrimonio o il divorzio, sperando che oggi diventi
quanto prima possibile domani e vivendo dunque non per vivere ma per avere già
vissuto, per essere un po' più vicini alla morte, per morire.
Le citazioni potrebbero continuare, poiché testimoniano uno dei motivi fondamentali
del turbamento col quale la letteratura ha vissuto, tra la fine dell'Ottocento e gli anni
Venti e Trenta del secolo Ventesimo, la svolta epocale della civiltà, che implicava quella
scissione tra la vita e la vita genialmente colta dal giovane Lukács. Rezzori è un amante
della vita, che pur sa irreale, e non certo dalla morte - semmai suo corteggiatore, che
flirta con lei per abbindolarla e poi piantarla in asso, almeno finché è possibile. Derisorio
anche nei confronti della propria morte, ha scritto Tilman Spengler, che lo vedeva, il
giorno del suo funerale, come un beffardo sovrintendente alla dignità di quella scena. I
morti al loro posto dice il titolo di un suo libro ispirato al lavoro sul set del film Viva
Maria! di Louis Malle; le comparse, finita la pausa pranzo, si stendono a terra.
Rezzori non è un epigono di quella tradizione; è piuttosto un precursore che – per
autoironia, buona educazione, savoir faire e garbo mondano – gioca a fare l'epigono,
anche per scansare sgradevoli responsabilità, ma intuisce che, nei decenni che lo
separano da quella grande letteratura modernista, è avvenuta – e sta avvenendo ancora –
un'altra mutazione della società e dell'individuo, più meschina e più radicale, che rende la
realtà e l'io ancora più simili alle mercanzie dell'emporio Dobrowoski & Dobrowoski
della sua Cernopol, mercanzie a loro volta ancora più standardizzate e anonime.
Parlando della pittoresca Cernopol absburgica, e del suo favoloso Oriente, Rezzori ha
parlato, in anticipo, del nostro odierno Occidente, in cui l'interscambiabilità di vero e di
falso stampata nel volto del signor Tarangolian e nei suoi occhi “insondabili e
malinconici” trova uno specchio dilatato e incurvato come quelli del Luna Park. Fra le
tante volte in cui, nella vita d'ogni giorno e con un'improvvisa fitta di nostalgia, mi è
venuto in mente Grisha, c'è quel pomeriggio in un paesino del Friuli che ho raccontato in
Microcosmi, in cui, rivoltomi a un impiegato della Biblioteca della Comunità montana
per chiedergli se avevano un libro di un poeta ottocentesco che aveva scritto un Inno
alla Materia, quest'impiegato mi chiese: “Ma Lei, chi rappresenta?”, non riuscendo a
concepire che qualcuno potesse cercare un libro e andare a zonzo per conto proprio.
Certo, avrei potuto dire che rappresentavo molte categorie: i bipedi, gli insegnanti, i
coniugati, i padri, i figli, i viaggiatori, i mortali, gli automobilisti, ma.. E mi sono chiesto
cosa avrebbe risposto Grisha. Forse avrebbe detto che rappresentava gli ex, come
dicevamo entrambi in una conversazione di parecchi anni fa sul “Corriere della Sera”.
“Credo – diceva allora – che la coscienza di essere un ex sia un vantaggio per uno
scrittore, senza indulgere ad alcun folklore dell'ex Austria-Ungheria, ma in senso più
profondo, che investe la vita in sé... sentirsi ex è in generale uno stato d'animo dell'uomo
moderno. Certo noi ne abbiamo fatto un'esperienza particolarmente intensa, che forse ci
permette di essere particolarmente sensibili allo spaesamento, alla perdita del mondo, al
disorientamento. Forse anche tu, se non fossi triestino..”
Certamente Rezzori, nato nel 1914 (alla vigilia della fine del suo mondo, che non ha
vissuto, ma inventato e ricreato) nell'absburgica Czernowitz, ha indossato con passione
questa sua identità secondo il canone della tradizione austroungarica, di quel paese
(Cacania, Maghrebinia, Taroccania) di cui già nel 1848 il barone Andrian-Werburg
denunciava il nome puramente “immaginario”; in cui austriaco, secondo Musil,
significava “un austro-ungherese meno l'ungherese” e la realtà appariva più che altrove
“campata in aria”, fondata su nulla; un paese in cui Urzidil diceva di essere
“hinternazionale”;”il primo paese – ancora Musil – al quale Iddio avesse tolto il credito e
la vantaggiosa illusione di avere una missione da compiere” e che era andato in rovina
per la sua mancanza di un nome preciso, per la sua “inesprimibilità”.
Rezzori è un grande poeta dell'impero absburgico e questa è una chiave del suo fascino,
specialmente nell'Ermellino a Cernopol: “Negli abbaglianti tramonti della tarda estate
sembrava ancora di scorgere un riverbero della gloria che aveva preceduto la fine della
duplice monarchia. Le strade provinciali, ampie e comode, tagliavano le immense
campagne come argini gettati da una sobria prudenza demaniale su un paesaggio ubriaco
di malinconia: strade del tempo delle marce a piedi e dei corrieri in diligenza, rettilinee,
inzuppate di sudore e coperte di polvere farinosa, orlate da filari di pioppi giganteschi le
cui fronde, frementi di luci sotto il gioco del vento, accoglievano i falchi al ritorno dai
loro voli. Erano, questa strade, i palpiti di un grande respiro che gli assurdi pali di
confine, spuntati di fresco dal suolo, non riuscivano a soffocare; e si perdevano
quietamente verso le lontananze…”
La fantastica Teskovina, il paese immaginario (ma non tanto) dell'Ermellino ovvero la
Bucovina, è il cuore, il concentrato della babele absburgica, della sua concreta carnalità e
iridescente irrealtà che risplende come il fradicio legno della favola, così luminoso e
fosforescente la notte, ma che al mattino si rivela putrescente, splendore del marciume.
Cernopol-Czernowitz, scrive Rezzori, è ex capitale dell'ex ducato di Bucovina, ceduta
dall'ex impero ottomano all'ex impero absburgico e compresa nell'ex regno di Galizia,
successivamente uno degli ex paesi della corona degli Asburgo, poi città ex romena e ex
sovietica. Un mondo favoloso, un crogiolo di straordinaria cultura austro-tedescorumeno-ucraina e sopratutto ebraica, oltre a componenti numericamente minori. Un
mondo da cui è uscita una straordinaria letteratura: Paul Celan, incarnazione e
autodistruzione di quell'assoluto cui Rezzori si è sottratto con l'eleganza di un ballerino
che in una sala affollata scansa per un pelo le coppie travolte dal ritmo; tanti scrittori e
mediatori di cultura e umanità “hinternazionale”; figure eclettiche come Klara Blum,
ebrea tedesca militante comunista a Vienna, a Mosca e in Cina, dove lotta per la
rivoluzione, fonda la germanistica cinese, cerca per tutta la vita il marito cinese
scomparso nelle purghe di Stalin e resta fedele al comunismo e al maoismo anche dopo
esser stata perseguitata dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione culturale;
personaggio tragicamente autentico che parrebbe inventato da Rezzori.
La Mitteleuropa è un mondo di ex e un mondo ex, come ha scritto Predrag Matvejević.
Scrittore austriaco, Rezzori è divenuto cittadino romeno a quattro anni, nel 1918; più
tardi apolide e non solo, come egli diceva scherzando, perché così avrebbe avuto
maggiori possibilità di ricevere il Premio Nobel, mai finora concesso, nella rotazione
degli Stati e delle Nazioni, a quella nazionalità. “Straniero di professione”, come dice di
se stesso l'io narrante nella Morte di mio fratello Abele, e “poliglotta à tout faire”,
egli – chi, egli? Lui, l'uomo che abbiamo amato, con la sua passione di lucidare
innumerevoli paia di scarpe, oppure lo scrittore di genio oppure l'uno o l'altro dei suoi
personaggi o quell'altro che abita in ognuno di noi, coinquilino sfuggente e spesso
imbarazzante? - egli è un “Apatride”.
Nella socievolezza mondana del gentiluomo austriaco, che per decenza e per scansare
il destino nasconde talora la sua intelligenza dietro la maschera del conte Boby o di
qualche esemplare del suo Idiotenführer durch die deutsche Gesellschaft, c'è la
tragedia degli Atridi, maledizione e dolore che si ripete nei secoli, terribile e lancinante
anche quando è abbassata a livello di caricatura, vacuità mondana o simulazione
mediatica. “Il nobile epigono che è in noi, che conosce a memoria e piange in silenzio
tutta la storia fin dalle origini” si dice nello splendido Edipo vince a Stalingrado.
Origini impure, falsificazione che coincide con l'inizio; anche quell'indimenticabile
“aurora sanguigna e gelida” con le sue “fiamme rossastre, annunciatrici” che sorge, in
una grande pagina, il mattino della caccia nell'Edipo, potrebbe essere un effetto speciale
di riflettori e luci su un set cinematografico, ma non per questo perde la sua sensuale
concretezza e la sua poesia, che è sempre strappata alla messinscena e al malinteso del
mondo. Fin dalle origini: nell'Odissea, durante il banchetto dei Feaci in onore di Ulisse,
l'aedo canta le sue gesta ed egli piange – il nobile epigono che piange in noi – perché
capisce che quelle sue gesta non gli appartengono più; non sono più il suo irripetibile e
indicibile vissuto, ma sono già un intrattenimento e un consumo impersonale, la
sceneggiatura di un serial di ottima audience.
L'Apatride austriaco è un Atride perché la civiltà austriaca – così antitragica, ironica,
barocca – è divenuta una tragedia dopo la sua fine: non nel 1918, ma nel 1938, con
l'Anschluss e con un modo di vivere l'Anschluss che Rezzori ha ritratto in quel
capolavoro che sono le Memorie di un antisemita. L'io narrante della Morte di mio
fratello Abele – che cerca di riscoprire la sua identità nella scrittura, la quale a sua volta
è una disseminazione centrifuga - dice di aver perduto la prima metà di se stesso a
Vienna e che dovrebbe andare a cercarla là, per non trovarla mai. “Ma spero che Lei
capirà se Le dico che l'ho perduta proprio perchè essa è là. Come Vienna nel suo
insieme, così anche la mia metà è parte di un patrimonio museale: è dunque
assolutamente atemporale, un morto in una città morta. Vienna si è spenta davanti ai miei
occhi il 12 marzo del 1938, e con lei il mio, allora vivente, io vissuto. Essi ora si
appartengono per l'eternità – ma non appartengono più a me.”
E' quella la mutilazione della civiltà, dell'io, più grave di quella del braccio che manca
a un altro personaggio di quel romanzo; una mutilazione che non è solo l'immane
barbarie del nazismo e della Shoah, ma del mondo intero, di tutti gli orrori e violenze che
la Shoah riassume alla più alta potenza. La debolezza camaleontica dell'io può essere in
certi casi una tecnica di fuga, ma diviene una colpa sul piano morale, quando l'orrore e la
violenza esigerebbero un io forte, capace di combattere e anche di perire in questo “buon
combattimento”, per citare l'espressione di San Paolo; capace soprattutto di fare scelte
ferme e nette, l'evangelico “sì sì, no no”, antitetico a quell' alternarsi di vero e di falso
così affascinante nel signor Tarangolian, ma così involontariamente complice quando
sono in gioco la sofferenza, l'umiliazione, la cancellazione umana, lo sterminio.
Grisha sa di non esser stato un eroe e di condividere questa passività – questa
“incolpevolezza” colpevole, direbbe Broch – con milioni di attori secondari della tragedia
(con molti di noi), innocenti perché non hanno fatto alcun male, di cui hanno sempre
avuto orrore, e non si sono nemmeno macchiati di alcuna piccola viltà, ma colpevoli
perchè non hanno – non abbiamo -affrontato a mani nude il Leviatano, il che ha reso
possibile che esso sguazzasse nel suo mattatoio. Ripetutamente e soprattutto nei suoi
ultimi testi di ricordi (relativamente e, com'egli dice, “inattendibilmente” autobiografici)
- Tracce nella neve, Mir zur Spur, Greisengemurmel - Rezzori fa i conti con questo
fenomeno. Li fa a fondo e insieme con una schivante reticenza dinanzi al Male trionfante,
reticenza che è sua e di tutta una generazione; lo fa senza sensi di colpa – perchè sa che si
tratta di un fatto epocale, di cui egli è un epifenomeno – e senza alcuna retorica
umanitaria antinazista, alibi troppo comodo per chi autenticamente, fin dalla sua infanzia
absburgica ignara di ciò che sarebbe successo dopo, si è sentito lontano dai tedeschi, un
alieno in Germania. Ma lo fa con un'assoluta lucidità che mette a nudo, in se stesso e
negli altri, quel meccanismo di un'oggettiva – ancorchè passiva , sdegnata e innocente –
complicità con l'orrore.
Se negli scritti autobiografici o pseudoautobiografici tutto ciò emerge con illuminante
chiarezza, nelle geniali Memorie di un antisemita (talora prese sconsideratamente per
ricordi autobiografici, come ricorda il suo più grande interprete, Andrea Landolfi), la loro
rielaborazione fantastica in un capolavoro creativo fa capire, come pochi altri testi, come
quell' orrore abbia potuto succedere e non trovare vera resistenza in tante persone di retto
sentire, amiche o innamorate di ebrei ed ebree, ammiratrici della grandiosa civiltà ebraica
di cui si sentivano pure partecipi e da cui erano affascinati, mai capaci di commettere e
nemmeno di immaginare violenze contro gli ebrei eppure intrise di quei (magari di per sé
innocui o quasi) pregiudizi antiebraici, di quel sentimento della diversità ebraica torbido
anche solo per una sfumatura che finivano per costituire un humus che di per sé non
avrebbe mai generato Auschwitz, ma in cui i semi di Auschwitz trovavano un terreno in
cui poter prosperare.
Rezzori è ben consapevole di affondare anch'egli, in piccola parte, in quell'humus.
Nelle Memorie di un antisemita l'antisemitismo dell'io che rammemora viene ritratto
in una sua inquietante spontaneità, quasi innocente perchè naturale e quindi tanto più
oggettivamente compromessa. E' ovvio che l'io narrante delle Memorie è un personaggio
fittizio, inventato, e non certo l'autore. Ma è un grande personaggio proprio perchè
l'autore ha avuto il coraggio di attribuirgli delle latenze, dei pregiudizi sommersi e
sepolti, delle sfumature recondite che caratterizzano tutta una generazione, una classe,
una cultura cui anch'egli appartiene e che dunque riguardano pure lui, sebbene solo in
quanto esponente di quel mondo, che non è in grado di rompere con quel mondo pur
vedendone la bassezza e dunque sa di avere anche in se stesso un'ombra di quella
bassezza che pure denuncia e disprezza, habitué del bar di Charley a Berlino e
frequentatore della jeunesse doreé di Cernopol, che non sono proprio centri di di
resistenza – habitué ironico e anche sprezzante, ma pur sempre habitué.
Ma Rezzori lo sa e lo mette a nudo ed è in questo che consiste il grande contributo
morale che, più che salvare lui stesso, contribuisce a salvare gli altri perchè li aiuta a
capire – premessa necessaria - ciò che devono combattere. Chiusano, suo grande
ammiratore, ha sottolineato la componente morale della scrittura di Rezzori, che spesso
gioca con la dimensione frivola e superficiale dell'esistenza. Grisha possiede una qualità
che non è molto frequente e che costituisce la poesia delle sue pagine più belle: il
disincanto, la consapevolezza. Credo non abbia disdegnato di giocare talvolta, nella vita,
da flambeur, con carte false, se proprio era necessario, ma sempre rendendosene conto e
non mentendo mai a se stesso , come fanno quasi tutti; “Tu puoi darla ad intendere agli
altri”, gli ho detto una sera a Monaco dopo aver visto insieme a lui, a teatro, il grande
Charlie Rivel e la melanconia della sua irresistibile comicità, “ma non a te stesso; se
pecchi, sai di peccare e non elabori – come si tende spesso a fare – ideologie e teorie per
indorare la pillola e giustificare i tuoi errori”. Forse anche per questo, mi è sembrato
talora di sentire in lui – nonostante la differenza degli anni, delle abitudini e dei valori un amico e un complice, un compagno di scuola. Del resto i personaggi dell'Ermellino
erano diventati, per me e i miei amici a Trieste quando eravamo molto giovani, delle
figure emblematiche, delle categorie in base alle quali classificare le persone: dicevamo,
per esempio, quello là è un Turturiuk, quell'altro un Petrescu..
Questa immedesimazione con la futilità, che implica l'oggettivo ritratto della sua
potenziale malvagità – di quella banalità prossima al male, direbbe Hannah Arendt –
riguarda sia la vita sia la scrittura, la loro contiguità e la loro differenza, le loro frontiere
sfumate e talora invalicabili. Il bar di Charley, l'Olimpo degli snob berlinesi,
mirabilmente ritratto nell'Edipo, è un mondo nel quale non solo il barone Traugott von
Jassilkowski, ma anche l'autore rischia di immedesimarsi, indossando e deponendo
diverse personalità, come fossero dei vestiti che la moda detta al viveur. C'è in Rezzori
qualcosa del fascino intenso ma cedevole e compromissorio della Venezia di cui egli
parla in un suo racconto, una connivenza che insinua in certe sua pagine un tono brillante
da conversazione salottiera. Il commosso e doloroso poeta dell'Ermellino, dell'Edipo e
delle Memorie coabita non solo con l'affascinante ma debordante scrittore dell'Abele,
ma anche col causeur troppo spiritoso di pagine disinvolte, come le novelle In
gehobenen Kreisen e altre, comprese parecchie storie maghrebiniche.
Ma, com'egli ha detto in quel nostro dialogo, “l'impegno morale, per uno scrittore, non
è altro che l'onestà, esprimere se stessi, testimoniare e non predicare, mostrare le cose
piuttosto che suggerire o imporre una presa di posizione. Per uno scrittore, il giudizio
deve scaturire dalla rappresentazione e non dev'essere appiccicato dall'esterno.” Ed è
questo che egli ha saputo fare mirabilmente con l'Edipo e soprattutto con le Memorie di
un antisemita, un libro fondamentale per capire concretamente, fisicamente, sulla
pelle, la lontana, apparentemente innocua genesi del Male per eccellenza. L'io narrante
che, perplesso e sconcertato, si accoda al corteo che a Vienna festeggia l'Anschluss è un
memorabile ritratto che spiega come potesse allora avvenire quello che avvenne. Come
dice nell'Ermellino Madame Aritonović alla piccola Tanja, “non ti chiedo di approvare
tutto questo, ti chiedo solo di capire..”
Questo io cerca la parte perduta di sé, che crede di sentire da qualche parte, come
Nagel, un personaggio dell'Abele, ha la sensazione di muovere le dita della sua mano
destra, amputata insieme a tutto il braccio che gli manca. La cerca “dove solo è dato
cercarla: per terre, paesaggi, nuvole, città – sissignore, sono soprattutto le città che a
volte, con le loro luci, odori e rumori, colori, forme, umori fanno rinascere in me
l'insieme degli umori, forme, colori, rumori, odori, effetti di luce di un'epoca intera
(repentinamente: in modo doloroso e insieme rasserenante, e purtroppo solo per
brevissimi e fuggevoli istanti)”.
Anche in questo ci siamo incontrati in una affinità elettiva, perchè credo anch'io che il
mondo sia uno specchio del nostro volto e che, attraversandolo, lasciamo pezzi di noi
stessi in luoghi e paesaggi, ma anche nel cuore e negli occhi di alcune persone, come
brandelli di un vestito strappato da arbusti spinosi durante una corsa in fuga. Lo ha detto
meglio di ogni altro Borges, in una parabola che ho scelto quale epigrafe dei miei
Microcosmi, nei quali, come in Danubio, l'io si cerca, si trova, si dissolve nei luoghi
della sua odissea: «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo
gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di
navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima
di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto».
In uno dei libri di ricordi di Rezzori, Tracce sulla neve, il sottotitolo dice “Ritratti per
un'autobiografia che non scriverò mai”. L'io si cerca nei ritratti di altri, nelle cose, nelle
storie accadute, più che a lui, intorno a lui. E' l'unica forma autentica di parlare di sè; solo
attraverso ciò che raccontiamo di altri, amici o amiche o nemici, paesaggi, eventi,
vicende capitate poco importa a chi, animali, guerre, morti, dolori, passioni nostre o
altrui, si può far capire qualcosa di ciò che siamo, i nostri amori i nostri dèi le nostre
fobie le nostre ossessioni.
E’ nella sua ultima opera, nel romanzo Kain, che Rezzori porta al culmine questo gioco
di specchi fra l'io e gli altri, con quei tre personaggi che dicono “io” – osserva Landolfi –
e con la contaminazione di romanzo non finito e soggetto cinematografico inesistente,
balletto sorridente di profondo dolore. Romanzo come costruzione o decostruzione? E’
difficile dire quale delle due sia la forma più alta. Nell’ Ermellino il signor Tarangolian
rivolge una lode a una foglia d’ acero appassita e trasformata in un’incantevole filigrana
di nervature e venature finissime: quella foglia è la paradossale idea e verità di se stessa,
è la suprema bellezza, l’ essenza dell’ arte, ma quell’ arte è il risultato della distruzione.
“Ah – esclama il prefetto – ah, vi dico, imparate ad amare la distruzione!”
Il continuo spostamento e aggiustamento di prospettive e di quinte del palcoscenico è
una tecnica di sottrazione e quindi di resistenza all' astrazione che sempre più risucchia
l'io, la cui unica professione può essere quella di “contemporaneo, comparsa in un
dramma con l'epilogo ignoto. Una mezza dozzina di registi, venti milioni di suggeritori”.
La scrittura si addentra in questa impersonalità, estraendola dall’ indistinto ma anche
contribuendo a fare dell’ io un anonimo fascio di percezioni. Quando, nell’ Edipo, il
barone Traugott si accinge a redigere il suo articolo di moda, fissa “i fogli vergini del
blocco con quel vuoto mentale pieno di tensione, che la creatività letteraria è in grado di
suscitare per attrarre dalle profondità della sensibilità artistica il suono gradevole delle
prime frasi così determinanti. E’ bene che Lei sappia che questo è uno stato di completa
estraniazione […]
come se gli organi sensori si svuotassero e tornassero quindi a
rinchiudersi in se stessi; cosa che Lei può immaginare come un ampliamento della
personalità in una cavità di tenera carne, dentro la quale i sensi, eccitati al massimo,
tastano cautamente, come fasci di esperte antenne di lumache. Le visioni sognanti e
melodiose passano attraverso questo allettante vuoto interiore come le ninfe del Reno sul
palcoscenico dell’ opera, mentre tra esse ribolle la materia, fusa in un amalgama grezzo,
spinta qua e là da tentacoli lenti e fluttuanti, analizzata, selezionata, soppesata e scartata.
L’ autore vi viene aggiunto e incorporato come un lievito, senza che lo voglia, e
abbandonato in balia dell’ operazione che si compie.”
Rezzori, ha scritto Marino Freschi, trasforma la Mitteleuropea in lingua. La vecchia
Austria, paesaggio dell'artificio, montaggio di citazioni e soprattutto anacronismo, ha
dato a Rezzori il senso del mondo come “malinteso” e soprattutto di una “sfera
intermedia della realtà [..] quella strana luce d'acquario in cui vivevamo e non vivevamo,
che era tempo, ma non il nostro tempo...”
Quel tempo non suo è anche non nostro eppure nostro: quello di questi anni, di oggi, di
quella trasformazione del mondo che appena ora sta realizzandosi, esasperando quel
“delirio di molti” che, secondo Musil, è il nostro essere. E Rezzori, l'epigono
dell'inesistente e pur carnosa Teskovina, è il precursore di ciò che il mondo occidentale
sta divenendo e vivendo appena adesso, in una metamorfosi della società che investe
sentimenti, valori, giudizi e l'uomo stesso, la sua natura, la sua sostanza fisica, facendolo
divenire veramente un altro – il nietzscheano “oltre-uomo”, un nuovo stadio
antropologico oltre le frontiere dell'individuo umanistico, dell'io millenario. Le cose
stesse, l'oggettività del mondo, sembrano dissolversi; è stato detto che gli astratti e
immateriali bit stanno sostituendo gli atomi, la realtà corporea, fisica; l'esperienza sembra
appartenere a tutti e a nessuno, l'io sembra spezzarsi in frammenti e sembra riproducibile
a piacere. La virtualità sostituisce la realtà, in un processo che cambia i sentimenti, le
percezioni dell'individuo e dunque la sua natura, cambiando la sua storia e i modi di
raccontarla. Forse avviene, in tempi molto più rapidi di quanto accadeva nei millenni e
nei secoli precedenti, una mutazione antropologica, che produce un nuovo, ancora
sconosciuto tipo d'uomo, intaccato nella sua unità, generico e interscambiabile, simile
alle figure antiche del mito, che sono e non sono individui, che sono tutti e nessuno.
Rezzori è il poeta di un' astratta ”sfera intermedia della realtà“che è anche quella in cui
ci muoviamo oggi; il bazar di Cernopol è pure una bottega artigianale in cui si
costruiscono, senza crederci troppo, i replicanti ormai dominatori di una civiltà mondiale,
la cui capitale non è Cernopol né Vienna ma piuttosto New York – la “New York, New
York!”, familiare a Rezzori non meno delle altre due e forse, sotto sotto, non tanto
dissimile da esse, nella seduzione del suo autorappresentarsi. Un'immortalità digitale e
una clonazione impersonale sono inutilmente promesse a tutti e vale oggi, per noi, quello
che lo scrittore scrive nell'Edipo: “Nessuno di noi morirà mai, stia tranquillo. E come
potrebbe? Infatti noi non esistiamo affatto, egregio amico”.
Il bar di Charley, cuore degli snob berlinesi e della loro vita futile negli anni fra le due
guerre, diviene così lo specchio del nostro effimero, e di quell'irrealtà che si è fatta e si va
facendo sempre più palpabile, realtà che esiste solo nelle sue immagini moltiplicate nei
giornali e sugli schermi televisivi, subito sparite e sostituite ma anche conservate in
eterno, contenute in un dischetto; immortalità garantita dall'effimero, universo e vite
custodite non nell'infinita memoria di Dio ma in una chiave del sistema informatico, tutta
l'enciclopedia dei morti (dei vivi morti) di Danilo Kiš in un paio di centimetri cubi.
La fatuità della moda e l'erotismo più fuggevole diventano lo struggente autoinganno
per reggere a questa insostenibile fugacità,mentre da qualche parte già ribolle la lava che
coprirà e irrigidirà ogni cosa. Non resta che imbrogliare con la futilità - e se necessario
con la superficialità - la malinconia che stringe il cuore, la solitudine dolorosa, il nulla
che risucchia ogni cosa, il buio vuoto della notte in cui “il festone dei giorni pendeva
come carta variopinta e sgualcita”. Che cosa promette o minaccia l'insipida canzonetta
che passa nell'aria? “Fior di sambuco, fiore di rosa, quando vedo la mia sposa..” In questa
devastazione del cuore, la cura meticolosa e appassionata per una stupida cravatta può
assomigliare alle follie amorose per una top model come Gloria, narrata – rievocata,
inventata? L'autore ha sempre proclamato la propria “inattendibilità” - da Rezzori nelle
memorie intitolate Mir auf der Spur, bellissima, artificiale e tragica nella fragilità
dell'artificio e della convenzionalità da star che inutilmente protegge tale fragilità.
Rezzori è un intenso poeta dell'eros nelle sue varie sfaccettature, dal sesso brutalmente
immediato a quello anche comicamente perverso, dalla fugace avventura che ha pure in
sè l'eternità dell'istante alla tenerezza profonda dell'esistenza condivisa, dalle piccole e
ribalde doppiezze a quella perdizione nostalgica e totale che assomiglia alla morte,
perché sempre accompagnata, nella sua esigenza di totalità, dalla coscienza della sua
trafiggente incompiutezza, dalla consapevolezza che – si dice nell'Abele - “l'incontro di
due esseri è come il cozzare di due palle da biliardo: è sempre soltanto un punto dell'una
che tocca un punto dell'altra”.
L’amore – quello brevissimo come quello che dura una vita – è nostalgia di salvare
l'esistenza dal suo scorrere nel nulla, come quando il signor Tarangolian, prima di partire,
lascia che i suoi occhi errino sulle cose e sui volti per assorbirne la visione, per collocare
quei punti in un sistema geometrico di cui la sua memoria possa servirsi come di un
simbolo stenografico, finchè tutta la realtà della stanza sembra confluire e condensarsi
nella punta infuocata del sigaro.
Ma se l'eros confina platonicamente col nulla, esso è anche elemento di concretezza; la
pagina di Rezzori si fa corposa, sanguigna e terrigna quando sono in gioco la carne, le
cose, gli odori, i corpi, la fame, il desiderio, gli oggetti da tenere in mano come i fucili
nelle indimenticabili pagine di caccia. La sensualità, garante del tangibile e di tutte le sue
complicazioni esaltanti e disastrose, è la chiave della vita, verità che l'ebraismo conosce
meglio di ogni altra cultura: “Voi gojim cercate sempre di vivere come se non ci aveste il
cazzo e le vostre femmine non ci avessero la fica, tra le gambe”, dice Wolf nelle
Memorie di un antisemita. Se nella Morte di mio fratello Abele l'io si disgrega
anche e soprattutto cercando di scrivere la propria disgregazione – in un naufragio che
risucchia il romanzo medesimo – il sesso, diversamente dalla scrittura, dà sostanza – sia
pure per poco – alle cose e alle persone che le maneggiano.
Il protagonista dell'Abele si disgrega perché cerca, con la scrittura, di far ordine.
Quest'ultimo è mortale. Infatti anche Tildy, nell'Ermellino, “vuol ristabilire l'ordine
intorno a sè”, ma ogni ordine assomiglia e conduce alla morte, così come le uniformi
colonne di soldati – nel grande capitolo sull'esercito tedesco – si sbandano durante la
battaglia per poi ricomporsi nella perfetta simmetria delle croci allineate nei cimiteri.
Anche l'amore assoluto, l'amore–perditio, è mortale. E' il tentativo di vincere la
solitudine, di raggiungere il rapporto totale e non solo l'unico punto d'incontro fra le palle
di biliardo; di raggiungere l'infinito, ossia la distruzione. Lo scampo, per Rezzori poco
amico dell'assoluto, risiede “nell'asintotico. Accostarsi il più possibile alle curve
iperboliche eternamente ostili della tesi e dell'antitesi, senza mai identificarsi con una
delle due; spostare l'evidenza all'infinito...”
L'amore annienta. La persona, come dice l'etimologia risalente al teatro antico, è una
maschera; Tildy precipita quando oltre e dietro la maschera di Mititika Pjowarciuk, la
prostituta rutena, intravede il nulla. Tildy s'innamora di Mititika e l'amore lo sottrae al
particolare – al suo saldo decalogo di valori e di forme – per volgerlo all'universale e cioè
alla morte. L'amore permette l'agnizione definitiva, che spalanca un vuoto dietro la
maschera di Mititika e dietro i volti possibili che quella maschera lascia balenare. Tildy si
getta in quell'abisso, che gli si apre oltre gli incantevoli e smarriti occhi miopi della
ragazza, per trovare il nucleo profondo e nascosto del suo io, la verità dell'essere. Ma
l'essere stesso è una maschera, un nulla senza fondo. Se non si vuol soffrire in prigionia,
pensa Tildy, bisogna amare la propria prigione, le forme che ci tengono prigionieri. Ma è
troppo tardi; l'eroe della forma si abbandona all'universale, all'amore, all'informe e si
annienta, “perde la propria faccia”. Il tram che lo schiaccia, riducendolo a poltiglia,
suggella quest'irrisione che la vita infligge alla sua passione, la “sublime banalità della
morte” che corona il suo tentativo di “inserire un viso nella cornice della maschera”.
Il fascino di Rezzori è anche il sorriso col quale “l'impotenza dilagante e catastrofica
del mitteleuropeo” glissa elegantemente su se stessa. La sua amicizia è un grande dono
che ho avuto e sono fiero che egli mi abbia dedicato uno dei suoi più bei racconti,
Skutschno, in cui c'è un personaggio, il dottor Stiassny, che discende dal signor
Tarangolian dell'Ermellino, da me tanto amato, e che forse è nato pure da certi nostri
discorsi non so più se a Vienna, a Trieste, a Monaco o a New York. L'ho conosciuto nel
'65, a Roma. Lui teneva una conferenza, anzi una lettura di alcune pagine al Goethe
Institut, in via del Corso; era come si dice una bella serata, tante persone del bel mondo e
del mondo della cultura e sono arrivato in divisa di soldato semplice, perché stavo
facendo il servizio militare a Roma e, sebbene avessi già pubblicato il Mito absburgico,
non ero neanche caporale. Ricordo anche l'imbarazzo di un generale, che non sapeva se
darmi del tu, come si usava con i soldati da parte degli ufficiali, o trattarmi con più
rispetto, e intanto stava zitto mentre noi parlavamo in tedesco. Poi, siccome dovevo
rientrare in caserma, mi ha fatto accompagnare con la sua macchina, una di quelle grandi
macchine blu del comando con la bandierina, e in caserma, da dove ero uscito poche ore
prima, dopo aver ramazzato la camerata, mi hanno visto tornare con l'autista del
generale... come Cenerentola a mezzanotte, anche se saranno state le nove e mezzo.
Potrebbe quasi essere una delle storie maghrebiniche di Grisha.
Potrei ricordare tante cose, confidenze, complicità, solidarietà sanamente un po'
canagliesche; lui sempre col suo grande stile, anche nelle debolezze o in occasioni buffe.
Un pranzo a casa mia a Trieste, con lui e con alcuni suoi conoscenti aristocratici, dai
quali eravamo stati a cena il giorno prima, e il risotto di Marisa che, come lui ammise,
aveva battuto largamente la cucina nobiliare, piccola vittoria della borghesia
sull'aristocrazia. Ricordo un convegno di Alpbach del 1977. Rezzori, in una tavola
rotonda, sedeva accanto a tre ritrosi e aggressivi autori d'avanguardia del gruppo di Graz,
tre ottimi scrittori. Autentici e sfacciati nella loro provocatoria e sofferta sincerità,
parlavano di arte e di infelicità, ostentavano il dramma del loro lavoro e parodiavano
beffardamente l'istituzione culturale che in quel momento li celebrava. Rezzori sedeva in
disparte, accettava sorridendo d'essere trascurato dal pubblico a favore dei tre giovani
poeti sperimentali. Alla loro adolescenza irrisolta ed autentica opponeva l'incredula
saggezza di chi prende poco sul serio il mondo e anzitutto se stesso, la risolta malinconia
di chi vive nell'inautentico e sa talvolta esprimerlo.
Affabile, noncurante e distaccato, Grisha diceva qualche frase convenzionalmente
cortese che non riguardava mai la sua persona e la sua opera, dissimulava la propria
intelligenza poetica anziché ostentarla. Se si fosse trovato a un tavolo da gioco o a una
festa, anziché a una tavola rotonda, probabilmente avrebbe sbancato a poker gli altri tre o
avrebbe corteggiato da maestro le loro amiche. Intanto il pubblico rivolgeva ai tre
negatori della letteratura tradizionale le domande sull'ispirazione, sulla poesia, sulla
creazione artistica. L'aureola del poeta aleggiava, nella sala, intorno agli interpreti della
contestazione; le muse baciavano l'istantanea, ingenua e proterva proposta della poesia
che, bruciandosi nell'attimo, crede di mutare la realtà, non il cinico e rassegnato
struggimento del narratore che, anche se la sua parola giunge a durare un po' di più, non
ritiene che ciò salvi il mondo. I tre rappresentavano l'aspra arroganza della purezza,
Rezzori la saggezza persuasa che ogni cosa, nella vita, si concluda e si risolva – come
disse egli stesso in un'altra occasione – nel mero passare del tempo. Come si dice
nell'Edipo? “Ah, realtà!”