Maresciallo rivolge a due soldatesse un appellativo offensivo e le
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Maresciallo rivolge a due soldatesse un appellativo offensivo e le
14/02/2014 Maresciallo rivolge a due soldatesse un appellativo offensivo e le invita a un club per scambisti: reato comune o militare? La punibilità del reato di ingiuria ad altro militare, di cui all’art. 226 c.p.m.p, può essere esclusa in quanto venga rivolta da un militare appartenente alle forze armate al di fuori dell’attività di servizio attivo e non sia obiettivamente correlata all’area degli interessi connessi alla tutela del servizio e della disciplina militare. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 45372/13. Il caso La Corte d’Appello militare aveva confermato la condanna inflitta a un maresciallo capo dell’esercito per il reato di cui all’art. 226 c.p.m.p. (ingiuria). L’imputato, quale ufficiale di picchetto, in servizio, aveva offeso il prestigio e l’onore di due militari donne con il grado di caporale, mostrando loro la tessera di un club privato dove si facevano scambi di coppia e invitandole ad accompagnarlo. Inoltre, il maresciallo aveva aggiunto che esse erano idonee a fare quello che veniva usualmente praticato all’interno del club, essendo entrambe delle «porche». Contro tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione. A suo dire, i fatti a lui contestati avrebbero al più integrato la figura del reato comune di ingiuria di cui all’art. 594 c.p. e non quello di ingiuria militare, atteso che egli non aveva agito nella veste di militare e aveva ingiuriato le caporali mentre si erano trovate al di fuori del loro servizio. Per la Suprema Corte la censura è infondata. Gli Ermellini hanno avallato la motivazione addotta sul punto dalla sentenza impugnata per ritenere sussistente nella specie il reato di cui all’art. 226 c.p.m.p., avendo essa fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità. Fatti pienamente riconducibili a un contesto militare. Infatti, secondo Piazza Cavour, la sentenza impugnata ha rilevato, con valutazione incensurabile in sede di legittimità, che, nel caso in esame, le persone offese stessero effettivamente svolgendo un servizio militare attivo - essendo state impegnate in un servizio di guardia alla caserma del reggimento di appartenenza e avendo esse ricevuto dal ricorrente l’apprezzamento offensivo, indicato in imputazione, mentre svolgeva attività di comandante del picchetto -. Il Collegio ha dichiarato che l’imputato non poteva ignorare che le parti offese erano appunto impegnate nell’esercizio di un servizio d’istituto. Pertanto, è da escludere «che le espressioni gravemente denigratorie pronunciate dal ricorrente possano essere qualificate quali ingiurie ai sensi dell’art. 594 c.p.», avendo i giudici di appello correttamente rilevato che i fatti «erano da ritenere lesivi dell’interesse perseguito dalla norma [art. 226 c.p.m.p.], da individuare nell’esigenza di preservare e tutelare la disciplina militare nelle sue vari e esplicazioni». Alla luce di ciò, il ricorso è stato rigettato. Fonte: www.dirittoegiustizia.it