Zenit - Guide Alpine Alta Valtellina

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Zenit - Guide Alpine Alta Valtellina
PIERRE DALLOZ
Zenit
1931
In Francia questo scritto è stato un
testo di culto e forse lo è tuttora.
A rigore Zénith di Pierre Dalloz è una
prefazione, che però equivale a un
manifesto dell’alpinismo classico.
Uscì nel lontano 1931 a Parigi in testa al
volume edito da Hartmann Haute
montagne, che è poi un’antologia di
impeccabili fotografie in bianconero curata
da Dalloz.
Autori delle foto erano i più forti alpinisti
del momento, tutti della cerchia del Ghm,
come lo stesso Dalloz, compagno di
Lagarde e di Segogne, per anni redattore
capo della rivista del Caf, noto architetto e
più tardi capo della resistenza nel Vercors.
“Testo bellissimo” e “superbe fotografie”
sostiene il Perret, sommo repertorio dei libri
di montagna.
Nel 1951 il puro testo di Zénith fu
ripubblicato come elegante volumetto per
bibliofili dalla Librairie des Alpes di Parigi,
ma non andò a ruba.
In Italia Zénith è pressochè ignoto.
E’ difficile dire se Zénith sia ancora un
capolavoro. Potrebbe essere invecchiato
come certi testi venerati al tempo dei
nonni, che oggi suonano retorici antiquati,
come Fontana di giovinezza di Lammer che
pure resta lo specchio di un’epoca.
Certo la prosa di Dalloz è ispirata, sfiora la
poesia e tocca corde non banali.
Zenit 1931
Abbiamo risalito tante valli in fondo alle quali ci sono apparse cime di ogni forma e di ogni nome.
Ognuno di questi ricordi è per noi contraddistinto da un’ora del giorno o della notte, da una stagione,
da un colore particolare della roccia.
Ma non sta lì l’essenziale.
L’essenziale è la qualità di un’emozione che non invecchia col passare degli anni e nonostante la
ripetizione di uno spettacolo che, alla lunga, ci è diventato famigliare.
E’ una cosa che comincia sempre allo stesso modo.
Davanti a noi non vedevamo altro che la monotonia delle pietraie, la distesa morbida dei pascoli,
quando all’improvviso, sbucò un particolare, lontanissimo per distanza e altitudine, evidenziato da
un segno tale che da allora divenne impossibile staccarne lo sguardo.
E’ da questa potenza incantatrice che riconosciamo l’alta montagna.
Per restarne soggiogati non c’è alcun bisogno di vedere apparire una catena immensa. Può bastare
anche il più piccolo pezzo di ghiaccio o di roccia se davvero appartiene al mondo delle altezze e se,
attraverso di esso, ci viene rivelata l’altitudine.
Come il mare ci permette di renderci conto dell’estensione, l’alta montagna ci rende percepibili le
immense profondità del cielo. Ci piacciono le nuvole per il loro fantasioso, incessante movimento e per
i giochi della luce che vi passa attraverso, ma l’impressione che producono su di noi non dà vertigine;
sospese ad altezze che ci restano sconosciute, fluttuano senza alcun legame con la terra che
calpestiamo.
Un albero invece imprigiona fra i suoi rami una quantità di spazio ben definita; un campanile ce ne
fa conoscere ancora di più; le montagne sono i più grandi campanili della terra. Esse ci emozionano
per la stessa loro dismisura, che ha una continuità a cui i nostri sensi non sono assuefatti. Con una
progressione impercettibile, da un riferimento all’altro, il nostro sguardo si innalza verso regioni
ancora terrestri, ma rinchiuse nell’inaccessibile, velate da strati di aria sempre più blu. Affascinati
dallo spettacolo di simili dimensioni così diverse dalla nostra, noi piccoli uomini crediamo di scoprire
in esse un’immagine dell’infinito.
Le montagne non sono l’infinito, ma lo suggeriscono.
Qualcuno le ha scambiate con l’altitudine; come confondere l’anima con le sue espressioni, la verità
con le sue testimonianze.
“Pochissimi sono stati capaci di andare oltre le indicazioni grossolane dei loro sensi, di ascoltare il
silenzio, di vedere l’invisibile.
E’ la percezione dell’abisso sconfinato che ha strappato a Pascal il suo grido di terrore.”
Più vicino a noi, Mallarmé diventa di una chiarezza tragica se gli concediamo il senso
dell’altitudine, penetrante fino alla sofferenza e alla vertigine. Egli è capace di conoscere tutto
d’istinto, il silenzio musicale, la luce scura, il connubbio della neve e dell’azzurro; egli sogna la
purezza e la sterilità, metalli lucenti e cristalli, pietre preziose, gelo. La sua poesia è un diamante
nero.
Questo è il mondo dell’altitudine che abbiamo cercato, riconosciuto, scalando le montagne più alte.
Tante volte ne abbiamo assaporato il gusto.
Nel più profondo di noi stessi ne è rimasta una nostalgia inguaribile.
Chi ha conosciuto l’altitudine per una volta ne resta stregato.
Tutta la nostra giovinezza fu turbata da un richiamo misterioso che non era quello dell’amore. A volte
si risvegliava in noi una specie di febbrile impazienza alla vista di un pesco in fiore, di un cielo
stellato oppure quando il capriccio del vento ci gettava in faccia un soffio d’aria gelida.
Allora avevamo il presentimento di un mondo sconosciuto, quello degli orizzonti immensi e della
libertà.
I primi ghiacciai che vedemmo non suscitarono in noi vera sorpresa; per noi nulla poteva essere più
atteso di quella festa di luce, di quell’altitudine azzurra la cui verità ci veniva confermata dagli
aspetti dell’alta montagna che finalmente toccavamo con mano.
Dal giorno ormai lontano di quell’incontro tra il nostro sogno e la realtà, l’altitudine ci è diventata
famigliare.
Grazie a un’attenta perseveranza, grazie a una lunga serie di osservazioni e di confidenze, abbiamo
imparato a conoscere i segni attraverso i quali essa si manifesta. Se mai nascesse dall’unione
misteriosa delle parole la realtà di ciò che è così difficile descrivere.
Quando il sangue ci pulsa nelle tempie; quando l’aria gelata ci asciuga la gola e penetra nel più
profondo di noi come un fluido infinitamente prezioso e vivificante;
quando non abbiamo più fame, ma solo sete e tutto ci diventa sforzo, gesto o pensiero;
quando il freddo è così intenso che la picozza si incolla alle mani e vediamo tutto appannato dalle
lacrime;
quando la faccia della nostra terra ci appare come un volto vivo, ma sciupato come il volto di una
creatura che deve avere molto sofferto;
quando con un’unica occhiata riconosciamo le fratture e le antiche ferite, le complesse saldature delle
catene, l’unione o il divorzio delle acque;
quando ogni vita animale e vegetale sprofonda nel crogiolo gigantesco;
quando dal fondo delle valli si alza e muore ai nostri piedi la grande voce geologica, l’immenso
lamento della terra, fatto di mille rumori dal basso, rumori dell’erosione, dell’acqua e del vento;
quando sentiamo che questo lamento, sfinito dalla lunga ascensione, non è più capace di intaccare il
grande silenzio delle altezze;
quando la perfezione stessa di questo silenzio è tale da ferire i nostri sensi;
quando avvertiamo una specie di brivido dello spazio;
quando ci appaiono le stelle in pieno giorno;
quando la luce primigenia scivola da un infinito trasparente e buio, luce oscura come una luce che
abbia perso il suo riflesso;
quando questa luce penetra direttamente nei nostri occhi senza ferirli;
ma quando la prima neve ci riflette addosso questa stessa luce con una violenza che ci acceca;
in quel momento riconosciamo l’altitudine.
Immensità dell’orizzonte, azzurro!…
A voi ci affidiamo nel totale abbandono di tutto il nostro essere. Senza alcuna reazione in noi e senza
alcun pensiero; i piaceri supremi dell’altitudine si gustano in uno stato di passività soddisfatta.
Sono piaceri che hanno un sapore d’infinito che li rende insostituibili.
Per diversi anni la nostra passione nel ricercarli è stata esclusiva. Per essi abbiamo abbandonato i
giochi giovanili, ci siamo tenuti lontani da tutte le cose delicate e femminili, decisi a mantenerci forti
e inattaccabili, preoccupati di preservare il corpo e l’anima da ogni debolezza della carne e da ogni
relazione umana che potesse corromperci. Con quanta vigilante gelosia abbiamo fatto dell’austerità la
nostra regola…
Alla serenità dell’altitudine, abbiamo chiesto di tenere a bada l’irrequietezza dei nostri vent’anni,
come fecero molti dei nostri predecessori. Votati alla guerra, destinati a partire al nostro turno,
eravamo pronti da lunghi mesi ad azioni che la nostra immaginazione aveva ammantato di pericolo e
di gloria. Ma fu deciso diversamente. In un mattino di novembre alla luce brillante e secca, il
cannone dell’armistizio ci comunicò che avevamo salva la vita. Altri ma non noi furono liberi di
sentirsi sollevati e felici! Su di noi troppe energie ormai inutilizzate ci ricadevano addosso. Dovevamo
trovare loro uno sbocco. Nel momento della nostra più urgente necessità ci fu rivelata la montagna e,
mentre altri si gettavano negli affari, nella politica e nella bella vita, noi ci siamo votati ad essa
anima e corpo. Fu per noi un mezzo per elevarci al livello del nostro sogno, per dimostrarci il nostro
valore e, contro il caso che ci aveva privati della guerra, un permesso di godere i piaceri esaltanti della
vita eroica.
Tuttavia è importante fare delle distinzioni e rendere giustizia ai nostri anni giovanili confessando
l’ingenuità e l’ignoranza di allora. Il fascino che esercitò su di noi la guerra non cesso mai di essere
puro; per noi la guerra non fu mai ciò che essa è in realtà – non avremmo potuto sopportarne l’idea –
ma un gioco pericoloso e appassionante, quello di esporsi a un pericolo mortale e di vincere la partita
contro la morte.
Questa è l’attrazione profonda delle ascensioni difficili è strettamente mescolato a un rischio mortale.
Come tutti i bisogni profondi dell’uomo, quello dell’altitudine è universale. Il fascino dell’azzurro, che
è una combinazione di attrazione e di paura, ha effetto su tutti quelli che sono attratti e restano
avvinti dallo spettacolo dell’alta montagna.
D’accordo con i poeti, i bambini credono che il paradiso sia in cielo.
Eppure questo movimento di appassionati dell’altitudine non smette di destare grande sorpresa.
Non c’è nulla di meno adatto a noi, deboli mortali, nulla di più inospitale dell’universo minerale in
cui andiamo a cercare le nostre ebbrezze.
L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi che vi mette piede, anche questa volta, come un’eccezione,
cacciandosi contro ogni ragione apparente in uno di quei comportamenti strani che può esprimere
l’anima.
Il richiamo dell’altitudine risveglia nella nostra una speranza immensa e istintiva, come se stessero
per svelarsi ai nostri occhi infinite possibilità di felicità.
Più volte abbiamo avuto la percezione di tutto l’ignoto di cui lo spazio è carico e l’abbiamo sentito
vicinissimo, come se tra esso e noi non ci fosse altro che il leggero diaframma del nostro involucro
carnale.
Ma la risposta che oscuramente aspettiamo, l’altitudine la rimanda sempre…
Tutti i nostri slanci si perdono nella profondità e nel silenzio infinito dell’azzurro.
Il suo cristallo senza difetti ci rinvia soltanto la nostra fedele immagine, dando a tutte le
argomentazioni della nostra mente, a tutte le emozioni del nostro cuore un’approvazione indifferente e
totale.
Ognuno viene così confermato nelle sue convinzioni.
Non c’è nulla di più pericoloso, nulla di più negativo dell’eccesso di piaceri che procura l’altitudine.
Il loro scoglio è l’orgoglio e gli isolamenti senza benefici per la personalità. L’asprezza
dell’inclinazione di alcuni di noi per l’individualismo e la libertà li indirizza verso le più strane
follie.
Ribelli contro tutto ciò che può sembrare loro un vincolo o una limitazione, ma costretti a subire la
legge comune, essi si forgiano principi rovesciati nei quali mettono il loro cuore come se fossero atti di
fede.
Così sono portati a poco a poco alla negazione di tutto, alla disperazione.
Sembra quasi che scontino l’orgoglio d’aver gustato un piacere proibito.
Gusto dell’altitudine, del pericolo e della morte, gusto del nostro inconoscibile mistero, nuova forma di
questo peccato della conoscenza, il più originale in noi, che ci fruttò la perdita della gioia e della
certezza…
Pierre Dalloz