CODICE 999 – BELLO MA SENZA TROPPI

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CODICE 999 – BELLO MA SENZA TROPPI
“NEMICHE PER LA PELLE”: IL CONNUBIO
DEGLI OPPOSTI
di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane da oggi, 14 aprile, il film “Nemiche per la pelle” del
regista Luca Lucini. Commedia brillante, divertente e ironica da non perdere assolutamente per
passare 92 minuti in allegria. La sapiente regia di Lucini ci ripropone la contrapposizione di due
personaggi, che sono, in verità, più dei caratteri molierianamente intesi, incarnando ed esasperando
un aspetto ben preciso della società moderna. Proprio dalla contrapposizione di due esacerbate
personalità, improbabili proprio perché eccessive, scaturisce l’umorismo e la comicità di questa
pellicola. Di per sé la trama non ha nulla di particolarmente comico, anzi: due donne, Lucia e
Fabiola, si conoscono da anni e si odiano profondamente. La prima è la ex moglie dell’attuale marito
della seconda: Paolo. Sono totalmente agli antipodi: tanto è pragmatica, realista e donna d’affari
Fabiola, quanto è idealista, sentimentale e sognatrice, Lucia. Da sempre si contendono l’affetto e le
attenzioni di Paolo, che, però, muore, lasciandole entrambe. Questo avvenimento drammatico porta
alla luce un grande segreto dell’uomo: un figlio, avuto con una terza donna. Inoltre, Paolo, che, con
loro due, di figli non ne aveva mai voluti, forse, colto da un sentore di quanto sarebbe potuto
accadergli, ha lasciato al suo amico e avvocato Stefano, nonché gestore delle ingenti finanze di
Fabiola, una lettera con le sue volontà. Le due donne dovranno prendersi cura, congiuntamente, del
bambino: Paolo Junior. Lucia e Fabiola, ambedue inadeguate alla maternità, animate, inizialmente,
sia dall’antico astio che da questioni ereditarie, quindi, economiche, iniziano, così, un viaggio dentro
se stesse e dentro questa maternità tardiva e inattesa. Entrambe assorbite dalle loro vite: Fabiola ha
i suoi affari, mentre Lucia ha le sue “crociate” e il suo amore con l’immaturo e artista
fallito,Giacomo, si troveranno a dover fare i conti con una realtà nuova, che le spiazza e le terrorizza.
Proprio quando il bambino comincia a far breccia nei loro cuori, ecco che accade qualcosa di
totalmente imprevisto, scombussolando ancora di più la vita e i sentimenti delle protagoniste. Lucia
e Fabiola saranno allora costrette, per la prima volta, ad unire le forze, passare del tempo insieme;
diventare, piacenti o no, alleate. Scopriranno così, oltre tutte le evidenti e buffe differenze, che c’è
qualcosa che, forse, in fondo, le accomuna. In questa fase entra in gioco un’altra caratteristica di
Lucini: il suo tatto delicato. La telecamera quasi accarezza i volti e le vite dei suoi “caratteri”,
facendo loro cadere la maschera e portandoli, totalmente, quanto inesorabilmente, sul piano della
realtà. Dove nulla è sempre tutto bianco, o tutto nero; ma al contrario esistono tante sfumature di
colori, di toni, di personalità, di sentimenti. Sempre tipico della sua regia è il non tralasciare mai lo
humour, che consente di mantenere i toni molto leggeri, anche nei momenti di maggiore tensione.
Tra battute, battibecchi, situazioni improbabili, “Nemiche per la pelle” scorre via in modo davvero
rapido e piacevole. La semplicità degli eventi raccontati, trova il suo ritmo scandito e perfetto
proprio nelle dinamiche d’incontro e scontro degli opposti, che, a loro volta, trovano il loro connubio
perfetto nello sguardo ironico e bonario della telecamera di Lucini. Merito sicuramente anche
dell’interpretazione, che ci mostra una Margherita Buy, nel ruolo di Lucia e una Claudia Gerini,
nella parte di Fabiola, squisitamente calate nell’incarnazione esacerbata dei loro personaggi e che
riescono a rendere, con altrettanta forza, il cambiamento. Supportate da Paolo Calabresi, che
interpreta l’avvocato Stefano e di Giampaolo Morelli, nel ruolo di Giacomo, ricalcando il suo
personaggio tipico: del ragazzo bravo, ma immaturo e pieno di sé, che se combina qualcosa nella vita
è più per caso che per volontà sua.
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CODICE 999 – BELLO MA SENZA TROPPI
ENTUSIASMI
di Elisa Pedini – Dal 21 aprile nelle sale italiane l’atteso film “Codice 999” del regista John
Hillcoat, che torna, dopo qualche anno, dietro alla telecamera. Pellicola feroce, cruda, serrata, ricca
d’azione, di sparatorie e di violenza. Sicuramente concepita e votata ad alti incassi, ma,
francamente, non mi convince e vi spiego perché: nonostante certi aspetti mostrino delle varianti su
tema, essi, non sono sufficienti a uscire dai cliché del genere, che il film ricalca in pieno. Ne
riconosco i lati innovativi, primo fra tutti, l’ambientazione che, questa volta, è Atlanta: città
sicuramente poco sfruttata a livello cinematografico. Inoltre, un’altra scelta coraggiosa, è costituita
dal portare in scena una realtà malavitosa ben poco nota: ovvero quella della criminalità ebreorussa, la cosiddetta “mafia kosher”, gruppi criminali, molto potenti negli Stati Uniti, che si sono fatti
strada col traffico d’armi. Una “cupola” così terribile, che, nel film si sentenzia, lo stesso Putin teme.
Infine, l’aver coinvolto nel film veri membri delle gang di latinos che governano interi quartieri della
città. Nonostante tutto questo, la trama ci propone, per l’ennesima volta, il solito manipolo di
poliziotti ed ex membri dell’esercito, corrotti e avidi, il di cui capo, Michael Atwood, è tenuto in
pugno da Irina Vlaslov, spietata boss della mafia russo-israeliana, con il solito bambino, usato come
oggetto di ricatto. Questo è il mezzo primario utilizzato per far leva sull’uomo, al fine di fargli fare
tutti i lavori sporchi di cui la mafia necessita. Oltre, naturalmente, a tutta una serie di violentissime
iniziative volte a convincere il manipolo di corrotti a restare compatto. Il film si apre con un’audace
rapina in banca che termina in una cruenta sparatoria in autostrada. Il sergente Jeffrey Allen è
incaricato d’indagare sul caso, mentre il suo nipote prediletto, onesto e ingenuo, finisce per
diventare il nuovo partner di uno dei poliziotti corrotti. Quella, doveva essere l’ultima impresa
sporca e invece, al manipolo di corrotti, viene imposta un’ulteriore missione, solo che, stavolta, è
impossibile da portare a termine: una rapina al dipartimento di sicurezza interna. L’unico modo per
tentare d’eseguirla è provocare un codice 999: ovvero, l’omicidio d’un poliziotto. Tale atto
comporterebbe il convergere di tutte le pattuglie sul luogo del delitto con assoluta priorità, aprendo
una contestuale caccia all’assassino. Tutto questo caos, consentirebbe un tempo maggiore per la
rapina, che passerebbe in secondo piano, con conseguente ritardo d‘intervento delle forze
dell’ordine. Da questa decisione si dipana tutta l’azione del film, fra solite bande, soliti quartieri
malfamati e solite prostitute da trivio. Fra casualità, avidità, tradimenti e drastiche soluzioni per
togliere di mezzo chi diventa scomodo. Quella che, a mio avviso, potrebbe essere la parte
interessante della trama e cioè l’indagine sull’identità di questa banda, che imperversa facendo
crimini e mostrando un’elevata preparazione tecnico-tattica, è messa, in verità, troppo in secondo
piano per dare un reale valore aggiunto. Quelli che seguono le indagini sono poliziotti onesti, ma
indolenti, lenti, alcolizzati e non danno vera linfa vitale, né un quadro tanto positivo, al dunque. In
conclusione, a me, che i cliché lasciano del tutto indifferente, questo film, non convince. Certamente,
nulla va tolto al ritmo, spettacolarmente serrato, all’ambientazione realistica, né alla dose di
crudeltà ben gestita e che da corpo alla tematica più che rispondente al genere cui la pellicola
appartiene. Nulla va tolto alla regia sapiente e straordinaria di Hillcoat, che si conferma maestro
delle riprese, laddove cieli plumbei e luoghi cupi accompagnano l’atmosfera di congiura e
corruzione. Nulla da dire neppure dal punto di vista dell’esecuzione, semplicemente ineccepibile,
potendo contare su straordinari interpreti come: Casey Affleck, Chiwetel Ejiofor , Woody
Harrelson, Aaron Paul, Norman Reedus, Gal Gadot, Teresa Palmer, Anthony Mackie e
un’eccezionale Kate Winslet. La mia perplessità è puramente “tematica” e non certo tecnica. Gli
amanti del genere saranno assolutamente soddisfatti e non ho remore nel consigliare loro di gustarsi
il film dall’inizio alla fine. Quelli che, invece, fossero stanchi delle solite trame trite e ritrite,
sappiano che non vedranno nulla di particolarmente innovativo. Una pellicola “da cassetta”
assolutamente ben fatta; ma che, a mio parere, non porta alcun valore aggiunto al panorama
cinematografico contemporaneo.
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CRIMINAL: UN FILM CHE VI RIMARRÀ
NELLA MEMORIA
di Elisa Pedini – Dal 13 aprile al cinema, “Criminal” il nuovo film del giovane regista israeliano
Ariel Vromen. Dopo aver raccontato in “The Iceman”, del 2012, la storia vera d’un efferato serialkiller, che lo ha imposto agli onori della critica, Vromen torna, dietro alla cinepresa, con un actionthriller davvero notevole. Pellicola assolutamente da vedere: coinvolgente, originale, anticonformista
e provocatoria. “Criminal” è un film che mi sento di definire: impressionante. La scienza e la ricerca
scientifica sono, di fatto, il tema portante. Due le capacità umane esaltate: quella d’inventare e
quella di ricordare. Sublime.
Siccome voglio accompagnarvi nella mia lettura del film e di ciò che ho molto apprezzato, mi è
necessario, innanzi tutto, introdurvelo e dunque, raccontarvi la trama. La storia narrata è semplice e
lineare: Heimbahl, un anarchico fanatico e folle, vuole appropriarsi di un wormhole in grado di
forzare il sistema di difesa americano comandandone le armi a piacimento. Tale programma è stato
ideato dal giovane e geniale hacker Jan Strook, detto “l’olandese”, il quale, però, non ha alcuna
intenzione di farlo cadere nelle mani dello psicopatico Heimbahl, essendo ben cosciente delle
conseguenze nefande che ciò comporterebbe. Fa, dunque, un accordo con la CIA. Il suo tramite è
William Pope, l’unico perfettamente al corrente di tutti i dettagli della situazione e che nasconde
“l’olandese” per proteggerlo. Heimbahl trova Pope. Lo tortura, nel tentativo d’avere informazioni,
ma, l’agente, non parla, cosa che gli costerà la vita. È qui che entra in gioco la scienza, nella persona
del dottor Franks, neurochirurgo che sta conducendo esperimenti sul passaggio di memoria da un
essere vivente all’altro. La ricerca è in fase sperimentale e per ora è stata solo condotta su cavie.
Mancano, ancora, almeno cinque anni di lavoro perché si possa passare alla sperimentazione sugli
umani. Tuttavia, il capo di Pope, Quaker Wells, non vuol sentire ragioni. La posta in gioco è la
salvezza del mondo. Si deve rischiare. Serve un altro essere umano che ospiti la memoria di Pope
per trovare “l’olandese” prima di Heimbahl. La CIA non ha candidati, ma il dottor Franks, si. Ha
individuato in Jerico Stewart, un detenuto nel braccio della morte, il candidato ideale. Un uomo
violento, pericoloso, sociopatico, totalmente privo di empatia, di sentimenti, di sensi di colpa. L’unica
emozione che Jerico è in grado di provare è la rabbia, che sfoga nella violenza più bestiale e brutale.
Ciò nonostante, quest’uomo, così immondo, ha le caratteristiche cerebrali idonee. L’intervento
chirurgico si fa. Inizialmente, sembra non aver funzionato; ma, lentamente, Jerico comincia ad avere
dei flash di una vita non sua, sempre più nitidi. Con i ricordi, affiorano in lui anche le capacità di
Pope. Tuttavia, avvisa il dottor Franks, non sarà per sempre. Molto presto, tutto svanirà nella sua
mente. Ricordi frammentari, insufficienti, che, però, danno il via a un doppio percorso: da un lato, il
cammino interiore di Jerico che scopre affetti, emozioni e situazioni a lui totalmente ignoti; dall’altro,
il tentativo di fermare Heimbahl. “Criminal” mescola alle atmosfere e ai ritmi del thriller, i passi e i
marosi dell’anima, dosandoli con sapienza. Come e dove portino questi due percorsi lo lascio
scoprire a voi, gustandovi il film. Ciò che mi ha colpita e su cui mi piace riflettere è, invece, l’aspetto
scientifico per un verso e quello umano per l’altro. Certo, la ricerca del dottor Franks è fiction,
invenzione pura. L’idea da cui, però, Vromen parte, su cui si è documentato e su cui ha costruito
“Criminal” non è così infondata. Infatti, non sono pochi gli studi che trattano di “memoria”. «Mi
hanno incasinato il cervello», così apre il film Jerico. È noto che, a restare impressi, siano gli eventi
più significativi, quelli che hanno coinvolto le emozioni più forti ed è proprio questo che,
sapientemente, Vromen ci mostra. La memoria che Jerico eredita da Pope è, esattamente, quella a
lungo termine, ovvero, quella che si fissa grazie alle emozioni e alle percezioni sensoriali a essa
legate. I suoi ricordi sono frammentari e privi di consequenzialità, perché sono più rievocazioni di
istanti. Inoltre, è risaputo che il cervello umano non sia in grado di distinguere tra emozione provata
ed emozione allucinata. Per parte mia, trovo affascinante l’idea che un giorno la scienza sia in grado
di trovare un modo per “trasportare memoria”. Recenti studi scientifici condotti dall’Università di
Harvard, hanno dimostrato che gli atomi hanno memoria, ovvero possono “ricordare” con precisione
quello che hanno fatto in precedenza e che, pertanto, sono in grado di trattenere e trasportare
informazioni. Tale ricerca si sta, a tutt’oggi, sviluppando, seppur, ben evidentemente, in campo
quantistico. Da questi dati, a vedere in Vromen un precursore avveniristico del futuro scientifico ne
corre, ovvio. La sua, è fiction. Sognare, invece, è lecito. Vedendo “Criminal” non si può non essere
affascinati da questo “sogno”. Il secondo aspetto che mi ha colpita, come ho anticipato sopra, è
quello umano. La cinematografia ci ha abituato ad avere a che fare con scienziati o ricercatori pazzi,
o privi di scrupoli, o avulsi dalla realtà. In “Criminal”, Vromen ci presenta, invece, due esseri umani,
geniali; ma con una coscienza e un’anima. Un hacker e un neurochirurgo, che inventano, entrambi,
qualcosa di straordinario, ma che restano due persone “normali”, totalmente calati nella loro realtà.
Non sono folli, né spregiudicati, anzi, si pongono delle questioni morali ben precise. L’originalità di
“Criminal” trova, poi, l’apice del compimento nell’esecuzione degli interpreti, che, più che recitare,
sembrano realmente vivere gli eventi. Un ritrovato e straordinario Kevin Costner, che si scrolla di
dosso il grigio di parti, ultimamente, poco riuscite, divenendo interprete intenso di Jerico Stewart,
affiancato da un superbo Tommy Lee Jones nei panni del dottor Franks e da un potente Gary
Oldman nel ruolo di Quaker Wells. Un realistico Jordi Mollà ci coinvolge nei vaneggiamenti dello
psicopatico Heimbahl, mentre Michael Pitt rende, con notevole veridicità, l’angoscia dell’hacker
Jan Strook. Non sono da meno le interpretazioni di Ryan Reynolds, nella parte dell’eroico William
Pope e di Alice Eve nel ruolo della giovane e bella vedova.
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"Ustica": un dramma che vuole giustizia
di Elisa Pedini – Dal 31 marzo al cinema: il film-denuncia “Ustica” del regista Renzo Martinelli.
Un film da vedere senza alcun dubbio, con la cosciente consapevolezza che quello che si vedrà, potrà
essere scomodo, tagliente e per nulla compiacente. Renzo Martinelli non cerca la simpatia, cerca la
verità, che non veste mai con abiti sfarzosi e falsi sorrisi; bensì, con quelli semplici, scarni e spesso
cupi, della realtà. La pellicola si basa su una tragedia reale e si attiene ai fatti. Nulla viene
romanzato, quello che si distanzia dai dati di fatto è dovuto solo a due aspetti: protezione della
privacy di qualcuno, funzionalità cinematografica. Entrambi questi punti li spiega al pubblico
direttamente il regista, Renzo Martinelli, con grande generosità e in ogni dettaglio, nell’intervista
che vi propongo e che v’invito a leggere perché è davvero intensa e molto significativa. In questa
mia recensione critica, mi limito al mio lavoro e vi parlerò, invece, dei fatti storici, dell’impatto
emotivo durante la visione e di quello che a livello tecnico mi ha colpito.
È il 27 giugno del 1980, un velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea ITAVIA, parte
dall’aeroporto di Bologna con quasi due ore di ritardo. Destinazione: Palermo. Visibilità ottima,
viaggio tranquillo e regolare, aereo stabilizzato a 7600 metri in quota lungo la rotta assegnata:
aerovia “AMBRA 13”. Tutto sembra tranquillo. L’ultimo contatto radio è con Roma controllo e la
situazione è ancora regolare. Sono le 20:56, il comandante annuncia che non ci sono ritardi su
Palermo e che pertanto il successivo contatto sarà con Raisi. Poi, alle 20:59:45, all’improvviso, senza
lanciare alcun segnale d’allarme, il volo IH870 scompare dai radar e non risponde più ai contatti.
Invano la torre di controllo dell’aeroporto di Palermo, dov’era atteso per le 21:13, reitera le
chiamate. Altrettanto fa Roma. Invano. L’aereo DC-9 della compagnia ITAVIA è precipitato tra le
isole di Ponza e Ustica, il punto “CONDOR”, inabissandosi nella cosiddetta “Fossa del Tirreno”, ove
il fondale giunge a una profondità di oltre 3500 metri. Vi muoiono 81 persone. L’aereo è esploso in
volo spaccandosi in due tronconi. Sull’accaduto furono date diverse versioni: prima fra tutte, quella
del cedimento strutturale dando la colpa alla compagnia. L’ITAVIA era si in condizione di forte
indebitamento e chiuse i battenti il dicembre dello stesso anno, ma, questa versione risultò da subito
flebile, proprio a causa degli occultamenti e della movimentazione immediata delle alte cariche
militari, che, non avrebbero proprio avuto ragion d’essere, se la causa fosse stata la cattiva
manutenzione del velivolo. La seconda, fu un attentato terroristico, ovvero, una bomba a bordo,
probabilmente situata nella toilette in coda dell’aereo. È indubbio che nel 1980 siamo in piena
guerra fredda e che l’ipotesi d’un attentato sia plausibile. Ma, pur trovando tracce d’esplosivo, i
rilevamenti porterebbero altrove, in particolare, perché gli indizi non porterebbero affatto a
supportare un’esplosione dall’interno. La terza ipotesi fu un missile aria-aria, che, per errore, colpì
l’aereo civile. Ma, anche qui, non furono mai ritrovati relitti d’un’arma simile. Sicuramente, l’attività
aerea militare quel giorno era piuttosto intensa. Il DC-9 non volava solo. Un’intensa presenza di
traffico aereo militare che fra silenzi e smentite, viene, però, inconfutabilmente confermata dai
tangibili ritrovamenti che vennero alla luce anni dopo il tragico evento: tra il ’92 e il ’94. Questo
metteva in evidenza, sempre più certa, la possibilità della collisione aerea. Numerosi gli articoli del
periodo, molto interessanti, che v’invito a ricercare negli archivi on line.
È proprio quest’ultima versione che, il regista Renzo Martinelli prende in considerazione. Tre anni di
lungo e meticoloso lavoro, a stretto contatto con due ingegneri aeronautici, durante i quali ha
recuperato perizie, raccolto testimonianze, studiato le 5000 pagine dell’istruttoria del magistrato
Rosario Priore, considerata chiusa nel 1999, ove, peraltro, vengono totalmente escluse le cause per
cedimento strutturale e per esplosione interna. Per tre anni, Renzo Martinelli, ha disperatamente
cercato, in giro per l’Europa, qualcuno che fosse disposto a produrre il suo film.
Con passione, determinazione e desiderio di verità, Renzo Martinelli, ce l’ha fatta. Nonostante le
difficoltà e il budget limitato ha dato vita a una pellicola che è insieme denuncia e umanità, verità e
“pietas”. Nella crudezza degli avvenimenti, riportati con lucidità quasi cronachistica, ritroviamo il
pulsare delle emozioni delle vite vissute. Ero troppo piccola nel 1980 per ricordare gli avvenimenti,
ne porto memoria per quello che accadde e si disse nei decenni successivi, ma sono uscita
veramente scossa dalla sala. Piena d’interrogativi e con una gran voglia di sapere. Mi sono messa on
line e ho cercato quello che i colleghi scrivevano nel 1980 e quello che successivamente fu scritto.
V’invito, ancora, a informarvi, perché l’informazione rende liberi. V’invito a leggere, di nuovo,
l’intervista al regista. V’invito, soprattutto, a non perdervi questo film, che non è fiction, neppure nel
“privato”. Vi coinvolgerà, all’interno d’una cornice da favola di una fotografia che ci regala i
panorami d’una natura straordinaria che vi commuoverà. Tutte riprese reali e forse per questo così
pregnanti. Vi trascinerà dentro una delle realtà più oscure della storia italiana. Le scene di volo mi
hanno particolarmente presa. Ho quasi potuto sentire la pressione della gravità. Una regia che
veramente cura tutto, nei minimi dettagli.
A tutt’oggi, comunque, la strage di Ustica, resta uno dei grandi misteri italiani. Furono occultate e
distrutte prove, come, peraltro, confermato dalla sentenza del procedimento penale che ne seguì.
Innumerevoli le testimonianze date, poi confuse e poi ritrattate completamente. Due suicidi, sono
stati correlati alla strage e appaiono sospetti: quello del maresciallo Dettori, presumibilmente in
servizio, la notte del disastro aereo, al radar di Poggio Ballone in provincia di Grosseto e quello del
maresciallo Parisi, che sarebbe stato di turno, invece, il giorno del 18 luglio 1980, data del presunto
“incidente” del MIG libico a Timpa delle Magare sulla Sila. Sono moltissime le morti che Rosario
Priore indicò come sospette, ma mai furono trovate prove a supporto. A tutt’oggi, sono molti gli
interrogativi che restano aperti. A tutt’oggi, le vittime aspettano giustizia.
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Intervista a Renzo Martinelli. "Ustica: vi
racconto cosa ho scoperto"
di Elisa Pedini – L’idea dell’intervista diretta al regista nasce dalla volontà di dare al pubblico una
visione completa d’un film, dunque, non solo con l’occhio della critica, che riporta certi aspetti
tecnici e le impressioni emotive che ho ricevuto nel momento in cui ho assistito alla proiezione; ma
anche dal punto di vista di chi lo ha pensato e realizzato. Renzo Martinelli è un regista italiano,
profondamente impegnato nella realtà della nostra terra e dei misteri, che, purtroppo, costellano le
nostre cronache. Renzo Martinelli è un uomo di grande sensibilità e cultura, che non si ferma alle
apparenze e usa la telecamera come strumento per vivisezionare la verità e il cinema come mezzo di
divulgazione. Il suo desiderio di verità, il suo occhio clinico e la sua mente indagatrice li avevamo già
apprezzati in film del valore di “Vajont”, o “Piazza delle Cinque Lune”. Ma, ora, lascio a lui, Renzo
Martinelli, la parola, per parlarci di “Ustica”:
D: “Interessante la tematica scelta, che, peraltro, è tornata fortemente in auge proprio ultimamente.
Hai affrontato: una mole di materiale informativo immensa e frammentaria, le migliaia di pagine
dell’istruttoria, problemi economici e di produzione e tutto per realizzare questo film. Cosa ha
determinato la scelta del soggetto? Qual è stato il fattore scatenante?”
R: “È il film che sceglie il regista e non il contrario, secondo me. Per esempio, mi trovavo a
Erto per dei sopralluoghi per fare un film sui partigiani, quando arrivò un uomo in
canottiera e bandana, era Mauro Corona. Mi parlò del disastro del Vajont. Mi portò nella
sua bottega e mi diede anche un libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe.
Il caso del Vajont.” (scritto nel 1963, solo nel 1983 un editore fu disposto a pubblicarlo,
n.d.r.) di Tina Merlin, una giornalista che pubblicò moltissimi articoli per avvisare che la
diga era pericolosa e che avrebbe causato la frana del monte Toc. Restò inascoltata (fu
addirittura denunciata e processata per falso allarmismo, n.d.r.). Il monte franò. Perirono
circa duemila persone. Così nacque il film “Vajont”. Per “Ustica” è accaduta la stessa cosa:
il film ha trovato me. Due miei amici, ingegneri aeronautici, che sono poi quelli che mi
hanno supportato per tutta la produzione, mi dissero che avevano molto materiale su
Ustica. Lessi anche tutti i quotidiani che, a ridosso della strage, parlarono di collisione in
volo. Ma, quattro giorni dopo, i servizi segreti erano già intervenuti mettendo in moto la
cosiddetta “macchina della disinformazione”: ovvero, vennero avanzate tali e tante altre
ipotesi che le acque si confusero completamente. Approfondii leggendomi tutti gli atti. Il
film si basa su tutte testimonianze reali e spero che lo spunto venga raccolto da qualche
magistrato per riaprire il caso.”
D: “Tra fiction e realtà. Tutte le vicende private dei personaggi sono fiction?
R: “Il personaggio di Caterina Murino, Roberta Bellodi, è tratto da una persona esistente.
Nella realtà è un papà, che ha perso la sua bambina nella tragedia. La sua piccola nuotava
molto bene e lui s’è recato ogni giorno alla spiaggia, sperando di vederla tornare. Per
tutela della sua privacy, ovviamente, il personaggio è stato cambiato. Il ruolo che
interpreta Lubna Azbal, Valja, è totalmente inventato, serviva un testimone che andasse sul
posto e vedesse cos’era accaduto. Il personaggio di Marco Leonardi, l’onorevole Corrado di
Acquaformosa, è ugualmente di fantasia: serviva un uomo delle istituzioni che facesse da
tramite tra Roma e il testimone.”
D: “Relativamente al MIG-23: la fiction mette il ritrovamento del relitto e la ricerca della verità nelle
mani d’una donna albanese. Come mai questa scelta?”
R: “Come si dice in gergo cinematografico, Valja nasconde dentro di sé un “fantasma”:
ovvero, è il personaggio che da la motivazione personale. Lei ha avuto un’esperienza forte
nella sua vita che l’ha condizionata, da cui, la sua reazione davanti alla strage.
Relativamente alla scelta della nazionalità non c’è un motivo particolare. Semplicemente, a
quei tempi, c’erano molte colonie albanesi in Calabria di gente che veniva a lavorare,
quindi, la presenza della popolazione era molto alta.”
D: “Il messaggio che viene ritrovato nel film: da dove nasce?”
R: “Dagli atti dell’istruttoria. Il messaggio è vero. Rosario Priore mette agli atti che venne
ritrovata una carta aeronautica, tutta bruciacchiata, sulla quale si trovava un messaggio in
arabo. Sempre agli atti viene riportata la convocazione d’un siriano nell’ufficio del
generale Zeno Tascio (all’epoca dei fatti a capo del SIOS, i servizi segreti dell’aeronautica
militare italiana, articoli reperibili on line n.d.r.) proprio per tradurre questo messaggio.
Le parole che riporto nel film sono quelle degli atti. Il generale Tascio ritrattò tutto e il
messaggio andò perduto. Infatti, all’estero, il film uscirà come “The missing paper” proprio
perché, per il pubblico non-italiano, dare per titolo “Ustica” non avrebbe senso.”
D: “Nella fiction abbiamo da un lato una Ragion di Stato, o meglio, una “ragion d’interesse” e dei
militari sprezzanti e anche violenti, basti pensare alla reazione del soldato all’arrivo di Valja a Timpa
delle Magare; dall’altro lato un militare libico con una coscienza e un’albanese che mette in gioco la
sua vita per cercare la verità. Gli italiani, o tacciono, o intimano al silenzio, o agiscono su sprone
esterno; ma di fatto, mai su iniziativa personale. Che lettura sottende tutto questo?”
R: “Si, Ustica è stata tutta una questione di ragion di stato. Due erano le grandi vergogne
da tacere: la prima che, nonostante l’embargo americano, l’Italia permetteva il passaggio
degli aerei libici usando aerei di linea italiani come scudo, la seconda che era
accidentalmente implicato un aereo americano nella caduta del DC-9.
Relativamente agli italiani la visione è realistica. Oggi, il nostro, è divenuto un popolo
d’opportunisti. Non c’è più indignazione. Non c’è più il senso della memoria. Si vive un hic
et nunc che blocca l’azione. S’è perduto il passato e per conseguenza anche il futuro. A tal
proposito è molto significativo un proverbio arabo, che cito: «Gli uomini somigliano più al
loro tempo, che ai loro padri».”
D: “Passiamo alla regia pura: veramente intensa, realistica, pregnante. Le scene di volo, in
particolare, mi hanno davvero affascinata e so che hanno richiesto tre anni di duro lavoro in stretta
collaborazione con due ingegneri aeronautici. Puoi spiegare al pubblico questo lavoro?”
R: “Certamente! Tutto il materiale doveva essere convertito in linguaggio cinematografico
e soprattutto, doveva restare dentro tempi tollerabili dal pubblico. In questo caso abbiamo
contenuto tutto in 104 minuti. Inoltre, il budget, già scarno, doveva essere rispettato. Le
immagini digitali costano tantissimo e sono minime nel film. Le riprese sono tutte reali:
del mare, delle montagne, delle nuvole e dei paesaggi. Le riprese nei velivoli sono tutte
fatte dentro aerei veri, incluso un vero MIG-23. Quello che ho ricreato è una visione in
soggettiva che desse allo spettatore gli occhi del pilota. Il sonoro, poi, amo curarlo
moltissimo e gioca la sua parte nel dare il senso della verosimiglianza. Il suono deve essere
avvolgente e totalizzante. Inoltre, distribuisco i suoni in maniera tale che seguano
esattamente quello che avviene nella scena che lo spettatore sta guardando. Infine, la
sceneggiatura poggia su tre passi fondamentali: il “set-up”, dove vengono presentati il
protagonista, l’antagonista e la posta in gioco; la “zona centrale”, dove si sviluppano le
vicende e la “conclusione”. La forza di “Ustica” è che ha un set-up molto rapido: in pochi
minuti lo spettatore è completamente dentro alla storia.”
“LAND OF MINE - SOTTO LA SABBIA”:
NON GUARDERETE PIÙ UNA SPIAGGIA
CON GLI STESSI OCCHI
di Elisa Pedini – In uscita nelle sale italiane dal 24 marzo, il film “Land of mine – Sotto la sabbia”
del regista danese Martin Zandvliet, che ci riporta nel 1945, in uno spaccato storico di pochi mesi,
da maggio a ottobre, ma che, emotivamente, sembrano anni. Pellicola dura, cruda, potente,
detonante in ogni senso. Dopo questo film, non guarderete più una spiaggia con gli stessi occhi.
Gli eventi narrati in “Land of mine” sono decisamente poco noti e sono considerati tabù nella storia
moderna danese. È il maggio del 1945, la Danimarca è appena diventata una terra libera, dopo 5
lunghissimi anni di dominazione nazista. Anni che hanno spezzato gli animi di tutti e spento milioni
di vite. Il Reich, di fatto, vacilla da un pezzo, non ha praticamente più risorse umane e pur d’avere
soldati, è arrivato a mandare in guerra tutti i maschi dai tredici ai novant’anni. Il regime sente il
fiato delle Forze Alleate sul collo e temendo l’invasione da nord, dissemina le coste occidentali
danesi con più di due milioni di mine anticarro e antiuomo. Dopo la caduta della Germania nazista, le
autorità britanniche offrono al governo danese la possibilità di arruolare prigionieri di guerra
tedeschi per bonificare la costa. L’amministrazione danese accoglie subito l’idea e la mette in
pratica. La Brigata danese dirige e gestisce l’operazione. Peccato che, tutta la dinamica
contravvenisse la Convenzione di Ginevra del 1929, secondo cui, è vietato obbligare i prigionieri di
guerra a svolgere lavori forzati o pericolosi. Tuttavia, le regole vengono deliberatamente eluse,
correggendo il testo da “prigionieri di guerra” a “persone volontariamente arrese al nemico”.
Seppur ci sono discrepanze tra i dati danesi e quelli tedeschi, si stima che circa 2600 uomini,
d’un’età compresa tra i 15 e i 18 anni, furono costretti a quel lavoro. Almeno la metà di loro rimase
uccisa o gravemente lesa. “Land of mine” è tutto questo.
Ma, i dati storici sono vicende volute e provocate dall’uomo e allora non si può non tenere conto del
“fattore umano” e di tutte le implicazioni interiori ed esteriori che ne conseguono. Qualsiasi tipo di
regime totalitario è basato sulla violenza e sull’oppressione, concependo soltanto due posizioni: o a
favore, o contro. I popoli invasi, macerati in uno stato di terrore costante e reale, vessati dalla
violenza, prostrati dalla morte, covano in loro rabbia, desiderio di vendetta e sete di rivalsa. La furia
di chi ha troppo a lungo vissuto e visto orrori indescrivibili, porta alla violenza più cieca nei confronti
di qualsiasi persona o cosa divenga in quel momento il simbolo del nefando regime. “Land of mine”
è, particolarmente, tutto questo.
È facile comprendere, dunque, come i tedeschi siano profondamente odiati. Poco importa che i
soldati siano ragazzini, a loro volta mandati totalmente allo sbando e che poco abbiano capito delle
disgrazie umane. Loro, con le loro divise e la loro lingua, sono solo l’emblema dell’oppressore, del
nemico. Lasciati senza cibo e in alloggi, a dir poco, inadeguati. In quest’ottica va interpretato “Land
of mine” ed è questo stato d’animo che, dalla prima scena del film, il Sergente Rasmussen comunica.
Al grido di “questa è la mia terra”, sfoga tutta la sua cieca furia, in cui sono racchiusi tutto il dolore,
la frustrazione e l’impotenza, patiti per anni. E allora mi domando se “Land of mine” non sia un pun,
dove “mine” gioca il suo senso tra “mia” e “mina”, ma è un interrogativo che non so svelarvi poiché
il regista non concede intervista. Di certo, c’è lo strazio dell’animo di Rasmussen che accoglie quel
camion di disgraziati soldati-bambini con tutto l’odio di cui è capace. Che muoiano di fame o dilaniati
da una mina non importa a lui, ancor meno alla Brigata danese e meno ancora alla popolazione. Ma,
quei prigionieri, restano ragazzini e nei loro cuori portano ancora la capacità di sognare e
d’immaginare un futuro quando saranno di nuovo a casa. È proprio quella parte d’innocenza, che si
portano dentro, che finisce per spezzare lo “scudo” di Rasmussen, che passa dall’insultarli senza
tregua, al chiamarli “ragazzi”, al parlare con loro, all’avvicinarsi, fino ad affezionarsi. Sono tutti nella
stessa landa desolata, in mezzo al nulla, ognuno coi suoi mostri, le sue paure, il suo dolore. È un film
che non lascia scampo. Ho sentito l’angoscia, ho patito la fame, ho avuto paura insieme ai
protagonisti. Ho provato lo strazio dei ragazzi e la dicotomia interiore di Rasmussen tra l’odio per
quei tedeschi e la pietà per quei giovani. “Land of mine” è un film sul dolore in tutte le sue
sfumature. È un viaggio nell’anima umana. Pellicola talmente aspra che non ho retto e ho dovuto
abbassare lo sguardo a ogni mina disinnescata, perché potevo sentire il terrore, tangibile, della
morte. Sapientemente, una sublime fotografia supporta, per contrasto, i sentimenti evocati. Da un
lato, una natura incontaminata, spiagge bianche, sabbia impalpabile, la luce del sole. Dall’altro, la
cupezza della paura, del dolore, della solitudine, della morte. L’esecuzione è strabiliante: Roland
Møller, che interpreta il Sergente Carl Leopold Rasmussen, si cimenta per la prima volta nel ruolo
del protagonista e si mostra attore carismatico, espressivo e vibrante, in grado di comunicare
chiaramente pensieri e sentimenti anche attraverso uno sguardo. Il cast dei ragazzi è davvero
eccezionale, soprattutto se si considera che sono tutti dilettanti.
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Tirolo set del grande cinema
Sölden nella valle Öetztal e Obertilliach in Osttirol sono i set cinematografici della prima
grande avventura di James Bond in Tirolo: “Spectre”, dal 5 novembre al cinema.
Una “missione molto speciale” è stata portata a termine in Tirolo. La Cine Tirol Film Commission e i
suoi partner hanno lavorato in modo eccellente per permettere le riprese di “Spectre”, il nuovo
film di James Bond nelle località di Sölden, nella Ötztal, e nel villaggio di montagna di
Obertilliach, in Osttirol. Il merito del successo va alla collaborazione di tutti: Location Austria,
FISA-Filmstandort Austria, i comuni, gli enti del turismo, le società degli impianti di risalita tirolesi.
Ma soprattutto a Cine Tirol Film Commission, una struttura nata nel 1998 da un’iniziativa
congiunta della regione Tirolo e dell’Ente del turismo (Tirol Werbung), che promuove con successo il
Tirolo come regione cinematografica di primissimo piano in ambito internazionale e assiste
con professionalità, flessibilità e fantasia i produttori, registi e sceneggiatori interessati ad
ambientare i loro lavori sui set alpini. Sono state realizzate in Tirolo oltre 500 produzioni
cinematografiche (film per il cinema e la televisione, lungometraggi, documentari, spot pubblicitari
nazionali e internazionali), e ora, con l’ultimo successo firmato James Bond, il Tirolo conquista il
titolo di “regione cinematografica più rinomata e apprezzata delle Alpi”.
Sölden e Obertilliach: destinazioni segrete
Nella rinomata località sciistica delle valle Ötztal si è conclusa la caccia al set cinematografico
perfetto per una delle scene più adrenaliniche del nuovo film di James Bond. Il ristorante
panoramico IceQ è stato al centro delle riprese e la produzione e gli attori sono stati contenti di
questa eccellente struttura di lusso a 3000 metri. A Obertilliach, invece, un villaggio di 687 anime, la
troupe cinematografica si è presentata nella piccola comunità dell’Osttirol, con un aereo da turismo
e una stalla che è stata prontamente battezzata “Bond-Haus” dagli abitanti di Obertilliach e
montata su una pista della stazione sciistica Golzentipp. Durante le riprese nella Bond-Haus e sulla
pista da sci è stata necessaria la presenza del protagonista Daniel Craig per tre giorni a metà
gennaio. Un altro set è stato il centro di Obertilliach, sotto tutela dei beni culturali. “La troupe
cinematografica è venuta da noi proprio per il nostro centro storico”, racconta il sindaco Matthias
Scherer.
Cine Tirol: una delle migliori film commissions delle Alpi
Grazie al servizio di “Location Service” e alla figura del “Location Scout”, Cine Tirol prevede
un’assistenza completamente gratuita nella fase di ricerca dei set. Produttori e registi
ricevono consigli e suggerimenti da figure professionali che conoscono la regione a fondo: non solo
le bellezze naturali e culturali, ma anche le abitudini della popolazione locale e le loro tradizioni, che
vanno pienamente rispettate. Il “Location Scout” ha il compito di accompagnare produttori e registi
durante i sopralluoghi, di stabilire contatti con uffici e organi competenti per il rilascio delle
autorizzazioni necessarie e di coinvolgere strutture e personale già presente in loco. Cine Tirol
inoltre offre la possibilità di usufruire di una sovvenzione finanziaria per la realizzazione di
progetti cinematografici. Vengono sovvenzionati progetti promettenti: per esempio lungometraggi
artistici o documentari, ma anche serie tv che garantiscano un riscontro internazionale. La stessa
viene elargita sotto forma di un prestito da restituire in tempi e modalità da concordare, legate
anche al successo della produzione. www.cinetirol.com
Film internazionali in Tirolo
Le montagne e le valli del Tirolo sono state già in passato fonte di ispirazione per registi e
produttori. Tra le produzioni di rilievo si possono citare: “The Mountain Eagle” di Alfred
Hitchcock, “Ebbrezza bianca” di Arnold Fanck, “La Valle dimenticata” di James Clavell, “L’orso”,
“7 anni in Tibet” di Jean Jacques Annaud, “La strega bruciata viva” di Luchino Visconti e
“Eroi in Tirolo” di Niki List. Inoltre con l’aiuto di Cine Tirol è stata realizzata la produzione di “Facce
da cinema”, un film di Hermann Weiskopf, interpretato dai gemelli Luca e Marco Mazzieri di Parma.
Il film affronta il tema del lavoro con due sbandati che per essere assunti da una multinazionale
devono vendere Internet in Tirolo. Anche l’industria cinematografica indiana ha scoperto i
vantaggi del supporto professionale offerto da Cine Tirol e ha girato in Tirolo più di 80 film,
soprattutto scene canore e di danza con noti attrici ed attori.
Dati sulla produzione di “Spectre” in Tirolo
8,9 milioni di euro per spese legate alla produzione (vitto, alloggio, trasporti, affitti, cachet e altro);
31 giorni di riprese; 30.000 pernottamenti per il cast e la troupe; 600 operatori internazionali
coinvolti nella produzione del film; 250 operatori austriaci e/o tirolesi; 210 subfornitori austriaci e/o
tirolesi; 130 milioni di spettatori per il film “SKYFALL” di cui “Spectre” è il sequel e la società di
produzione conta su un numero ancora maggiore di spettatori.
Concorso a premi: vinci il grande cinema
Sul sito ufficiale del Tirolo austriaco, alla pagina www.tirolo.com/concorso-grandecinema,
rispondendo a una facile domanda si possono vincere i biglietti per due persone per vedere
“Spectre” in tutti i cinema del circuito The Space Cinema d’Italia.
Contatti:
Tirol Info
Maria-Theresien-Str. 55
6010 Innsbruck, Austria