RASSEGNA STAMPA

Transcript

RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
Lunedì 20 ottobre 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Del 20/10/2014, pag. 5
Libertà dalla paura e dal bisogno. Nasce Cild
Democrazia. Primo congresso della Coalizione italiana per i diritti civili.
Associazioni e ong italiane in rete con la European liberties platform,
per rendere più efficaci le lotte in favore dei diritti umani
Eleonora Martini
<<I diritti non sono a compartimento stagno ma sono interconnessi, interdipendenti e indivisibili». O non lo sono. Ha ragione Patrizio Gonnella, presidente della neonata Coalizione
italiana Libertà e diritti civili (Cild) che ieri ha tenuto il suo primo congresso nella sala
Caprinichetta di Piazza Montecitorio. Un soggetto resosi necessario per tentare un salto di
qualità nelle campagne di advocacy che decine di associazioni e ong praticano ormai da
decenni ma in modo forse troppo frammentato, e che entra immediatamente a far parte
dell’European Liberties Platform (ELP), il network europeo di ong istituito con il sostegno
della Open Society Foundation fondata da George Soros, principale filantropo delle lotte
per i diritti umani. Decine già le associazioni che aderiscono a Cild: da Antigone a LasciateCientrare, da Parsec a 21 Luglio, dall’Arcigay alla Luca Coscioni, dalla Società della
Ragione al Forum droghe, dall’Arci a Certi Diritti, e poi ancora Cittadinanzattiva, Lunaria,
Associazione nazionale Stampa interculturale, Diritto di sapere e molte altre.
Organizzazioni che hanno sperimentato tutti i limiti e le potenzialità delle campagne nazionali in favore dei diritti civili, in un Paese dove questi sono stati troppo a lungo subordinati,
anche nel pensiero politico della sinistra, ai diritti sociali, come ha sottolineato il senatore
Pd Luigi Manconi. Eppure, vale la pena ricordarlo, siamo il Paese dei Cie dove i migranti
possono rimanere senza limiti di tempo ma non possono entrare i sindaci, dei giovani italiani che sono considerati immigrati perché i loro genitori hanno fatto il viaggio, delle carceri peggiori d’Europa, della legge sulle droghe illegale, degli agenti di polizia non identificabili dai cittadini, della tortura che non è reato, degli sgomberi e dei campi «nomadi»
costati al comune di Roma in cinque anni 60 milioni di euro (59.718.107) dove sono confinate 7 mila persone rom e sinti mai state «nomadi». Il Paese dove non si può scegliere
come morire, né quando e come procreare, della ricerca scientifica limitata, della libertà di
stampa minore che in Ghana, Romania o Niger. Il Paese dove è ancora possibile essere
rinviati a giudizio per un bacio omosessuale con l’accusa di «disturbo alla quiete pubblica», come è successo a Perugia, secondo l’interrogazione parlamentare presentata dal
deputato di Sel Alessandro Zan, con un bacio, anzi i baci, volutamente consumati in pubblica piazza tra tre coppie di attivisti per i diritti lgbti, alcune sposate all’estero, che avrebbero a tal punto «disgustato i passanti» da dover far intervenire gli agenti della Digos.
Ecco, in un Paese così, come spiegano i rappresentanti di Human Right Watch e Amnesty
international, «senza attivisti locali che lottano, denunciano e tentano di incidere sulle leggi
e sulla cultura nazionale, noi organizzazioni internazionali non possiamo fare molto».
Eppure, ricorda Aryeh Neier, ex direttore dell’American Civil Liberties Union e di Hrw,
e presidente della Open Society Foundations, in tutto il mondo si sta ancora aspettando
quell’«età d’oro per i diritti civili» che ci si aspettava si sarebbe «aperta dopo la caduta del
muro». Per esempio, racconta Neier davanti a una sala stracolma perfino di giovanissimi,
soprattutto studenti del liceo Virgilio che hanno presentato un lavoro encomiabile, «nel mio
Paese, gli Usa, viviamo un’isteria nazionale dovuta a pochissimi e isolati casi di Ebola che
2
ha portato a pratiche discriminatorie delle persone provenienti dall’Africa occidentale. E in
Russia Putin sembra essere intenzionato a chiudere due delle principali ong per i diritti
umani che sono sopravvissute alla fine dell’Urss». Per questo motivo solo lavorando in
rete a livello mondiale si può rendere più efficace la tutela dei diritti umani. «Nel creare
questa coalizione in Italia — conclude Neier – non solo riuscirete a rafforzare la lotta
nazionale ma in sinergia con altre organizzazioni europee porterete questa battaglia a un
livello superiore».
D’altronde che i tempi siano maturi, ripetono alcuni dei relatori, lo si capisce dal fatto che
pur nella tenaglia della crisi economica l’attenzione pubblica ai diritti individuali non diminuisce. Anzi. Attenti però, ammonisce Eligio Resta, filosofo del diritto dell’università Roma
3, (che interviene dopo il sottosegretario Ivan Scalfarotto, il ministro plenipotenziario Gian
Ludovico de Martino, presidente del comitato interministeriale per i diritti umani e il delegato del sindaco di Roma, Silvio Di Francia), a pensare che in questa era di «forte predominanza della sfera pubblica» i diritti civili possano essere slegati dai diritti sociali, «dal
dovere degli Stati». Il lavoro è tanto, soprattutto culturale. Si dovrà riportare l’attenzione
sulle parole a cominciare dal concetto di libertà, esorta ancora Resta che suggerisce di
prendere a prestito quel «canto della legge» che è il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 in cui si celebra la «libertà dalla paura e dal bisogno».
«Vorrei — conclude il professore – che diventasse il grido di battaglia di questa
Coalizione».
3
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 20/10/2014, pag. 21
In centomila marciano per la pace (e
chiedono lavoro)
Perugia-Assisi, la presidente della Camera Laura Boldrini: «Cercherò di
aiutare gli operai di Terni»
ROMA Cento colpi per ricordare cento anni di guerre. Si è aperta così ieri mattina, con il
fragore delle esplosioni trasmesso dagli altoparlanti, la ventesima edizione della Marcia
della Pace di Assisi. Tra striscioni, bandiere e arcobaleni, quasi 100 mila i partecipanti che
hanno percorso a piedi i circa 24 chilometri tra Perugia e Assisi.
Per dire basta ai conflitti, un secolo dopo la Prima guerra mondiale. Ma non solo. Perché
per portare la pace, quella sociale, è fondamentale anche il lavoro, quest’anno tema
centrale della manifestazione. In prima fila c’erano infatti gli operai dell’Ast di Terni,
impegnati in una difficile vertenza per salvare oltre 500 posti a rischio. Il presidente della
Camera, Laura Boldrini, che si è unita alla marcia nell’ultimo tratto, li ha incontrati: «Farò il
possibile, non buttatevi giù», ha detto, sottolineando la necessità di una task force
istituzionale che affronti la vicenda. «La pace sociale si basa anche sul diritto al lavoro,
che è un diritto costituzionale».
Dopo quello del capo dello Stato, anche papa Francesco ha inviato un messaggio: «La
Marcia sia un’occasione per un maggior impegno nella diffusione della cultura della
solidarietà, ispirata ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune».
In marcia la vicepresidente di Montecitorio, l’umbra Marina Sereni, don Luigi Ciotti, la
presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, quello del consiglio regionale, Eros
Brega, oltre al sindaco di Perugia, Andrea Romizi. Ma i protagonisti sono stati i cittadini,
tra cui moltissimi ragazzi e bambini di 177 scuole. Hanno sfilato 277 enti locali, 479
associazioni, 526 città e rappresentanti di ogni regione. Qualche defezione, in polemica
con la Tavola della pace, che ha promosso la manifestazione. «San Francesco attende i
suoi testimoni di pace per incoraggiarli nel loro impegno quotidiano in una situazione
drammatica di presenza di guerre e assenza di lavoro», aveva detto alla vigilia padre Enzo
Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro convento. «Siamo qui perché non
vogliamo più vedere vittime» ha spiegato Flavio Lotti, coordinatore del comitato promotore
Del 20/10/2014, pag. 1-8
VIAGGIO
Sulle tracce di Fenoglio 70 anni dopo i “23
giorni di Alba”
Caro Johnny, le tue Langhe non esistono più
Di Michele Concina
Sono sempre le stesse, le colline del Partigiano Johnny. C’è chi ne ricava un sacco di
soldi, dalle Langhe. Da pochi giorni è finita la vendemmia, da qualche settimana la
4
raccolta delle nocciole. Alla fiera di Alba compratori di mezzo mondo si disputano i tartufi
bianchi, a prezzi che partono da duecento euro l’etto. Se ti siedi su una panchina con gli
occhi chiusi, dopo un po’ ti sembra di vivere un sogno altrui. Un sogno di Nanni Moretti: il
profumo dolciastro e inconfondibile della Nutella scende ad avvolgere la città dallo
stabilimento della Ferrero, multinazionale a conduzione familiare che rifiuta di separarsi
dalla sua cittadina d’origine. C’è chi delle Langhe s’innamora. Specialmente adesso, in
autunno, girando per le colline pettinate dai vigneti, fra i colori attenuati dalla nebbia
leggera, i verdi non troppo verdi, i rossi non troppo rossi. Respirando l’odore di terra
smossa e di funghi. Sostando nelle cascine, da tempo tirate a lucido, per un bicchiere di
vino, servito con cortesia schiva, ritrosa. E c’è chi nelle Langhe ha fatto la guerra.
Combattendo i fascisti, i tedeschi, e questo stesso paesaggio oggi incantevole; ma ostile,
funesto nel terribile inverno del 1944. Nei rittani, i dirupi delle alte Langhe, dove si rifugiava
inseguito il partigiano Johnny: “Era un inferno di fango, lezzava di foglie marcite, la
vegetazione curva su di esso a mascherarlo come un aborto di natura grondava
orribilmente”. Nelle notti di guardia, quando “nulla era visibile nella ondulante tenebra,
udibile soltanto il sinistro, purgatoriale crocchiare dei rami freddi sotto il vento
onnipotente”. “La presero in duemila e la persero in duecento” Sono passati giusto
settant’anni dall’ottobre in cui le formazioni della Resistenza occuparono Alba,
instaurandovi una libera repubblica durata 23 giorni. Non la prima, non la più duratura, né
la più importante delle repubbliche partigiane. Ma a difenderla, e poi a darle fama
superiore a ogni altra, c’era un ventenne dinoccolato e un po’ goffo, figlio di un macellaio
di Alba, affascinato dalla letteratura inglese. Si chiamava Beppe Fenoglio. Seppe scrivere
della Resistenza e di questa terra come nessun altro. Senza retorica, senza indulgenza
verso la propria parte, senza paura delle parole: “guerra civile”, la chiamò da subito.
Capace di cogliere l’epica collettiva, ma anche le insufficienze, talvolta le meschinità di chi
combatteva; o trovava modo d’i m b oscarsi quando l’aria volgeva al brutto. “Alba la
presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” è il celebre attacco
folgorante, impietoso de I ventitré giorni, il primo libro pubblicato. Tre paragrafi più in là,
racconta la sfilata trionfale dei partigiani: “Fu la più selvaggia parata della storia moderna:
solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. E poi: “Su quel balcone c’erano tanti capi
che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini”. Frasi e
passaggi che scatenarono il tiro al bersaglio da sinistra. “Questo racconto di Beppe, che
ha fatto la Resistenza accanto a me sulle Langhe, mi è parso aiutare chi si affanna a
denigrarci”, scrisse Davide Lajolo. Carlo Salinari, gappista romano, poi illustre critico
letterario di stretta ortodossia marxista, si occupò di scomunicarlo su R i n a s c ita .
Fenoglio non ci badò più di tanto, e si diede a raccontare le Langhe del tempo di pace.
Strette d’assedio non dalla Wehrmacht, ma dalla povertà. La terra dei contadini della
Malora , ossessionati dallo spreco: “Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo
Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino”. Il punto
di svolta: lo scandalo del metanolo del 1986 Sono sempre le stesse, quelle colline e quelle
zolle. Ma a percorrerle oggi, anche con i libri di Fenoglio sotto gli occhi, sembra che le
abbiano trasportate di peso in un altro pianeta. E ci si chiede che cosa abbia trasformato,
in un tempo inferiore a quello di una vita umana, i cupi mezzadri affamati nei gentiluomini
di campagna in giacca di tweed che vendono Barolo ai miliardari cinesi e piantano rose
alle estremità dei filari. Il punto di svolta, probabilmente, fu una disgrazia: lo “scandalo del
metanolo” del 1986. Ventitré persone morte per aver bevuto del vino da pochi soldi,
adulterato con alcol metilico per risparmiare qualche lira sull’imposta di fabbricazione.
Epicentro nelle Langhe. Rifiutati dal mercato, minacciati di estinzione, i vignaioli seri si
resero conto che la loro unica speranza era puntare sulla qualità alta, altissima. La grande
paura li spinse addirittura a superare il secolare individualismo, a scambiarsi esperienze e
5
buone pratiche, a esplorare insieme mercati nuovi. Da Slow food di Petrini a Eataly di
Farinetti Ebbero fortuna: gli americani stavano scoprendo proprio allora i cibi d’élite. E in
zona cominciavano a farsi largo un paio di giovani capaci di costruire intorno alle
produzioni alimentari una filosofia di vita, se non addirittura un’ideologia. Ad Alba c’era
Oscar Farinetti, futuro patron di Eataly. A Bra, da qualche anno, studiava e predicava
Carlin Petrini: tra i padri fondatori del Gambero Rosso, in quel 1986 trasfor-mò
l’Associazione amici del Barolo in Arcigola; tre anni dopo diede vita a Slow Food. Ma se
queste non fossero state le Langhe, la riscoperta della terra madre e delle eccellenze
alimentari avrebbe colto i poderi sguarniti, abbandonati da contadini corsi a inurbarsi nelle
fabbriche. La Ferrero e il monopolio delle nocciole Qui, invece, c’era la Ferrero: un’azienda
nata all’indomani della guerra, che ha sempre assorbito l’intera produzione dei settemila
ettari di noccioleti della zona. E ha sempre preferito lasciare che i suoi operai
continuassero ad abitare nei paesetti sparsi per le colline, anziché attirarli in casermoni di
città. Ancora oggi, in corrispondenza dei turni dello stabilimento, non c’è un villaggio in cui
i pullman della Ferrero non si fermino a caricare i dipendenti. Un’idea formidabile, in quegli
anni. “Per il contadino che si era alzato alle quattro a zappare la vigna, il turno alla Ferrero
non era neppure fatica. Tornava a casa bello fresco, e ricominciava a rivoltar la terra”,
spiega Enzo De Maria, ex sindaco di Alba e oggi presidente dell’Anpi locale. È la
prosperità, alla fin fine, che ha smussato la terra di Fenoglio e le vite di chi l’abita. Senza
snaturarle, per ora. Anzi, contribuendo a ingentilire il paesaggio fino a farlo includere,
quattro mesi fa, nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità (con implicito sberleffo
all’indirizzo del rivale di sempre, il Chianti). Ma consacrare il bello non lo mette al riparo
dagli assalti del brutto. È abbastanza noto, e deprecato, il caso della Cascina Langa, a
Trezzo Tinella, l’ “aia gelata, aperta per tre lati al cielo”, in cui il partigiano Johnny e il
partigiano Fenoglio trovarono rifugio nei momenti peggiori. Certo, trasformandola in un
resort di lusso l’hanno resa irriconoscibile, a forza di parallelepipedi in cemento nudo e
vetrate panoramiche. Certo, è veramente dura capire che ci fa, fra queste colline, uno
hammam, che dovrebbe essere il bagno rituale di arabi e turchi. Il manufatto che domina il
costone di Trezzo Ma lo stravolgimento di Cascina Langa è un’inezia, rispetto al vasto
manufatto incredibile che domina il costone più alto di Trezzo, una specie di ranch
messicano reinterpretato due volte, prima da Hollywood e poi da un qualche palazzinaro
locale, di un bianco accecante. O al ripetitore televisivo, alto il doppio della chiesa
cinquecentesca, rizzato sullo spiazzo in cima a Mombarcaro. Era l’ “alpestre deserto” di
Johnny. E il luogo in cui Fenoglio andava a meditare, ritto sul ciglio del dirupo,
contemplando la sua Langa aspra, poco domestica, cupa verso il tramonto. Ancora ignara
del suo destino da cartolina.
Del 20/10/2014, pag. 43
Perché i diritti non sono un lusso in tempo di
crisi
STEFANO RODOTÀ
NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il
diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un
anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si
dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può
essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su
6
questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho
adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).
Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla
nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere
all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si
fa assai impegnativa, esige una vera “politica dell’umanità”, l’opposto di quella “politica del
disgusto” di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli
omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell’altro.
Quella del riconoscimento dei diritti è un’antica promessa. La ritroviamo all’origine della
civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non
metteremo la mano su di te». È l’ habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale
inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle
persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e
contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “l’età dei diritti”,
alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del
“lago Atlantico”, negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà
scandita dal succedersi di diverse “generazioni” di diritti: civili, politici, sociali, legati
all’innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad
attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più
significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni
dei “vinti”, l’italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla
libertà e all’eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la
dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell’umano a
qualsiasi potere esterno. Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio
dall’innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa
più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che
cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in
questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema
costituzionale ha fatto parlare di diritti “insaziabili”, che si impadroniscono di spazi propri
della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa
sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati
come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse
finanziarie. Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è
rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti
riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non
riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa
dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i
diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si
ripete forse che i mercati “decidono”, annettendo alla sfera dell’economico le prerogative
proprie della politica e dell’organizzazione democratica della società?
La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle
contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più
evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo
stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che
le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone
non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell’attenzione, ma di operare uno
spostamento radicale verso movimenti “etico-democratici”, i soli in grado di porre in
discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l’essere umano nella sua realtà più
individuale e singolare». I diritti fondamentali “ultima utopia”, come ha scritto Samuel
Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando
7
sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto “imperialistico” la
cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o
dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che,
secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia,
vissuta troppo spesso come “ultrademocrazia”, e a riflettere sulla forza delle cose che ha
interrotto quella che Giuliano Amato ha definito «la marcia trionfale dei diritti»?
Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero
però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e
politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento
sociale e istituzionale. È nel “sud del mondo” che ritroviamo novità significative, nella
legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe
questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la
vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell’Occidente. Al tempo
stesso, però, l’attenzione per le costituzioni “degli altri” deve spingerci ad avere uno
sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro
terre d’origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra
iniziativa dei singoli e azione pubblica. I diritti non invadono la democrazia, ma impongono
di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di
risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull’obbligo di
renderne possibile l’attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per
reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono
dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano
posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma
la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle
discriminazioni, dal rifiuto dell’altro che, negando la dignità stessa della persona,
contraddicono quella “politica dell’umanità” alla quale è legata la vicenda dei diritti.
Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo
diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull’iniziativa
delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino
possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?
8
ESTERI
Del 20/10/2014, pag. 1-21
Da Hong Kong al Messico le rivoluzioni degli
ombrelli
ADRIANO SOFRI
FRA i manufatti umani, l’ombrello è dei più antichi e versatili, e il suo rilievo simbolico fu
universale. Si legge di un antico sovrano birmano che si attribuiva il titolo di “Re
dell’elefante bianco e Signore dei ventiquattro ombrelli”. Da noi oggi, fabbricati in Cina, si
comprano da benedetti venditori africani o asiatici al primo accenno di acquazzone, a una
tariffa usa e getta. E di colpo i giovani di Hong Kong ne fanno l’insegna della propria
impresa.
IL BELLO delle rivoluzioni è che si trovano i loro simboli per una felice combinazione fra il
caso e l’inventiva. A Hong Kong fa caldo, e bisogna proteggersi dal sole. Poi gli agenti
speciali, nelle loro uniformi marziane, cominciano a usare spray al pepe e lacrimogeni, e
viene fatto di proteggersi dietro gli ombrelli. Poi a un ragazzo, più esilarato degli altri, viene
di mettersi a saltare in mezzo alla nube di gas con due ombrelli spalancati, e lo
fotografano e lo battezzano “l’uomo-ombrello”, e di lì a poco è già un manifesto planetario.
Un giorno ero al capezzale di Elsa Morante e le dissi che fuori c’era una pioggia noiosa;
«Sì — disse — ma gli ombrelli sono bellissimi quando si aprono». Se avesse visto aprirsi
gli ombrelli di Hong Kong! Anche i giovani di Hong Kong sono incerti se chiamare la cosa
“rivoluzione” o “movimento”. Il primo nome sembra troppo solenne, e anche troppo
canonico, il secondo promette di preservarne la duttilità, ma le cose poi finiscono, o
comunque tornano a inabissarsi. Ora che le rivoluzioni politiche, quelle che si
proponevano di conquistare il potere, non si fanno più, e così sia, le rivoluzioni si
riprendono il loro diritto: che è quello di irridere la menzogna del potere, di denunciarne la
violenza, e di proporre, almeno per un po’, un altro modo di vivere insieme. Sbucano
all’improvviso, non più come vecchie talpe pazienti che hanno saputo scavarsi la loro
occasione: e tuttavia sotterraneamente, misteriosamente si ricordano le une delle altre,
senza antenati ed eredi, come nella storia politica, ma per citazioni creative, come nella
storia dell’arte. In una delle innumerevoli variazioni grafiche — hanno fatto un concorso
per il logo dell’ombrello, con risultati fantastici — c’è un ragazzo con l’ombrello aperto sulla
testa che fronteggia la colonna dei carri armati: è una citazione del 4 giugno della
Tienanmen, e fissa una parentela con quel meraviglioso giovane di Pechino che ipnotizzò
la fila di tank col suo sacchetto di plastica in mano. Così è toccato alla Cina di offrire due
immagini delle migliori della storia contemporanea: il giovane che ballava davanti al carro
armato nell’89, e i ragazzi degli ombrelli nel 2014. (Però la migliore, quest’anno, è della
bambina che estrae dalle macerie di casa a Gaza il libro di scuola). Le rivoluzioni si
ricordano l’una dell’altra, senza preoccuparsi di essere in linea.
“Occupy Central” è la traduzione di Hong Kong di “Occupy Wall Street”, e la canzone che
ne è diventata l’inno, “Do U hear the people sing …”, viene dal musical sui Miserabili, e le
barricate montate ordinatamente con le transenne dai ragazzi di Hong Kong sono cugine
di quelle parigine sulle quali muore Gavroche, senza finire la sua canzone. Nel
riadattamento in cantonese per la rivoluzione degli ombrelli l’inno dice più o meno:
“Nessuno ha il diritto di restare indifferente di fronte alle migliaia di fiammelle di candele
che luccicano in ogni mano: noi ci battiamo audacemente per il diritto a votare il futuro che
ci appartiene”. Victor Hugo sarebbe stato entusiasta, tanto più se avesse potuto vederlo
9
quel firmamento di telefonini-candela luccicanti sollevati nella notte in tutta la città, e la
miriade di ombrelli colorati. I simboli delle rivoluzioni sopravvivono loro, e le valgono.
Sapete perché la rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 si chiama “dos cravos”, dei
garofani? Mentre i militari ribelli e la folla occupavano Lisbona, una sontuosa festa di
matrimonio in un locale del centro dovette essere rinviata, e i titolari regalarono i garofani
che l’avrebbero addobbata ai soldati, che li infilarono nelle canne dei fucili. La rivoluzione
dei garofani. In Tunisia si chiamò dei Gelsomini, nel 2010, e l’anno dopo il governo cinese
fu così spaventato dal contagio da censurare su Twitter la comparsa della parola:
gelsomino. Gli ombrelli hanno qualcosa di più domestico e cattivante, specialmente
quando sono rotti, rivoltati, storti, dopo aver fatto da scudo alle botte da orbi delle squadre
speciali. Ce n’erano anche nelle fotografie di sabato sugli scontri di Bologna: l’emulazione
è veloce, ma l’analogia finiva troppo presto. E ce ne erano a Berlino, dove gli ombrelli
sono stati agitati dagli attivisti che manifestavano contro il traffico di essere umani. E infine
tra i messicani che chiedevano giustizia per 43 studenti fatti sparire dopo scontri con la
polizia. Per militanti che siano, gli ombrelli sono del tutto non-militari. Nei giorni scorsi,
grazie al meticoloso Cottarelli, si è saputo che il regolamento proibisce agli ufficiali di
coprirsi dalla pioggia con un ombrello. Regola universale, a quanto pare, visto che anche
Obama ha dovuto scusarsi con un cadetto cui aveva chiesto di tenerglielo aperto sulla
testa. L’ombrello è stato a lungo un accessorio femminile, e anche questo ha giovato al
movimento di Hong Kong, che li ha scelti colorati, e ne ha mostrato la somiglianza con dei
grandi fiori che si aprano e richiudano. La serietà e il coraggio di un movimento che sfida
la prepotenza di un impero colossale e lo fa danzando con gli ombrelli, abitandoci sotto e
scrivendoci sopra, e drizzandoli a testuggine, ecco un capitolo che il gran libro delle
rivoluzioni cucirà con orgoglio tra le proprie pagine. «Altre mani si leveranno e
impugneranno le nostre armi», scriveva il Che. «Se un ombrello si strappa — dice uno dei
manifestanti di Hong Kong — un altro arriverà a rimpiazzarlo». I tempi cambiano e si fanno
la rima. Gli ombrelli poi hanno qualcosa del paracadute, ma di un paracadute alla
rovescia, specialmente quando vento o manganelli li rivoltano, e sembrano poter portare le
ragazze e i ragazzi in alto, come aquiloni. Hanno anche citato la Grande Rivoluzione
Culturale, a Hong Kong: mettendo in mano alla giovane Guardia Rossa dei manifesti di
allora che doveva spazzar via il Quartier Generale… un ombrello. E riempiendo la
metropoli di minuscoli e minuziosi post-it, versione ingentilita dei tazebao di allora, ed
espressione di una moltitudine composta di altrettanti individui manoscriventi. Uno dice:
«Sono così arrabbiato che l’ho scritto». Una moltitudine di persone che ha preso le sue
legnate, ha curato la raccolta differenziata, ha fatto della propria città minacciata un’arca di
Noé, e l’ha provvisoriamente salvata dal diluvio. Una Fahrenheit degli ombrelli.
Del 20/10/2014, pag. 28
Le vite rubate della Striscia così a Gaza si
muore da spia
FABIO SCUTO
IL SOLE d’autunno illumina un cimitero di campagna compresso tra una fattoria e una
fabbrica di salsa di pomodori, non distante da Khan Younis. Scavata nella sabbia c’è una
fila di tombe senza lapidi. Un letto di cemento grezzo anonimo di due metri per uno, senza
un nome, senza una data. Sono le tombe dei rinnegati, delle presunte spie giustiziate per
strada dai miliziani di Ezzedin al Qassam alla fine della guerra dei 50 giorni che questa
10
estate ha devastato la Striscia. Ventidue palestinesi sospettati di aver passato informazioni
sono stati uccisi davanti alla gente per la strada. Li hanno seppelliti in queste tombe senza
nome perché le famiglie, per vergogna, non hanno chiesto indietro i corpi. Dal 2007,
quando comanda Hamas nella Striscia, sono 57 le presunte spie palestinesi giustiziate per
strada. Israele ha sempre fatto affidamento sui “collaboratori” per colpire i miliziani
palestinesi. Interi apparati dell’intelligence dell’Esercito israeliano, come l’Unità 8200, sono
votati solo a questa missione: raccogliere informazioni, frugare nelle vite della gente di
Gaza. Una ricerca finisce per coinvolgere la vita persone innocenti, che nulla hanno a che
vedere con il terrorismo di Hamas, ma che vengono schedate per preferenze sessuali, lo
stato di salute e quello finanziario. Informazioni utili solo per estorcere altre informazioni e
arruolare collaboratori. Perché non ci sono volontari in questo mondo di spie. Il fenomeno
è carsico ma molto più numeroso di quel che si pensi, si stima che siano diecimila fra
Gaza e la Cisgiordania. Un “ modus operandi” denunciato con una lettera pubblica lo
scorso mese 43 ufficiali e soldati dell’Unità 8200 stanchi di «rubare le vite degli altri».
La storia di Fadi Qatshan, 26 anni, la racconta suo padre Alì seduto sulla sua carrozzella
elettrica sull’uscio di casa, un antro di cemento grigio nel campo profughi di Nusseirat
dove abita con la famiglia. Alì ripercorre il periplo del figlio, le sue ansie, le sue paure, la
sua scelta e infine la sua morte. Fadi era malato di cuore e in un lungo giro per ospedali
palestinesi a Gaza e in Cisgiordania i medici possono solo constatare che ha bisogno di
un’angioplastica ma non hanno strutture per quel tipo di intervento. Fadi approda così per
motivi umanitari nel maggio 2013 al Tel Hashomer, una delle eccellenze del sistema
sanitario israeliano a Tel Aviv. Subisce un doppio intervento che riapre le sue arterie e
resta ricoverato per 45 giorni. «Alla dimissione», racconta il padre Alì, «gli hanno dato una
lettera dell’ospedale che attestava il fatto che avesse bisogno di un altro intervento al
cuore dopo un mese, è il requisito per ottenere il visto di uscita da Gaza». Dopo una
settimana dal ritorno a casa riceve una telefonata da un cellulare israeliano, la voce al
telefono si qualifica come un ufficiale dell’intelligence dell’Idf e dice: se vuoi tornare in
ospedale devi lavorare per noi, pensaci, basta che richiami questo numero. Fadi chiude
terrorizzato la conversazione e racconta tutto al padre. Il 2 luglio 2013 chiede attraverso il
Liaison Office israeliano il permesso di uscita allegando la richiesta dell’ospedale, richiesta
respinta. Una nuova richiesta viene presentata il 27 agosto 2013 e il 9 novembre, respinte.
L’attestazione dell’ospedale scade, e la famiglia via fax ne ottiene un’altra che fissa la data
di ricovero per il 6 gennaio 2014. Ma Fadi Qatshan, il ragazzo di Nusseirat che non voleva
diventare una spia, viene dichiarato morto per arresto cardiaco il 16 novembre 2013
all’ospedale di Deir Al Balah. «Se avesse detto sì forse sarebbe ancora vivo», dice Alì
mostrando il fascio di carte che documenta questa tragedia, «ma noi saremmo vissuti nel
terrore, nella paura e anche nella vergogna».
La chiameremo Suad perché non vuole dire il suo vero nome. Cinquant’anni mal portati,
volto scavato e scarno, occhi grandi mai fissi su un punto, mani con un leggero tremolio.
L’odore della paura nelle vesti modeste. Suo marito era uno dei sei “collaborazionisti”
uccisi da Hamas per strada nel dicembre del 2012. Lei stessa, madre di sette figli, è stata
arrestata per favoreggiamento e incarcerata. Condannata a sette anni è stata “graziata” lo
scorso dicembre, i giudici di Hamas sono stati clementi solo per la sua prole. «Lui —
racconta a proposito del marito — era già nelle mani degli israeliani prima del 2005, prima
del loro ritiro. Aveva il permesso di lavoro in Israele e passava regolarmente per il valico di
Erez, ma poi gli venne revocato». Spinto per necessità economica a tradire le confessò:
«Non faccio del male a nessuno, passo qualche numero di telefono, un nome o
un’informazione su un tunnel». Nel 2008 anche Suad diventa una “informatrice”, quando
per la malattia grave di uno dei figli ottiene il permesso di andare in un ospedale
israeliano. Descrive questi anni come un inferno, di paura, rabbia e impotenza. Al marito
11
nel 2011 venne descritta un’auto e la targa: doveva chiamare “un certo numero” quando
l’auto sarebbe passata nella strada principale. Guidare l’eliminazione di due boss locali di
Hamas in quell’auto fu l’inizio della fine, Suad e il marito furono arrestati qualche mese
dopo. «Ci hanno rubato la vita — dice adesso la donna — mio marito è stato costretto,
non avrebbe mai fatto del male a nessuno».
INTERNI
Del 20/10/2014, pag. 1-2
Cittadinanza italiana per bambini stranieri
Bonus alle neomamme
FRANCESCO BEI
La cittadinanza italiana ai figli degli stranieri. Per Renzi «un fatto di civiltà», un vagone di
quel treno dei diritti civili che partirà dopo la sessione di bilancio e la legge elettorale. I
renziani ne parlano fin dai tempi della prima Leopolda e, a grandi linee, il progetto ormai è
definito. Non sarà un’apertura indiscriminata, ma si passerà dallo ius sanguinis ( è
cittadino solo chi nasce da italiani) a uno ius soli temperato: cittadinanza per i bambini che
nascono in Italia da genitori immigrati, a patto però che concludano un ciclo scolastico.
Il disegno di legge del governo arriverà a fine anno, stavolta alla Camera — mentre delle
unioni civili se ne occuperà prima il Senato — e l’obiettivo di Renzi è farlo diventare legge
nel 2015. Che ne abbia parlato in televisione dopo la manifestazione anti-immigrati della
Lega a Milano non è nemmeno un caso. Attaccato da sinistra per il Job’s Act, con le unioni
civili e il “ddl Balotelli” sulla cittadinanza il capo del governo punta a spiazzare i suoi
avversari, senza farsi trovare là dove lo stanno aspettando. Così, per scrollarsi di dosso
l’etichetta di destra che gli stanno cucendo addosso, rilancia su un tema dove aveva fallito
la precedente ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge. «Con Matteo ne abbiamo parlato.
A gennaio — conferma Matteo Orfini, il presidente del Pd — partiamo con i diritti civili e
sblocchiamo anche le cose lasciate a metà, come ad esempio il ddl contro l’omofobia ».
Un cambio di passo per dare l’idea di un esecutivo che non si occupa solo di economia ma
ha una visione a 360 gradi della modernizzazione necessaria al paese.
Il problema semmai si porrà con il nuovo centrodestra, nel momento di fissare i paletti per i
nuovi cittadini. Scartata l’idea di un esame di «italianità» (che forse molti italiani doc non
passerebbero), per il premier l’idea è quella di affidarsi al completamento di un ciclo
scolastico. Scuola dell’obbligo per chi è nato in Italia, oppure la scuola secondaria
superiore per chi è arrivato già adolescente. È, appunto, lo ius soli temperato. E del resto
Dorina Bianchi, Ncd, ha già depositato un testo molto simile alla Camera dopo averne
discusso con Angelino Alfano. Eppure, come sui matrimoni gay, gli alfaniani non intendono
accettare il fatto compiuto. «Non siamo un partito xenofobo come la Lega — precisa
Gaetano Quagliariello, coordinatore Ncd — e siamo d’accordo sul principio dello ius soli
temperato. Il problema con Renzi è definire il grado di... temperatura».
Intanto a Montecitorio sembra destinato per il momento a fermarsi, in attesa del disegno di
legge governativo, il cammino di quella ventina di proposte che i vari partiti hanno
presentato sullo stesso argomento. Marilena Fabbri del Pd e la forzista Annagrazia
12
Calabria, come relatrici, stanno studiando un testo unico da portare in aula, ma la
commissione sarà ancora a lungo intasata dalla riforma del Senato. In più la grande
incognita è l’atteggiamento del grillini, molto divisi al loro interno sul tema immigrazione. La
linea post Circo Massimo sembrerebbe comunque quella dell’ostruzio- nismo su tutto,
cittadinanza compresa. Inoltre proprio sul blog di Grillo, lo scorso anno, arrivò una
bocciatura ufficiale (e non firmata, quindi attribuibile ai due fondatori) della proposta di ius
soli temperato avanzata dall’allora governo Letta. La regola attualmente esistente della
cittadinanza acquisita dopo il compimento della maggiore età, per Grillo e Casaleggio,
avrebbe potuto essere cambiata «solo attraverso un referendum» nel quale si sarebbe
dovuti spiegare bene agli italiani «gli effetti di uno ius soli dalla nascita». Perché «una
decisione che può cambiare nel tempo la geografia del paese non può essere lasciata a
un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente».
Proprio la contrarietà dei leader 5stelle per Renzi costituisce un motivo in più per andare
avanti sulla proposta. Come ha dimostrato lo scontro sul reato di immigrazione
clandestina, i gruppi parlamentari del M5s sui diritti civili sono infatti più aperti del vertice.
Su una materia così incandescente, prevede il capo del governo, non è difficile ipotizzare
altre spaccature interne se Grillo e Casaleggio dovesse imporre la linea dura.
Del 20/10/2014, pag. 1-2
Matteo, Barbara (e un po’ di Silvio)
FILIPPO CECCARELLI
IN PARADISO c on i Santi, nella taverna con i ladri e a “Domenica live” con Barbara
D’Urso. La moltiplicazione dell’immagine di Matteo Renzi sulle reti televisive Mediaset è
pari solo alla sua naturalezza.
ALL’ABILITÀ e comunque all’inconfessabile proponimento con cui egli si è ieri sottoposto
al rito della consacrazione mediatica e spettacolare.
Lei se lo mangia con gli occhioni, flapflap, miao-miao, un misto di meraviglia e di
tenerezza; lui in cravatta e camicia bianca, maniche arrotolate di virile ordinanza, travolge
qualsiasi record di tele-piacioneria predatoria, e insieme mettono in scena fra applausi
scroscianti un duetto di reciproca soddisfazione che un pochetto allarma perché
spontaneo e autentico nell’implicito messaggio e nei suoi immaginabili sviluppi.
Si conclude ovviamente in piena euforia con il giovane premier che, preso ormai il
sopravvento, presenta Nino D’Angelo, esprime le sue preferenze musicali e chiama la
pubblicità. Lei orgogliosa e premurosa. Quindi si alzano e si danno il bacione.
Poi la vita continua, all’imbrunire, e anche l’autunnale domenica dei telespettatori con le
loro malinconie, le loro speranze, le loro allegre, rassegnate o atterrite suggestioni.
Una di queste dice, secondo i più ribaditi canoni renziani, che la sinistra, certa sinistra, ha
“la puzza sotto il naso”. Per cui andare dalla D’Urso, che di nome in realtà è Maria
Carmela, è disdicevole. E invece serve. Ma un’altra più azzardata e complicata
suggestione parte proprio da questi spettacoli e attribuendogli profondità psichica,
addirittura, e abbondanza di contenuti, dice che il Partito della Nazione non solo sta
prendendo il via, ma passa anche per Barbara D’Urso.
“Anche” in quanto il giovane leader sta chiaramente facendo il giro delle tv Mediaset e
l’esultante incoronazione di Carmelina è certo da mettersi in rapporto con l’entusiasmo
manifestato da Porro a “Virus” e con il tripudio di Del Debbio a “Quinta colonna”. Sotto il
dominio delle rappresentazioni, assai più che nelle parole il consenso si costruisce
attraverso i riflettori, le inquadrature, le musiche, gli applausi, le scritte in
13
sovraimpressione, le immagini che si affacciano dai fondali; ma soprattutto la benedizione
definitiva arriva al cuore dei telespettatori dall’atteggiamento di chi dialoga con gli ospiti e
mena la danza dell’intrattenimento sulle varie reti. Ogni visibile fusione emotiva in questo
senso, reca un segnale che al giorno d’oggi sarebbe sbagliato trascurare.
La modifica della Costituzione, l’attacco simbolico all’articolo 18, le polemiche con la
magistratura sulla riforma della giustizia non sembrano avere nulla a che fare con le
sdolcinatezze sollecitate al premier da Barbara D’Urso.
Su quello stesso trono bianco, nel dicembre del 2012, sedeva Berlusconi, con tutti gli onori
del caso, del resto era anche a casa sua. Dopo averlo fatto chiacchierare a suo
piacimento e per l’altrui sfinimento, Carmelina ricordò mamma Rosa e con una
indimenticabile formula — «Mi si è fidanzato? » — gli chiese ingenua conferma dell’amore
per Francesca. Per poi mettere un punto fermo all’apice della gioia: «Che carino! ».
Due anni prima, la sera del compleanno del Cavaliere, gli aveva cantato in diretta “Happy
birthday, Mr President”. Poco dopo, quando Berlusconi si sentì trattato male da Giletti,
trovò ancora il modo di lodare Barbara D’Urso, «che è bella, brava e gentile ».
Ora Renzi sa il fatto suo, conosce le tecniche del marketing e certamente se le gioca
anche sul piano del target e a livello emozionale; ma il fatto che abbia coronato il suo
pellegrinaggio televisivo da lei, pure con selfie sbaciucchione e contorno di bonus alle
mamme e omaggi alle nonne, in qualche modo sanziona che un certo vasto pubblico lo
avverta come il sostituto, il continuatore, il successore, l’erede, il vero figlio evoluto o
reincarnato di Berlusconi. È plausibile che Renzi prosegua, almeno sul piano della
narrazione, a colpi di ego, sorrisi, storielle, diete, metafore calcistiche, gelati, cerchi o gigli
magici, bagni di folla, lanci, rilanci, supporti audiovisivi; è possibile che lasci a tratti anche
trapelare quel fondo birbantesco, per non dire vagamente barbarico che accompagna il
profilo dei più evoluti capi nell’era del tele-populismo. Questo eventuale “Partito della
Nazione” è una faccenda ancora fuori dalle categorie interpretative della politica, ma forse
è proprio tale indeterminatezza a renderlo particolarmente fecondo nella post-politica. Il
nome suona in verità un po’ sudamericano, ma il modello di applicazione vira piuttosto,
almeno a livello dell’immaginario, verso un inedito plebiscitarismo di cui si sarebbe portati
a trovare qualche traccia nel recente Putin televisivo. Il partito del leader, frutto di una
massiccia convergenza al centro, in una repubblica presidenziale fondata su una
democrazia d’investitura. Magari si esagera, ma la versione italiana ha tutta l’aria di
germogliare (anche) da spettacoli come quelli di ieri e da figure come Barbara D’Urso. Ci
si può ridere, ci si può avvilire, come sempre sarebbe meglio capire, o almeno provarci,
possibilmente in serenità.
Del 20/10/2014, pag. 12
Rispunta il conflitto d’interessi ma rischia di
insabbiarsi
LAVINIA RIVARA
ROMA . Rispunta la legge sul conflitto di interessi. In quota alla minoranza di 5Stelle e Sel,
è attesa oggi in aula alla Camera, dopo infinite risse procedurali tra i grillini e il resto del
mondo. Ma il rischio, concretissimo, è che neanche stavolta sarà quella buona e che il
provvedimento, madre di tutte le battaglie del centrosinistra, torni ad inabissarsi. Magari
fino a Natale, se tutto va bene, una volta terminata la sessione di bilancio. Oppure se ne
riparlerà dopo le riforme costituzionali. Il primo ostacolo è il testo che, paradossalmente,
14
pur avendo avuto il via libera i tutti i gruppi (tranne i 5 stelle), sembra figlio di nessuno.
Prende le distanze perfino il suo autore, il relatore e presidente della commissione Affari
Costituzionali, Francesco Paolo Sisto, possibile candidato azzurro per la Consulta. «Ho
unificato le cinque proposte presentate per adempiere alla richiesta della presidenza di
andare in Aula. Ma non è il pensiero di Forza Italia nè tantomeno il mio» ci tiene a
precisare Sisto. In altre parole Fi non ne vorrebbe proprio sapere di modificare la legge
Frattini del 2004. Al massimo qualche ritocco, ha fatto capire in commissione anche Maria
Stella Gelmini. Il Pd invece non può che proporre norme più severe di quelle attuali e
considera «invotabile» la bozza Sisto, per dirla col segretario del gruppo Ettore Rosato.
Quel testo prevede per i membri di governo in conflitto l’assegnazione di patrimoni
superiori a 15 milioni di euro ad una gestione fiduciaria o, in casi non definiti esattamente,
la vendita degli stessi. Viene creata una autorità ad hoc (5 esperti nominati dal presidente
della Repubblica), ma non c’è l’ineleggibilità dei parlamentari. I dem vogliono introdurla,
assicura Francesco Sanna, e nei loro emendamenti propongono anche che
l’incompatibilità per le cariche di governo venga sancita con voto di sfiducia del
Parlamento. Insomma distanze incolmabili e un ostacolo tutto politico: come fa il Pd a
tenere in piedi il patto del Nazareno e al tempo stesso approvare insieme alla sinistra, e
magari ai 5Stelle, una legge che è come un dito in un occhio per Forza Italia? Del resto
quando Enrico Letta, pochi giorni dopo il patto del Nazareno, rilanciò non senza malizia la
legge sul conflitto di interessi, ottenne dal braccio destro di Renzi, Graziano Delrio, una
risposta lapidaria: «Non può chiedere la luna». Rosato sdrammatizza: «Oggi l’ultimo
problema di Berlusconi è il conflitto di interessi. C’è la legge Severino che gli impedisce di
andare al governo. Dunque siamo nelle condizioni migliori per affrontare il nodo. Ma certo
non in 48 ore e comunque per noi vengono prima le riforme istituzionali ». Che sono in
discussione nella stessa commissione. «Siamo nella solita situazione da larghe intese»
incalza Pippo Civati, autore di una delle pdl presentate, assai critico verso il testo Sisto:
«Manca un vero blind trust, sanzioni adeguate e l’incompatibilità post carica. Presenterò i
miei emendamenti ma è chiaro che se tutto viene congelato protesterò anche io, non solo i
5Stelle». I grillini stanno col fucile puntato, vogliono dimostrare che il Pd non vuole fare la
legge: «Questo è già chiarissimo — sostiene Fabiana Dadone, firmataria della pdl stellata
—. Non hanno neanche depositato una proposta del partito, ci sono solo quelle di Civati e
Bressa» . Come andrà a finire? Quasi tutti pensano che Sisto chiederà il rinvio in
commissione della riforma. Ma lo stop potrebbe venire anche dall’avvio imminente della
sessione di bilancio, che blocca ogni legge di spesa. E i grillini sono già pronti a rilanciare
su tutti i social network quel passaggio della sfida tv tra Bersani e Renzi per le primarie,
dove l’attuale premier prometteva una legge sul conflitto di interessi nei primi cento giorni
di governo.
15
Del 20/10/2014, pag. 13
Berlusconi: Fi vince da sola
Ma i sondaggi nelle Regioni annunciano una
débacle
I report arrivati ad Arcore prevedono sconfitta in tutte le nove
amministrazioni chiamate al voto tra autunno e primavera
CARMELO LOPAPA
Sogna di stravincere come un tempo, Forza Italia da “cappotto”, “sola al comando, senza
alleati”. Ma dietro questo Silvio Berlusconi che accarezza la “follia”, come la chiama lui
stesso telefonando ai militanti di Civitanova Marche, si nasconde un altro genere di
cappotto. Quello delle imminenti regionali e del tracollo elettorale del partito.
I sondaggi recapitati ad Arcore la scorsa settimana non solo inchiodano Fi ormai sotto il 15
— addirittura un 14 con trend negativo — ma aprono uno squarcio allarmante sulle due
Regioni in cui si vota tra poche settimane: sconfitta scontata in Emilia Romagna, ma
anche a sorpresa in Calabria. Scenario destinato ad aggravarsi con le regionali di
primavera, per le quali i rilevamenti demoscopici prevedono al momento un 7-0 per il
centrosinistra. Che poi si tradurrebbe in un 9-0 finale, con debacle perfino nelle piazze
degli uscenti Caldoro (in Campania) e Zaia (Veneto). Ecco perché l’ex Cavaliere torna a
farsi vivo con toni da campagna elettorale, parla di opposizione, nel giorno in cui Renzi
spopola nella domenica televisiva nazionalpopolare dal “suo” Canale5 e gli industriali
continuano a plaudire alla legge di stabilità. «Non mi sento come Nerone, ma anche su di
me in questi anni hanno raccontato tante bugie» dice il leader di Forza Italia uscendo dal
Teatro Manzoni di Milano, dove assiste allo spettacolo “Nerone — Duemila anni di
calunnie”. «Comunque, io non sono arrivato a far tagliare le vene a nessuno» scherza
salutando i fan. In mattinata aveva parlato del suo «sogno di vincere con una Forza Italia
da sola, senza alleati, per avere una chiara maggioranza in Parlamento: so che è una
follia, ma sono convinto si possa fare». Riconquistare i delusi, ma non più col suo vecchio
cavallo di battaglia, la tv. Berlusconi prende atto di una rivoluzione copernicana. Gli elettori
sono ormai «raggiungibili solo attraverso un contatto personale diretto » dice ai militanti
marchigiani: «Non li possiamo convincere attraverso la tv, perché non la guardano più».
Sogna improbabili maggioranze assolute, intanto al governo farebbe di tutto per entrarci
fin d’ora. A modo suo. «I dieci senatori Ncd in transito? Io penso ci siano, che Berlusconi li
tenga buoni e abbia lanciato il segnale a Renzi col passaggio di D’Alì — racconta
Gianfranco Rotondi a margine della cerimonia del premio Balena Bianca in Irpinia —.
Come dire: siamo determinanti per la sopravvivenza del governo, accetti il nostro sostegno
o vai al voto?». Il fatto è che anche in Forza Italia hanno messo nel conto che a quel punto
Renzi opterà per le elezioni. Prospettiva densa di incognite per il centrodestra alle prese
con svolte pro-gay e con Renzi tendente al 40. «Dobbiamo recuperare i valori della
destra» urlava sabato a una manifestazione romana Andrea Ronchi, tornato in pista con
“Insieme per l’Italia” e indicando il leader leghista Matteo Salvini come «uno degli interpreti
migliori del centrodestra italiano ». Il solo, guarda caso, in crescita nei sondaggi.
16
Del 20/10/2014, pag. 11
La svolta «nazionalista» della Lega
Cosa c’è dietro la strategia di Salvini
La lotta contro «i nemici degli italiani» tra CasaPound in piazza e la Fiom in fabbrica
MILANO
Salvini, l’ultimo situazionista, non vuole perdere tempo. Dopo il bagno di folla di sabato a
Milano, si è convinto che questo è «il momento». Salvini «l’impolitico», tale lo considerava
parte della Lega prima dell’elezione a segretario, non si cura di chi storce il naso per
l’alleanza con la destra estrema: «Verde-nero, scrivete voi giornalisti. Ma la settimana
prossima voglio portare da Maroni i segretari regionali della Fiom. Sulle crisi aziendali
sono i più preparati. Pensi che bello: potrete scrivere Lega verde-rossa». E Salvini «il
ragazzino», l’altro giorno era seduto con Vladimir Putin, che gli ha regalato un orologio e,
pochi giorni prima, a Mosca l’ha fatto accogliere da una sorta di standing ovation da parte
della Duma. Nel concreto: la Lega farà gruppo unico con il partito Russia unita di Putin al
Consiglio d’Europa. Senza troppo parere, senza dare troppo nell’occhio, Salvini ha
trasformato la Lega in qualcosa che nel dicembre scorso nessuno avrebbe immaginato.
Anche se era già tutto lì, nel suo discorso d’elezione a leader. Addio di fatto al capo
carismatico Umberto Bossi (sempre però pubblicamente omaggiato), addio al padanismo
oltranzista («In questo momento i problemi più gravi sono italiani, non della Lombardia»),
addio all’indipendentismo spinto: «L’indipendenza, dove non c’è più neanche una fabbrica,
non mi serve. Non serve a nessuno». L’idea è che «esistono tre nemici comuni, che sono
legati, e sono nemici dei veneti come dei pugliesi e dei piemontesi come dei lucani. Sono
l’immigrazione clandestina, l’Europa e la crisi economica che dall’Europa è stata indotta.
Nemici di tutti, nemici degli italiani e non solo del Nord. E dunque, nei prossimi mesi
martelleremo su tutti i fronti». Insomma, è svolta «nazionale». Le due visite di Salvini in
Italia meridionale, al di là dei fischi rimediati in più di un’occasione, non erano
estemporanee come avrebbe potuto sembrare: «Il mese prossimo inauguriamo e lanciamo
la Lega sorella, quella che ci affiancherà al Centro e al Sud. Nessuno si illuda che si tratti
di qualcosa fatta tanto per fare: molti scopriranno di aver perso consiglieri comunali,
qualcuno si troverà dei consiglieri regionali in meno, altri perderanno addirittura qualche
parlamentare». Segni di nervosismo, ieri, se ne sono già registrati. Soprattutto da parte dei
Fratelli d’Italia. Che hanno visto i militanti di CasaPound sfilare disciplinati alla
manifestazione leghista e non alla loro di Reggio Calabria. Impensabile temere qualche
fuga di voti a favore degli (ex) nordisti? Riccardo De Corato, già senatore e capogruppo in
Regione Lombardia, sbuffa che «la Lega in piazza ha portato solo simboli di partito e
insulti al tricolore, quando perfino il Front National di Marine Le Pen porta con fierezza il
tricolore francese nella sua bandiera di partito». Pochissima voglia di parlare
dell’argomento ha Giorgia Meloni: «CasaPound? E che c’è di nuovo? Avevano già fatto la
campagna elettorale per Borghezio a Roma. Hanno fatto le loro scelte... Di che
parliamo?». Parliamo di possibili alleanze per le future elezioni? «Noi saremo alleati con
persone coerenti, che fanno scelte coerenti e non soltanto di tattica. Nulla è automatico,
nulla è deciso. Vedremo…». Di sicuro, un’alleanza c’è. Quella tra Lega e Forza Italia per le
elezioni in Emilia-Romagna. E dove il candidato, guarda il caso, è il leghista Alan Fabbri. Il
luogo comune afferma che Salvini e Berlusconi non si prendano più di tanto? «Macché, il
problema non è quello, anzi — dice Salvini — Io ho visto Berlusconi faccia a faccia
soltanto due volte. C’è una grande simpatia umana e ci siamo sempre trovati d’accordo su
tutto. Pensi un po’: anche sull’euro. Però…». Però? «Però il suo partito è un filo anarchico.
17
Lui dice “Fate A” e poi, a volte, il partito fa B». Parla delle indicazioni di voto? «E beh, sì…
anche di quelle». I nemici di Bruxelles fanno sì che Salvini riservi un’attenzione alla
politica estera speciale. Certo: per il militante della base politica estera significa soprattutto
il no all’euro. Eppure, non è soltanto quello: ieri il deputato Paolo Grimoldi ha parlato della
possibilità di formare un eurogruppo con i partiti contrari alle sanzioni alla Russia. La Lega
ne avrebbe ricevuto in cambio la promessa, da parte di «alcuni ministri» di Mosca, di
indirizzare i flussi turistici verso le aree d’Italia che hanno prodotto atti ufficiali contro le
sanzioni: Lombardia e Veneto. Il modello dichiarato resta il Front National di Marine Le
Pen. Con cui mercoledì Salvini sottoscriverà la richiesta di sospendere il trattato di
Schengen. Mentre una nuova nota è apparsa sull’agenda di Salvini: a novembre è stato
invitato al congresso del Front a Lione. Con una soddisfazione, anche rispetto agli alleati
internazionali. La macchina della Lega sabato a Milano ha funzionato alla perfezione: dalla
mobilitazione sede per sede, all’organizzazione dei pullman su base provinciale fino alla
gestione della piazza affidata, come da ormai decenni a questa parte, a Maurizio Bosatra.
Del 20/10/2014, pag. 6
Bruxelles perdona i conti dell’Italia
Pronta una lettera: dateci chiarimenti
ALBERTO D’ARGENIO
La mossa di Bruxelles sulla Legge di Stabilità italiana è attesa tra domani e mercoledì.
Sarà con una lettera, una richiesta di chiarimenti, che la Commissione europea aprirà
formalmente quel negoziato che nelle speranze del governo italiano dovrebbe chiudersi
senza troppi danni. Una missiva che nei canali informali tra Roma e la capitale belga viene
preannunciata non troppo ostile, non ricca di “rilievi”, e quindi nel gergo comunitario
preludio di una bocciatura. Piuttosto una richiesta di precisazioni tecniche sul contenuto
della manovra da 36 miliardi notificata all’esecutivo Ue mercoledì scorso.
Tutto ruota intorno alla decisione del governo di risanare nel 2015 il disavanzo strutturale
(il deficit al netto del ciclo economico e delle una tantum) solo dello 0,1%, con la
conseguenza di rinviare il pareggio di bilancio al 2017 e soprattutto di lasciar ancora
correre la spesa pubblica. Questa scelta, pur restando con il deficit nominale appena sotto
il tetto 3%, porta l’Italia in rotta di collisione con il Fiscal Compact, che appunto prescrive ai
governi di tagliare lo squilibrio tra entrate e uscite. Roma sostiene di essere nel giusto
visto che le stesse regole Ue prevedono la possibilità di uno scostamento temporaneo
dagli obiettivi di bilancio per una serie di circostanze eccezionali: nel caso italiano il terzo
anno di recessione, la deflazione e l’impegno sulle riforme strutturali. Per questo ieri il
ministro Padoan tornava a dire che il governo ritiene «di essere assolutamente in regola,
siamo all’interno delle regole e della flessibilità ammessa dal Patto di stabilità».
Eppure la scelta di Roma è piuttosto hard da digerire per le autorità europee. L’obiettivo
concordato era di un taglio dello 0,7%, mentre il target minimo al quale si devono
comunque impegnare tutte le capitali è dello 0,5%. Per questo nelle telefonate degli ultimi
giorni tra Roma e Bruxelles era emersa la volontà del presidente uscente della
Commissione, Josè Manuel Barroso, di bocciare sonoramente la manovra e di rimandarla
al mittente con la richiesta di una serie di modifiche. Intenzione che lo stesso portoghese
ha comunicato la scorsa settimana a Renzi in una telefonata decisamente burrascosa. Ma
il pressing di Juncker, successore di Barroso dal primo novembre, intenzionato a gestire il
caso italiano in modo più soft, sembra avere avuto effetto. Almeno questa è l’impressione
18
che nelle ultime ore viene condivisa da Palazzo Chigi e dal Tesoro, anche se a dirla tutta i
funzionari Ue non hanno ancora terminato l’esame della manovra. E un ruolo centrale lo
avrebbe giocato anche il commissario agli Affari Economici Katainen, in passato descritto
come un falco ma in queste ore secondo gli sherpa italiani già sintonizzato sulle frequenze
di Juncker, del quale tra una settimana diventerà vicepresidente. Non per nulla ieri Padoan
diceva che «Katainen è una persona simpatica, un finlandese freddo e gentile ».
Dunque il governo si aspetta di ricevere una lettera nella quale la Commissione europea si
limiterà a chiedere il perché della decisione di risanare solo dello 0,1%. A quel punto Renzi
e Padoan si prenderanno qualche giorno per rispondere e nella lettera di ritorno oltre a
elencare i motivi per cui ritengono di essere in regola ricorderanno a Bruxelles di avere già
previsto nel testo della manovra una riserva di 3,4 miliardi per aumentare, se necessario, il
risanamento del prossimo anno, lasciando intendere di essere pronti ad arrivare ad un
taglio del deficit strutturale dello 0,25%. Quindi mettendo sul piatto 2,4 miliardi. Cifra non
casuale visto che il taglio dello 0,25% (anziché lo 0,5) è stato individuato — ma mai reso
pubblico — lo scorso agosto dai funzionari di Bruxelles incaricati da Juncker di
immaginare quella flessibilità sui conti sulla quale su richiesta italiana e francese si era
impegnato davanti al Parlamento europeo. Così il governo spera di allungare i tempi, di
evitare quella bocciatura secca della manovra che, se imposta da Barroso, secondo le
regole europee dovrebbe arrivare entro il 29 ottobre. L’obiettivo è di scavallare la fine del
mese, proseguendo poi il negoziato con Juncker. E il governo è anche pronto a portare la
correzione fino allo 0,35% del deficit strutturale, ultima offerta che Renzi e Padoan sono
pronti a mettere sul piatto, anche se a Palazzo Chigi sperano di non essere costretti a
sborsare tutti i 3,4 miliardi messi da parte nella Legge di Stabilità e di impiegare i soldi per
altre misure di rilancio dell’economia. Se il negoziato andasse a buon fine, l’Italia
eviterebbe una bocciatura della manovra che per quanto non definitiva (sempre ribaltabile
da Juncker) manderebbe un pessimo segnale ai mercati, negli ultimi giorni già abbastanza
irrequieti, e di fatto avrebbe imposto quell’idea di flessibilità reclamata da mesi. Poi si
aprirebbero altre partite, come quella della procedura Ue per squilibri macroeconomici
(sempre legata al debito e alla competitività dell’economia) che tra novembre e dicembre
Roma farà di tutto per evitare e quella più classica che guarda direttamente al deficit e al
debito: un confronto che si consumerà da qui ad aprile e nel quale oltre a pesare una
eventuale bocciatura della manovra, il governo farà valere le riforme per ottenere l’ultimo,
definitivo, via libera europeo alla sua politica economica
19
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 20/10/2014, pag. 3
Centinaia di migliaia i ragazzi nati qui ma
senza passaporto
VLADIMIRO POLCHI
«Viviamo tutti dentro una contraddizione: ci sentiamo italiani, senza averne i documenti ».
Mihai Popescu, 21enne, figlio di romeni, a lungo rappresentante degli studenti medi, oggi
studia Scienze politiche a Roma. Nelle sue parole, il disagio delle seconde generazioni di
immigrati in Italia: ragazzi e ragazze che vivono a cavallo di due identità, mezzi italiani e
mezzi marocchini, o cinesi, o romeni. «Vivo e studio in questo Paese — racconta Mihai —
e in Romania ho solo qualche vecchia zia e dei bisnonni».
Come si diventa oggi italiani? In attesa della riforma più volte annunciata (e impelagata tra
ius soli temperato e ius culturale) la nostra legge sulla cittadinanza resta ferma al ‘92. Per
ottenere il documento italiano ci sono due strade. La prima si chiama “naturalizzazione”:
l’immigrato deve dimostrare una residenza ininterrotta di dieci anni e un reddito minimo. La
seconda è sposare un italiano. Per chi è nato qui da genitori stranieri, le cose non
migliorano, anzi: il richiedente deve aspettare la maggiore età per poter presentare
domanda, quindi dimostrare una residenza senza interruzioni fino ai 18 anni. Infine, ha
solo un anno di tempo (fino al compimento dei 19 anni) per consegnare la domanda. E
così resta alla porta un esercito di “nuovi italiani”. Il numero di minori stranieri in Italia è
infatti in continua crescita. Al primo gennaio 2010 rappresentavano il 22% del totale della
popolazione immigrata residente. Al primo gennaio 2012 sono arrivati al 23,9%.
Quest’anno hanno toccato quota 1.087.016. Dei ragazzi stranieri, quasi il 60% è nato in
Italia, il 21% è entrato prima dei 5 anni e il restante 20% in un’età compresa tra i 6 e i 17
anni. Mediamente la popolazione straniera è più giovane rispetto a quella italiana. Basta
leggere i numeri della Fondazione Leone Moressa: tra gli stranieri l’incidenza dei minori è
del 22,1%, mentre tra gli italiani è solo del 16,2%. Non è tutto. Gli alunni d’origine
immigrata iscritti nelle scuole italiane (anno scolastico 2012/2013) sono sempre di più:
786.630, pari all’8,8% degli alunni totali. Rispetto all’anno 2006-2007, il loro numero è
aumentato di oltre il 56%. Tradotto in numeri assoluti, fa 250mila ragazzi in più.
Quasi la metà (47,2%) degli alunni stranieri è nata in Italia: incidenza che cresce
ulteriormente nella scuola dell’infanzia (79,9%) e primaria (59,4%).
«Una parte di questi ragazzi si sente pienamente italiana — spiega Asher Colombo,
sociologo a Bologna e curatore della collana “Stranieri in Italia” dell’Istituto Cattaneo —
altri vivono una doppia appartenenza. Dipende dal gruppo etnico e da fattori religiosi.
L’Italia deve essere comunque pronta: il nostro è da anni un Paese di immigrazione e non
più di emigrazione, non si può più attendere questa riforma della cittadinanza ».
20
SOCIETA’
Del 20/10/2014, pag. 20
Eterologa, donne in rivolta “Noi over 43
respinte dagli ospedali pubblici”
Ticket solo per le più giovani, tutte le altre pagano fino a 6mila euro “Le Regioni ci
costringono ad andare nei centri privati o all’estero”
MICHELE BOCCI
CATERINA PASOLINI
«Hanno vanificato la sentenza della Corte Costituzionale. Le coppie sono costrette ad
andare nel privato o all’estero per fare l’eterologa». A sei mesi dalla caduta del divieto di
fecondazione con gameti esterni alla coppia il servizio pubblico è praticamente fermo,
come sottolinea l’avvocato Paola Costantini di Cittadinanzattiva. Negli ospedali il
trattamento non è iniziato (salvo un caso a Firenze) e soprattutto quasi ovunque non verrà
fatto alle coppie con donne di più di 43 anni. Secondo le linee guida della Conferenza delle
Regioni quell’età rappresenta il limite alla rimborsabilità della prestazione: sotto si ottiene
con il ticket, sopra si dovrebbe pagare la tariffa piena (3.500-6.000 euro). Si dovrebbe,
perché in molte Regioni in questi giorni viene deciso di non intervenire comunque su chi
ha superato i 43 anni, perché non è il caso che l’ospedale si occupi di prestazioni a
pagamento e si vuole pensare prima alle coppie più giovani alle quali per motivi sanitari è
stato riconosciuto il diritto a fare il trattamento al costo del ticket. La Toscana ha scritto il
principio in una delibera ma la vedono allo stesso modo anche in Emilia Romagna o in
Piemonte, per citare solo alcune Regioni.
Il punto è che secondo gli esperti sono circa il 70% le over 43 che chiedono l’eterologa.
Finiranno tutte dai privati. «La maggior parte delle pazienti saranno escluse dalla sanità
pubblica», commenta Costantini, relatrice dei ricorsi che hanno portato alla sentenza. Ha
raccolto la rabbia, il disorientamento delle migliaia di coppie che avevano sperato, dopo il
9 aprile di poter cercare un figlio con donazioni di gameti a pochi passi da casa in un
ospedale pubblico. Le sue parole trovano conferma a Milano. Persino dal centro di
consulenza genitoriale di Sos infertilità, organizzato con l’appoggio del Comune
consigliano «alle coppie di andare oltreconfine ». I motivi? Innanzitutto il limite di 43 anni:
«Se è sensato dal punto di vista medico nella fecondazione omologa, perché dopo
quell’età c’è poca probabilità che i gameti femminili possano concepire, è assurdo in quella
eterologa con donazione di ovociti », sottolinea Rossella Bertolucci. Finirà che i privati
faranno ottimi affari con pazienti che il servizio pubblico non è in grado di seguire. Un altro
problema riguarda le donazioni: quasi ovunque in Italia non è partita la raccolta di gameti e
comunque al momento è molto difficile trovare persone, soprattutto donne, disposte a
sottoporsi a trattamento ormonale ed intervento per aiutare chi ha problemi di infertilità. E
non è un caso che l’unico trattamento di eterologa eseguito fino ad oggi nel pubblico,
all’ospedale di Careggi di Firenze l’altra settimana, sia avvenuto grazie all’acquisizione di
liquido seminale da una banca estera. Almeno all’inizio le altre Regioni dovranno
percorrere la stessa strada. E c’è un altro problema che riguarda la donazione: i gameti
crioconservati in questi anni per trattamenti di fecondazione omologa non si potrebbero
usare per fare l’eterologa anche se le donne a cui appartengono vogliono donare. Andrea
Borini, presidente della Società italiana di prevenzione della fertilità, fa notare come con le
nuove linee guida tra gli esami che devono essere necessariamente fatti ai donatori ci sia
il tampone vaginale. «Ma non è mai stato previsto in Italia — dice — e non lo è nelle
21
banche dei tessuti straniere, perché è inutile. Ma averlo richiesto rende inutilizzabili i
migliaia di ovociti conservati nelle nostre strutture in questi anni». E ci sono dubbi anche
per l’acquisizione all’estero. La sanità pubblica sta stentando ma le coppie sono
battagliere e qualcuno, forte della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 e
della nuova norma che regola la libera circolazione dei pazienti in Europa, va a farsi curare
all’estero e chiede il rimborso delle spese alla propria Asl. Una coppia romagnola, assistita
dal centro di Lugo Artebios ha vista riconosciuta la sua richiesta di copertura di parte delle
spese sostenute per fare il trattamento in Spagna proprio ad aprile. Ma i ricorsi alle
aziende sanitarie per avere i soldi spesi all’estero si stanno moltiplicando. L’avvocato
Gianni Baldini, un altro dei legali che ha seguito molte cause contro la legge, 40 ne ha
presentati cinque, a Puglia, Lombardia e Veneto.
Del 20/10/2014, pag. 1-25
Se la democrazia bussa in Vaticano
GIANCARLO BOSETTI
È DIFFICILE sottovalutarne la portata. È il messaggio di una chiesa «che cerca» (Enzo
Bianchi), è l’indicazione di un « work in progress » (secondo l’espressione del portavoce in
inglese del Sinodo, Thomas Rosica di Toronto). Questo significa che le affermazioni
contenute nel documento non hanno valore di magistero, non sono ancora dottrina, ma
mostrano di poterlo diventare nel seguito del «lavoro da compiere», cui si riferisce,
sollecitante, Papa Francesco, che ieri ha insistito sulla «sinodalità e la collegialità » della
Chiesa e sulla necessità di non perdere il contatto con «le mutate condizioni della
società». Quello cui assistiamo appare come l’opera in corso di un organismo bimillenario
che mostra, dal vivo e con sofferenza, come i suoi approdi nella prassi e nella dottrina si
sottopongano ai segni dei tempi, accettino esplicitamente di collocarsi nella storia,
esponendosi ai venti del mondo e alle mutazioni cui questo la costringe.
Le dimissioni di Benedetto XVI erano già un atto che faceva irrompere la mondanità e
umanità del pontefice dentro la sacralità del ruolo, in modo anche più dirompente, di
quanto non avesse già fatto la esposizione ai media della decadenza fisica e della malattia
di Giovanni Paolo II. Con il Sinodo ora si è manifestato il carattere mutevole, evolutivo,
aperto al nuovo, in una parola “storico”, della dottrina teologica. È una ricerca, quella della
Chiesa, che si presenta come indirizzata ad un modo “migliore” di interpretare “la fedeltà ai
vangeli”. Come sempre quando viene sfidata la ortodossia dei letteralisti (qui pronti a
sfoderare San Paolo e le sue parole sulle relazioni «contro natura»), in qualunque
religione c’è chi grida al «tradimento», come ieri il cardinale sudafricano Wilfrid Fox
Napier: inammissibile per lui presentare le unioni gay «come se fossero qualche cosa di
positivo». Eppure il tema della “natura” come norma dei rapporti sessuali è stato
cancellato dal documento conclusivo, mentre l’approccio al problema del divorzio non
intacca certo il principio dell’indissolubilità del matrimonio, ma sposta lo sguardo sulla
misericordia di Dio capace di offrire un viatico a chi ha sbagliato. Dopo il Sinodo ce ne
sarà un altro — dice Francesco fiducioso nei lavori in corso — come chi guida un
organismo politico che ha i suoi tempi di reazione, le sue maggioranze e minoranze, le
alleanze e le ostilità interne. I tradizionalisti si erano mossi per tempo con un libromanifesto contro ogni apertura a gay e divorziati. L’avevano sottoscritto cinque cardinali,
Müller, Burke, Caffarra, Brandmüller e De Paolis. E l’arcivescovo di Milano, Scola aveva
preso posizione dalla loro parte. Il fronte dell’opposizione ha cercato l’appoggio di
Benedetto XVI dal suo ritiro, ma il pontefice dimissionario, come ha rivelato ieri Claudio
22
Tito su queste pagine, si è sottratto alla richiesta con determinazione, chiudendo a ogni
possibilità di aprire una divaricazione che avrebbe avuto clamorose conseguenze sul
Sinodo. Le “animate discussioni” e il “movimento degli spiriti”, caro alla concezione
gesuitica della Chiesa di Bergoglio, non si spingerà dunque fino a un duello tra leader.
L’omosessualità esce dalla condizione dottrinaria di “disordine morale”, anche se la nuova
dottrina non è ancora scritta e aspetta di trovare un numero di voti sufficiente per
diventarlo, nel corso del processo deliberativo che prosegue fino al prossimo
appuntamento assembleare, da qui a un anno.
La dottrina e la teologia della Chiesa mostrano di poter cambiare, manifestandosi come un
fatto nel tempo, così come nel diritto la scuola giusnaturalistica un giorno ha lasciato il
passo alla scuola storica. Non è d’altra parte una novità per una entità che ha visto concili,
guidati da imperatori come Costantino o Giustiniano, scrivere il Credo e anatemizzare
eresie. Non sappiamo ancora se sia prematuro spingere il paragone fin là. Certo è un
segno eloquente della svolta, il commento di un cardinale come il filippino Luis Antonio
Tagle, giovane di grande spicco, e finora molto cauto, secondo il quale «è tornato a
soffiare lo spirito del Concilio». LA CHIESA dunque è in questi momenti un organismo
deliberante, come un parlamento con maggioranze semplici e maggioranze qualificate. I
paragrafi cruciali sulla comunione ai divorziati e sull’accoglienza pastorale degli
omosessuali hanno avuto un largo consenso nel Sinodo, ma non sufficiente a raggiungere
i due terzi. Nell’organo collegiale, che fu istituito da Paolo VI per dare seguito
all’esperienza del Concilio Vaticano II, c’è dunque una divisione, una frattura, e si è
manifestata una minoranza conservatrice. Non si parla più dei «doni» e delle «qualità »
che i gay possono offrire alla comunità cristiana, come nella relazione post disceptationem
del cardinale ungherese Erdo, ma bisogna ammettere che la versione più tenue,
dell’accoglienza nella Chiesa «con rispetto e delicatezza» di uomini e donne con tendenze
omosessuali (118 sì contro 62 no) mostra un cambiamento in corso.
Del 20/10/2014, pag. 5
Unioni gay, sì da tre italiani su quattro
Sul matrimonio il consenso è del 35%
Favorevoli alle nozze (24%) o ai diritti (32%) anche molti tra i cattolici
più assidui
Il Sinodo straordinario sulla famiglia convocato da papa Francesco ha mostrato un volto
della Chiesa a cui non eravamo abituati. Una Chiesa pronta ad affrontare e discutere temi
scomodi, come l’ammissione dei divorziati al sacramento dell’eucarestia o l’omosessualità.
A conclusione del Sinodo, aldilà di alcuni aspetti che rimangono controversi, sembrano
lontani i tempi della Chiesa «del no», dei valori «non negoziabili». Queste aperture
appaiono in forte sintonia con le opinioni prevalenti nel nostro Paese, una sintonia
testimoniata dall’impennata di fiducia nella Chiesa dopo l’elezione di Francesco (passata
dal 54% del febbraio 2013 al 76% dei mesi scorsi) e dai risultati del sondaggio odierno.
Vediamoli in dettaglio. La definizione di famiglia nella quale ci si riconosce maggiormente
(53%) è quella di una «qualunque coppia legata da affetto che voglia vivere insieme»; un
italiano su quattro (28%) considera la famiglia solo se è composta da un uomo e una
donna sposati e 18% se è composta da un uomo e una donna anche se non sposati. Tra i
fedeli assidui, cioè tra coloro che partecipano alla messa domenicale regolarmente, quasi
uno su due (46%) ritiene che la famiglia sia composta da uomo e donna sposati ma una
23
importante minoranza (uno su tre) si riconosce nella prima definizione. Su questo tema,
com’era lecito attendersi, le opinioni variano in relazione all’età: tra le persone di oltre 60
anni e i pensionati infatti prevale una concezione più tradizionale della famiglia.
Riguardo alla possibilità di dare la comunione ai divorziati si registra un larghissimo
consenso: nel complesso 84% si dichiara molto (55%) o abbastanza (29%) d’accordo. In
questo caso il favore è nettamente prevalente anche tra i fedeli assidui (83%).
Il Sinodo sulla famiglia nell’ultima settimana ha suscitato un confronto politico e mediatico
più ampio sui diritti delle coppie di fatto rispetto a cui l’Italia appare in una situazione
diversa rispetto a molti altri Paesi. A tale proposito prevale l’idea che su questa spinosa
materia la legislazione italiana sia arretrata. La pensa così il 56% degli intervistati, mentre
il 21% ritiene che la nostra legislazione abbia il giusto approccio al problema non essendo
né troppo avanzata né troppo arretrata e il 14% considera la nostra legislazione fin troppo
permissiva. Tra i fedeli assidui, sebbene prevalga l’idea che la nostra legislazione sia
arretrata (36%), le opinioni sono decisamente più diversificate mentre tra i fedeli che
partecipano saltuariamente alla messa i pareri sono sostanzialmente in linea con la totalità
della popolazione. Da ultimo la questione più spinosa, rappresentata dai diritti delle coppie
omosessuali. Tre intervistati su quattro sono favorevoli al riconoscimento dei loro diritti: il
35% si dichiara favorevole al matrimonio e il 39%, pur essendo contrario al matrimonio, è
favorevole alle unioni civili. Viceversa, il 23% è contrario sia all’uno che alle altre.
L’apertura ai diritti delle coppie gay prevale indistintamente tra tutti i segmenti sociali, sia
pure con accentuazioni diverse. Infatti i giovani fino a 30 anni, gli studenti, gli impiegati e
gli operai, i residenti nelle regioni del centro nord e gli elettori del Movimento 5 Stelle si
esprimono nettamente a favore del matrimonio.
Sul fronte opposto si osserva maggiore contrarietà tra le persone meno giovani, meno
istruite, tra i pensionati, i residenti nelle regioni meridionali tutti con valori compresi tra 33%
e 37%. Gli atteggiamenti di maggiore chiusura si registrano tra gli elettori di Forza Italia
(42%), nonostante il dialogo avviato su questo tema da parte di Silvio Berlusconi che nei
giorni scorsi ha ospitato a cena ad Arcore Vladimir Luxuria, uno dei simboli della lotta per i
diritti degli omosessuali, e soprattutto dalla sua giovane compagna Francesca Pascale che
nei mesi scorsi si è iscritta all’Arcigay e ha fatto scalpore chiedendo scusa per tutti coloro
che dal centrodestra hanno insultato e maltrattato i gay. Nel mondo cattolico gli
atteggiamenti sono abbastanza variegati: tra i fedeli più assidui la maggioranza assoluta
(56%) è a favore del matrimonio (24%) o delle unioni civili (32%), tuttavia con valori meno
elevati rispetto ai fedeli saltuari (75% a favore dei diritti) e ai non praticanti e ai non
credenti (85% a favore). Il Paese sta cambiando, sia pure in modo graduale e non
univoco. E trova conforto nel fatto che un’istituzione come la Chiesa, tradizionalmente
poco incline al cambiamento, stia affrontando di petto alcune questioni delicate, fino a
poco tempo fa considerate dei veri e propri tabù. Tutto ciò rappresenta una sfida per le
nostre istituzioni e il nostro legislatore che, quanto ad innovazione, oggi sembrano
scavalcati dalla chiesa di papa Francesco.
24
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 20/10/2014, pag. 1-18
EDITORIALE
Investiamo nel territorio e non in grandi opere inutili
Come evitare le alluvioni e creare sviluppo
di Ferruccio Sansa
È più urgente investire 10 miliardi nell’autostrada Mestre- Orte oppure spendere un
decimo e mettere in sicurezza la Liguria? È meglio puntare su cemento e asfalto, come
propone il Governo, o salvare il territorio dando impulso al turismo che vale l’11% del pil?
L’acqua si ritira da Genova. Per fortuna. Anche l’indignazione. Purtroppo. Finiremo ancora
una volta per affidarci alla sorte e alle preghiere, che sono più utili delle previsioni meteo.
Eppure è proprio questo il momento per cominciare a lavorare perché non accada più.
Chissà se il premier Renzi ci leggerà. Probabilmente no, e forse è giusto così. Magari,
verrebbe da dire, è troppo impegnato a scrivere tweet ed sms, ma lasciamo da parte le
polemiche. Ha davvero compiti e responsabilità da far tremare i polsi. Però proviamo a far
arrivare qualche dubbio fino a chi ci governa e quindi ha in mano letteralmente la nostra
vita. Il Governo ha recentemente annunciato il lancio di nuove grandi opere come
occasione di modernizzazione e motore dell’economia. Facciamo un esempio: l’autostrada
Mestre-Orte, che costerà oltre dieci miliardi. Un’opera voluta da tutti: dal presidente
Giorgio Napolitano a Pierluigi Bersani, passando per Vito Bonsignore, politico Pdl con
amici a destra e a sinistra, nonché imprenditore impegnato nel progetto. Ecco, prima di
realizzare un’opera tanto discussa non sarebbe il caso di investire un ventesimo delle
risorse per salvare l’intera Liguria intrisa di acqua e di cemento? La domanda è secca: è
più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi
due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le
priorità, guardare al futuro. Ancora: il decreto Sblocca Italia (come ha spiegato Tomaso
Montanari anche nel libro Rottama Italia scaricabile dal sito altraeconomia.it) introduce
novità insidiosissime per il nostro ambiente. Non vogliamo negare - anche se abbiamo
molti dubbi - che lo spirito sia quello di dare un impulso all’economia. Non ci interessa
affermare che si vogliano favorire le lobbies del cemento e dell’asfalto. Ma di fatto il
risultato rischia di essere devastante: in nome di un malinteso criterio di speditezza nella
sostanza si eliminano i controlli, si riduce a semplice simulacro il ruolo di amministrazioni
locali e Soprintendenze. Così, al di là di tante belle e facili parole, si preparano le alluvioni
di domani. Non basta: se non vogliamo recuperare il territorio per salvare delle persone e
vivere meglio, facciamolo perché ci conviene. Bonificare e recuperare le zone a rischio
sarebbe occasione di lavoro per migliaia di imprese. Di più. Il paesaggio è la materia prima
della nostra più grande industria: il turismo, che vale l’11% del pil e tre milioni di posti di
lavoro (e potrebbero essere molti di più, perché oggi siamo quinti nella classifica del
turismo, con trenta milioni di presenze meno della Francia). Evitare le alluvioni, vivere
meglio e dare insieme impulso all' economia si può.
25
INFORMAZIONE
Del 20/10/2014, pag. 1-10
Sfida di Sky a Mediaset pronti canali gratis e
in chiaro Berlusconi in trincea “Anche Renzi
ci difenda”
CLAUDIO TITO
La pax televisiva sta per saltare. In questi anni la tregua era stata prima firmata da Rai e
Mediaset. Poi con gli anni si è aggiunta Sky. Ma nel 2015 tutto cambierà. Anzi, tutto sarà
rivoluzionato. Anche con il possibile “trasferimento” in “chiaro” dell’emittente, ora a
pagamento, di Murdoch.
Gli uomini del magnate australiano, infatti, hanno iniziato a valutare rischi e opportunità di
una trasformazione completa di Sky Italia. Non una decisione per il momento ma
un’opzione concreta. Che nella sostanza prevederebbe una graduale “gratuità” per una
parte dei suoi canali. Seguendo di fatto le orme di Cielo e aumentando probabilmente la
presenza anche sul digitale terrestre.
Il quartier generale della pay-tv di certo vuole lanciare il guanto di sfida all’ex amico Silvio
Berlusconi. Contemplando anche l’idea di competere sul suo stesso terreno. Contendendo
spazi, audience e quote pubblicitarie. E quindi riaprendo una battaglia che sembrava
ormai finita. La guerra è tra Murdoch e Berlusconi, ma inevitabilmente coinvolgerà anche
la Rai. Certo, si tratta ancora di un’ipotesi e non ancora di una scelta. Eppure, le
valutazioni della principale pay-tv italiana non sarebbero un fulmine a ciel sereno. Il
mercato televisivo sta diventando sempre più complicato. La sua saturazione
«tecnologica» è per tutti un dato di fatto. Aggravato negli ultimi anni dalla crisi economica
e dalla flessione senza precedenti della raccolta pubblicitaria.
Tutti i soggetti in competizione sono quindi alla ricerca di nuovi orizzonti. Anche perchè per
il prossimo anno tutti dovranno fare i conti con un nuovo «competitor», Netflix. Il campione
della tv su internet è già sbarcato in Germania e in Francia. E ora si prepara a «invadere»
anche il nostro Paese. Con un’offerta sconfinata sui film e con canone piuttosto basso.
Ecco, la società americana con la sua possibilità di fare vedere i programmi su tv o tablet
sta diventando il vero incubo della tv «tradizionale». Anzi, molti lo considerano il
grimaldello per far saltare l’attuale assetto televisivo e trasformarlo in toto. Con nuovi
soggetti e nuovi protagonisti. Senza contare che i risultati economici di Mediaset, Rai e
Sky negli ultimi anni sono stati pesantemente condizionati dalla crisi economica. Il Gruppo
dell’ex Cavaliere, ad esempio, soffre ormai da tempo di una strutturale problematicità.
L’ultimo bilancio è stato chiuso con un netto calo dei ricavi e ancora una volta non è stato
distribuito il dividendo. La pubblicità non da segni di risveglio e l’ultimo dato certificato,
quello del 2013, ha registrato una contrazione di oltre 230 milioni rispetto all’anno
precedente. E le previsioni per il 2014 certo non sono ottimistiche.
Non a caso negli ultimi mesi proprio Berlusconi ha ricominciato ad occuparsi del suo core
business a tempo pieno. «La politica — ripete a tutti — in questo momento è la cosa meno
importante. Almeno per quanto riguarda Forza Italia. Io devo pensare ad altro». E l’»altro»
è appunto il futuro delle sue aziende. Dal punto di vista della «successione
imprenditoriale» ma anche degli obiettivi strategici. «Non siamo messi bene — si è
lasciato andare qualche giorno fa Fedele Confalonieri con un ex parlamentare di
26
centrodestra nella saletta vip di un aeroporto — i conti continuano a peggiorare. Dobbiamo
inventarci qualcosa, proprio come fece Silvio negli anni `80».
L’ex Cavaliere dunque sembra preso proprio dalla battaglia che si preannuncia con Sky.
«Dobbiamo prepararci», è il suo refrain. E questo impegno, in realtà, ha anche un riflesso
indiretto sulla politica. L’intero vertice del suo gruppo, dalla figlia Marina a Confalonieri a
Doris, gli ripete che in questa fase la tattica migliore consiste nel «rimanere attaccati al
governo Renzi». L’ex Cavaliere è ormai convinto che non è più nelle sue forze aprire
contemporaneamente due fronti bellici: con lo Squalo australiano e con il presidente del
consiglio. «L’esito — ripete ai suoi fedelissimi — sarebbe disastroso». E in più è convinto
che finchè Forza Italia non aprirà le ostilità contro l’esecutivo «almeno Palazzo Chigi non
farà leggi contro di noi. Da Renzi non mi aspetto aiuti ma nemmeno svantaggi ». Spera
quindi in una sorta di imparzialità. E anche nell’uso della cosiddetta Golden power, la ex
golden share. Per bloccare eventuali scalate ostili da parte di soggetti esterni all’Unione
europea. Sebbene l’uso della golden power per le tv non sembra assolutamente
praticabile: non rientra proprio nel novero dei casi in cui è utilizzabile questo strumento.
Ma le sofferenze riguardano anche Sky e Rai. I tagli al «superfluo» cui sono state
obbligate molte famiglie italiane si sono fatti sentire. La rete a pagamento ad esempio ha
visto un decremento di quasi 200 mila abbonati negli ultimi due anni.
L’ultimo bilancio si è chiuso con un meno 2,2 miliardi nei ricavi e un rosso di 8 milioni.
Anche la tv pubblica ha visto flettere gli incassi pubblicitari senza una adeguata
compensazione del canone e della lotta alla sua evasione. Il guanto di sfida, però, l’ha
lanciato per primo il gruppo dell’ex Cavaliere. L’atto che ha dato il via alla nuova guerra
dell’etere è stata l’assegnazione dei diritti tv del calcio. In particolare per la Champions
league nel triennio 2015-2018. Una riserva di caccia da sempre nel carnet di Sky e che
appunto dal prossimo anno passerà ai canali berlusconiani. L’emittente di Murdoch, allora,
non intende rimanere a guardare. Il «passaggio» in chiaro, anche se la scelta non è
ancora definitiva, è la prima opzione. Proprio per sfidare il Cavaliere nel suo «territorio
storico». Contendergli lo share e soprattutto la raccolta pubblicitaria. Negli studi fatti nel
quartier generale è previsto un graduale e progressivo «trasloco» a cominciare dai canali
all news. Lo scontro dunque è aperto. Sebbene siano previste delle subordinate. Che
riguardano il destino di un’altra pay-tv: la berlusconiana Premium. Che vive una fase di
incertezza ancora più pesante rispetto alle «sorelle » in chiaro. Non è riuscita a sfondare il
muro della concorrenza di Sky in modo significativo. Basti pensare che i canali Sky
coprono una quota di questo mercato pari al 77,8% e Mediaset arriva al 19,1%. Le
strategie della tv di Murdoch, quindi, potrebbero ad esempio cambiare se da parte di
Berlusconi ci fosse un passo indietro proprio su Premium. Lasciandogli il monopolio di
fatto delle reti a pagamento. Ma anche la Rai sta mettendo in moto delle contromisure. La
possibile riorganizzazione, infatti, dovrebbe proprio rispondere all’esigenza di affrontare le
nuove sfide di un mercato in completa evoluzione. E soprattutto dovrebbe mettere in
campo una nuova strategia per combattere l’evasione del canone.
La guerra delle tv, dunque, è solo l’inizio. Ma il 2015 sarà l’anno delle prime battaglie.
27
CULTURA E SCUOLA
Del 20/10/2014, pag. 33
Concerti, opere liriche, documentari
Al cinema non si vedono più solo i film
Incassi record per lo show degli One Direction. La Prima della Scala in testa al box office
Si può andare al cinema ma non per vedere un film? Sì, e piace sempre di più. Musica dal
vivo (da Vasco ai Queen a Bruce Springsteen), lirica (dalla Royal House di Londra al Met
di New York, alla Scala) e balletto (Bolshoi di Mosca), teatro (i successi del National
Theatre di Londra), documentari (da Leonardo a Pompei) e, new entry, serie tv
(«Gomorra»), chiamati tecnicamente «contenuti complementari», non sono più una novità
ma la nuova tendenza sul grande schermo.
Grazie all’altissima qualità cinematografica e alla diretta via satellite, i «complementari»
hanno generato un incremento di pubblico che oscilla tra il 60% e il 90%, rivelandosi un
prodotto vincente con cui convincere una platea sempre più differenziata ed esigente ad
andare al cinema, e su cui puntare per invertire la direzione di un trend al ribasso. Lo
conferma il trionfo da record stabilito dal film-concerto degli One Direction proiettato nello
scorso weekend. Where we are è stato l’«evento al cinema» più visto di sempre in Italia:
120 mila spettatori, 288 sale coinvolte, un box office di 1.350.000 euro.
Nel periodo ottobre 2013 – ottobre 2014, la società di produzione e distribuzione di
complementari Nexo Digital ha messo a segno un brillante +62% di pubblico. Eccellenti
anche i risultati registrati da QMI Quantum Marketing Italia (specializzata nell’ideazione e
sviluppo di attività di comunicazione nell’ambito dell’intrattenimento), il cui pubblico, nel
biennio 2011-2013, è triplicato passando da 319 mila a 963 mila presenze (incassi 2,8 mln
– 7,2 mln, dato Cinetel). Per Microcinema (network europeo di sale digitali via satellite) i
dati degli incassi al box office del 2013, rispetto al 2012, hanno totalizzato un aumento
dell’86% — solo i tre film live su Doors, Rolling Stones e Queen hanno incassato oltre un
milione di euro — mentre l’affluenza del pubblico è cresciuta di un vertiginoso +93%.
«La Prima della Scala — sottolinea Roberto Bassano, presidente di Microcinema —, il
nostro fiore all’occhiello, fa concorrenza ai grandi blockbuster: nel 2013, La Traviata con
un solo spettacolo, ha scalato il vertice del botteghino». Una valutazione corretta
dell’andamento del 2014 si potrà fare solo dopo il tradizionale appuntamento del 7
dicembre; ma, chiosa Bassano, «quest’anno il contenuto complementare da noi proposto
potrebbe superare i 250 mila spettatori. Sfiorando, come box office, 3 milioni di euro».
Live, lirica, teatro, balletto sono spesso programmati nei giorni feriali, quando l’affluenza
nelle sale è più ridotta. «Una scelta strategica — spiega Bassano — che da un lato
permette al pubblico di continuare a frequentare con interesse crescente e soddisfazione i
cinema; dall’altro, grazie al digitale, di concedere una boccata di ossigeno agli esercenti».
Attingere a un catalogo che dalla tradizionale programmazione cinematografica si apra
sempre più a una gamma di contenuti destinati ad ampliare e rafforzare le potenzialità
della sala, intesa anche come centro di intrattenimento e di aggregazione, è la sfida da
vincere. «Gli over 30 — osserva Giovanni Cova, presidente di QMI — spesso scelgono il
film in base al cinema che li garantisce nel complesso dei contenuti offerti; gli under 30
preferiscono invece, in linea di massima, i multiplex. Che, con l’offerta di film commerciali,
si trasformano anche in luogo di incontro tra amici».
28
E se tra le novità pop in arrivo c’è attesa per il film sugli Spandau Ballet (domani e dopo
nelle sale), e per il concerto dei Modà a San Siro (11 e 12 novembre), anche il palinsesto
cinematografico dedicato all’arte ha in serbo delle vere chicche.
«Nella nuova stagione ci presentiamo con una serie di tour dei più grandi musei e delle più
importanti mostre d’arte del mondo — anticipa Franco Di Sarro, ad di Nexo Digital —. Con
la “visita” all’Hermitage di San Pietroburgo, il 14 ottobre scorso, abbiamo conquistato il
podio del box office (15 mila spettatori, 150 mila euro di incasso) superando The Equalizer
, l’action thriller con Denzel Washington. Un successo che speriamo di replicare il 4
novembre con il tour guidato dei Musei Vaticani e della Cappella Sistina, prodotto da Sky
3D e Sky Arte HD».
Laura Zangarini
AFFARI e FINANZA
Del 20/10/2014, pag. 28
“La musica è una grande industria e l’Europa
deve tutelarla sul web”
PARLA FILIPPO SUGAR, IL VICEPRESIDENTE SIAE: “LA CREATIVITÀ È IL TERZO
SETTORE ECONOMICO DELL’UE DOPO EDILIZIA E FOOD. CREA RICCHEZZA MA
SEMPRE PIÙ A VANTAGGIO DELLE LE GRANDI INTERNET COMPANY. ECCO
COME RIEQUILIBRARE LE COSE”
Stefano Carli
«Il mercato della musica continua a ridursi. Nel primo semestre di quest’anno sono ancora
scese le vendite fisiche di musica, ma è sceso anche il download, iTunes, per intenderci.
L’unico segmento di mercato che sale è quello delle subscription, gli abbonamenti tipo
Spotify o Deezer. Le proporzioni sono preoccupanti: si può dire che gli abbonamenti
stanno cannibalizzando il download. Ma questo aumento di abbonamenti non compensa il
calo dei ricavi dagli altri canali e il mercato si sta impoverendo». Filippo Sugar, presidente
e ad di Sugar Music Group e vicepresidente della Siae è pessimista. «Manca una visione
strategica europea su questo settore. L’Europa e l’Italia devono rilanciare la loro industria
creativa, creare le condizione per un nuovo rinascimento culturale».
Perché dice che è un problema europeo?
«Perché c’è un dato di fatto evidente- seppure spesso ignorato e trascurato». Quale?
«Che l’industria della creatività, in cui non c’è ovviamente solo la musica, ma di cui la
musica è un segmento rilevante, vale in Europa 638 miliardi di euro, ossia il 7,5% del pil
europeo. E dà lavoro a quasi 10 milioni di persone. E’ il terzo comparto economico
dell’Unione dopo le costruzioni ed il food, e molto prima dell’auto. Ecco perché mi pare
evidente come sia una priorità per l’Europa trovare una forma di tutela di questa
industria».
Perseguendo quali obiettivi?
«Non possiamo rincorrere il modello Silicon Valley. In Europa non abbiamo un grande
motore di ricerca, non abbiamo più nemmeno produttori di smartphone. Ma abbiamo una
grande industria di produzione di contenuti e dobbiamo tutelarla. Mettendo a frutto le
opportunità che le grandi Internet company ci danno senza rinunciare all’adeguata
remunerazione. Se le risorse che la nostra industria produce vengono assorbite da società
che non danno lavoro in Europa e non pagano tasse in Europa, a perderci saranno tutti i
cittadini europei e la nostra industria non avrà più risorse da investire. Nel nostro settore,
29
la musica, ciò vuol dire anche non avere più la forza di fare scouting di nuovi talenti, di
scoprirli e di farli crescere».
Avete già delle proposte o siamo ancora alla sola presa di consapevolezza?
«La consapevolezza di essere un settore è già un passaggio fondamentale, un passo
importante sarà il recepimento della direttiva Ue che entrerà in vigore ad aprile 2016: un
grande passo avanti che fissa i nuovi criteri di trasparenza e di governance delle collecting
society come la Siae in Italia, la Sacem in Francia e le altre omologhe in Germania,
Olanda, Spagna. La direttiva spinge le grandi società di diritto d’autore verso aggregazioni
ed alleanze internazionali per rendere più efficiente da un lato la raccolta dei diritti,
dall’altro facilitare gli utilizzatori».
Cosa succederà? Si contrasterà la situazione attuale in cui c’è una specie di
monopolio su ogni mercato nazionale, come con la Siae in Italia?
«Non è un monopolio vero e proprio. O meglio, lo è di fatto ma solo perché è più efficace
che ci sia una sola società a raccogliere i diritti perché così sia chi li deve pagare, sia che li
deve riscuotere, gli artisti, ha un solo interlocutore e ciò fa risparmiare tempi e costi. E’
così ovunque, anche in Francia, in Germania, in Olanda. La Siae è impegnata a rinnovarsi
e a vincere la sfida per rimanere la casa dei creativi italiani anche nel futuro. Chi sostiene
la parcellizzazione di società di collecting con scopo di lucro nei singoli paesi non fa certo
l’interesse degli autori italiani».
E poi?
«Poi c’è un obiettivo già raggiunto, l’aumento delle tariffe sulla cosiddetta “copia privata».
Che vi ha attirato addosso molte polemiche in estate, quando è stata varata.
«Sì, ma resto convinto che sia un’ottima soluzione: se acquisto un cd oppure un file
musicale dal mio pc devo poterlo copiare sul mio smartphone, sul mio tablet e poi ancora
sul mio prossimo smartphone. Come consumatore voglio questa libertà. Tuttavia è giusto
che questo diritto di copia venga ricompensato. I produttori di hardware versano un
compenso forfettario in base a tariffe, e queste tariffe sono state adeguate a giugno. La
copia privata è uno strumento di riequilibrio tra i produttori di contenuti e l’industria della
tecnologia. Aggiungo poi un problema: vige un totale disequilibrio tra il valore che portano i
contenuti e quanto piattaforme come Google e TouTube riconoscono agli stessi. La
“benzina” di queste piattaforme sono i contenuti».
Ma non paga certo Google, pagano i produttori di terminali. E forse, alla fine, gli
utenti stessi.
«No, questo no. L’aumento è scattato a luglio e i primi dati aggregati per capire la
consistenza dei flussi per la Siae li avremo da gennaio ma già ora vediamo che non ha
inciso sui prezzi dell’hardware. Gli I-Phone francesi pagano un diritto di copia privata più
alto che in Italia ma in Francia gli I-Phone costano meno che da noi».
Basterà a ridare ossigeno al mercato musicale, anche in Italia?
«Certamente è un passo importante. Vede, spesso un’industria regredisce perché il
prodotto che crea non interessa più. Ma nel caso di quella musicale, la situazione è
opposta. Non c’è mai stato nella storia un appetito e un consumo di musica come quello
odierno».
Ma allora qual è il problema di promuovere e lanciare nuovi talenti?
«La mancanza di risorse dovute ad un mercato troppo piccolo non solo riduce la nostra
capacità di investire rispetto al passato, ma ha molte conseguenze anche su altri aspetti
del nostro lavoro. Per esempio, oggi c’è una grande differenza nella classifica dei dischi
più venduti. La classifica tradizionale del prodotto fisico è ancora fortemente caratterizzata
da artisti italiani. Quella dei servizi digitali ne vede invece una presenza molto minore.
Credo che il processo di localizzazione di molti servizi di distribuzione digitale in Italia sia
ancora agli inizi. Questo comporta maggiori difficoltà per promuovere artisti locali. Se sui
30
media tradizionali troviamo sempre attenzione per il prodotto italiano, sui media digitali che
spesso hanno una presenza in Italia ancora embrionale si fa più fatica. Quindi la chiave è
sempre quella di far crescere il nostro mercato, in modo che aumentino le opportunità per i
nostri talenti e si creino adeguati ritorni affinché si possa aumentare gli investimenti
dell’industria musicale».
31