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una lettera di liebman sull`universita` fatta per i docenti e la
UNA LETTERA DI LIEBMAN
SULL’UNIVERSITA’ FATTA PER I DOCENTI
E LA RELAZIONE DI CALAMANDREI
SUL PROCESSO COSTRUITO PER I GIUDICI*
UMA CARTA DE LIEBMAN SOBRE A
UNIVERSIDADE FEITA PARA OS
DOCENTES E O RELATÓRIO DE
CALAMANDREI SOBRE O PROCESSO
CONSTRUÍDO PARA OS JUÍZES
Franco Cipriani**
RIASSUNTO
A partire da una lettera di Liebman riguardo il ruolo delle università e
docenti, il presente testo realizza un parallelo con il sistema processuale e discute il ruolo svolto dalle parti e giudici. Analizza, ancora, la
tendenza di strutturazione del processo partendo dalla centralità della
magistratura.
Parole chiavi: Lettera; Liebman; Parti; Giudici.
RESUMO
o presente texto, a partir de uma carta de Liebman acerca do papel das
universidade e docentes realiza um paralelo com o sistema processual e
discute o papel que é desenvolvido pelas parte e juizes. Analisa, ainda, a
tendência de estruturação do processo partindo-se da centralidade e protagismo da magistratura.
Palavras-chave: Carta; Liebman; Partes; Juiz.
*
**
Texto com autorização de publicação no Brasil ofertada ao Prof. Dr. Dierle Nunes.
Professor Doutor Titular de Direito Processual Civil da Università “Aldo Moro” di Bari. Correspondência para / Correspondence to: Via Andrea da Bari, 70121 BARI, Itália.
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1. Qualche giorno fa, rovistando tra vecchie carte conservate in un cassetto,
mi sono ritrovato tra le mani un piccolo ritaglio di giornale, sul quale, contrariamente a quanto son solito fare, non avevo annotato la data. Si trattava di una
lettera al Corriere della sera, che avevo conservato perché era stata scritta da un
professore dell’Università degli studi di Milano (così diceva il giornale subito dopo
la firma), Enrico Tullio Liebman.
Alla lettera, che nella rubrica era pubblicata per prima e, quindi, nella massima evidenza, il Corriere aveva dato questo titolo: Due scomode verità. Questo il
testo della breve lettera del grande e indimenticabile Maestro milanese:
In occasione ed a proposito dei provvedimenti per l’università e delle
reazioni che li hanno accolti, è forse opportuno ricordare due cose: la
prima, che l’università ha la funzione di impartire l’insegnamento e di
coltivare la ricerca scientifica; la seconda, che i docenti esistono per l’università e non viceversa.
La riforma è ispirata a queste un poco scomode verità?
Enrico Tullio Liebman
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Non avendo annotato la data, non saprei dire a quando, con precisione, risalga la lettera di Liebman, ma mi pare probabile che risalga agli anni Settanta del
secolo scorso, quando si ebbero non poche proposte di riforma dell’università. La
data, però, aggiungerebbe molto poco alla lettera e perciò non mi pare importante, per la semplice ragione che l’osservazione di Liebman è valida in ogni tempo,
anche oggi.
Non credo infatti possa dubitarsi che le università debbano essere istituite
per impartire l’insegnamento e coltivare la ricerca scientifica, non certo per favorire i docenti o, peggio ancora, per creare posti di ruolo per i docenti, ordinari o
associati che siano. Certo, se non ci sono esperti in grado di insegnare, non si può
istituire una università, ma le università si istituiscono perché ci sono giovani che
devono studiare e imparare, non certo sol perché ci sono professori che vogliono
insegnare. Quindi, dal momento che la prima ragion d’essere dell’università è,
appunto, l’insegnamento; e dal momento che l’insegnamento si impartisce agli
studenti, è evidente che, se non ci fossero gli studenti, non ci sarebbero le università, in quanto la ricerca scientifica potrebbe benissimo essere coltivata in laboratori del tutto inibiti ai giovani. Di qui, per il legislatore, il dovere di disciplinare
l’università preoccupandosi innanzi tutto degli studenti, non certo dei docenti,
che sono sì importanti, ma pur sempre in funzione degli studenti.
2. Stavo appunto riflettendo su quella lettera di Liebman, tanto breve,
quanto saggia, quando mi son ritrovato a dirmi che il discorso di Liebman non è
molto diverso da quello che son solito fare io a proposito dei rapporti che, secondo la Relazione al re sul c.p.c., i giudici e le parti avrebbero col processo.
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Come è ormai noto, la Relazione al re sul nostro c.p.c., pur portando la firma
del guardasigilli Dino Grandi, fu scritta da Piero Calamandrei, il quale, nello
spiegare in nome e per conto del guardasigilli la logica del nuovo codice, pensò
bene di dire nel § 19 che, mentre
il cessato Codice si prospettava i problemi dal punto di vista del litigante
che chiede giustizia, il nuovo se li propone dal punto di vista del giudice
che deve amministrarla: mentre il vecchio Codice considerava l’azione
come un prius della giurisdizione, il nuovo codice, capovolgendo i termini del binomio, concepisce l’attività della parte in funzione del potere del
giudice.
Il ragionamento, ennesima buona prova della eccezionale abilità di Calamandrei nel trovare gli argomenti più efficaci e le parole più persuasive per giustificare e nobilitare tutto quello che gli stava a cuore, mi è sempre sembrato tanto significativo quanto grave, perché il processo civile, come Calamandrei non poteva
non sapere e non capire, si fa per le parti, più precisamente per risolvere la lite
insorta tra le parti, non certo per il giudice, sì che è per un verso un controsenso
disciplinarlo prospettandosi i vari problemi dal punto di vista del giudice, e per
l’altro inevitabile riconoscere che Calamandrei, nello sforzarsi di spiegare nel modo
più suadente la logica “pubblicistica” del nuovo codice, finì col minimizzarne ed
edulcorarne oltre misura il significato, anche se devo pur dire che quel “capovolgendo i termini del binomio” mi sembra talmente eccessivo da suonare vagamente canzonatorio, in quanto, nell’esaltare l’importanza di quello che si era fatto (o
preteso di fare…), ne lascia sottilmente cogliere anche l’intrinseca assurdità. Di
qui il commento, tra l’amaro e l’ironico, che son solito fare io e che, a rifletterci,
riecheggia un po’, mutatis mutandis, quello di Liebman a proposito dell’università e dei docenti: “è come se gli ospedali, anziché essere costruiti in funzione degli
ammalati, fossero costruiti per i medici”1.
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Il paragone, a parer mio, è efficace. Posso assicurare che, quando lo faccio a
lezione o nel corso di una relazione o di una conferenza, c’è sempre qualcuno che,
in segno di approvazione, sorride. Ne deduco che quel mio parallelo rende bene
l’idea, in quanto, almeno in Italia, tutti capiscono che gli ospedali vanno costruiti in funzione degli ammalati e non dei medici. Il che ovviamente non significa
che medici e giudici non siano essenziali, né tanto meno che le terapie debbano
essere prescritte dagli ammalati o che le sentenze debbano essere pronunciate
dagli avvocati, bensì che, come nel costruire gli ospedali ci si deve preoccupare in
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In Riv. dir.proc., 2008, p. 1589 ss., e negli Studi in onore di Giovanni Giacobbe. Così nel mio saggio
su Il processo civile italiano tra efficienza e garanzie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 1244, che è la
relazione da me tenuta al II Congresso internazionale di diritto processuale svoltosi nel 2002
nell’Università di Lima. Il paragone è stato da me più volte ribadito: v. da ultimo il mio Riflessioni
sul codice di procedura civile, in Giusto proc. civ., 2007, p. 649.
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primis et ante omnia degli ammalati e delle loro esigenze, così nel disciplinare il
processo ci si deve preoccupare innanzi tutto di rispondere nel migliore dei modi
(e in tempo ragionevole…) alla domanda di giustizia delle parti.
3. L’amarezza e l’ironia di quel mio paragone non sono state apprezzate da
un giovane studioso spagnolo, il Picó i Junoy, il quale, per assicurare il rispetto
dell’art. 24 della Costituzione spagnola, che garantisce a tutti i cittadini “il diritto
ad una tutela giurisdizionale effettiva delle loro posizioni giuridiche sostanziali”,
si batte per incrementare i poteri istruttori del giudice e trova del tutto ingiustificata la posizione di quanti tendono “ad escludere nel processo qualsiasi tipo di
iniziativa di direzione materiale del giudice”2.
Tra costoro, egli, chissà perché, annovera anche me, menzionandomi cortesemente per primo, quasi ch’io fossi il capo o il più autorevole di quanti si battono per impedire al giudice di prendere “iniziative di direzione materiale” e quasi
non fosse vero che io, nella mia ormai ventennale battaglia “antipubblicistica”
(ma, in realtà, garantistica e antiautoritaria, non certo “privatistica” del processo
civile), non mi sono mai battuto (perché in Italia non c’era alcun bisogno di farlo)
per limitare i poteri istruttori del giudice, ma mi sono sempre occupato di tutt’altri e ben più concreti problemi (italiani)3.
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Infatti, quando ha tentato di riportare il mio pensiero, il Picó non ha potuto
che segnalare la “grande carica ideologica” che sussisterebbe nella “premessa
storica” con la quale ho ricordato che nel 1940 il nostro codice “fu presentato
come il codice fascista per eccellenza”: che non è una mia ideologia, ma la pura
verità, sulla quale, forse, anziché fare dell’ironia, sarebbe opportuno riflettere. Indi,
sempre per rendere il mio pensiero, ha citato due mie frasi che non hanno alcunché a che vedere coi poteri di iniziativa materiale del giudice4 e ha poi concluso il
2
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Così PICÓ I JUNOY, Il diritto processuale tra garantismo ed efficacia: un dibattito mal impostato, in
Studi in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano, 2005, p. 215, che è la relazione al III Congresso internazionale di diritto processuale civile tenutosi nel 2003 all’Università di Lima (v. Derecho procesal civil. Congreso Internacional, Lima, 2003, p. 55 s.).
L’ho già rilevato nel mio saggio su L’autoritarismo processuale e le prove documentali, in Giusto
proc. civ., 2007, p. 289 ss., spec. 292 s.
La prima frase è questa: “quando si tolgono diritti alle parti e si danno poteri discrezionali al
giudice, ossia quando si cerca di ottenere l’efficienza a scapito delle garanzie, non si risolve alcun
problema e si fa solo dell’autoritarismo, tanto inutile, quanto controproducente”. La seconda è
questa: “poiché è non poco diffusa l’idea che, se si vuole un processo efficiente, bisogna essere
disposti a rinunciare alle garanzie o, almeno, a qualche garanzia, mi pare opportuno avvertire che
il processo civile italiano è afflitto da una sorta di schizofrenia, nel senso che per un verso vi sono
previste garanzie tanto dispendiose quanto superflue, e per l’altro vi mancano garanzie importantissime e assai poco costose”. Le due riflessioni (riprese dal mio Il processo civile, cit., pp. 1250
e 1254) non hanno avuto alcuna smentita, meno che mai la seconda, che si riferiva al processo
italiano ed era più che motivata. Sì che non può non sorprendere che le si sia citate in senso critico, quasi che bastasse leggerle per coglierne l’evidente erroneità.
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suo discorso sostenendo che il sottoscritto, “per rendere più chiaro il suo pensiero prospetta l’esempio di un ospedale, indicando che: ‘insomma, è come se gli
ospedali, anziché essere costruiti in funzione degli ammalati, fossero costruiti per
i medici’”5.
Orbene, dopo qualche pagina, il Picó, nel riconoscere il carattere privato
dell’oggetto del processo, ha rilevato che “il modo in cui il processo si sviluppa
non appartiene alle parti in causa, bensì allo Stato”, e, in una nota, ha scritto che
proprio per questo il paragone da me effettuato tra il processo e l’ospedale non
sarebbe corretto, vuoi perché quel che conta “non sono tanto i soggetti che intervengono (i malati o i litiganti), ma la funzione assegnata all’ospedale ed al processo”, vuoi perché non ha senso misconoscere l’importanza dei medici negli ospedali e quella dei giudici nel processo6.
A questi rilievi, io, finora, ho preferito non replicare, ma non certo perché
non sapessi che dire. Ora, però, quasi spronato da quella lettera di Liebman, mi
son detto che è forse il caso di farlo.
4. A tal fine vorrei anzitutto rammentare che il paragone con l’ospedale è
stato da me fatto per commentare la Relazione al re sul nostro c.p.c., secondo la
quale, come ho più su ricordato, mentre il codice del 1865 “si prospettava i problemi dal punto di vista del litigante che chiede giustizia”, il nuovo codice “se li
propone dal punto di vista del giudice che deve amministrarla”. Quindi, nel trovare scorretto quel mio paragone, sarebbe stato forse opportuno precisare a qual
proposito l’avevo fatto, così, oltre tutto, si sarebbe potuto riferire che la tesi secondo la quale il nostro c.p.c. si pone i problemi dal punto di vista del giudice risale
niente di meno che a Piero Calamandrei, che la prospettò addirittura nella Relazione al re sul c.p.c. commissionatagli dal guardasigilli Grandi, la stessa nella quale si assicura e si garantisce che il codice è perfettamente in linea con l’autoritarismo del fascismo. Così si sarebbe anche capito che io ho solo preso atto delle parole di Calamandrei, limitandomi molto modestamente a rilevare che costruire il
processo dal punto di vista del giudice è come costruire gli ospedali dal punto di
vista dei medici.
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Vorrei poi osservare che qui nessuno contesta che le regole del processo debbano essere poste dallo Stato, né tanto meno che lo Stato debba dare al giudice
tutti gli strumenti necessari per rendere giustizia nel migliore dei modi (e in tempo
ragionevole…), ma ci si chiede se abbia senso o no che lo Stato, nel porre quelle
regole nell’interesse pubblico, disciplini il processo come lo disciplinò il legislatore
italiano del 1940, e cioè, per dirla con Calamandrei, ponendosi i vari problemi dal
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Così PICÓ I JUNOY, op. cit., p. 217.
Così PICÓ I JUNOY, op. cit., pp. 224 e 225, in nota.
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punto di vista del giudice. Di qui il mio sospetto che, in tanto non si è apprezzato
quel mio paragone, in quanto non si ha chiaro né quello che si pensava nell’Italia
del 1940, né che cosa fu previsto dal legislatore italiano del 1940.
E’ perciò il caso di ricordare che nell’Italia del 1940 non ci si limitava ad
avvertire, come fa oggi il Picó e come cent’anni fa faveva già Chiovenda, che “lo
Stato è interessato, non all’oggetto della lite, ma al modo in cui questa si svolge”7,
ma si era arrivati ad affermare che il giudice deve essere “il padrone della causa”8
e che, essendo “l’interesse delle parti un mezzo per il quale lo scopo pubblico del
processo si attua”9, “non il processo serve alle parti, ma le parti servono al processo”, atteso che “il processo non si fa mai nell’interesse delle parti”10, ma
sempre, come quello penale, “per l’interesse pubblico”11. Non solo, ma ci si era
spinti con tutta coerenza sino a dedurne che “le parti agiscono da organi d’un
interesse pubblico” e che “persino quella del patrono è una pubblica funzione”12!
Proprio per questo si ebbe la coraggiosa e mirabile reazione “antipubblicistica”
di Salvatore Satta13; e proprio per questo Calamandrei, dopo essersi sforzato di
limitare i danni14 e avere sventato il tentativo di Grandi di consentire al giudice
di disporre tutte le prove d’ufficio15, scrisse quello che scrisse nella Relazione al
re: è però significativo che egli, dopo la caduta del fascismo, si guardò bene dal
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Sono le celebri (incisive, ma ovvie e innocue) parole di CHIOVENDA, Le riforme processuali e le
correnti del pensiero moderno, (1907), in Saggi diritto processuale civile, I, a cura di PROTO PISANI,
Milano, 1993, p. 385, al quale non si può certo attribuire la paternità morale o scientifica del
codice del 1940 (per maggiori ragguagli v. il mio Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli,
2007, p. 133 ss.).
Così il guardasigilli SOLMI, La riforma del codice di procedura civile, Roma, 1937, p. 21, i cui progetti davano non a caso “l’impressione che lo Stato tenda a sbarazzarsi del processo al più presto
possibile” (e non a rendere giustizia alle parti): così SEGNI, Intorno al nuovo procedimento civile,
(1940), in Scritti giuridici, I, Torino, 1965, p. 373.
Così CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova 1936, I, p. 215, corsivo nel testo.
Così CARNELUTTI, Sistema, cit., I, p. 216, al quale aderì entusiasticamente ALLORIO, Il “Sistema” del
Carnelutti, in Riv. dir. comm., 1937, I, p. 66.
Così CARNELUTTI, Sistema cit., I, p. 216; ID., Nuovo processo civile italiano, in Foro it., 1941, IV, c. 25
ss., spec. 26 e 28.
Così, riecheggiando Carnelutti, ALLORIO, op. loc. ult. cit. Si consideri, tuttavia, che a propugnare
per primo la concezione pubblicistica dell’avvocatura fu, nel 1920, CALAMANDREI, L’avvocatura e
la riforma del processo civile, ora in Opere giuridiche, a cura di CAPPELLETTI, II, Napoli, 1966, p. 12
ss., spec. 31 s., secondo il quale l’avvocato, più che il difensore della parte, doveva essere un cooperatore del giudice. La teoria, tanto nobile, quanto assurda, fu in seguito silenziosamente, ma
inequivocabilmente abbandonata: v. CALAMANDREI, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1950,
I, p. 23 ss., spec. 30; ID., Un maestro di liberalismo processuale, ivi 1951, I, p. 1 ss., spec. 7 s.
V. SATTA, Gli orientamenti pubblicistici della scienza del processo, in Riv. dir. proc., 1937, I, p. 32 ss.,
e il mio Salvatore Satta e la centralità del processo, in Giusto proc. civ., 2007, p. 5 ss., spec. 14 ss.
Per maggiori ragguagli v. il mio Piero Calamandrei e il codice di procedura civile, in Giusto proc.
civ., 2006, p. 155 ss., spec. 168, 174 e 180 s.
V. quel che riferisce in data 9 aprile 1940 lo stesso CALAMANDREI, Diario 1939-1945, a cura di AGOSTI, I, Firenze, 1982, p. 144. E si ricordi anche il mirabile “depreco totissimis viribus la prova
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ribadire quelle aberrazioni e si batté per il ritorno al liberalismo processuale16,
e cioè per il rispetto dei diritti delle parti e dei loro difensori.
Quanto poi al codice italiano del 1940, è il caso di ricordare che esso, pur non
consentendo al giudice di disporre tutte le prove d’ufficio, previde un processo con
la prima udienza fissata dal giudice (che la fissavano “con un ritardo intollerabile”17,
dai nove mesi ai due anni!...), col giudice istruttore collocato tra le parti e il collegio (che pur era il vero giudice!...), con la consequenziale divisione in fasi (e quindi senza alcuna possibilità di avere subito sentenza), col potere-dovere del giudice
di tentare di conciliare le parti, con rigide preclusioni per le parti, ma non anche
per il giudice, con non pochi termini perentori a pena di estinzione, con le prove
(e la consulenza tecnica) ammesse con ordinanza modificabile e revocabile, ma
non impugnabile18, col giudice istruttore libero di stabilire quando, se prima o dopo
l’istruttoria, far decidere le questioni preliminari e pregiudiziali, con l’impossibilità per le parti d’impugnare immediatamente le sentenze parziali (ivi compreso
quelle su domanda!...), con l’appello mera revisio, ecc.
Così stando le cose, è evidente che il c.p.c. italiano del 1940 non si limitò a
incrementare i poteri del giudice, ma compresse oltre misura i diritti e le garanzie
delle parti, varando un processo che, come ebbe giustamente a dire Calamandrei,
era innegabilmente costruito dal punto di vista del giudice. E poiché il processo
civile italiano, grazie anche alle riforme del 1973 e del 1990, è ancor oggi costruito in quel modo, dovrebb’essere chiaro che mi sto battendo, nei limiti delle mie
possibilità, per farlo diventare come avrebbe voluto Calamandrei.
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Quindi, chi oggi si batte per incrementare i poteri istruttori del giudice, farebbe bene a tenere presente che l’esperienza italiana insegna che il processo può
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d’ufficio” di Redenti (v. le osservazioni da lui inviate al Ministero il 12 agosto 1940 nel mio libro
su Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, Napoli, 1992, p. 367).
Cfr. il mio Piero Calamandrei maestro di liberalismo processuale (1946-1956), in Riv. dir. proc.,
2007, p. 663 ss.
Così ALLORIO, Intervento, in Atti del IX Convegno nazionale, ( Sorrento, 1971), Milano, 1973, p. 67.
Le conseguenze di quella previsione si videro subito perché i giudici non tardarono a mostrarsi
“troppo propensi ad ammettere prove” (così, a giugno del 1943, il guardasigilli DE MARSICO: v. il
mio Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, cit., pp. 72 s. e 434). Col tempo le cose
si sono vieppiù aggravate, raggiungendo, a proposito delle consulenze, vertici sui quali non so
quanto sia il caso di continuare a sorvolare. Basti dire che di recente un giudice è stato radiato per
avere affidato “perizie sempre agli stessi professionisti” (Corriere del Mezzogiorno, 22 aprile 2008,
p. 6), e che un altro è stato condannato a quattro anni di reclusione per concussione perpetrata
attraverso il perito d’ufficio (Gazzetta del Mezzogiorno, 20 ottobre 2007, p. 1). Sarebbe quindi
altamente auspicabile che il legislatore italiano seguisse l’esempio del suo collega spagnolo (che
con la nuova LEC ha considerato la perizia come un mezzo di prova sottratto all’officium iudicis)
e ponesse altresì ben precisi limiti alla scelta del perito, consentendo l’impugnazione immediata
del provvedimento che dispone la perizia, o almeno, come in Francia (art. 272 n.c.p.c.), che si
possa chiedere al presidente della corte di appello l’autorizzazione all’impugnazione immediata.
Nel senso qui sostenuto v. il bel libro di AULETTA, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, 2002, spec. pp. 124 ss., 301 in nota, 333 ss. e 374 ss.
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essere costruito dal punto di vista del giudice anche se non si consente al giudice
di disporre tutte le prove d’ufficio. E, si licet, farebbe bene anche a considerare che,
mentre il potere di disporre prove d’ufficio è più che discutibile sul piano dei
principi e non ha mai risolto molti problemi19, i processi costruiti dal punto di
vista del giudice, ad onta della difesa che se ne sta da più parti sorprendentemente facendo, si sono sempre e dappertutto rivelati un fallimento20.
380
5. Per finire, poiché ho l’impressione che i rapporti tra le parti, i giudici e il
processo, al pari di quelli tra gli ammalati, i medici e gli ospedali, non siano propriamente chiari, l’occasione può essere utile per fare qualche precisazione.
Mi pare infatti sia il caso di rilevare che, se è vero che, se non ci fossero i medici, non ci sarebbero gli ospedali, pure vero è che non ci si può spingere sino a dire
che non ci sarebbero neppure gli ammalati. Ergo, sono i medici e gli ospedali che
vanno preparati e costruiti in funzione degli ammalati, non certo il contrario.
Quanto al processo, è vero che, se non ci fossero i giudici, non si potrebbero
celebrare i processi, ma, purtroppo, non è affatto vero che, se non ci fossero i processi, non ci sarebbero neppure i litiganti e le loro liti. Ergo, il processo va previsto
perché gli uomini litigano, non certo perché esistono i giudici: infatti, se gli uomini
non litigassero mai, non ci sarebbe alcun bisogno né dei giudici, né del processo.
E’ dunque confermato che Piero Calamandrei, nel dare atto del “capovolgimento dei termini del binomio” che col nuovo codice si era avuto, edulcorò un po’
troppo (ancorché, a parer mio, con una punta di toscana canzonatura) la gravità
dell’operato del legislatore. Ed è pure confermato che, come i docenti, per dirla
con Enrico Tullio Liebman, “esistono per l’università e non viceversa”, così i giudici esistono per dirigere e decidere i processi instaurati e coltivati dai privati, non
viceversa. Essi, quindi, sono indubbiamente essenziali, ma non tanto da autorizzare il legislatore a costruire il processo dal loro punto di vista e a capovolgere il
rapporto tra azione e giurisdizione.
REFERÊNCIAS
ALLORIO, Enrico. Intervento, in Atti del IX Convegno nazionale. Milano. 1973. 67 p.
19
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Come ho già rilevato in altra occasione (v. L’autoritarismo processuale, cit., p. 292 s.), poiché le
parti, di solito, chiedono tutte le prove possibili e immaginabili, le probabilità che un giudice, disponendo prove d’ufficio, faccia opera utile, sono piuttosto rare: infatti, e per esempio, l’art. 118
c.p.c., nella parte in cui consente al giudice di disporre l’ispezione corporale dei terzi, è rimasto
sinora inapplicato.
Così, a proposito del codice italiano del 1940, PROTO PISANI, Il codice di procedura civile del 1940
fra pubblico e privato: una continuità nella cultura processualcivilistica rotta con cinquant’anni di
ritardo, in Quaderni fiorentini, 28, (1999), I, Milano, 2000, p. 727. Nello stesso senso PICARDI,
Prefazione alla quarta edizione, in Codice di procedura civile4, I, Milano, 2008, p. XXIV; MONTELEONE, Manuale di diritto processuale civile4, I, Padova, 2007, p. 336 ss.; BALENA, Elementi di diritto
processuale civile4, II, Bari, 2007, p. 11. E v. anche, con riferimento a quel che è accaduto in Perù,
ARIANO DEHO, Qualche notizia sul processo civile peruviano, in Riv. dir. proc., 2005, p. 97 ss.
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Una lettera di Liebman sull’universita’ fatta per i docenti...
ARIANO DEHO, Eugenia. Qualche notizia sul processo civile peruviano, in Riv. dir. proc.,
2005. 97 p.
AULETTA, Ferruccio. Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico,
Padova. 2002. 124, 301, 333 e 374 p.
BALENA, Geanpiero. Elementi di diritto processuale civile II. Bari: Cacuci. 2007. 11 p. v. 1.
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Data de recebimento: 04/06/2009
Data de aprovação: 11/01/2010
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