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Notiziario settimanale n. 626 del 17/02/2017
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
Umiltà e fierezza – Lettera aperta di Renato Accorinti, sindaco di Messina
(di Renato Accorinti).................................................................................. 7
Notizie dal mondo........................................... 8
La sentenza di primo grado del "processo Condor" (di Geraldina Colotti). 8
Turchia, in sette mesi espulsi 4.811 accademici (di Murat Cinar)..............8
Associazioni..................................................... 9
Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report 2016 (di Associazione
Volontari Ascolto Accoglienza).................................................................. 9
Editoriale
Un patto scellerato contro i migranti
Zanotelli)
17/02/2017: Chiese evangeliche: festa della libertà religiosa (si ricorda
il riconoscimento ai valdesi dei diritti civili e politici nel 1848)
24/02/2017: Giornata del Risparmio energetico "M'illumino di meno"
L’Alta Corte del Kenya blocca la chiusura del più grande campo profughi
del mondo
“Discriminatorio, eccessivo, arbitrario e sproporzionato”, nonché una
sorta di punizione collettiva. Con queste parole perentorie, il 9 febbraio,
il giudice dell’Alta Corte del Kenya JM Mativo ha bocciato il decreto con
cui il governo di Nairobi intendeva chiudere il campo rifugiati di Dadaab,
il più grande del mondo, dove si trovano attualmente oltre 260.000
profughi somali.
Il giudizio dell’Alta Corte era stato sollecitato dalla Commissione
Nazionale per i Diritti Umani e da Kituo Cha Sheria, due organizzazioni
non governative kenyane ed era stato sostenuto da Amnesty International.
La sentenza ricorda anche l’obbligo costituzionale e di diritto
internazionale del Kenya di proteggere le persone che cercano riparo
dalla persecuzione.
Riccardo Noury
[fonte: Pressenza: international press agency]
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
Un patto scellerato contro i migranti (di Alex Zanotelli) ........................... 1
Evidenza...........................................................2
#8marzo Sciopero internazionale delle donne (di Nonunadimeno) ............2
La lettera di Michele è un sintomo (di Marco Rovelli) ............................... 3
Approfondimenti.............................................3
Le foibe e i crimini che le hanno precedute (di Predrag Matvejevic) .........3
Cedric Herrou: “Continuerò a battermi per aiutare i migranti” (di Piero
Bosio)........................................................................................................ 5
Accordo Italia -Libia, ASGI all’Italia e all’UE : Così si tradisce lo spirito
europeo (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)....................5
L’obiezione del priore (di Mario Lancisi).................................................. 6
1
(di Alex
“Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente
della Commissione Europea, Tusk – possiamo ora chiudere la rotta libica.”
Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum
firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni
con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti
attraverso il canale di Sicilia.
E’ la vittoria del cosiddetto Migration Compact (Patto per
l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto
dall’allora Ministro degli Esteri , Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso
dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, –
aveva affermato Gentiloni lo scorso anno davanti alla Commissione
Trilaterale,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi
arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta
realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con
la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro,
regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani,
iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE
hanno scritto con al Turchia – ha affermato Hein del Consiglio Italiano per
i Rifugiati – una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’
un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.”
Visto il successo (!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare
con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in
Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a
nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un
paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che
abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno
riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una
decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar.
Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a
Tripoli.
Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea
di protezione’ (una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle
zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi
di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra
l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del
Migration Compact, definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario,
Gruppo di redazione: Antonella Cappè, Chiara Bontempi, Maria Luisa
Sacchelli, Maria Stella Buratti, Marina Amadei, Daniele Terzoni, Federico
Bonni, Giancarlo Albori, Gino Buratti, Massimo Pretazzini, Michele Borgia,
Oriele Bassani, Paolo Puntoni, Roberto Faina, Severino Filippi, Studio 8 Elisa Figoli & Marco Buratti (photo)
anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui
partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi chiave: Niger,
Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo.
Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli
Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto
focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’
significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella
capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration
Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari – scrive il missionario
Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari…
Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un
diritto!”
Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa per “svilupparsi” e
impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta
forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato
Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo
così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli,
affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche
da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con
cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani.
Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se
riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato, campi
profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti
rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in
tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager.
”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi – ha
detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso
novembre – è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza,
la “bancarotta dell’umanità”! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando
avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme
scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta
dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli
che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non
solo il Mediterraneo…molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di
sangue innocente.”
Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la
richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero
generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali
ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione
dello sciopero generale.
Scioperiamo perché
La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne
Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi
assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di
donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale
per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza
maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto
Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo
repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni
iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri
antiviolenza.
Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne
Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di
Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne, da quella
psicologica a quella perpetrata sul web e sui social media fino alle
molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Pretendiamo che le donne abbiano
rapidamente accesso alla giustizia, con misure di protezione immediata
per tutte, con e senza figli, cittadine o straniere presenti in Italia. Vogliamo
l’affidamento esclusivo alla madre quando il padre usa violenza. Vogliamo
operatori ed operatrici del diritto formati perché le donne non siano
rivittimizzate.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi
Non possiamo più tacere: è in ballo la vita, la vita di milioni di migranti,
che per noi sono, con le parole di Papa Francesco.”la carne di Cristo.”
Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito e
l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Scioperiamo contro la violenza
ostetrica, per il pieno accesso alla Ru486, con ricorso a 63 giorni e in day
hospital. Scioperiamo contro lo stigma dell’aborto e rifiutiamo le sanzioni
per le donne che abortiscono fuori dalle procedure previste per legge a
causa dell’alto tasso di obiezione: perché ognun* possa esercitare la sua
capacità di autodeterminarsi. Vogliamo superare il binarismo di genere,
più autoformazione su contraccezione e malattie sessualmente
trasmissibili, consultori aperti a esigenze e desideri di donne e soggettività
LGBTQI, indipendentemente da condizioni materiali-fisiche, età e
passaporto.
(fonte: Comune-info - facciamo Comune insieme)
link: http://comune-info.net/2017/02/un-patto-scellerato-migranti/
Se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della
Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio
degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione
unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come
missionari.
Evidenza
#8marzo Sciopero internazionale delle donne (di
Nonunadimeno)
8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle
2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio,
che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno
organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi
paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in
tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e
transfobia.
L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività
produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si
combatte con l’inasprimento delle pene ? come l’ergastolo per gli autori
dei femminicidi in discussione alla Camera ? ma con una trasformazione
radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città
con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative.
2
Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire
da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non
accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un
salario minimo europeo, perché non siamo più disposte ad accettare salari
da fame, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle
case e nella cura in cambio di sotto-salari e assenza di tutele; un welfare
per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi
dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le
nostre vite.
Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera:
permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli
Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione,
delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il
razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro.
Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la
gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso
di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia,
l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per
chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti
che ci vivono e lavorano da anni.
Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la
formazione
Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo
nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per
prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le
forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione
delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di
potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e
maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola”
(legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di
cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate.
Vogliamo fare spazio ai femminismi
Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali
della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività.
Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e
antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi
liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle
molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli
episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*,
sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione.
Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma
diventi una lettura complessiva dell’esistente.
Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini
“vogliamo tutto” nasceva da una pratica: vogliamo-dunqueceloprendiamo. E il massimo è diverso dal tutto: il tutto è una
circonferenza in cui c'è posto per tutti; il massimo sta in un immaginario
che vede una scala sociale naturale, e se c'èun massimo c'è anche un
minimo, c'è qualcuno che vince e qualcuno che perde, e se nonostante tutti
gli sforzi siamo tra i perdenti non lo accettiamo. E tanto meno riusciamo
ad accettarlo nella misura in cui i nostri legami sociali sono tenui, nella
misura in cui siamo stati costretti nell'individualismo regressivo,
nell'isolamento che è la forma di vita a cui il tempo presente ci vorrebbe
costringere.
Michele pretendeva (come potrebbe essere considerato tipico di una
generazione in cui il Narciso ha sostituito l'Edipo, così ci dicono).
Pretendeva che il mondo lo accogliesse (l'epoca “si permette” di
accantonarmi: come può permettersi di ignorarmi? Perciò “imporrò la mia
assenza”). Pretendeva che “l'altro genere” lo accogliesse: come fosse un
suo dovere, per “l'altro genere” accogliere “il maschio”, e poiché non lo
accoglie i sentimenti sono “sprecati”: dove sono sprecati solo sulla base di
una concezione dei rapporti sociali come un dare-avere, come uno
scambio, invece che una che legge i sentimenti come una donazione che
non ha misura possibile. Questa pretesa può essere compresa solo sullo
sfondo di quei sogni che questo tempo fa balenare, salvo poi sottrarsi e
lasciare chi non coglie le promesse di felicit come un naufrago, fino a
soccombere.
Michele è una vittima di questo tempo. E una vittima deve essere ascoltata
fino in fondo, per quello che dice e per quello che non dice. Perchè quello
che non dice, e non lo dice perché lui stesso non lo sa, ci indica una via
d'uscita. Quella che, ahimé, Michele non ha avuto la forza di cogliere.
Marco Rovelli
Post su Facebook del 09/02/2017
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2700
Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista,
che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle
donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la
rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e
in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi
ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno
#LottoMarzo
link: https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/02/08/8-punti-per-l8-marzo-nonunora-meno-di-sciopero/
La lettera di Michele è un sintomo (di Marco
Rovelli)
Ho letto la lettera di Michele, suicidatosi a trent'anni. Un fatto enorme, che
non può non provocare la nostra empatia più profonda. Quella lettera l'ho
vista ripresa più volte, riprodotta quasi fosse un manifesto rivendicativo
generazionale. Ma quella lettera non è un manifesto: e non solo perché
una dichiarazione di resa - che è diritto assoluto di ogni individuo . non
può divenire un fatto collettivo, un legame sociale. Il fatto è che quella
lettera è un sintomo. E un sintomo sta per qualcosa di cui è un'emergenza,
e si manifesta nell'inconsapevolezza di ciò che lo determina.
Il senso di una sconfitta non può essere un manifesto generazionale. La
generazione dei precari non è questo. Ciò che compare nelle parole di
Michele – nel suo dolore che le ha forgiate - è l'introiezione passiva
(inconsapevole) di un modello vincente. Non c'è resistenza; ma se non c'è
resistenza (il potere produce attrito) la storia è finita. Ed è questa nonimmaginazione che il potere presente vuole: vuole convincere tutti della
mancanza di prospettive. Produce mancanza di immaginazione.
Qui, in questa lettera, non c'è solo una stanchezza metafisica (questa
iterazione: “sono stufo...”), un'esaustione che polverizza la stessa capacità
di fare domande, ovvero la natura più propria dell'animale umano. Qui,
soprattutto, c'è la rivendicazione di una serie di pretese non soddisfatte. Si
pretende “il massimo”. E siccome non l'ho avuto, la faccio finita, mi
consegno al minimo. Una volta si gridava “vogliamo tutto”: ma quel
3
Approfondimenti
Fare memoria
Le foibe e i crimini che le hanno precedute (di
Predrag Matvejevic)
Pubblichiamo questo articolo dello scrittore Predrag Matvejevic, docente
all'Università La Sapienza di Roma, pubblicato il 12 febbraio 2005 sul
quotidiano fiumano “Novi List”, con il quale interviene sulla questione
delle foibe e del giorno del ricordo, condannando tutti i crimini e il rischio
delle strumentalizzazioni.
Queste righe sono state scritte nel Giorno del ricordo in Italia, 10 febbraio
2005 - quel dispiacere lo condivido con molti cittadini di questo Paese. I
crimini delle fosse e quelli che in esse vi sono finiti, ciò che le ha
precedute e che le ha seguite, l'ho condannato da tempo - mentre vivevo in
Jugoslavia, quando di ciò in Italia si parlava raramente e non abbastanza.
Ho scritto pure sui crimini di Goli Otok, di cui sono state vittime molti
comunisti, Jugoslavi e Italiani che erano più vicini a Stalin e Togliatti che
al "revisionismo" di Tito. Ho parlato anche della sofferenza degli esiliati
italiani dall'Istria e dalla Dalmazia, dopo la Seconda Guerra mondiale l'ho fatto in Jugoslavia, dove probabilmente era più difficile che in Italia.
Non so di preciso quanti scrittori italiani ho presentato, che allora erano
costretti ad andare via e quelli che sono rimasti: Marisa Madieri, Anna
Maria Mori, Nelida Dilani, Diego Zandel, Claudio Ugussi, Giacomo
Scotti, ecc. Non ricordo quanti articoli ho pubblicato sulla stampa delle
minoranza italiana, poco conosciuta in Italia, così da poterla appoggiare,
desiderando che fosse meno sola e meno esposta - e anche loro mi hanno
appoggiato quando decisi di andarmene.
Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani, sono un crimine grave, e
coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna. Ma
bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli altri,
forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si
strumentalizzino e "il crimine e la condanna" e che vengano manipolati
l'uno o l'altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o
giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta
croato Ivan Goran Kovacic ha scritto uno dei poemi più commoventi del
movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non
dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se
cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché
le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono.
La storia ingloriosa iniziò molto prima, non lontano dai luoghi in cui
furono commessi i crimini. Prenderò qualcosa dai documenti che abbiamo
a disposizione: il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola
(non scelse a caso quella città). Annuncia: "Per la creazione del nostro
sogno mediterraneo, è necessario che l'Adriatico (si intende tutto
l'Adriatico, ndr.), che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla
inferiorità della razza barbarica quale è quella slava". Il razzismo così
entra in scena, seguendo la "pulizia etnica" e il "trasferimento degli
abitanti". Le statistiche che abbiamo a disposizione fanno riferimento alla
cifra approssimativa di 80.000 esuli Croati e Sloveni durante gli anni venti
e trenta. Non sono riuscito a confermare quanti poveri siano stati portati
dalla Calabria, e non so da dove altro, per poterli sostituire. Gli Slavi
perdono il diritto, che avevano prima in Austria, di potersi avvalere della
propria lingua sulla stampa e a scuola, il diritto al predicare in chiesa, e
persino l'iscrizione sulla tomba. Le città e i villaggi cambiano nome. I
cittadini e le famiglie pure. Lo Stato italiano estesosi dopo il 1918 non
tenne in considerazione le minoranze e i loro diritti, cercò o di
denazionalizzarli totalmente o di cacciarli. Proprio in questo contesto per
la prima volta si sente la minaccia delle foibe. Il ministro fascista dei
lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l'appellativo
vittorioso di "Giulio Italico", scrive nel 1927: "La musa istriana ha
chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli
che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali
(italiane) dell'Istria" ("Gerarchia", IX, 1927). Lo zelante ministro
aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: "A Pola
xe arena, Foiba xe a Pizin" ("A Pola c'è l'arena, a Pazina le foibe"). Mutuo
questo detto da Giacomo Scotti, scrittore italiano di Rijeka.
Le "foibe" sono, quindi, un'invenzione fascista. Dalla teoria si è passati
velocemente alla prassi. Il quotidiano triestino "Il Piccolo" (5.XI.2001)
riporta la testimonianza dell'ebreo Raffaello Camerini che era ai lavori
forzati in Istria, alla vigilia della capitolazione dell'Italia, nel luglio 1943:
la cosa peggiore che gli successe fu prendere gli antifascisti uccisi e
buttarli nelle fosse istriane, per poi cospargere i loro corpi con la calce
viva. La storia avrebbe poi aggiunto a ciò ulteriori dati. Uno dei peggiori
criminali dei Balcani fu di sicuro il duce ustascia Ante Pavelic. Jasenovac
fu un Auschwitz in piccolo, con la differenza che in esso si facevano
lavori perlopiù "manualmente", ciò che i nazisti fecero "industrialmente".
E le fosse, ovviamente, furono una parte di tale "strategia". Mi chiedo se
anche uno degli scolari italiani in uno dei suoi sussidiari poteva leggere
che quello stesso Pavelic con le squadre dei suoi seguaci più criminali per
anni godette dell'ospitalità di Mussolini a Lipari, dove ricevette aiuto e
istruzioni dai già allenati "squadristi" fascisti. Quelli che oggi parlano dei
programmi scolastici in Italia e sul luogo delle foibe, non dovrebbero
trascurare di includere anche questi dati. E anche altro vale la pena di
ricordare: il governo di Mussolini aveva annesso la maggior parte della
Slovenia insieme con Lubiana, la Dalmazia, il Montenegro, una parte
della Bosnia Erzegovina, l'intera Bocca di Cattaro. A quel tempo, tra il
1941 e il 1943, di nuovo, furono cacciati dall'Istria circa 30.000 Slavi Croati e Sloveni - e fu occupata la regione. Le "camicie nere" fasciste
portarono a termine fucilazioni individuali e di massa. Fu falciata un'intera
gioventù. I dati che provengono da fonti jugoslave fanno riferimento a
circa 200.000 uccisi, particolarmente sulle coste e sulle isole. La cifra mi
sembra che sia però ingrandita - ma anche se solo un quarto rispecchiasse
la realtà, sarebbe già molto. In Dalmazia gli occupanti italiani catturarono
e fucilarono Rade Koncar, uno dei capi del movimento, il più stretto
collaboratore di Tito. In determinate circostanze hanno pure aiutato il capo
dei cetnici serbi in Dalmazia, il pope Ðuijic, che incendiò i villaggi croati
4
e sgozzò gli abitanti, vendicandosi con gli ustascia per i massacri che
avevano commesso contro i Serbi. Così da fuori prese impulso pure la
guerra civile interna. A ciò occorre aggiungere l'intera catena dei campi di
concentramento italiani, i più piccoli e i più grandi, dall'isoletta di Mamula
nel profondo sud, davanti a Lopud nelle Elafiti, fino a Pago e Rab nel
golfo del Quarnaro. Erano spesso stazioni di transito per la mortale risiera
di San Sabba di Trieste, e in alcuni casi anche per Auschwitz o Dachau. I
partigiani non furono protetti dalla Convenzione di Ginevra (in nessun
luogo al mondo) così che i prigionieri furono subito fucilati come cani.
Molti terminarono la guerra con gravi ferite, corporali e morali. Tali erano
quelli in grado di commettere crimini come le foibe.
Non c'è nessun dato in nessun archivio, militare o civile, sulla direttiva che
sarebbe giunta dall'Alto comando partigiano o da Tito: le unità di cui
facevano parte molti di quelli che avevano perso i familiari, i fratelli, gli
amici, commisero dei crimini "di propria mano". Purtroppo, il fascismo ha
lasciato dietro di sé talmente tanto male che le vendette furono drastiche
non solo nei Balcani. Ricordiamoci del Friuli, nella parte confinante con
l'Italia, dove non c'erano scontri tra nazionalità: i dati parlano di diecimila
uccisi senza tribunale, alla fine della guerra. In Francia ce ne furono oltre
50.000. In Grecia non so quanti.
In Istria e a Kras dalle foibe sono stati esumati fino ad ora 570 corpi (lo
storico triestino Galliano Fogar ne riporta persino un numero minore,
notando che nelle fosse furono gettati anche alcuni soldati uccisi sui campi
di battaglia, non solo Italiani). Oggi possiamo sentire la propaganda che su
svariati media italiani fa riferimento a "decine di migliaia di infoibati".
Secondo lo storico italiano Diego de Castro nella regione furono uccisi
circa 6.000 Italiani. Non serve aumentare o licitare quel tragico numero,
come in questo momento sembrano fare i giornali italiani, con 30.000 o
50.000 uccisi. Bisogna rispettare le vittime, non gettare sulle loro ossa altri
morti, come hanno fatto gli "infoibatori".
Per ciò che riguarda invece i luoghi che tutti questi dati occupano
nell'immaginario, non mi sembra che sia benvenuta la propaganda che
come tale è diffusa dal film "Il cuore nel pozzo", che in questi giorni è
stato visto in televisione da circa 10 milioni di Italiani, pubblicizzato in un
modo incredibilmente aggressivo. Nessuna testimonianza storica parla di
una madre che i partigiani portano via dal figlio e poi la buttano nelle
foibe! Questa è un'invenzione tendenziosa dello sceneggiatore. Il cinema
italiano ha una eccellente tradizione nel neorealismo, una delle più
significative di tutta la moderna cinematografia - non gli servono dei
modelli simili al "realismo sociale", dei film sovietici girati negli anni
sessanta del secolo scorso. E nei preparativi, che in questi giorni sono stati
organizzati, o nelle trasmissioni tv più guardate, sarebbe stato meglio se ci
fosse stato qualche ministro che avesse, rispetto al fascismo, un diverso
passato piuttosto che quelli che abbiamo visto in scena. Ciò sarebbe
servito da modello e autenticità alle testimonianze.
La Jugoslavia non esiste più. Croati, serbi, sloveni e gli altri nazionalisti si
compiacciono quando la destra italiana gli offre nuovi argomenti per
accusare lo Stato che essi stessi hanno lacerato. (Ricordiamoci che il film
è stato girato in Montenegro, nella Bocca di Cattaro, con un attore serbo
che interpreta il ruolo del partigiano sloveno...) Così di nuovo si feriscono
i popoli le cui cicatrici ancora non sono state medicate. È questo il modo
migliore - in particolare se se allo stesso tempo si nasconde tanto quanto
non corrisponde a verità? Perché, non c'è una qualche via migliore? Il
dispiacere che condividiamo può essere reso in un modo più degno e
nobile, la storia in modo meno mutilato e difettoso? Non è fino a ieri che
vicino a Trieste passava la più aperta frontiera tra l'Oriente e l'Occidente,
al tempo della guerra fredda e della grande prosperità della città di San
Giusto? Gli Italiani e i Croati in Istria, in questi ultimi anni, non hanno
forse trovato un linguaggio comune per opporsi al nazionalismo
tudjmaniano molto più di quanto non sia stato fatto altrove in Croazia? E
alla fine a chi serve questa strumentalizzazione di cui siamo testimoni?
Non siamo ingenui. Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente riuscita
del berlusconismo nello scontro con l'opposizione, con la sinistra e le sue
relazioni col comunismo che, secondo le parole di Berlusconi, ha sempre e
solo portato "miseria, morte e terrore", e persino anche quando sacrificò
18 milioni di vittime di Russi nella lotta per la liberazione dell'Europa dal
fascismo. Questa campagna meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui
fu pubblicato "Il libro nero sul comunismo", distribuito pubblicamente dal
premier ai suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte,
abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di
accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e diminuire le
loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi - in questo caso perlopiù Croati e
Sloveni - ne stanno pagando il conto.
Esiste una sorta di "anticomunismo viscerale" che secondo le parole di un
mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del
peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha perso
quasi l'intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per questo non
disprezza di meno i fascisti.
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Luka Zanoni
Fonte: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-icrimini-che-le-hanno-precedute-28246
Segnalato da: Ildo Fusani
Predrag Matvejevic (Mostar, 7 ottobre 1932 – Zagabria, 2 febbraio 2017) è stato
uno scrittore e accademico jugoslavo con cittadinanza croata naturalizzato
italiano. Docente di letterature alle università di Zagabria, Parigi e Roma, è
conosciuto per il saggio del 1987 Breviario mediterraneo, lavoro fondativo della
storia culturale della regione del Mediterraneo, che è stato tradotto in oltre venti
lingue. Conclude così questo testo pubblicato nel 2005: Esiste una sorta di
"anticomunismo viscerale" che secondo le parole di un mio amico, il geniale
dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del peggiore comunismo. Il sottoscritto
forse ne sa qualcosa di più: ha perso quasi l'intera famiglia paterna nel gulag di
Stalin. Ma per questo non disprezza di meno i fascisti.
(fonte: Osservatorio sui Balcani - segnalato da: Ildo Fusani)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2702
Immigrazione
Cedric Herrou: “Continuerò a battermi per aiutare
i migranti” (di Piero Bosio)
“Ora potrò continuare ad agire per alleviare le sofferenze dei migranti.
Non saranno di certo le minacce di un prefetto o gli insulti di qualche
politico a fermarmi. Continuerò, perché è necessario continuare”.
Sono le parole di Cédric Herrou poco dopo la sentenza del Tribunale di
Nizza che lo ha condannato a pagare 3000 euro di multa, con la
condizionale, per aver aiutato alcuni profughi ad attraversare il confine tra
l’Italia e la Francia e non “essersi accertato del loro status irregolare “.
Al contadino francese ,che ‘semina umanità’, è stata inflitta una pena
quasi simbolica, tanto che il suo avvocato ha detto: “è un verdetto giusto,
la multa di 3000 euro rende evidente che Herrou ha agito per motivi
esclusivamente umanitari”.
e una restrizione dell’uso della patente.
Ora Herrou è determinato a continuare la sua azione umanitaria.
Cédric Herrou, contadino francese di 37 anni, da tempo aiuta a entrare in
Francia, per motivi umanitari, i migranti sprovvisti di permesso di
soggiorno. E il suo è ormai un caso politico, che ha superata i confini
francesi, ne aveva parlato anche il New York Times.
Già due anni fa era stato sorpreso alla guida della suo vecchio furgone con
alcuni migranti eritrei. Il caso non aveva avuto un seguito giudiziario in
quanto il giudice aveva valutato che Herrou non lo aveva fatto per soldi
ma come atto umanitario, dunque non l’azione di un passeur, di chi con il
pagamento di denaro, fa passare clandestinamente il confine.
Herrou vive nella valle della Roja, una zona al confine tra la Francia e
l’Italia, ad alcuni chilometri da Ventimiglia, dove si mantiene con la
vendita dei prodotti della sua terra: uova, olio, olive, verdure. Nella valle
tutti sanno cosa fa per aiutare i migranti, molti lo sostengono.
Da quando la Francia ha chiuso la via d’ingresso di Ventimiglia sempre
più migranti tentano di evitare il blocco passando per le montagne o altre
vie, attraverso la valle della Roja. Herrou li aiuta, li accompagna, dà loro
cibo e vestiti. Per questo era stata chiesta per lui la condanna per
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
“Lo so che la legge è contro di me, contro quello che sto facendo per
aiutare le persone in difficoltà, ma allora cambiamo questa legge – aveva
detto Herrou – Le leggi devono essere fatte perché la società vada bene e
la gente possa vivere insieme in armonia”.
Il caso di Cédric Herrou ha riportato in primo piano i cosiddetti ‘reati di
solidarietà’, che nascono da una norma europea del 2002 che prevede
sanzioni contro chi accompagna, aiuta i profughi nel viaggio attraverso i
confini dell’Unione. Una norma che mette sullo stesso piano scafisti e
operatori umanitari. I casi dei ‘delitti solidali’ si moltiplicano, da Como a
Calais, spiega in un articolo su Altraeconomia Ilaria Sesana che racconta
diverse storie, tra cui quella italiana di Como. Un questione, quella dei
reati di solidarietà, che un buona politica dovrebbe affrontare e risolvere.
Herrou promette che continuerà la sua battaglia. Il contadino francese ha
sempre sostenuto che tutto quello che sta facendo è per aiutare i migranti
che fuggono da guerra, repressione, fame, e tra loro molti minori, persone
che lo Stato, dopo aver chiuso la frontiera, lascia al suo destino.
“Non è che mettendo in prigione me si risolve il problema- aveva detto nel
primo processo a Nizza- il problema sono le donne, gli uomini che
soffrono e non hanno voce. La democrazia ci impone di uscire per le
strade e guardare negli occhi le persone che ci sono accanto e aiutarle
anche quando non lo conosciamo”.
Herrou è soddisfatto della sentenza, ma avverte:
(fonte: Radio Popolare)
link:
http://www.radiopopolare.it/2017/02/continuero-a-battermi-per-aiutare-imigranti/
“La mia vera vittoria ci sarà quando non dovrò più fare questo e
occuparmi dei miei campi. Per questo chiedo che i politici si assumano le
proprie responsabilità, affrontando il dramma dei migranti, in particolare
dei minori che vengono respinti dalla Francia”.
Accordo Italia -Libia, ASGI all’Italia e all’UE : Così
si tradisce lo spirito europeo (di Associazione Studi
Giuridici sull'Immigrazione)
Herrou è stato invece assolto dall’accusa di aver occupato insieme a una
cinquantina di eritrei una struttura dismessa delle ferrovie dello stato
francesi e di aver favorito il movimento e la residenza di migranti
irregolari in Francia. Gli imputavano il favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina per aver aiutato duecento migranti ad
attraversare la frontiera e per aver dato da mangiare e da bere a 57 di loro.
La Procura di Nizza aveva chiesto per Herrou una condanna a 8 mesi con
la condizionale, il sequestro del suo furgone con cui trasportava i migranti,
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Al Summit informale della Valletta del 3 febbraio 2017 l’Unione
Europea conferma la politica degli accordi per la chiusura delle
frontiere. L’Italia asseconda le richieste UE e stipula un vergognoso
accordo con la Libia.
La nuova politica estera della Commissione e del Consiglio UE: fondi
allo sviluppo strumentalmente utilizzati come merce di scambio per
siglare accordi e partenariati con paesi terzi finalizzati a respingere
migranti e rifugiati
L’Asgi condanna fermamente la vergognosa politica degli accordi con i
Paesi terzi portata avanti dall’Unione Europea e dal Governo italiano.
“L’Unione Europea tradisce i principi cardine della civiltà giuridica e
viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei
cittadini” afferma il presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione, avv. Lorenzo Trucco.
persecuzioni e conflitti.
È necessario invertire la direzione delle politiche europee, promuovendo
ad ogni livello un’agenda politica che renda effettivo e realmente
accessibile il diritto d’asilo a partire dall’avvio di un reale e ampio Piano
Europeo di reinsediamento dei rifugiati bloccati in Paesi terzi che non
possono garantire loro adeguata sicurezza.
L’Unione Europea e il Governo italiano aggirano il dovere di accogliere le
persone in fuga da persecuzioni e guerre con una politica estera in materia
di immigrazione in gran parte basata su accordi e partenariati stipulati
con governi dittatoriali, come il Sudan, la Libia, il Niger o totalmente
incapaci di garantire l’incolumità dei propri cittadini, come l’Afghanistan.
Con questi accordi l’Unione Europea e l’Italia violano di fatto il
principio di non refoulement in quanto esigono che i Paesi terzi
blocchino con l’uso della forza il passaggio di persone in chiaro
bisogno di protezione internazionale. Ciò in cambio di competenze e
attrezzature militari oltre che dei fondi per la cooperazione, ossia di quelle
risorse economiche che dovrebbero, al contrario, essere destinate alla
crescita e allo sviluppo dei Paesi terzi, ignobilmente degradate a merce di
scambio.
ASGI evidenzia, altresì, che per superare le attuali politiche di gestione dei
flussi migratori, arbitrariamente selettive e inique, è necessario rafforzare
in modo consistente le operazioni di soccorso in mare, prevedere la
possibilità di rilascio, nei Paesi di origine o di transito, di un visto di
ingresso in relazione a conflitti armati o a gravi violazioni dei diritti
fondamentali, che consenta l’accesso sicuro nel territorio europeo a chi
è costretto a fuggire.
Inoltre, il Governo italiano, in totale spregio del diritto di asilo
consacrato nella Costituzione italiana e del dovere di rispettare i diritti
umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per l’Italia, ha siglato
il 2 Febbraio 2017 un Memorandum con il Governo libico con cui
l’Italia si impegna a fornire strumentazione e sostegno militare,
strategico e tecnologico, oltre a fondi solo teoricamente per lo sviluppo,
ad un Governo sotto costante ricatto di milizie violente e armate, al fine
di bloccare e controllare le partenze dei migranti in fuga. La Libia rimane
un paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia
di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, e continua a sottoporre i
profughi in fuga a trattamenti disumani e degradanti in centri di
detenzione, come testimoniano innumerevoli rapporti e appelli delle più
importanti organizzazioni internazionali, anche istituzionali.
È una sfida cruciale: sono in gioco i pilastri della democrazia europea. È
necessario che i movimenti, le forze associative e politiche si mobilitino,
ad ogni livello, in difesa dei diritti fondamentali dello spazio europeo,
attualmente sotto minaccia. Difficilmente ci sarà un’altra occasione.
L’Asgi chiede all’ Unione Europea di interrompere le politiche basate
sugli accordi con i Paesi terzi che mirano a rallentare e fermare il
passaggio dei profughi, strumentalizzando i temi della salvaguardia della
vita delle persone che tentano di raggiungere l’Europa e mascherando il
reale proposito di una brutale ed illegittima chiusura delle frontiere.
L’Asgi chiede di ridestinare i fondi della cooperazione all’effettivo
sviluppo sostenibile delle economie dei Paesi terzi nel rispetto
dell’ambiente e dei diritti degli uomini e delle donne.
L’Asgi chiede al Governo italiano di dare piena attuazione alla
Convenzione di Ginevra, e al principio di non refoulement in
particolare, alla Costituzione italiana e più in generale di adempiere al
dovere di accogliere chi fugge dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla
violazione dei diritti fondamentali, revocando il memorandum appena
siglato con la Libia e con gli altri Governi non democratici dell’Africa
e sospendendo i finanziamenti e il sostegno militare ai Governi dei
Paesi terzi (tra i quali il Sudan, la Libia, il Niger e la Nigeria), incaricati di
bloccare violentemente i flussi dei profughi.
Allo stesso modo, l’ASGI ritiene che l’Italia debba immediatamente
interrompere il rimpatrio dei cittadini verso Paesi dove non siano
rispettati i diritti fondamentali.
L’Asgi fa appello alle grandi e piccole Organizzazioni non governative
della cooperazione internazionale perché si rifiutino di assecondare
questo utilizzo strumentale dei fondi, pretendendo che l’erogazione di
questi ultimi non venga condizionata alle politiche di controllo della
frontiera.
L’Asgi fa appello, infine, all’UNHCR e all’OIM affinché si rifiutino di
continuare ad accettare di svolgere per la Commissione Europea incarichi
apparentemente finalizzati al sostegno e alla cura dei migranti e dei
rifugiati, ma che sono in realtà fondamentalmente diretti a favorire il
respingimento e il controllo degli uomini e delle donne in fuga da
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È possibile costruire una nuova relazione tra spazio europeo e flussi
migratori; per farlo bisogna ristabilire la centralità del diritto d’asilo come
paradigma di un’Europa aperta e solidale, promuovendo altresì gli
opportuni strumenti giuridici che consentano l’ingresso regolare per
ricerca lavoro a chi migra per motivazioni economiche.
link: http://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/italia-libia-accordo-ue/
Nonviolenza
L’obiezione del priore (di Mario Lancisi)
Cinquant’anni fa iniziava il processo a Don Milani per la lettera ai
cappellani militari. L’assoluzione, poi la condanna in appello e un dibattito
che portò all’approvazione della legge nel 1972
«Signori, entra la corte». Tribunale di Roma, 15 febbraio 1966, un
martedì. Alla sbarra un prete e un giornalista. Il primo, don Lorenzo
Milani, per aver scritto una lettera ai cappellani militari in difesa
dell’obiezione di coscienza al servizio militare, a quel tempo vietata dalla
legge (non pochi gli obiettori finiti in galera). Il secondo, Luca Pavolini,
direttore di Rinascita, settimanale del Partito Comunista Italiano, per aver
pubblicata la lettera dello scandalo. Accusa? Apologia di reato, di
incitamento alla diserzione e alla disubbidienza civile.
Pavolini partecipa all’udienza, don Milani no, troppo malato, il tumore lo
stava divorando. Per questo il priore aveva deciso di scrivere una lettera ai
giudici: «La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a
precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di
avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in
questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in
nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere
nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli
uomini». È questo l’incipit di uno scritto talora erroneamente scambiato
per un elogio della disobbedienza alle leggi.
L’aula del processo è affollata di giovani, di giornalisti e anche di qualche
prete. Don Lorenzo segue il dibattimento da Barbiana. Attorniato dai suoi
ragazzi attacca un piccolo registratore al telefono. Dall’altro capo del filo
l’amico Mario Cartoni, cronista giudiziario della Nazione, che alterna gli
appunti del dibattimento alla cronaca telefonica del processo.
Il primo a prendere la parola è il pubblico ministero Pasquale Pedote. Che
si scaglia contro il priore di Barbiana, lo accusa di aver insegnato ai suoi
ragazzi la disobbedienza alle leggi, e conclude l’arringa con la richiesta di
una condanna a otto mesi di reclusione.
A Barbiana il priore e i ragazzi fremono, Cartoni cerca di rassicurarli.
«Ora tocca al Gatti», avvisa il giornalista. Adolfo Gatti è il difensore di
ufficio di don Milani. Al priore non piace: «È un avvocato borghese che
difende giornali intellettuali come L’Espresso e il Mondo…”. La sua
difesa è nella lettera ai giudici, avvocati non li vuole, alla fine però accetta
quello di ufficio.
L’arringa del giovane Gatti scuote i giudici, che richiama al dovere di
senso politico delle leggi: «Don Milani ha posto un problema al quale non
si può dare una risposta formale. Qui signori giudici occorre un colpo
d’ala», conclude Gatti.
E il colpo d’ala arriva con la sentenza di assoluzione. «Don Lorenzo,
assoltoooo…», grida a squarciagola Cartoni. «Assolto come?», domanda
di rimando il priore. Cartoni: «Formula piena: perché il fatto non
costituisce reato. Contento?».
L’assoluzione di don Milani trasforma l’aula del processo in un tripudio:
giovani che applaudono e persino il compassato avvocato Gatti si mette a
saltare come un ragazzino. È la gioia che segna un progresso sociale.
L’obiezione al servizio militare, entrata nella coscienza civile della società
italiana, per la prima volta veniva compresa e fatta propria dai giudici di
un tribunale. Erano maturi i tempi per l’approvazione legislativa, alla
quale contribuì molto il giovane parlamentare fiorentino Nicola Pistelli. E
con lui gran parte della Firenze cattolica degli anni Sessanta. Da Giorgio
La Pira a padre Ernesto Balducci.
Un gesto scandaloso per i tempi fu ad esempio la decisione del sindaco
Giorgio La Pira di organizzare, il 18 novembre 1961, la proiezione privata
del film del regista francese Autant-Lara Tu ne tueras point, Non uccidere.
Un film simbolo sull’obiezione di coscienza, che all’inizio degli anni
Sessanta venne «proibito» dalla censura in diverse nazioni, fra cui l’Italia.
Due anni dopo Balducci, in un’intervista al Giornale del Mattino, sostiene
la legittimità dell’obiezione al servizio militare. Il padre scolopio viene
denunciato per apologia di reato. Assolto in primo grado viene condannato
in appello, il 15 ottobre del 1963, a otto mesi con la condizionale.
La stessa sorte viene riservata a don Lorenzo Milani in appello. Per
giustificare la sua assenza, il priore scrive di nuovo ai giudici una lettera di
poche righe: «Caro presidente, io ho la bua. Tanta bua. Che sei bischero a
farmi venire a Roma? Se mi vuoi vedere vieni te. Un bacio anche a tua
moglie». Righe ironiche. Di chi con l’anima si sente già di là. Il priore
muore infatti il 26 giugno 1967 mentre l’appello si tiene, quattro mesi e
due giorni prima della sentenza, in cui don Milani viene condannato. «Il
reato è estinto per la morte del reo», scrivono i giudici.
La strada per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza torna a farsi
lunga e accidentata. La legge verrà approvata soltanto nel 1972 . Ma i
migliaia di giovani che, a partire da quella data, ne hanno usufruito
sicuramente avranno provato un sentimento di gratitudine nei confronti
del «reo» don Milani.
(fonte: Corriere Fiorentino - segnalato da: Coordinamento Comasco per la Pace)
link:
http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/arte_e_cultura/16_febbraio_12/ob
iezione-priore-8b7a9748-d19d-11e5-ac58-cce880070ff3.shtml?refresh_ce-cp
Politica e democrazia
Umiltà e fierezza – Lettera aperta di Renato
Accorinti, sindaco di Messina (di Renato Accorinti)
Ogni volta che perdi, o intravedi il rischio di perdere, qualcuno o qualcosa
ti accorgi all’improvviso del suo valore. E ti svegli, prendi coscienza e
riscopri la preziosa ed imperfetta bellezza della sua interezza, senza più
concentrarti sui particolari, sui difetti che non sei mai riuscito ad accettare.
Oggi ci troviamo di fronte alla possibilità che il Consiglio Comunale voti
la sfiducia all’azione amministrativa della giunta Accorinti.
Per questo molti cittadini, anche quelli con posizioni critiche, si stringono
forte a questa esperienza collettiva e la difendono da un atto di forza che
vorrebbe porre fine a essa in modo anticipato. La mozione di sfiducia
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mette a nudo quella “politica” che politica non è. Fa gola tornare adesso,
nel tempo del raccolto, dopo la durissima e instancabile semina di questi
tre anni e mezzo, fatta passo dopo passo, risalendo con fatica e a mani
nude quell’abisso dentro il quale la città è stata sprofondata per decenni da
sporchi affari e clientelismo.
Questo gesto mette a nudo quella politica che è solita agire non avendo
scrupolo di compiere azioni nefaste per la città di Messina, senza pensare
un solo attimo alle conseguenze di un possibile ennesimo
commissariamento, paralizzando così gli atti di rinnovamento e tutti i
delicati processi in corso che hanno bisogno di continuità e cura. C’è chi
vive dentro confini ristretti, avendo cura solo del proprio tornaconto di
bottega, bramando le prossime elezioni, studiando a tavolino i propri
posizionamenti, passando da uno schieramento all’altro in base agli
accordi più vantaggiosi, senza nessuna idea o ideale. Io, “scusate, non mi
lego a questa schiera, morrò pecora nera”.
C’è poi chi prova a vivere il proprio ruolo in politica come un servizio,
una missione, pensando a valori alti di comunità. De Gasperi diceva: “Un
politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alle prossime
generazioni”. Certamente non sono uno statista. Nel mio piccolo, cerco di
agire col cuore nel cielo e i piedi ben piantati per terra, col desiderio di
dare intensità e profondità a un cammino di comunità. Cerco di compiere
lo sforzo emozionante di darci, tutti insieme, la possibilità di umanizzare
la politica. Stiamo amministrando impegnandoci a togliere le montagne di
macerie, a rimediare all’immane disastro della macchina amministrativa,
delle partecipate e dei bilanci. Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo
ricostruito le fondamenta, abbiamo creato la possibilità di fare le opere più
importanti che cambieranno per sempre il futuro della città. Siamo stati
“concreti come dei sognatori”. Per questo sono sereno pensando che,
sfiducia o non sfiducia, sono comunque arrivati troppo tardi.
Noi abbiamo già vinto. Abbiamo già cambiato i connotati della politica,
restituendo valore alla parola “politica”, provando a mettere al centro
l’uomo e il cittadino nei suoi fondamentali diritti a partire dagli ultimi.
L’avvio di una rivoluzione culturale. Lo abbiamo fatto noi, liberi cittadini
messinesi, società civile che ha scelto di compattarsi, non con vuoti
slogan, ma con la pienezza e la forza degli ideali, fino a vincere
un’elezione, sconfessando tutti i pronostici, irrompendo come un fiume in
piena dentro il Palazzo, scardinando come arieti tutte le porte delle stanze
del potere. Abbiamo fatto rinascere la fiducia nella politica, dimostrato che
davvero nulla è ineluttabile, che tutto può essere ribaltato. Che anche oggi
si possono fare le rivoluzioni. Che i sogni possono diventare realtà.
Soprattutto se sognati da una intera collettività. E questo è il senso di
Cambiamo Messina dal Basso.
Abbiamo dato l’opportunità di riflettere a milioni di persone, in Italia e in
Europa. A loro abbiamo detto e diciamo ancora: “Noi non sapevamo che
era impossibile, quindi lo abbiamo fatto.
Ci ha guidato l’Utopia, ora provateci anche voi!”. Ormai niente sarà più
come prima, perché questa esperienza ha dato prova che si può realizzare
l’irrealizzabile. Perché da una presa di coscienza collettiva indietro non si
torna. Questa è la nostra vera vittoria. Nonostante i limiti, gli errori e le
imperfezioni.
Renato Accorinti
(fonte: Pressenza: international press agency)
link: https://www.pressenza.com/it/2017/01/umilta-fierezza-lettera-aperta-renatoaccorinti-sindaco-messina/
Notizie dal mondo
America Latina
La sentenza di primo grado del "processo Condor"
(di Geraldina Colotti)
Come valutare la sentenza di primo grado sul processo Condor a Roma?
La Corte ha condannato all'ergastolo 8 ex alti ufficiali o presidenti in
carica durante le dittature del Cono Sur per la morte e la scomparsa di
cittadini italiani durante l'attività criminale del Plan Condor, la rete a guida
Cia che serviva a liberarsi degli oppositori senza leggi né frontiere durante
gli anni '70 e '80. Le assoluzioni sono state 19. Un documento
declassificato dalla Cia e datato 23 giugno 1976 spiega la nascita del
Condor, dopo una riunione che si svolse a Buenos Aires tra le intelligence
dell'Argentina, del Cile, dell'Uruguay, del Paraguay e della Bolivia. Poi si
aggiungeranno Brasile, Perù e Ecuador. L'Argentina, che conta 30.000
scomparsi, sarà l'epicentro del Condor.
Il processo in Italia ha avuto origine da un'inchiesta del Pm Giancarlo
Capaldo, messa in moto dalle denunce dei famigliari delle vittime nel '99,
molte delle quali argentine, in un paese che, allora, era ancora sotto il
blocco delle leggi di impunità ai repressori. Su 146 accusati inizialmente
dal Pm - tra i quali 61 argentini, il tribunale ha finito per processare 34
militari e civili provenienti dalla Bolivia, dal Cile, dal Perù e dall'Uruguay.
Le condanne, emesse dalla presidente del tribunale, Evelina Canale, hanno
riguardato gli ex dittatori boliviani Luis Garcia Mesa e Luis Arce Gomez,
i cileni Hernan Jeronimo Ramirez e Rafael Ahumada Valderrama, i
peruviani Francisco Morales Bermudez, Pedro Richter Prada e German
Ruiz Figueroa, e l'ex ministro degli Esteri uruguayano Juan Carlos Blanco,
già in carcere nel suo paese insieme a una trentina di responsabili.
La maggior parte degli assolti è uruguayana. Tra questi, Pedro Mato, che
si è rifugiato in Brasile e Jorge Troccoli, che vive in Italia e per cui è stata
negata in precedenza l'estradizione. Assolti anche dei cileni e un
peruviano. Il primo processo al Condor si è svolto in Argentina e si è
concluso il 27 maggio dell'anno scorso con la condanna di 14 capi militari
e ufficiali di intelligence argentini e un uruguayano, con pene tra gli otto e
i 25 anni di carcere per oltre un centinaio di delitti di lesa umanità.
Per Jorge Ithurburu, infaticabile presidente dell'associazione 24 marzo,
che ha accompagnato i processi e le vittime in questi anni, si è trattato di
un risultato altamente positivo nel suo complesso, che per la prima volta
ha evidenziato l'articolazione della rete criminale nelle sue responsabilità e
diramazioni. Un risultato che, dopo il processo al Condor che si è tenuto
in Argentina, rafforzerà le iniziative di quei paesi che, come la Bolivia,
stanno per votare una legge per l'istituzione di una Commissione per la
verità sui desaparecidos, "e renderà più difficile l'uscita dal carcere di
alcuni repressori già condannati".
Anche per le associazioni dei famigliari del Brasile, dove una
Commissione per la verità voluta da Dilma Rousseff non è mai andata
avanti, il processo aprirà delle porte: in attesa che arrivi anche una
sentenza specifica relativa ai delitti del Condor contro cittadini italobrasiliani in Brasile, un procedimento stralciato dal filone principale.
Pur condividendo l'amarezza degli uruguayani e la delusione dei loro
avvocati, Ithurburu ritiene in attivo il bilancio, e confida che le
motivazioni delle sentenze forniranno materia di ricorso in appello,
volontà che molti famigliari hanno già manifestato. Nonostante la linea
seguita dalla Corte, che ha cercato soprattutto la catena di comando,
negando il funzionamente criminale, relativamente autonomo nelle varie
strutture repressive, la sentenza potrebbe anche portare elementi utili
all'apertura del processo contro l'attacco al palazzo della Moneda in Cile,
che portò al suicidio di Salvador Allende, durante il golpe dell'11
settembre 1973.
L'ex dittatore Augusto Pinochet, pur essendo stato un uomo-chiave del
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Plan Condor dal novembre del 1975, ne ha sempre negato l'appartenenza.
Quando perse l'immunità parlamentare, fu processato e detenuto per la sua
partecipazione al Plan Condor e giudicato per 75 assassinii attribuiti alla
Carovana della morte, che ha attraversato il Cile eliminando gli oppositori
dopo il golpe. Ma non fu mai condannato. Secondo le ricostruzioni,
l'assassinio dell'ex comandante in capo dell'esercito cileno, Carlos Prats e
di sua moglie, commesso a Buenos Aires nel 1974 sia stato uno dei primi
delitti del Condor. E anche l'omicidio dell'ex ministro degli Esteri cileno
Orlando Letelier e della sua segretaria statunitense Ronnie Moffitt, fatti
saltare in aria a Washington nel 1976 è attribuito al Condor. La dittatura di
Pinochet ha provocato oltre 3.000 vittime.
(fonte: Il Manifesto del 20/01/2017 - segnalato da: Aldo Zanchetta)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2699
Turchia
Turchia, in sette mesi espulsi 4.811 accademici (di
Murat Cinar)
In Turchia, dopo il tentativo del colpo di stato del 15 luglio 2015 le
università attraversano un periodo molto difficile. Pochi giorni dopo il
tentativo di golpe, il 20 luglio, è stato dichiarato per la prima volta lo stato
d’emergenza, che ha avuto una durata di tre mesi ed è stato poi rinnovato
per tre volte consecutivamente. Il paese vive quindi ancora oggi in questa
condizione straordinaria. La presenza di numerosi controlli, l’impossibilità
di svolgere manifestazioni di protesta, l’annullamento di numerose
manifestazioni culturali sono soltanto alcune conseguenze dello stato
d’emergenza.
Attraverso i decreti legge il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro
e il Consiglio dei Ministri hanno trasformato il paese su più fronti
adducendo “motivi di sicurezza”. Cambiamenti radicali nella gestione
degli enti pubblici, interventi straordinari nella gestione dei fondi
pensionistici, apertura di nuovi cantieri edili per i privati, oppure per le
grandi opere pubbliche in terreni prima appartenenti alle forze armate ed
espulsione di numerosi impiegati statali presso vari ministeri. Tra queste
persone allontanate dal posto di lavoro e finite sotto indagine ci sono
4.811 accademici universitari.
Dal 20 luglio fino a oggi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale
cinque decreti legge che riguardano i lavoratori dell’informazione e sono
state chiuse 15 università su 191. Secondo i dati diffusi dalla Rete dei
Giornalisti Indipendenti (BiaNet) queste strutture davano lavoro a 2.805
persone ed erano frequentate da 64.533 studenti.
Oltre alle università chiuse definitivamente, perché accusate di
appartenere alla rete della comunità di Gulen – accusata a sua volta di aver
progettato e messo in atto il tentativo di colpo di stato del 15 luglio – in
diverse atenei sono stati licenziati e indagati 4.811 accademici.
Osservando i nomi si nota che molti compaiono tra i firmatari
dell’appello per la pace lanciato nel gennaio del 2016 da 1.128 accademici
appartenenti a 89 università in Turchia e all’estero, con la richiesta allo
Stato di porre fine al massacro e alla politica di espulsione contro la
popolazione delle regioni del sud est della Turchia e di punirne i
responsabili. Il conflitto tra le forze armate turche e la guerriglia del
Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è ricominciato nel luglio del
2015 dopo due anni di tregua. I firmatari dell’appello hanno subito
numerosi attacchi politici e mediatici da parte del Presidente della
Repubblica, del Primo Ministro, di numerosi esponenti del governo e di
vari giornali e canali televisivi allineati con le politiche del governo. Nel
giro di poche settimane alcuni accademici sono stati sospesi e denunciati e
alcuni hanno passato parecchie settimane in detenzione cautelare.
In base al decreto del 7 febbraio 2017 sono stati sospesi 330 accademici.
Tra questi c’è anche la Professoressa Oget Oktem, la prima
neuropsicologa del paese, conosciuta anche per aver aperto il primo studio
di neuropsicologia in Turchia. Tra gli accademici espulsi c’è anche la
Professoressa Nur Betul Celik, che insegnava presso la Facoltà di
Comunicazione dell’Università di Ankara. Secondo Celik queste
espulsioni non prendono di mira soltanto i firmatari dell’appello, ma
anche la cultura accademica e la ricerca scientifica del paese. “Non siamo
soltanto noi le vittime di questa situazione, ma anche le future
generazioni”, ha dichiarato Celik nell’intervista rilasciata al portale di
notizie T24. Nella Facoltà di Lingue, Geografia e Storia dell’Università di
Ankara presso il corso di laurea in Teatro a causa delle numerose
espulsioni sono rimasti solo tre insegnanti di recitazione e un professore
per il corso di scrittura creativa. Nella Facoltà di Scienze Politiche della
stessa università con l’ultimo decreto sono stati espulsi 23 accademici.
Secondo il Professor Ayhan Yalcinkaya grazie a questa situazione per il
momento 50 laureandi sono rimasti senza tutor e circa 40 corsi sono stati
interrotti per mancanza di insegnanti.
E’ stata l’Università di Suleyman Demirel della città di Isparta a subire la
maggior parte dei danni sin dall’inizio dei primi decreti, perdendo 193
accademici, seguita dall’Università di Istanbul con 192 espulsi,
dall’Università di Gazi ad Ankara con 169 professori e dall’Università di
Pamukkale a Denizli con 164 accademici sospesi/espulsi.
Secondo un’intervista realizzata dalla BBC Turchia con Sener Aslan,
responsabile relazioni con la stampa del Consiglio per l’educazione
superiore (YOK), non è quest’ente a decidere i nomi degli accademici
espulsi. Secondo Aslan in questo periodo sono stati istituiti dei consigli
indipendenti presso ogni università; sono stati i membri di questi consigli
a decidere i nomi e i provvedimenti da prendere. Aslan ha precisato che gli
accademici espulsi potranno appellarsi alle decisioni rivolgendosi a queste
commissioni.
In un intervento televisivo presso TELE1, Erdogan Boz, professore presso
la Facoltà di Lingue Straniere dell’Università di Ankara, espulso anche lui
con l’ultimo decreto, ha dichiarato: “Coloro che ci spingono verso la
povertà e la fame pensano che rinunceremo a ciò che abbiamo detto, ma
si sbagliano. Tutto questo prima o poi avrà delle ripercussioni e dei
riscontri. Questa situazione non è sostenibile sia per il paese che per il
governo. Se si continua così questo paese diventerà invivibile anche per
chi mette in atto questa persecuzione”.
Uno degli espulsi in base all’ultimo decreto legge è Ibrahim Kaboglu,
Presidente del Corso di Laurea in Giurisprudenza dell’Università di
Marmara, che nel 2002 era stato nominato dallo stesso governo come
Presidente del Consiglio per i Diritti Umani del Primo Ministro (attuale
Presidente della Repubblica). In un’intervista rilasciata all’agenzia di
notizie DHA, Kaboglu ha affermato: “In questi mesi sono stati messi in
atto diversi provvedimenti che non c’entrano con il tentativo di colpo di
stato. Uno di questi è la distruzione delle università. Non è accettabile che
vengano prese delle decisioni contro la Costituzione e contro una serie di
convenzioni internazionali, di cui la Turchia risulta la firmataria e si
coinvolgano scienziati che non fanno altro che portare avanti le loro
ricerca. Si tratta di un errore molto grave, che potrebbe portare il paese a
errori ancora più gravi”.
Pubblichiamo la premessa al "Report 2016" redatto, come avviene ormai
ogni anno, dall'Associazione Volontari Ascolto e Accoglienza che dal
1987 ospita persone senza dimora presso la Casa di Accoglienza di via
Godola a Massa.
Tale documento vuole essere l'occasione per riflettere sulle realtà e sulle
conseguenze dell'esclusione sociale.
in campo il proprio bisogno di esprimere gesti concreti di solidarietà nei
confronti degli esclusi, dall'altro però è anche un indicatore di un territorio
che delega completamente al volontariato la realizzazione di servizi che
necessiterebbero anche una presenza diversa, nella quale la disponibilità
personale si intersechi con un impegno istituzionale, per evitare che il
volontariato assuma un ruolo suppletivo rispetto all'impegno necessario
del pubblico.
Una riprova di questo è il fatto che la Casa di Accoglienza generalmente
rimane chiusa nei mesi di luglio e agosto e nel periodo tra natale e
l'epifania, periodi nei quali non è possibile chiedere un ulteriore sforzo alla
già significativa disponibilità dei volontari.
Inoltre il fatto che l'apertura della Casa di Accoglienza sia garantita
esclusivamente grazie ai volontari espone questa realtà ad una precarietà
continua, tanto che nel 2016 abbiamo faticato non poco a riaprire ad
ottobre dopo la pausa estiva e, in occasione dell'emergenza freddo dei
primi giorni del 2017, ci siamo trovati impreparati con la Casa di
Accoglienza chiusa, come previsto.
Crediamo che un rapporto diverso tra la Casa di Accoglienza e le
Amministrazioni Pubbliche e le altre realtà associative potrebbe assicurare
un servizio migliore.
Ciò premesso, invitiamo a leggere questo report con la consapevolezza
che la Casa di Accoglienza è una minuscola realtà che, assieme ad altri
servizi quali le Mense per i Poveri e i centri di ascolto, può offrire una
prospettiva parziale e limitata di quella realtà dell'esclusione che tendiamo
a rimuovere e ad allontanare dai nostri sguardi.
Dietro ai numeri ci sono persone, i loro volti, le loro fatiche... ma quegli
stessi numeri rappresentano, dal nostro piccolo osservatorio, anche i limiti
del nostro sistema sociale che, di fatto, tende volentieri ad escludere più
che ad essere accogliente, sapendo che l'accoglienza non è solo erogazione
di un servizio primario, ma un processo nel quale fare sentire una persona
parte di una comunità.
Esporremo, come di consueto, prima i dati del Centro di Ascolto e,
successivamente, quelli della Casa di Accoglienza, per concludere con il
capitolo finale relativo alle/ai volontarie/i.
Come si può osservare, non vi è molta differenza tra i dati del Centro di
Ascolto e quelli relativi alla Casa di Accoglienza in considerazione del
fatto che da due anni è stato deciso di accogliere esclusivamente le
persone che fanno il colloquio il lunedì al Centro di Ascolto, ad eccezione
di situazioni particolari richieste dai servizi sociali o da altre associazioni.
Un elemento che desta attenzione è la diminuzione dei colloqui fatti al
Centro di Ascolto (-16,81%) e delle ospitalità alla Casa di Accoglienza (8,54%).
Poiché i dati relativi alla situazione economica e occupazionale, a livello
sia locale che nazionale, indicano un aumento delle fasce di povertà e dei
livelli di disuguaglianza, questa diminuzione non può essere intesa come
un miglioramento delle condizioni delle persone che si trovano in stato di
disagio estremo.
Difficile, almeno per noi decifrarne le cause. Forse potrebbe essere di
aiuto anche un confronto con le analoghe strutture vicine (La Spezia,
Viareggio, Pisa, Livorno...).
Tuttavia questa diminuzione potrebbe essere l'indicatore sociale dei limiti
e forse inadeguatezza che ha il servizio offerto dalla Casa di Accoglienza
rispetto alle richieste di aiuto.
Escluso quindi che la diminuzione dipenda da una soluzione delle
difficoltà degli ospiti, forse sarebbe utile riflettere sulla necessità, anche
nel nostro territorio, coma già avviene nello spezzino e nel pisano, di
realizzare strutture di accoglienza non solo di bassa soglia, ma anche per
periodi più lunghi, costruendo progetti di inclusione che vadano ad
incidere invece nelle normali prassi di esclusione che respiriamo nelle
nostre società.
Premessa
Il Direttivo AVAA
Prima di presentare il consueto report annuale sulla realtà della Casa di
Accoglienza, crediamo sia doveroso un ringraziamento particolare a tutte/i
le/i volontarie/i che con il loro impegno assicurano l'apertura di questa
realtà, presente nel nostro territorio dal 1985.
Un impegno significativo che da un lato testimonia la volontà di mettere
Massa, 25 gennaio 2017
(fonte: Pressenza: international press agency)
link:
https://www.pressenza.com/it/2017/02/turchia-sette-mesi-espulsi-4-811accademici/
Associazioni
Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report
2016 (di Associazione Volontari Ascolto Accoglienza)
9
Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report 2016
http://www.aadp.it/dmdocuments/doc2436.pdf
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2701