racconti delle origini - Pontificio Istituto Giovanni Paolo II

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RACCONTI DELLE ORIGINI
Cominciamo la nostra esplorazione dell'Antico Testamento dai primi capitoli del libro della
Genesi. Questa parte della Bibbia contiene due cicli narrativi di grande interesse per la nostra
ricerca, vale a dire i racconti della creazione e del diluvio. Ambedue appartengono al genere dei
racconti di inizio, come li chiama P. GIBERT.1 Potremmo anche chiamarli narrazioni protologiche,
che risalgono cioè alle prime origini di un fenomeno per esprimerne in qualche modo la natura.
Nelle antiche culture mediorientali l'inizio è più di una semplice categoria temporale, è un evento
fondativo: ciò che è accaduto all'inizio si ripete poi costantemente nel tempo. In questo mondo
culturale cosmogonia2 equivale dunque a cosmologia, e antropogonia ad antropologia.
Il linguaggio di questo tipo di narrazioni è generalmente mitico. Va tenuto ben presente che
mitico non è lo stesso che favoloso o leggendario. Il mito è un tentativo di spiegare la realtà,
attraverso una rappresentazione figurata e drammatica anziché una speculazione razionale. Così
compreso, il mito non disconviene in nessun modo alla dignità della Sacra Scrittura.3 Gli autori dei
primi capitoli della Genesi hanno utilizzato dei miti, o meglio dei mitemi (= elementi di miti),
comunemente accettati nel loro mondo culturale. Non mi sembra esatto dire che hanno
demitologizzato le tradizioni antico-orientali sull'origine del mondo e dell'uomo; direi piuttosto che
vi hanno attinto modificandole e adattandole alla loro visione religiosa. Il confronto con la
letteratura mesopotamica4 si rivela da questo punto di vista illuminante.
1 Vedi Bibbia, miti e racconti dell'inizio, Brescia 1993 (Biblioteca biblica 11).
2 Mi permetto di segnalare il mio contributo «Cosmogonia biblica?», Scienza, filosofia e teologia di fronte alla nascita
dell'universo, ed. P. ELIGIO e altri, Como 1997, 33-44.
3 GIOVANNI PAOLO II riconosce un “primitivo carattere mitico” alla storia di Adamo ed Eva (L’amore umano nel
piano divino, cit., 108); egli ha cura di spiegare che “il termine ‘mito’ non designa un contenuto fabuloso, ma
semplicemente un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo” (cit., 124). Nell'enciclica Humani generis
(1950) PIO XII aveva dichiarato ammissibile l'ipotesi che gli autori biblici avessero attinto a narrazioni popolari, le quali
non erano però in nessun modo da porre sullo stesso piano delle mitologie.
4 Menzioniamo in particolare il poema di Atrahasis (= sapientissimo) e quello designato con le sue parole iniziali
enuma eliš (= quando lassù). Di ambedue è disponibile una versione italiana in J. BOTTÉRO - S.N. KRAMER, Uomini e
dei della Mesopotamia, Torino 1992, 560-600 e 640-722.
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Un primo elemento che tale confronto fa emergere è l'assenza nella Genesi di qualsiasi
teogonia: non vi sono dei che si uniscono a dee per generare altri dei; o di teomachia: non vi sono
dei che combattono contro altri dei. Sarebbe però errato dedurre da ciò che siamo in presenza di un
monoteismo come quello che forma l'oggetto del trattato teologico de Deo uno. Una frase come
“l'uomo è diventato come uno di noi” (Gen 3,22) allude ad esempio inequivocabilmente ad una
pluralità di esseri divini, dei quali però uno solo governa e decide.1 Potremmo parlare di un
monoteismo più qualitativo che quantitativo. 2
L'oggetto di queste narrazioni non sono dunque vicende di dei, ma di esseri umani. Si possono
distinguere due grandi blocchi, che potremmo chiamare quello della prima umanità (Adamo e la sua
discendenza) e della seconda umanità (Noé e la sua discendenza). L'evento che le separa è il diluvio
che distrugge tutti gli animali non acquatici, ad eccezione appunto di quelli che entrarono nell'arca
di Noé.
Espositivamente inizieremo dai due racconti contenuti nei primi tre capitoli della Genesi,
quello della creazione del mondo e quello del paradiso terrestre. Esamineremo successivamente
anche il racconto del diluvio, ed offriremo infine una riflessione ricapitolativa.
1 Vedi a questo proposito A. SCHENKER, «Le monothéisme israélite: un Dieu qui transcende le monde et les dieux»,
Biblica 78 (1997), 436-448; «Das Paradox des israelitischen Monotheismus in Dtn 4:15-20. Israels Gott stiftet Religion
und Kultbilden der Völker», in Bilder als Quellen. Images As Sources. Studies on Ancient Near Eastern Artefacts and
the Bible Inspired by the Work of O. Keel, edd. S. BICKEL et alii, Friburgo-Gottinga 2007 (Orbis Biblicus et Orientalis
Sonderband), 511-528.
2 In uno stadio successivo le divinità minori divennero angeli. Vedi J.-L. CUNCHILLOS ILARRI, Cuando los ángeles
eran dioses, Salamanca 1976 (Biblioteca Salmanticensis. Estudios 12).
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Il racconto della creazione del mondo
Prendiamo per primo in considerazione il brano che va da Gen 1,1 a Gen 2,3. Dal punto di
vista letterario si tratta di un racconto, che narra il divenire del mondo1 presente a partire da uno
stato primitivo (quella che è uso chiamare cosmogonia). La critica lo attribuisce al cosiddetto scritto
sacerdotale,2 composto in epoca successiva alla deportazione in Babilonia.
L'articolazione di questo racconto3 è come segue:
a partire dallo stato iniziale, in cui la terra è interamente sommersa dalle acque, sopra le quali vi è
tenebra e soffia il vento,4 Dio5
1) fa essere la luce separandola dalla tenebra;
2) crea6 il firmamento7 per separare le acque superiori dalle inferiori;
3) dalle inferiori fa emergere la terra ferma su cui fa spuntare la vegetazione;
4) appende al firmamento il sole, la luna e le stelle;
5) crea gli animali acquatici e alati;
6) crea gli animali terrestri e l'uomo, ai quali assegna la vegetazione come cibo;
7) smette di lavorare e santifica il settimo giorno.
1 Poichè l'ebraico biblico non possiede un termine per dire “mondo”, si usa al suo posto il merismo “il cielo e la terra”.
2 Comunemente citato con la sigla P, dal tedesco Priesterschrift.
3 Spesso lo si fa terminare con la prima metà di Gen 2,4, che a me sembra invece non avere la funzione di concludere
questo racconto, ma piuttosto di aprire (a guisa di titolo) quello seguente.
4 Propriamente “soffio di Dio”. Questa rappresentazione del mondo primitivo come buio e ventoso si ritrova anche
nella cosmogonia fenicia.
5 Designato col nome comune ’elōhîm, non con yhwh, nome proprio del Dio di Israele, che nello scritto sacerdotale è
rivelato per la prima volta a Mosè (cfr. Es 3,13-15).
6 Propriamente “fa”. In tutta questa pericope si alternano i verbi br’ e ‘śh, “creare” e “fare”. In ebraico br’ (il cui
soggetto è sempre Dio) si distingue da ‘śh perché designa un'azione che eccede le capacità umane. Non va pertanto
inteso nell'accezione filosofica di creatio ex nihilo, attestata per la prima volta in 2 Mac 7,28. In Sp 11,17 si afferma che
Dio creò il mondo “dalla materia informe”.
7 Rappresentato come una superficie solida, come un soffitto o una volta, che trattiene le acque.
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Si distinguono tre grandi fasi in questa narrazione. La prima è aperta dalla creazione della luce
e dalla conseguente separazione tra giorno e notte, ed è chiusa dalla creazione del sole e della luna
che governano rispettivamente il giorno e la notte. All'inizio la terra è tōhû1 wāvōhû, spazio
inabitabile, alla fine è invece pronta per essere abitata. La seconda fase si apre con la creazione e
benedizione degli animali acquatici, e si chiude con la creazione e benedizione degli uomini, cui
viene affidato il governo della terra e delle altre specie animali. Da disabitato il mondo è divenuto
abitato, pieno di viventi in grado di riprodursi, ed è provveduto di un governatore. La terza fase è la
santificazione del settimo giorno: il lavoro della creazione è terminato e Dio cessa da ogni attività.
Come osserva J.-L. SKA, “cette conclusion peut surprendre qui connaît les récits de création
du monde antique, parce que Dieu se réserve un temps sacré, mais il ne se construit pas de temple”.2
Nel poema enuma eliš, di cui si faceva pubblica lettura a Babilonia nella festa di Capodanno, si
racconta della costruzione del tempio di Marduk, il Dio che vinse le forze del caos e creò il mondo
abitabile. Un Dio capace di compiere un'impresa così grande merita di essere adorato, e deve
esserlo, se non si vuole rischiare che il mondo ripiombi nel caos. L'ordine della creazione non si
mantiene infatti per forza d'inerzia, ma deve essere di continuo rimesso in vigore. Il culto prestato al
creatore ne assicura la benevolenza e con ciò il mantenimento dell'ordine della creazione.
Colui che ha scritto Gen 1,1-2,3 rivendica al Dio di Israele l'onore di aver creato il mondo, ma
non menziona la costruzione di un santuario, bensì l'istituzione di un giorno sacro. La costruzione di
un santuario sarà raccontata più avanti (cfr. Es 35-40). M. WEINFELD fa notare la corrispondenza
“between the description of the completion of the creation in Genesis and the description of the
completion of the tabernacle in Exodus”.3 L'istituzione del sabato non rimpiazza la costruzione del
santuario, ma la anticipa. Leggiamo nel Levitico: «osservate i miei sabati e temete il mio santuario”
(19,30 e 26,2). Osservare il sabato è riconoscere che Dio ha creato il mondo e rendergli omaggio.
1 Vedi Is 45,18: “così ha detto il Signore che ha creato il cielo, il Dio che ha formato la terra, l'ha fatta e preparata, non
come tōhû l'ha creata, ma per essere abitata l'ha formata”.
2 «La structure du Pentateuque dans sa forme canonique», Zeitschrift für alttestamentliche Wissenschaft 113 (2001),
336.
3 «Sabbath, Temple and the Enthronement of the Lord. The Problem of the Sitz im Leben of Genesis 1:1-2:3»,
Mélanges bibliques et orientaux en honneur de H. Cazelles, edd. A CAQUOT e M. DELCOR, Neukirchen 1981 (Altes
Orient und Altes Testament 212), 502.
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Il racconto della creazione non è dunque in realtà antropocentrico. È vero che l'uomo è
l'ultima opera creata e gli è conferita la sovranità sugli altri viventi. Il racconto si chiude però con la
santificazione e benedizione del settimo giorno, affidando con ciò agli uomini non soltanto la
responsabilità di governare il mondo, ma pure quella, ancora più grande, di riconoscere la sovranità
del creatore. È altresì vero che l'uomo cui Dio affida il mondo è Israele; detto in altro modo, Israele
rappresenta l'intera umanità. Osservando il sabato (e l'intera legge divina), Israele compie a nome di
tutti gli uomini il disegno di Dio sulla creazione.
All'interno di questa prospettiva possiamo ora affrontare i versetti che parlano della creazione
e benedizione della prima coppia umana:
[26] Dio disse: facciamo l'uomo come nostra immagine, secondo nostra somiglianza,
e dominino 1 sui pesci del mare, gli uccelli del cielo, il bestiame,
tutta la terra ed ogni essere che si muove sulla terra.
[27] Dio creò l'uomo come sua immagine, come immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.
[28] Dio li benedisse e Dio disse loro: fate figli2 e moltiplicatevi, riempite la terra e assoggettatela,
dominate sui pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni animale che si muove sulla terra. (Gen 1,26-28)
Abbiamo qui prima la decisione (v. 26) e poi l'esecuzione (v. 27). Questa successione non si
riscontra solo qui, ma pure nella creazione del firmamento (cfr. vv. 6-7), degli astri (vv. 14-16),
degli animali acquatici e alati (vv. 20-21) e terrestri (vv. 24-25). La differenza sta nel fatto che la
volontà di fare le altre creature è espressa mediante imperativi (“vi sia”, “vi siano”, “brulichino”,
“produca”), la volontà di creare l'uomo mediante un imperfetto alla prima plurale: “facciamo”.
Come interpretare questo “facciamo”? L’ipotesi del “noi” maiestatis è debole, non essendo
attestato altrove nella Bibbia ebraica. Più convincente quella del “noi” di autoesortazione, per il
quale si può trovare un parallelo in Ct 1,11: “facciamo (= voglio fare) per te ornamenti d’oro”.3
“Facciamo” può pertanto comprendersi come variazione stilistica per “farò”; il che concorda con il
fatto che il versetto seguente inizia con un verbo alla terza singolare (“e creò”).
1 La congiunzione ha valore implicitamente finale: e dominino = affinché dominino..
2 Letteralmente: “fate frutti”.
3 Si possono citare anche Gen 11,7 (“scendiamo e confondiamo”) e 2 Sm 24,14 (“cadiamo nelle mani del Signore”),
dove il plurale è accompagnato da una particlla esortativa, assente in Gen 1,26.
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Se si trattasse invece di un vero plurale, dovremmo supporre la presenza di ascoltatori, cosa di
cui il testo non offre la minima indicazione.1 Non vi è motivo di pensare che il “disse” di Gen 1,26,
come tutti i “disse” precedenti, sia rivolto a qualcuno in particolare; non è altro che comunicazione
di una decisione presa. I rabbini hanno pensato che fosse rivolto ad angeli;2 la cristianità dei primi
secoli lo comprendeva come parola rivolta dal Padre al Figlio.3
Oggetto del verbo è ’ādām, che abbiamo tradotto “l’uomo”, nonostante l’articolo manchi nel
testo ebraico. Il fatto che il secondo emistichio inizi con un verbo alla terza persona plurale (“e
dominino”) mostra che non si intende un singolo, ma un collettivo: l'umanità.
La frase si chiude con due complementi in asindeto: beṣalmenû kidemûtenû. Ho preferito
tradurre beṣalmenû “come nostra immagine”, anziché “a nostra immagine”.4 Grammaticalmente
sono possibili ambedue, ma la prima a mio giudizio si adatta meglio al contesto del versetto, che
vuole precisamente spiegare quale scopo Dio si è proposto quando ha fatto l’uomo. Ritengo che la
preposizione b- di beṣalmenû abbia qui il senso di quello che i grammatici chiamano il b- essentiae:5
in qualità di nostra immagine, perché sia nostra immagine nel mondo. La traduzione “a nostra
immagine” lascia intendere che Dio abbia fatto l'uomo prendendo sé stesso come modello,6 il che
contrasta con l’idea che Dio non ha forma rappresentabile: vedi soprattutto Dt 4,15-19, che proprio
ciò adduce a giustificazione della proibizione di fare qualsiasi immagine di Dio.7
1 A favore della presenza di ascoltatori si potrebbe addurre Gb 38,7, dove si legge che i figli di Dio acclamarono mentre
venivano poste le fondamenta della terra. Nella mitologia mesopotamica (vedi sia Atrahasis che Enuma eliš) la
creazione degli uomini è preceduta da una conversazione tra dei.
2 Vedi il Targum Pseudo-Yonatan e il midrash Bereshit rabba (VIII,3).
3 In questo senso si pronunciò il concilio di Sirmio del 351. Tale interpretazione è perfettamente legittima nel suo
ambito, ma non può ovviamente pretendere di rappresentare il pensiero dell’autore umano di Gen 1.
4 La traduzione “a immagine” è usata nella costituzione conciliare Gaudium et spes, § 12. Vedi pure il Catechismo della
Chiesa Cattolica, §§ 356-357.
5 Gli esempi più pertinenti di questo uso di b- mi sembrano trovarsi in Nu 18,26; Dt 1,13; Sal 78,55.
6 In questo senso è usato il sostantivo tavnît (vedi ad esempio Es 25,40), non ṣelem.
7 L’ordine in cui sono elencate le creature in Dt 4,16-19 corrisponde (in ordine inverso) a quello di Gen 1, il che fa
pensare che l’autore conoscesse il racconto della creazione del mondo, o almeno la tradizione da cui proviene. In Nu
12,8 leggiamo invece che Mosè vedeva la forma del Signore.
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kidemûtenû aggiune a beṣalmenû l'idea della somiglianza.1 Il Pentateuco Samaritano pone tra i
due complementi una congiunzione; così pure la versione dei Settanta: kat’ eikóna2 hemetéran kaì
kath’ homóiosin, “secondo la nostra immagine e secondo la somiglianza”. Ciò ha aperto la strada a
interpretazioni come quelle di IRENEO di Lione, che nell’immagine vedeva la dimensione
ontologica e nella somiglianza la dimensione morale.3
Sulla statua di un re, databile attorno alla fine del IX secolo a.C., scoperta a Tell Fekheriyeh in
Siria,4 è stata trovata un’iscrizione bilingue: nella sezione accadica la statua è chiamata ṣalmu, nella
sezione aramaica sia ṣelem che demût. Il senso “statua” (eretta a gloria di un re)5 è quello che ci apre
la migliore comprensione di ciò che significa immagine in Gen 1,26, su cui tanto è stato scritto.6
Immagine è soprattutto gloria:7 evoca la dignità e il compito di un re.
Il secondo emistichio di Gen 1,26 precisa in che cosa consiste il compito che il creatore affida
all’essere umano: dominare su tutti gli altri esseri viventi, acquatici, alati o terrestri. Il verbo usato
(rdh) non implica semplicemente una dignità più elevata, ma una sovranità effettiva, come quella di
un re che esercita la sua autorità sui territori che ha conquistato e reprime qualsiasi tentativo di
ribellione. L'idea della dominazione sugli animali è poco gradita al lettore contemporaneo della
Bibbia, che preferirebbe sentir parlare di armonia e convivenza pacifica tra l'uomo e gli altri viventi.
Tale non era la visione dell'uomo antico, al quale l'idea della lotta tra l'uomo e gli animali selvatici
1 Is 40,18 dichiara formalmente: “a chi potreste assomigliare Dio? Quale somiglianza potreste paragonare a lui?”
Ezechiele invece vede “sopra la somiglianza del trono la somiglianza della figura di un uomo sopra di lui” (Ez 1,26).
2 È possibile che i Settanta avessero davanti un testo ebraico keṣalmenû anziché beṣalmenû. Nell’alfabeto quadrato la b e
la k sono molto simili.
3 Cfr. Adversus haereses, V, 6,1; 8,1; 16,2. IRENEO ha esercitato un influsso considerevole sulla teologia successiva.
4 Vedi A. ABOU-ASSAF e altri, La statue de Tell Fekheriyeh et son inscription bilingue assyro-araméenne, Parigi 1982.
5 Si pensi ad esempio alla statua che Nabuccodonosor vide in sogno (cfr. Dn 2), e a quella tutta d'oro che si fece fare
perchè fosse adorata (cfr. Dn 3).
6 Si veda G.A. JØNSSON, The Image of God. Gen 1:26-28 in a Century of Old Testament Research, Stoccolma 1988
(Collectanea Biblica. Old Testament Series 26). Per l'esegesi antica è sempre utile J. JERVELL, Imago Dei. Gen 1,26 f.
im Spätjudentum, in der Gnosis und in den paulinischen Briefen, Gottinga 1960 (Forschungen zur Religion und
Literatur des Alten und Neuen Testaments 76).
7 Nel Salterio ṣelem sembra però designare la vanagloria. Vedi Sal 39,7: “come un'immagine cammina l'uomo”; e Sal
73,20, dove si dice che gli uomini sono “come un sogno quando ci si desta; Signore, al risveglio tu fai cadere nel
disprezzo la loro immagine”.
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per il possesso della terra era assolutamente famigliare.1 Nel mondo in cui viviamo oggi dominare
equivale ad opprimere, nel mondo in cui ha visto la luce la Bibbia dominare significa sopravvivere.
Occorre qui una sensibilità storica, per non cadere in equivoci interpretativi. Comprendere la Bibbia
esige, tra gli altri, anche lo sforzo di superare le fobie che la nostra cultura instilla nei confronti di
determinate parole.
All'ideazione segue l'esecuzione: dopo averlo pensato, Dio crea l'uomo come l'aveva pensato.
Al v. 27 compare, per ben tre volte, il verbo “creare”, non più ”fare”, e il termine “immagine”
compare da solo, non più seguito da “somiglianza”. La disposizione chiastica (ABBA) conferisce
rilievo all'affermazione: Dio creò l'uomo come sua immagine, come immagine di Dio lo creò. Il
secondo emistichio aggiunge: “maschio e femmina li creò”. Perché questa aggiunta? Voleva con ciò
l'autore specificare che ambedue, maschio e femmina, sono immagine di Dio?2 Oppure che solo la
coppia, e non il singolo individuo, è immagine di Dio? Mi sembra equilibrata la risposta di P.E.
DION: “On férait violence à Gen 1,27 en lui faisant dire que seul le couple pris comme un tout est
formé à l'image de Dieu. Le texte implique sans doute que la femme est à l'image de Dieu tout
comme le mâle, mais on dépasse la portée du texte en y voyant une affirmation de leur égalité”.3
Non è però esatto dire che “on dépasse la portée du texte”: ciò che infatti si oltrepassa non è
propriamente la portata del testo, ma l'intenzione del suo autore umano. Ogni testo, compreso quello
biblico, ha delle virtualità di significato che vanno oltre l'intendimento del suo autore.
1 Nell'iconografia dell'Antico Oriente compare spesso la figura dell'uomo che domina sugli animali selvaggi: vedi la
documentazione raccolta da O. KEEL , Jahwes Entgegnung an Ijob. Eine Deutung von Ijob 38-41 vor dem Hintergrund
der zeitgenössischen Bildkunst, Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testamentes 121,
Gottinga 1978, 86-125.
2 Non comprendeva certamente così il passo l'apostolo Paolo, il quale dichiara che “l'uomo è immagine e gloria di Dio,
la donna invece gloria dell'uomo” (1 Cor 11,7). Alla base di questa dottrina sta probabilmente il fatto che Gen 1,27 dice
“immagine di Dio lo creò”, usando il suffisso pronominale maschile; poi “maschio e femmina li creò”, senza ripetere
“immagine di Dio”. Da ciò Paolo (o i maestri presso cui aveva studiato) traevano la deduzione che solo l'uomo, non la
donna, è immagine di Dio. Nella lettera ai Galati lo stesso apostolo afferma che in Cristo non c'è più maschio e femmina
(cfr. Gal 3,28), che non è certo da comprendere come abolizione delle differenze tra uomini e donne (vedi in proposito
le mie osservazioni in Il matrimonio alla luce del Nuovo Testamento, Città del Vaticano 2007 (Lezioni e dispense 11),
144-146. Occorre rassegnarsi al fatto che il pensiero paolino, e biblico in generale, non è egualitario.
3 “Ressemblance et image de Dieu”, Dictionnaire de la Bible. Supplément 10 (1985), 391.
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Il v. 28 orienta a cercare altrove la ragione dell'aggiunta sulla creazione del maschio e della
femmina: nel compito procreativo. Lo scopo per cui Dio crea l'uomo è che domini sugli altri
viventi, e tale è pure logicamente lo scopo per cui deve fare figli e moltiplicarsi fino a riempire la
terra.1 I cinque imperativi del v. 28 sono legati: fate figli per diventare numerosi, tanto da riempire
ed assoggettare la terra, e così dominare su tutti gli altri viventi. La procreazione porta avanti lo
scopo della creazione. La moltiplicazione non è fine a sé stessa: ci si moltiplica per poter dominare
sugli altri viventi, in obbedienza alla volontà del creatore. Per dominare occorre infatti essere
numerosi: il numero fa la forza.
La procreazione è dunque in linea di continuità con la creazione,2 di cui è al servizio. I rabbini
hanno visto in Gen 1,28 il primo (cronologicamente) comandamento divino: sposarsi e fare figli
non è per loro una libera scelta, ma una precisa volontà di Dio cui a nessuno è lecito sottrarsi.3
Secondo M. GILBERT,4 Gen 1,28 è da comprendere invece come una benedizione, cui è sempre
legata, esplicitamente o implicitamente, la fecondità. Dio è il fecondo per eccellenza, colui che
possiede la vita in sé stesso e ha il potere di trasmetterla.
Di creazione dell'essere umano si parla una seconda volta nel libro della Genesi, all'inizio
della genealogia di Adamo:
[1] Questo è il libro delle generazioni di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l'uomo, lo fece come somiglianza di
Dio; [2] maschio e femmina li creò, li benedisse e diede loro il nome ’ādām nel giorno in cui li creò. [3] Adamo
visse centotrenta anni e generò come la sua somiglianza secondo la sua immagine, e gli diede il nome Set.
(Gen 5,1-3)
1 G. HEPNER ritiene che l'intenzione dell'autore sia rivolta alla terra di Israele, che era necessario ripopolare dopo la
fine della cattività babilonese: cfr. «Israelite Should Conquer Israel: The Hidden Polemic of the First Creation
Narrative», Revue biblique 113 (2006), 161-180.
2 Anche delle specie vegetali è messa in rilievo la capacità di riprodursi: “erbe che producono seme e alberi da frutto
che facciano frutto secondo la loro specie” (Gen 1,11). Lo scopo per cui tali specie sono state create è per assicurare il
nutrimento alle specie animali (cfr. Gen 1,30). Notiamo che degli uomini non è detto “ciascuno secondo la loro specie”
come degli animali (cfr. Gen 1,21.24-25): l'autore non concepiva evidentemente diverse specie umane.
3
Secondo il Talmud chi non fa figli è come un omicida (cfr. yevamot 63 b) e dovrà risponderne nel mondo futuro (cfr.
shabbat 31 a).
4 Cfr. «Soyez féconds et multipliez-vous (Gn 1,28)», Nouvelle Revue Théologique 96 (1974), 741-742.
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Dal punto di vista letterario questo passo fa parte dello scritto sacerdotale, come il racconto
della creazione del mondo. Rileviamo le differenze rispetto a Gen 1,26-28. Al v. 1 si dice fece
l'uomo come somiglianza di Dio, non come immagine di Dio.1 Al v. 3 si dice che Adamo generò
come la sua somiglianza secondo la sua immagine: rispetto a Gen 1,26 la somiglianza precede
l'immagine, e le preposizioni sono scambiate. 2 Al v. 2 si dice che Dio creò il maschio e la femmina,
li benedisse (senza accennare al dominio della terra) e diede ad ambedue il nome ’ādām.3
La genealogia di Adamo mette in stretto parallelo creazione e procreazione. Dio crea e dà un
nome, Adamo genera e dà un nome. Di ambedue, il creato e il generato, è affermata la somiglianza
rispettivamente col creatore e col padre. Se Adamo somiglia a Dio e Set somiglia ad Adamo, anche
Set somiglia a Dio. Gen 5,1-3 pare dunque suggerire che l'originaria somiglianza tra l'uomo e Dio si
trasmette di padre in figlio attraverso la generazione.
Possiamo a questo punto concludere. La nostra analisi di Gen 1,26-28 ha messo in evidenza
un dato di grande importanza: la preminenza dell'essere umano su tutti gli altri viventi. All'uomo è
conferita una dignità che non è esagerato chiamare regale. Tale dignità è espressa mediante la
metafora della statua, cui si connettono l'immagine e la somiglianza del v. 26. Nel mondo culturale
in cui è stato composto il racconto della creazione del mondo, tale metafora aveva una forza
evocativa che è in larga parte perduta per il mondo di oggi: statua faceva immediatamente venire in
mente un re.
Non mi appare convincente la linea interpretativa,4 che nell'immagine vuole vedere un
partner: Dio avrebbe creato un essere che gli fosse sufficientemente simile per potergli rivolgere la
parola ed allacciare con lui una relazione. Tale interpretazione gode il favore di non pochi esegeti,
1 R. HINSCHBERGER la ragione è che “ressemblance se rattache à la configuration de la fécondité, image se rattache à
celle de la domination” («Image et ressemblance dans la tradition sacerdotale (Gn 1,26-28; 5,1-13; 9,6b)», Revue des
sciences religieuses 59 [1985], 195). Tutta la sua esegesi si basa su una distinzione e ricostruzione di fonti e tradizioni,
che lascia molto perplessi.
2 Il Targum Pseudo-Yonatan inserisce qui una glossa, per spiegare al lettore che Caino non era figlio di Adamo e non
gli somigliava. In Gen 4,1 lo stesso Targum informa che Eva concepì Caino dall'angelo Shammael.
3 Da qui alcuni rabbini deducevano (vedi il midrash Bereshit rabba, VIII,1) che Dio aveva creato un androgino, più
tardi separato chirurgicamente in un maschio e una femmina. Su Gen 5,2 si basa il Talmud per sostenere (cfr. yevamot
63 a) che chi non ha moglie non è ’ādām, non è pienamente uomo.
4 Sulla quale ha esercitato non poca influenza la teologia di K. BARTH .
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ma non mi pare cogliere l'essenziale del messaggio di Gen 1,26-28. Lo coglie molto bene invece
l'apostolo Paolo, quando definisce l'uomo “immagine e gloria di Dio” (1 Cor 11,7). È un'immagine
che manifesta la gloria, immagine epifanica. La riflessione teologica ha ampiamente trascurato tale
dimensione, concentrandosi su ciò che l'immagine è supposta essere, in prospettiva essenzialistica,
senza porre attenzione a ciò che l'immagine fa, procurare gloria. 1
Non mi pare accettabile l'affermazione, sovente ripetuta, che l'uomo è immagine di Dio in
quanto maschio e femmina. Ambedue sono ’ādām (cfr. Gen 5,2), ambedue sono pertanto immagine
di Dio, a dispetto di ciò che pensava l'apostolo Paolo: ciascuno però nella sua individualità, non
come coppia. È significativo che in Gen 1,27 non siano usati i termini uomo e donna, ma maschio e
femmina,2 che si usano anche per gli animali. Non è manifestamente la relazione interpersonale che
interessa l'autore del racconto della creazione del mondo, ma il compito procreativo. Anche gli
animali si riproducono, perché è volontà del creatore che continuino a popolare il mondo, ma
l'uomo non è chiamato solo a popolarlo, ma anche a governarlo, rappresentando in ciò il creatore,
che per questo fine lo ha voluto e creato. Del matrimonio è sottolineato dunque il fine che la
teologia ha denominato procreativo, mentre quello che ha denominato unitivo è presente solo a
modo di virtualità del tutto implicita.
In Gen 5,3 leggiamo che il primo uomo generò un figlio che assomigliava a lui, come lui
assomigliava a colui che lo aveva creato. La procreazione ha dunque qualcosa di comune con la
creazione: la somiglianza tra il soggetto e l'oggetto dell'azione. Dio crea l'uomo simile a sé, il padre
genera il figlio simile a sé. Ci viene con ciò suggerito che la creazione dell'uomo ha qualcosa di
paterno. La teologia ha sicuramente interesse a riflettere sul nesso tra creazione e generazione.3
1 N. LOHFINK collega l'immagine al luogo in cui è collocata, il palazzo e il tempio: vedi «La statua di Dio», in
All'ombra delle tue ali, Casale Monferrato 2002, 31-52.
2 Il Targum Neofiti traduce: “il maschio e la sua coniuge”. In Gen 1,27 i rabbini leggevano l'istituzione del matrimonio.
3 Segnalo il volume «Creazione dell’uomo generazione della vita. In dialogo con il pensiero di M. Henry», edd. G.
MARENGO e F. PESCE, Siena 2012 (Studi sulla persona e la famiglia 14).
23
Il racconto del paradiso terrestre
Prendiamo ora in considerazione il brano che va da Gen 2,4 fino a 3,24. Anche questo, come
il precedente, è un racconto, che ha come tema la formazione del primo uomo e della prima donna e
le vicende che portarono alla loro espulsione da quello che la tradizione ha denominato il paradiso
terrestre. La critica lo attribuisce allo strato letterario convenzionalmente denominato jahwista.1 Il
parallelo tra le vicende di Adamo (fatto entrare nel paradiso terrestre da cui poi è cacciato per avere
disobbedito al Signore) ed Israele (fatto entrare nella terra promessa da cui poi è esiliato a causa
delle sue ripetute disobbedienze alla legge divina) fa ritenere probabile una datazione successiva
all'esilio babilonese. L'opinione2 che il racconto del paradiso terrestre sia più antico del racconto
della creazione del mondo non ha ai miei occhi alcun fondamento.
Il suo autore ha sicuramente rielaborato materiali mitici. A tutt'oggi la ricerca non ha scoperto
alcun mito preciso che possa essere stato il modello della storia del paradiso terrestre. Che un mito
di questo genere sia esistito non è improbabile, considerando la profezia di Ezechiele contro il re di
Tiro. Di lui il profeta dice che si considerava un Dio e aveva posto il suo cuore come il cuore di un
Dio (cfr. Ez 28,2.6); che si trovava “in Eden, frutteto di Dio” (Ez 28,13), che era un “cherubino”3
(cfr. Ez 28,14.16), che era stato perfetto nelle sue vie da quando era stato creato fino a quando fu
trovata in lui iniquità (cfr. Ez 28,15), e fu di conseguenza scacciato dal luogo in cui si trovava e
ridotto in cenere. Ezechiele pare applicare al re di Tiro un antico mito sulla caduta di un essere
descritto come molto sapiente e molto bello, che gli dei punirono per il suo orgoglio. Gli elementi
comuni col racconto del paradiso terrestre sono troppi per essere frutto di coincidenza. Il suo autore
deve avere attinto a questa fonte per costruire la sua storia.
1 Spesso designato con la sigla J (dal tedesco Jahwist). La denominazione jahwista deriva dal fatto che in questi testi è
usato fin dall'inizio il nome divino yhwh. Lo trascrivo solo con le consonanti, poiché le vocali non sono state mai notate,
avendo gli Ebrei cessato per rispetto religioso di pronunciarlo (la vocalizzazione Yahweh è ipotetica). Nel presente
lavoro userò il nome sostitutivo “il Signore”, usato già dalla Settanta (ho kúrios) e dalla Vulgata (Dominus).
2 Adottata anche da GIOVANNI PAOLO II nelle sue catechesi sull'amore umano. Ciò non stupisce, considerando che
quando tali catechesi furono preparate l'idea che Gen 2-3 fosse più antico di Gen 1 era communis opinio tra gli esegeti.
3 L'ebraico kerûv designa originariamente un animale (toro o sfinge) alato, la cui funzione era di sorvegliare l'ingresso di
luoghi sacri. In epoca posteriore i cherubini sono stati interpretati come figure angeliche.
24
Il racconto del paradiso terrestre può essere diviso in cinque grandi parti.1 La prima va da Gen
2,4 a 2,17: all'inizio abbiamo una terra priva di vegetazione per mancanza d'acqua e di coltivatori,
alla fine una piantagione abbondantemente irrigata e provvista di coltivatore. La divinità creatrice,
che in questo racconto non è più chiamata “Dio”, ma “il Signore Dio”,2 prima modella un uomo con
la polvere del suolo3 e gli soffia nelle narici il respiro che gli permette di vivere; poi pianta un
frutteto, in cui colloca l'uomo con il compito di coltivarlo e custodirlo. Per mangiare l'uomo ha a
disposizione alberi da frutto, che gli forniscono il cibo necessario senza obbligarlo ad un lavoro
faticoso. Mentre nella mitologia mesopotamica4 l'uomo è creato per faticare al posto degli dei, nel
racconto biblico invece l'uomo è creato per lavorare, ma non faticosamente.
Dentro il frutteto vi sono l'albero della vita e l'albero della conoscenza del bene e del male.
L'erba che dà vita (= immortalità) è conosciuta nella mitologia mesopotamica,5 mentre di un albero
che dona conoscenza non è stato trovato alcun parallelo. Che cosa significa conoscere bene e male?
In Dt 1,39 si parla di bambini che non hanno conosciuto (= appreso) bene e male; in 2 Sm 19,35 un
uomo di ottanta anni dice di essere troppo vecchio per conoscere (= distinguere) tra bene e male, per
gustare cibi e bevande, e per ascoltare la voce dei cantanti. Non è intesa qui una conoscenza di tipo
teorico, ma pratico, e bene e male non sono intesi in senso morale, ma di convenienza.6 Un piccolo
non ha ancora e un vecchio non ha più la capacità di valutare ciò che buono o cattivo per lui.7
Questo senso dei termini mi pare offrire la migliore chiave esplicativa della narrazione. 8
1 Segnalo il mio articolo «Il racconto biblico del primo uomo e della prima donna. Suggerimenti interpretativi»,
Anthropotes 22 (2006), 361-382.
2 Tranne che nel dialogo tra la donna e il serpente (Gen 3,1-5), dove è chiamato solo “Dio”.
3 In ebraico vi è assonanza tra ’ādām (uomo) e ’ adāmāh (suolo).
4 Vedi soprattutto il poema di Atrahasis.
5 Vedi l'epopea di Gilgamesh, che prima la trova e poi la perde, dovendosì così rassegnare alla perdita dell'immortalità.
Nel poemetto di Adapa abbiamo invece un uomo al quale, in ragione della conoscenza di cui è venuto in possesso, gli
dei offrono l'immortalità, che egli però rifiuta. Alla mitologia egiziana fa riferimento J. KRISPENZ, «Wie viele Bäume
braucht das Paradies? Erwägungen zu Gen. ii 4b–iii 24”, Vetus Testamentum 54 (2004), 301–318.
6 L'idea che la conoscenza del bene e del male significhi la pretesa di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che
è male dal punto di vista morale postula un senso del verbo “conoscere” di cui non vi sono esempi.
7 È il senso in cui il Signore Dio dirà più avanti che non è bene (= conveniente) che l'uomo sia solo.
8 In 2 Sam 14,17 e 20, bene e male sono usati come merismo per indicare la totalità. Non vedo però come questo senso
possa convenire alla narrazione di Gen 2,4-3,24.
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Dei frutti dell'albero che dà conoscenza il Signore Dio proibisce all'uomo di mangiare, perché
altrimenti morirebbe. Il contrasto non può essere più forte: i frutti di un albero procurano vita, i
frutti dell'altro sono causa di morte. Nel piano divino l'uomo avrebbe dovuto vivere per sempre: è
stato creato per l'immortalità, afferma il libro della Sapienza (cfr. 2,23). La condizione perché ciò
accadesse era che non mangiasse i frutti dell'albero della conoscenza. Ma se l'uomo non ne doveva
mangiarne, a quale scopo Dio lo aveva fatto crescere? L'unica risposta che dà senso è: per mettere
alla prova la sua obbedienza. Per acquisire la conoscenza di ciò che è bene e ciò che è male per la
sua vita, l'uomo doveva lasciarsi istruire da colui che ne era in possesso, ovvero il suo creatore. Dio
non voleva tenere gli uomini nell'ignoranza, ma nella dipendenza. Nel libro del Siracide (cfr. 1,1617 e 24,17) la sapienza è rappresentata come un albero i cui frutti sono offerti a tutti. Come mai nel
racconto del paradiso terrestre si proibisce invece di mangiare i frutti di un albero che dona
sapienza? La risposta più ragionevole mi sembra essere: la sapienza deve essere chiesta a Dio e da
lui elargita, non rubata a Dio.1
Il vero interesse tematico di Gen 2,4-17 è la vita: l'uomo riceve direttamente da Dio il soffio
vitale e ha accesso ai frutti dell'albero della vita. La morte è presente, ma solo come possibilità, non
come destino. Tre sono i doni del creatore alla sua creatura: il soffio vitale, il luogo in cui vivere
senza faticare, il comandamento che lo preserva dall'esperienza della morte. L'ultimo versetto crea
però una viva tensione narrativa: sentendo che l'uomo morirà se mangerà il frutto dell'albero della
conoscenza di bene e male, il lettore si domanda che cosa farà l'uomo: mangerà o non mangerà? E
se mangerà che cosa gli succederà?
La sezione successiva (Gen 2,18-24) non soddisfa però in alcun modo tale curiosità; essa
introduce anzi un tema nuovo, il cui nesso con la storia diventerà evidente solo più avanti. Il nuovo
tema è il bisogno umano di compagnia: all'inizio troviamo la dichiarazione da parte del Signore Dio
che non è bene2 che l'uomo sia solo, alla fine la dichiarazione da parte del narratore che l'uomo e la
sua donna si uniscono fino ad essere una sola carne. L'arco narrativo si muove dal problema (la
solitudine) alla sua soluzione (la compagnia).
1 Il racconto del paradiso terrestre è troppo vicino alla cultura sapienziale, perché il divieto di mangiare dell'albero della
conoscenza si possa interpretare come deliberata critica della dottrina tradizionale della sapienza albero di vita.
2 Questo aggettivo crea un collegamento tra i vv. 17 e 18. L'uomo non deve mangiare dell'albero della conoscenza di
bene e male, il Signore Dio sa che cosa non è bene per l'uomo.
26
Soffermiamoci sulla dichiarazione iniziale:
Il Signore Dio disse: non è bene che l'uomo stia da solo; farò per lui un aiuto corrispondente a lui. (Gen 2,18)
In ebraico la dichiarazione è resa ancora più solenne dalla rima tra levaddô, “da solo”, e
kenegdô, “corrispondente a lui”. Notiamo che tale dichiarazione non è rivolta all'uomo. Il creatore
parla e poi agisce, interamente di sua iniziativa, mosso da una volontà di bene per la sua creatura.
Abbiamo prima un giudizio teorico, e poi una decisione operativa. La solitudine non essendo un
bene per l'uomo, occorre provvedere ad eliminarla. In che modo? Facendo per lui un ‘ēzer kenegdô.
Nella Bibbia ebraica ‘ēzer indica un difensore, uno che porti soccorso di fronte al nemico.1 Non si
intende quindi un aiuto per avere figli, come pensava AGOSTINO.2 Meno evidente è il senso di
kenegdô. 3 La Settanta al v. 18 traduce kat' autón, “secondo lui”, e al v. 20 hómoios autôi, “simile a
lui”;4 in quest'ultimo senso ha interpretato pure il Targum Neofiti. Non vi sono altri esempi di
keneged nella Bibbia ebraica;5 in ebraico postbiblico significa “corrispondente” o “appropriato”,
senso che conviene bene a Gen 2,18.20.
I versetti seguenti mostrano il Signore Dio che modella con la polvere del suolo gli animali e
li presenta all'uomo perché dia loro un nome. L'atto di dare un nome implica esercizio di autorità: si
dà il nome a chi deve obbedire, come i genitori ai loro figli. Il progetto enunciato al v. 18 non trova
però realizzazione:
L'uomo diede un nome a tutti gli animali domestici, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche,
ma per l'uomo non trovò6 un aiuto corrispondente a lui” (Gen 2,20)
1 Quale nemico minacciava l'uomo nel frutteto? La solitudine, risponde J.-L. SKA: cfr. «Je vais lui faire un allié qui
soit homologue à lui (Gn 2,18). A propos du terme ‘ezer-aide», Biblica 65 (1984), 233-238. La risposta non mi suona
convincente: la solitudine non è un nemico in sé stessa, è la situazione in cui uno è indifeso di fronte ai nemici.
2 Cfr. De Genesi ad litteram, IX, 5, 9.
3
Il midrash Bereshit Rabba dice (cfr. XVII, 3) che la moglie è per il marito un aiuto o un oppositore, a seconda dei
meriti del marito stesso. È un’interpretazione di natura omiletica, tanto suggestiva quanto esegeticamente poco fondata.
4
5
La prima versione è ripresa da Sir 36,29 e la seconda da Tb 8,6.
A meno di non correggere in 1 Sam 16,6 neged in keneged, come proposto da J. JOOSTEN : cfr. «1 Samuel XVI,6.7 in
the Peshitta Version», Vetus Testamentum 41 (1991), 226-233.
6 La Settanta traduce al passivo: “fu trovato”; da non interpretare probabilmente come passivo impersonale, ma divino,
come i grammatici usano chiamare il passivo il cui complemento d'agente sottinteso è Dio.
27
Il testo ebraico lascia indeterminato il soggetto dell'ultima frase. È tuttavia chiaro che si tratta
del creatore:1 è lui che giudica gli animali inadeguati rispetto all'esigenza umana. Il Signore Dio si
rimette dunque all'opera, e questa volta non usa più la polvere del suolo, ma una parte del corpo
stesso dell'uomo, e precisamente “uno dei suoi fianchi” (Gen 2,21), o una delle sue costole, 2
secondo l'interpretazione tradizionale. Perché evitargli sofferenze il Signore Dio lo addormenta, e
durante il suo sonno gli toglie una parte del suo corpo e con essa “costruisce”3 una donna.
È importante notare che l'uomo non è consultato né prima dell'operazione né durante, visto
che dorme profondamente. La donna non è stata fatta su ordinazione; non è una proiezione di
desideri maschili. La donna è stata pensata e fatta direttamente da Dio per il bene dell'uomo. Non è
l'uomo che ha detto a Dio che si sentiva solo e voleva compagnia; è Dio che ha di sua iniziativa
espresso un giudizio e deciso un'azione, senza chiedere mai il parere dell'uomo.
Al suo risveglio l'uomo si trova davanti la donna. Come agli animali, anche a lei deve dare un
nome. I nomi degli animali il narratore non si era dato la pena di riferirli, mentre invece dà grande
risalto al nome che l'uomo inventa per colei che il Signore gli conduce:
L'uomo disse: questa stavolta è osso delle mie ossa e carne della mia carne;
questa si chiamerà ’iššāh perché da un ’îš4 è stata tratta5 questa. (Gen 2,23)
Sono le prime parole umane riportate dalla Bibbia. A chi sono rivolte? Non alla donna, di cui
parla alla terza persona. La donna non pronuncia alcuna parola. Il suo ruolo è puramente passivo: è
il creatore che l'ha condotta6 all'uomo. Le parole dell'uomo sono rivolte piuttosto a colui che gliela
1 Non poche versioni moderne ritoccano il testo per fare dell'uomo il soggetto della frase, che viene così a dare un senso
più gradito: l'uomo non riconosce in nessun animale la compagnia di cui ha bisogno.
2 La tredicesima dalla parte destra, secondo il Targum Pseudo-Yonatan. Il termine ebraico designa propriamente un
lato del corpo o la fiancata di un oggetto.
3 La Bibbia CEI traduce: “formò”. Nel testo ebraico troviamo però il verbo bnh, che evoca i figli e quindi la famiglia.
Per una donna dare figli al marito significa essere costruita (vedi Gen 16,2 e 30,3).
4 La Settanta traduce: ek toû andròs autês, da suo marito; così pure il Targum Onqelos. La base ebraica di questa
versione è mē’îšāh, lezione attestata dal Pentateuco Samaritano.
5 Passivo divino: è stata tratta = Dio ha tratta.
6 Come erano già stati condotti gli animali. In Gen 29,33 leggiamo che Labano condusse Lea a Giacobbe perché la
prendesse in moglie: il verbo ha dunque anche un'assonanza nuziale.
28
aveva condotta perché a lui spettava di darle un nome, come già agli animali; esse hanno dunque
essenzialmente valore di accettazione ed assunzione di responsabilità.1
La dichiarazione dell'uomo si apre e si chiude col pronome “questa”, che si trova pure in
posizione centrale. La triplice ripetizione è al servizio dell'enfasi: “questa”, non quelli che gli erano
stati condotti prima.2 Ciò che distingue la donna è che lei è stata tratta3 dal corpo stesso dell'uomo,
dalle sue ossa e dalla sua carne,4 mentre gli animali sono stati modellati dalla terra. È precisamente
tale provenienza che l'uomo vuole sigillare nel nome che escogita per lei: ’iššāh perché tratta da ’îš.
L'omofonia di questi due vocaboli in ebraico5 è utilizzata come espressiva della connaturalità tra
uomo e donna. Questo è l'elemento che al narratore interessa mettere in risalto: la donna e l'uomo
partecipano della stessa natura. Nessun animale potrà mai soddisfare adeguatamente il bisogno
umano di compagnia. Solo con la creazione della donna il programma enunciato al v. 18 trova
compimento.
A questo punto il narratore colloca un detto, il cui locutore non è precisato,6 che suona come
un commento all'evento appena narrato:
1 I commentatori parlano qui volentieri di esultanza dell'uomo alla vista della donna. La lettera del testo non contiene in
realtà il minimo accenno a tale esultanza; ciò non impedisce naturalmente di supporla. Nel primo emistichio di Gen 2,23
W. BRUEGGEMANN vuole leggere, senza molto fondamento, una “covenantal fomula”: cfr. «Of the Same Flesh and
Bone (Gen 2,23a)», Catholic Biblical Quarterly 32 (1970) 532-542.
2 I Targumim invece interpretano: questa sola e unica volta (è creata e non generata).
3 Come lo sa l'uomo, che durante l'operazione dormiva? O glielo ha detto il creatore, o lo ha capito da solo osservando
il suo proprio corpo.
4 In Gen 29,14; Gdc 9,2; 2 Sam 5,1; 19,13-14; 1 Cr 11,1 essere “osso e carne” di qualcuno equivale ad appartenere alla
stessa sua famiglia o tribù. Spesso questa dichiarazione è premessa alla richiesta di agire in forza di tale legame.
5 Lessicalmente i due vocaboli vengono invece da due radici distinte. Nelle maggior parte delle versioni l'omofonia si
perde, e il gioco di parole dell'ebraico diventa di conseguenza inintelligibile. Per salvarlo alcuni traduttori sono ricorsi
all'artificio di inventare vocaboli nuovi, come andrìs (SIMMACO) o Männin (LUTERO), o di impiegare vocaboli di
significato affine, come virago (GEROLAMO). L'ebraico consente acrobazie interpretative come quella di R. AQIVA
BEN YOSEF (cfr. Talmud, Sota 17 b): se alle consonanti di ’îš si toglie la yod, si ottengono le consonanti di ’ēš, fuoco;
lo stesso togliendo la he dalle consonanti di ’iššāh; poiché la yod e la he unite alludono al nome divino, AQIVA ne trae
la conclusione che se marito e moglie sono meritevoli, il Signore è con loro, altrimenti li consuma il fuoco. Che cosa
non si fa pur di trovare nella Sacra Scrittura un messaggio edificante!
6 In Mt 19,5 è citato come parola divina.
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Per questo l'uomo 1 lascia suo padre e sua madre e si attacca a sua moglie, e2 diventano una carne sola.
(Gen 2,24)
Questo detto è di natura manifestamente eziologica. Per eziologia si intende la spiegazione di
un fenomeno a partire dalla sua origine. Qui il fenomeno è il fatto osservabile che l'uomo a un certo
punto della sua vita si stacca3 dai genitori e si attacca4 alla moglie. Perché tutti gli uomini fanno
così? Perché l'amore per una donna prevale su quello per i genitori? Perché all'origine la donna
faceva parte del corpo dell'uomo, il quale la ricerca come completamento di sé. “Una carne sola”
rimanda a “carne della mia carne” del versetto precedente. L'uomo lascia padre e madre, che lo
hanno generato ed allevato, perché loro non gli possono dare ciò che gli dà la moglie: la possibilità
di essere uno con lei, di formare con lei una unità in cui ciascuno dei due è sé stesso e nello stesso
tempo più di sé stesso; in altri termini, una piena integrazione umana. “Una sola carne” non si
riferisce infatti unicamente o prevalentemente all'unione carnale tra i coniugi.5 I due diventano uno:
il problema della solitudine enunciato al v. 18 è compiutamente risolto.
A. TOSATO offre una diversa spiegazione.6 Secondo lui Gen 2,24 è da comprendere come
eziologia giuridica, avente come oggetto non un costume, ma una norma;7 in questo caso la norma
del matrimonio monogamico. Mentre prima dell'esilio, durante la monarchia quindi, la poligamia
era accettata, dopo l'esilio, sotto il regime dei sacerdoti, si sarebbe tentato di imporre la monogamia.
La tesi di TOSATO è che Gen 2,24 sia una glossa8 inserita in epoca postesilica nell'antico racconto
1 In ebraico senza articolo, con senso quasi pronominale: uomo = ogni uomo, ognuno.
2 La congiunzione ha senso implicitamente consecutivo: e diventano = così che diventano. Il Pentateuco Samaritano, la
Settanta, il Targum Neofiti e lo pseudo-Yonatan aggiungono il soggetto: “i due”. In questa forma, che potrebbe essere
originale, la frase è citata quattro volte nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 19,5; Mc 10,8; 1 Cor 6,16; Ef 5,31).
3 Il verbo ebraico indica un distacco affettivo più che la separazione fisica. Nella società israelitica era la donna
normalmente a lasciare i genitori e ad entrare in casa del marito.
4 Pure questo verbo indica un attaccamento affettivo.
5 Vedi M. GILBERT, «Une seule chair (Gn 2,24)», Nouvelle Revue Théologique 100 (1978), 66-89. Nel senso
dell'unione carnale hanno interpretato il Targum e la tradizione rabbinica in genere.
6 Cfr. «On Genesis 2:24», Catholic Biblical Quarterly 52 (1990), 389-409.
7 Di conseguenza i verbi sarebbero da tradurre al futuro anziché al presente di consuetudine: “lascerà … si attaccherà …
diventeranno”.
8 Per glossa si intende comunemente una nota esplicativa apposta ad un'espressione poco chiara. Il termine è però usato
anche più ampiamente per designare qualsiasi breve aggiunta ad un testo.
30
yahwista a sostegno di tale politica. Per parte mia, non sono convinto che il versetto sia una glossa
posteriore. Certamente però allude al matrimonio monogamico, e la sua collocazione all'interno del
racconto del primo uomo e della prima donna1 gli conferisce in ogni caso un valore normativo.
Passiamo ora all'analisi della terza parte del racconto, che va da Gen 2,25 a 3,7. Qui l'arco
narrativo va dalla nudità all'uso dei vestiti, che differenzia sia l'animale dall'uomo sia il selvaggio
dall'uomo civilizzato. Il narratore interpreta questo tema, attestato dalla mitologia mesopotamica, 2
in modo originale, in funzione cioè della vergogna e della sua assenza; vergogna che nel racconto è
messa in relazione alla colpa commessa trasgredendo il comandamento ricevuto da Dio. Che cosa
hanno in comune la nudità e la colpa? Che ambedue sono causa di vergogna.
Il fatto che prima del peccato l'uomo e la donna stavano nudi senza vergogna è stato spiegato
da AGOSTINO con la teoria che erano ancora immuni dalla concupiscenza.3 Dubito che un'idea
simile fosse nella mente dell'autore del racconto del paradiso terrestre. Nel suo mondo culturale la
vergogna è un sentimento sociale, non personale; è la perdita di onore agli occhi di qualcuno. Prima
del peccato l'uomo e la donna non si vergognavano del loro corpo perché non avevano fatto nulla di
male, e non avevano perciò nulla da nascondere alla vista l'uno dell'altra. Siamo in presenza di una
simbolica in cui il corpo sta in parallelo con le azioni commesse. Il corpo rappresenta la persona, e
la persona si giudica dalle azioni.
Dopo aver mangiato il frutto dell'albero della conoscenza di ciò che è buono e cattivo, l'uomo
e la donna “vennero a sapere che erano nudi” (Gen 3,7). Prima ignoravano che la nudità non è cosa
buona, e di conseguenza non ne provavano vergogna; ora la provano e si devono coprire. Nudo non
è chi è senza vestiti, nudo è chi è esposto ad uno sguardo che lo sveste. Perciò nessuno è nudo come
chi è colpevole. Il corpo non essendo dissociabile dalla persona, dopo la colpa il corpo non può più
essere per intero esposto allo sguardo, come la persona non può più rivelarsi per intero. Ciò di cui
una persona ha vergogna non è in realtà il proprio corpo, ma la propria colpa, e lo sguardo che non
sopporta è lo sguardo che l'accusa, cioè la mette a nudo. Questa mi pare la linea che meglio
permette di comprendere perché il narratore utilizzi la reazione davanti alla nudità per incorniciare
1 Pure nella mitologia mesopotamica alla creazione dell'uomo e della donna è associata l'unione matrimoniale: cfr. B.F.
BATTO, «The Institution of Marriage in Genesis 2 and in Atrahasis», Catholic Biblical Quarterly 62 (2000), 621-631.
2 Vedi BOTTÉRO-KRAMER, Uomini e dei, cit., 544.
3 Cfr. De Genesi ad litteram, IX, 1, 3. È nota l'influenza che la teoria di AGOSTINO ha avuto nella storia della teologia.
31
la storia del primo peccato. Trasgredito il comandamento divino, la donna e l'uomo si videro nudi,
cioè colpevoli. Perciò si fecero dei perizomi di foglie e si nascosero tra gli alberi per non essere visti
dal Signore Dio.
La tensione narrativa aperta da Gen 2,17 ha trovato quindi risposta: il lettore voleva sapere se
l'uomo avrebbe trasgredito la proibizione di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e
del male, ora lo sa. Un altro attore è però inaspettatamente entrato in scena: il serpente, presentato
come il più ‘ārûm, astuto, di tutte le bestie selvatiche, mentre dell'uomo e della donna è stato
appena detto che sono ‘arummîm, nudi. Questo gioco di parole, che si perde purtroppo nelle
traduzioni, introduce efficacemente alla comprensione della dinamica narrativa. In ebraico ‘ārûm
non ha significato per sé negativo, si può anche tradurre “saggio”. Ed è il desiderio di saggezza che
spinge la donna a mangiare il frutto dell'albero (“desiderabile per diventare saggi”, Gen 3,6) e a
darne da mangiare al suo uomo. Tale frutto dona effettivamente conoscenza, poiché dopo averne
mangiato l'uomo e la donna si accorgono di ciò di cui prima erano all'oscuro, cioé di essere nudi. I
loro occhi si sono veramente aperti, come il serpente aveva promesso (cfr. Gen 3,5). Lo stesso
Signore Dio riconoscerà più avanti che “l'uomo è diventato come uno di noi, quanto a conoscere
bene e male” (Gen 3,22), parole che a torto sono state spiegate come ironiche.
Il serpente è dunque un benefattore dell'umanità? Sui suoi motivi il narratore non ci informa:
nel libro della Sapienza, scritto molti secoli dopo, leggiamo che “la morte entrò nel mondo per
malevolenza del diavolo” (Sp 2,24). Ma è certo che agli occhi del narratore il serpente non agisce
per retti fini: vedremo più avanti che l'uomo e la donna sono interrogati, mentre il serpente è
condannato senza essere interrogato e avere la possibilità di difendersi. L'uomo e la donna non
sapevano di essere nudi, ma il serpente non li istruisce affatto; dice loro di mangiare il frutto che dà
la conoscenza, così da diventare come esseri divini e non avere bisogno di istruzione. Il serpente è
la figura del saggio che usa male la sua saggezza; la usa perfidamente, per fare del male invece che
del bene. Non dà consigli, ma informazioni, purtroppo false; il serpente assicura alla donna che né
lei né l'uomo moriranno dopo aver mangiato il frutto proibito.1 Questa è la sua unica menzogna,
tutto il resto che dice è vero. Unica, ma terribile. Innanzittutto perché insinua che Dio ha detto il
falso quando ha minacciato la morte come conseguenza della consumazione del frutto dell'albero
1 Il narratore non si dà la pena di far sapere al lettore come faceva il serpente a conoscere la proibizione divina. La
donna lo può avere appreso dall'uomo; il serpente da chi lo ha appreso? È una delle indeterminatezze del racconto.
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della conoscenza di bene e male. Dio ha mentito sapendo di mentire: difficile immaginare un'accusa
più velenosa. Il fatto di non potere credere a qualcuno, uomo o Dio che sia, mina alla radice ogni
possibilità di relazione con lui. La menzogna del serpente è terribile anche per una seconda ragione,
cioè che toglie all'uomo il timore che lo trattiene dal mangiare il frutto proibito. La conoscenza è
infatti in sé desiderabile, ma non a prezzo della vita. Dei due privilegi della divinità, quello
dell'immortalità e quello della conoscenza, l'uomo ne possiede già uno. Se può possedere anche
l'altro senza perdere il primo, perché non farlo?
In questo segmento narrativo rileviamo che il Signore Dio è assente: sono citate le sue parole,
sono interpretate le sue intenzioni. Ma lui non è lì sul posto, arriverà più tardi, alla fine del giornata.
Intanto il serpente ha avuto mano libera e ha perpetrato il suo danno. Perché? Per lo stesso motivo
per cui nel frutteto c'era un albero i cui frutti non dovevano essere mangiati: per mettere alla prova
l'uomo. Il tema della prova è centrale in tutta la narrazione. Il creatore voleva che l'uomo avesse la
possibilità di disobbedire, ma liberamente decidesse di rimanere alle sue dipendenze e in ascolto del
suo insegnamento.
L'uomo non è assente, ma ha un ruolo del tutto passivo. Chi parla col serpente è la donna, ed è
la donna che prende la decisione di mangiare il frutto proibito, ed è ancora lei che lo dà da mangiare
all'uomo. Le due sole azioni che compie l'uomo, quella di mangiare e quella di farsi un perizoma di
foglie, le compie insieme con la donna e, almeno la prima, su invito della donna. Perché il ruolo
principale è tenuto dal personaggio femminile e non dal maschile? È facile rispondere: perché
l'azione commessa è negativa. La donna crede al serpente, questo è il suo fatale errore. Conosceva il
divieto di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, poiché lo cita al
serpente,1 ma lo trasgredisce nella speranza di diventare come un essere divino. Non solo, ma ne dà
anche da mangiare al suo uomo, volendo offrire anche a lui la possibilità di accedere a questa
nuova, più grande condizione. Lui purtroppo le crede, allo stesso modo in cui lei per prima aveva
creduto al serpente. La credulità, che non è dunque solo femmina, ha provocato la rovina del genere
umano. La credulità è la premessa che ha portato alla disobbedienza; così come, per converso, la
fede è la premessa dell'obbedienza. Non si può obbedire infatti senza credere.
1 Lo cita però come “l'albero che sta in mezzo al frutteto” (Gen 3,3), mentre in Gen 2,9 si legge che in mezzo al frutteto
ve n'erano due, l'albero della vita e quello della conoscenza. Non pochi esegeti spiegano l'incongruenza pensando a
ritocchi subiti da un racconto primitivo che parlava di un albero solo.
33
Ma la donna non era stata fatta per essere di aiuto all'uomo? Qui tocchiamo un punto delicato.
Narrativamente si deve parlare di un effetto ironico, centrale per la riuscita del racconto. L'ironia è
data dal fatto che quella che era stata fatta per essere di aiuto fa il contrario dell'aiuto.1
Comprendiamo anche perché nella strategia narrativa dell'autore la costruzione della donna è
raccontata dopo il divieto di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza. Lei, quella che nel piano
divino doveva essere l'aiuto di cui l'uomo aveva bisogno, ha trasgredito e fatto trasgredire il divieto
che Dio aveva posto per preservare l'uomo dalla morte. Tentata prima e tentatrice poi, la donna ha
peccato e indotto a peccare, e con ciò è stata causa del più grande male di cui soffre il genere
umano, la mortalità. “Per causa sua tutti moriamo”, commenta il Siracide (25,24).
Per quale ragione il narratore ha voluto assegnare un ruolo così negativo alla donna? La
mitologia mesopotamica non gli forniva, a quanto ne sappiamo, alcuno spunto in questa direzione.
Si è pensato al ruolo che le regine hanno storicamente svolto nel periodo monarchico, così come
riferito dal libro dei Re.2 La donna che dà al marito da mangiare il frutto proibito non è però una
straniera, ma osso delle sue ossa e carne della sua carne: questa spiegazione non appare dunque
convincente. Conviene dunque ammettere il carattere misogino del racconto del paradiso terrestre.
La misoginia è del resto discretamente documentata, come vedremo in seguito, nella tradizione
sapienziale, cui tale racconto per più aspetti si ricollega.
Il comandamento di non mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male è
stato dunque trasgredito, dalla donna prima e dall'uomo poi. A questo punto l'attesa del lettore si
focalizza sulle sanzione applicate ai trasgressori. Alla soddisfazione di tale curiosità provvede la
sezione seguente, che va da Gen 3,8 a 3,19. Qui il lettore apprende in che modo il Signore Dio è
venuto a conoscenza della trasgressione e quali provvedimenti ha preso. Poiché la sezione
precedente si conclude con la presa di coscienza della nudità e la confezione dei primi rudimentali
abiti, non sorprende che sia la dichiarazione dell'uomo di essersi nascosto perchè nudo a rivelare al
Signore Dio ciò che ha fatto. Il tentativo di tenere nascosta la colpa fallisce miseramente.
1 Ciò vale anche per il serpente, il quale pure era stato fatto, come tutti gli altri animali, per essere di aiuto all'uomo.
2 Ad esempio le mogli straniere di Salomone che “gli piegarono il cuore” (1 Re 11,3), inducendolo a introdurre in
Israele il culto di divinità straniere, o la fenicia Isabel che spinse Achab a costruire un tempio a Baal in Samaria (cfr. 1
Re 16,31-32).
34
Allo smascheramento non segue immediatamente la condanna, ma l'interrogatorio, il cui
scopo è di dare agli accusati la possibilità di difendersi. La loro difesa si risolve in ambedue i casi in
una chiamata di correo: l'uomo denuncia la donna, la donna il serpente. Di tale difesa il giudice
tiene conto, come appare dall'ordine in cui le sentenze vengono pronunciate: prima sul serpente, poi
sulla donna e infine sull'uomo. Esaminiamole una per una:
[14] Il Signore Dio disse al serpente: poiché hai fatto ciò,
sii maledetto più di tutti gli animali e tutte le bestie selvatiche.
Sulla tua pancia dovrai camminare e mangiare polvere tutti i giorni della tua vita.
[15] Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua discendenza e la sua discendenza:1
lei2 ti colpirà alla testa e tu la colpirai al calcagno. (Gen 3,14-15)
Il serpente aveva indotto la donna a mangiare i frutti dell'albero proibito e per punizione dovrà
mangiare polvere (vedi Is 65,26 e Mi 7,17): pare applicata qui la legge del taglione. La seconda
punizione è l'ostilità con cui i serpenti saranno sempre trattati dagli uomini. 3
Dopo il serpente, tocca alla donna:
Alla donna disse: moltiplicherò le tue fatiche e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli.
Verso tuo marito sarà il tuo cammino e lui avrà autorità su di te. (Gen 3,16)
A differenza del serpente, la donna non è colpita da maledizione. Il suo castigo sono la fatica
della gravidanza e i dolori del parto: l'intendimento eziologico è più marcato che a proposito del
castigo del serpente.
La seconda parte del versetto ha come oggetto le relazioni coniugali. La Bibbia CEI offre la
traduzione: “verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà”. Tanto l'attrazione quanto la
soggezione all'uomo farebbero quindi parte del castigo per averlo indotto a mangiare il frutto
proibito. Prima del peccato la donna non sarebbe stata quindi né attratta dall'uomo né soggetta
1 Letteralmente: “il tuo seme e il suo seme”.
2 La discendenza. L'ebraico ha un pronome maschile, che si riferisce al seme, grammaticalmente maschile in ebraico.
La Settanta pure usa un pronome maschile: autós (che non concorda col neutro spérma); la Vulgata invece uno
femminile: ipsa (da qui le comuni raffigurazioni della Madonna che calpesta il serpente). Gen 3,15 ha ispirato l'autore
dell'Apocalisse nella celebre visione della donna e del drago (cfr. Ap 12).
3 La tradizione cristiana ha visto in questo passo il “protovangelo”, il primo annuncio della redenzione (vedi il
Catechismo della Chiesa Cattolica, § 410).
35
all'uomo: due idee che non collimano per nulla con l'immagine che della donna aveva il mondo
antico. La difficoltà potrebbe essere sciolta pensando che il castigo non sia costituito dall'insorgere
dell'attrazione e della soggezione come tali, ma da una loro modalità esagerata o deviata: l'uomo
attraeva la donna anche prima, ma dopo il peccato tale attrazione si è corrotta in concupiscenza;
l'uomo comandava alla donna anche prima, ma dopo il peccato la sua autorità si è trasformata da
benevola in tirannica.1
I termini ebraici usati in Gen 3,16 non favoriscono però tale interpretazione. Il sostantivo
tešûqāh si incontra altre due volte nella Bibbia, in Gen 4,7 e Ct 7,11; il primo passo è molto oscuro,
nel secondo tešûqāh designa un movimento (messo in parallelo con l'arrampicarsi su una palma)
dell'innamorato verso l'innamorata. tešûqāh si incontra pure in due scritti di Qumran,2 nella regola
della comunità (1QS XI,22) e nella regola della guerra (1QM XIII,12; XV,10; XVII,4), dove pure
designa un movimento (verso la polvere, la tenebra, il nulla). La Settanta lo traduce apostrofé,
termine che indica anch'esso un movimento. Io non sono quindi affatto convinto dell'interpretazione
“desiderio”, generalmente proposta dai commentatori: tešûqah è un movimento, che può essere
dettato dal desiderio, ma non è in sé stesso un desiderio (tanto meno una concupiscenza). Preferisco
pertanto tradurre tešûqātēk “il tuo cammino”.3 Quanto al verbo mšl, designa semplicemente
l'esercizio dell'autorità, senza particolare connotazione dispotica. Perché dovrebbe avere proprio qui
tale connotazione? Quali motivi avrebbero spinto l'autore di Gen 2-3 a presentare l'autorità maritale
come dispotica? È più ragionevole pensare che avesse in mente la normale autorità di un marito
sulla moglie: normale s'intende agli occhi del narratore e dei suoi contemporanei, nonché degli
uomini e delle donne di secoli e secoli dopo di lui (non invece del nostro tempo).
Ma allora dove sarebbe il castigo inflitto alla donna? Non è affatto necessario interpretare
anche il secondo emistichio di Gen 3,16 come un castigo. Tale è senza dubbio la dolorosità del
1 Questa spiegazione è proposta anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica (§§ 400 e 1607).
2 Località sulla riva occidentale del Mar Morto, dove sono stati ritrovati nel secolo scorso numerosi manoscritti,
provenienti da una setta ebraica che lì aveva un insediamento, distrutto dai Romani nel 70 d.C. Segnalo in proposito il
libro informativo di F. GARCÍA MARTÍNEZ e J. TREBOLLE BARRERA, Gli uomini di Qumran. Letteratura, struttura
sociale e concezioni religiose, Brescia 1996.
3
H.-CH . AURIN traduce “your drive” (cfr. «Your Urge Shall Be for Your Husband? A New Translation of Genesis
3:16b and a New Interpretation of Genesis 4:7», Lectio difficilior 1/2008: http://www.lectio.unibe.ch/08_1/inhalt_f.htm,
letto il 7/12/09).
36
parto, ma da ciò non segue che lo sia pure la subordinazione al marito. Si consideri che la donna
aveva persuaso l'uomo a mangiare il frutto proibito, ponendosi quindi nei suoi confronti in una
posizione che non è di subordinazione: ora le viene detto che non dovrà più agire in questo modo e
cercare di imporre la sua volontà al marito. Più che un castigo, mi pare un rientrare nell'ordine.1
Leggiamo infine la condanna dell'uomo:
[17] All'uomo disse: poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo
comandato di non mangiare, maledetto sia il suolo a causa tua. Con fatica ne mangerai tutti i giorni della tua vita;
[18] spine e cardi produrrà per te, e tu mangerai l'erba dei campi. [19] Col sudore della tua fronte mangerai pane
fino a quando tornerai alla terra da cui sei stato tratto: poiché sei polvere, alla polvere tornerai. (Gen 3,17-19)
La motivazione della condanna è: “perché hai ascoltato (= hai dato retta a) tua moglie”. In
Gen 3,6 non è detto esplicitamente che la donna abbia usato la parola per fare mangiare al marito il
frutto proibito, ciò che qui è supposto. L'uomo avrebbe dovuto ascoltare la voce del Signore Dio,
che gli aveva vietato di mangiare i frutti di quel particolare albero, non la voce di sua moglie, che al
contrario gli diceva: “mangiamone”. L'uomo aveva tentato di discolparsi denunciando la moglie,
ma il Signore Dio non accetta tale discolpa. Essere stati tentati non scusa dalla colpa: si deve
resistere alla tentazione. Il tema della responsabilità è importante in questo racconto come quello
della prova, cui è correlato.
L'uomo non è maledetto come il serpente, ma lo è il suolo, che viene a perdere la sua feracità
primitiva. Spontaneamente produrrà solo vegetali non commestibili: per cavarne fuori qualcosa di
mangiabile l'uomo dovrà faticare, e faticare molto. Per aver mangiato il frutto proibito l'uomo dovrà
penare per poter mangiare; come nel caso del serpente, la sua punizione ha la forma del taglione.
Alla sua fatica porrà termine solo la morte, dopo la quale il suo corpo ritornerà alla terra da cui è
stato tratto.2 La condizione umana è quindi segnata da due fattori: fatica incessante e inevitabilità
della morte. Prima del peccato l'uomo non era costretto a procurarsi il cibo con fatica e non doveva
contare i giorni che gli rimanevano da passare sulla terra.
1 Ho esposto questa interpretazione in Dominare la moglie? A proposito di Gen 3,16, Città del Vaticano 2003; e in «Ni
convoitise ni domination. A propos de Gn 3,16», Nova et Vetera 79 (2004), 53-63.
2 E il suo soffio vitale tornerà a Dio che lo aveva donato, aggiunge il Qohelet (12,7). Nessuna prospettiva di vita dopo
la morte è ancora contemplata.
37
A questo punto al narratore non resta che raccontare dell'espulsione dell'uomo e della donna
dal frutteto in cui abitavano. A ciò è dedicata l'ultima sezione, che va da Gen 3,20 a 3,24. Motivo
dichiarato dell'espulsione è la necessità che l'uomo non possa stendere1 la mano per cogliere i frutti
dell'albero della vita,2 altrimenti vivrebbe per sempre e non avrebbe quindi effetto la punizione della
perdita dell'immortalità. L'espulsione è completata dall'istituzione di un servizio di vigilanza
(cherubini e folgore) per impedire che gli esseri umani possano rientrare nel frutteto.
Abbiano quindi un rovesciamento di situazione rispetto alla situazione iniziale. Installato nel
frutteto, l'uomo aveva accesso all'albero della vita ma non a quello della conoscenza di bene e male;
avendo mangiato di quest'ultimo, non ha più accesso al primo. Per essere come Dio3 l'uomo voleva
sia la vita che la conoscenza, ma non gli è andata bene. Ha conosciuto per esperienza male e bene,
ma in cambio ha perso la possibilità di vivere per sempre.
Prima dell'espulsione il narratore racconta ancora due fatti. Per il nostro studio è interessante
soprattutto il primo:
L'uomo diede a sua moglie il nome Eva, perché lei è divenuta madre di ogni vivente. (Gen 3,20)
Anche qui la traduzione non consente di cogliere il gioco di parole dell'ebraico. L'uomo dà a
colei che aveva deciso di chiamare ’iššāh (cfr. Gen 2,23) un nome personale. Eva rende l'ebraico
ḥawwāh, che è vicino a ḥay, vivente. Quest'ultimo vocabolo per sé designa tutti i viventi, uomini e
animali, ma qui è evidente che designa solo gli uomini, figli di Eva. Il motivo per cui è stato scelto è
altrettanto evidente: nel versetto precedente si era parlato di ineluttabilità della morte, qui si parla di
maternità e di vita. Gli esseri umani sono destinati a morire, ma possono generare figli. Trasmettere
la vita è divenuto il loro compito più importante.
1 In ebraico troviamo lo stesso verbo šlḥ (in due coniugazioni diverse) per esprimere l'azione dello stendere la mano e di
espellere dal frutteto.
2 La logica narrativa esige che l'uomo e la donna non avevano ancora consumato i frutti dell'albero della vita.
3 Come un essere divino. La frase “come uno di noi” (Gen 3,22) implica una pluralità di esseri che possiedono sia
l'immortalità che la conoscenza di bene e male. Ha trovato pochissimo credito l'interpretazione “uno di lui” (= uno dei
suoi discendenti) proposta da J. COPPENS, La connaissance du bien et du mal et le péché du paradis, Gembloux 1948,
118-122. Già il Targum era ricorso alla soluzione di dare senso singolare (grammaticalmente possibile) al suffisso di
mimmennû (“di noi” o “di lui”), ricavandone un'esegesi molto diversa da quella di COPPENS.
38
Non stupisce dunque che la prima cosa che l'uomo e la donna espulsi dal frutteto fanno sia un
figlio, come leggiamo nel racconto immediatamente seguente, che appartiene al medesimo strato
letterario:
Adamo conobbe Eva sua moglie ed essa concepì e diede alla luce Caino.
Essa disse: ho ottenuto 1 un uomo con il Signore. (Gen 4,1)
La dichiarazione di Eva ha evidentemente lo scopo di spiegare la scelta del nome dato al suo
primo figlio. In tale dichiarazione sorprende alquanto l'uso di ’îš, uomo, anziché bēn, figlio. Data la
continuità con il racconto precedente, il lettore è portato a comprendere ’îš nel senso che ha in quel
racconto, ossia “marito”. Dopo la nascita del primo figlio Eva direbbe: ho ottenuto un marito da
parte del2 Signore (e così ho potuto avere un figlio). Comprenendo invece ’îš come “figlio”, il senso
verrebbe ad essere: ho ottenuto un figlio maschio da parte del Signore, oppure grazie al3 Signore.
Eva esprimerebbe la sua gratitudine per essere divenuta madre.
Tornando al racconto del paradiso terrestre, possiamo dunque constatare che anche nella sua
ultima sequenza narrativa, come nella prima, il motivo dominante è la vita. In realtà è il motivo
dominante dell'intero racconto,4 il cui scopo principale è di spiegare come mai gli uomini devono
morire. La risposta che a questo interrogativo viene offerta è che la morte non faceva inizialmente
parte del destino umano, ma lo è divenuta per effetto della trasgressione della volontà divina. Gli
uomini non devono dare a Dio la colpa del fatto che devono morire, ma a sé stessi. Il primo uomo e
la prima donna avevano la possibilità di vivere per sempre, ma l'hanno stoltamente perduta, e la vita
che hanno trasmesso ai loro discendenti è una vita limitata nel tempo.
1
In ebraico qānîtî. Il senso più comune del verbo qnh (foneticamente vicino a qayin, Caino) è “acquistare”; in alcuni
casi (Gen 14,19.22; Dt 32,6; Sal 139,13; Pr 8,22) sembra avere il senso “creare”. Si potrebbe dunque anche intendere:
“ho procreato”.
2 La preposizione ’ēt significa però “con” e non “da parte di”. Dovremmo supporre la caduta di una consonante: ’ēt =
mē’ēt; abbiamo esempi di qnh mē’ēt in Lv 25,15 e 2 Sm 24,24.
3
Non vi sono però altre attestazioni di questo uso di ’ēt.
4 Su questo aspetto ha insistito J. BARR , The Garden of Eden and the Hope of Immortality, Londra 1992.
39
Sul tema della limitazione della vita umana, possiamo leggere un altro passo della Genesi, la
cui appartenenza letteraria è oggi discussa:1
[1] Quando l'uomo iniziò a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro generate delle figlie, [2] i figli di
Dio videro che le figlie degli uomini erano di buona qualità,2 e le presero come mogli, tutte quelle che vollero.
[3] Il Signore disse: non rimanga3 il mio spirito nell'uomo 4 per sempre, dato che è carne: siano i suoi giorni
centoventi anni. [4] I giganti5 erano sulla terra in quei giorni, e pure in seguito, quando i figli di Dio andavano
con le figlie degli uomini e generavano per loro; sono i guerrieri di un tempo, uomini famosi. (Gen 6,1-4)
In Gen 3,22 si legge che all'uomo, avendo egli preteso di diventare come un essere divino,
non è consentito vivere per sempre. Non è però stabilita alcuna durata massima della sua vita, che
proprio in questo passo, precisamente al v. 3, è invece fissata: centoventi anni;6 la motivazione
addotta è che l'uomo è un essere di carne. Al v. 2 è detto che “i figli di Dio”7 prendevano moglie in
grande quantità tra le figlie degli uomini. Si può presumere, anche se ciò non è esplicitamente detto,
1 Un tempo era attribuito allo strato yahwista. W. BÜHRER ritiene che sia una composizione del redattore finale del
Pentateuco: cfr. «Göttersöhne und Menschentöchter: Gen 6,1-4 als innerbiblische Schriftauslegung», Zeitschrift für die
alttestamentliche Wissenschaft 123 (2011), 495-515.
2 In ebraico ṭōvōt, che la Settanta e la Vulgata hanno interpretato come “belle”. E. VAN WOLDE (Words Become
Worlds: Semantic Studies of Genesis 1-11, Biblical Interpretation Series 6, Leiden 1994. 61-74, 73) protesta contro
questa lettura: secondo lei i figli di Dio videro la bontà, non solo la bellezza delle donne.
3 Così la Settanta e la Vulgata. Il senso del verbo ebraico è oscuro.
4 La Settanta traduce: “in questi uomini”, intendendo forse i nati dai matrimoni divino-umani del versetto precedente.
5 I giganti sono menzionati anche in Nu 13,33, dove leggiamo che davanti a loro gli uomini si sentivano piccoli come
locuste. La tradizione posteriore (cfr. Sir 16,7; Sp 14,6; Ba 3,26-28) li dipinge come orgogliosi e ribelli.
6 Un salmo parla a questo proposito di “settanta anni, ottanta per i più robusti” (Sal 90,10). Ben Sira dichiara: “il
numero dei giorni dell'uomo è molto se sono cento anni” (Sir 18,9).
7 In Gb 1,6 e 2,1 questa espressione designa esseri divini che si radunano attorno al Signore, ed è in questo senso che va
probabilmente compresa pure qui. In Dn 3,25 si narra della presenza nella fornace ardente di “uno che somiglia ad un
figlio di Dio”, e in Dn 3,28 si loda Dio che ha mandato “il suo angelo” a salvare i tre giovani che non avevano voluto
adorare la statua di Nabuccodonosor. Il libro di Enoch (riconosciuto come canonico solo dalla Chiesa etiopica) parla di
angeli ribelli; a questa tradizione si riferisce pure la lettera di Giuda (cfr. v. 6). Nel mondo cristiano, dall'epoca di
AGOSTINO in poi, i figli di Dio di Gen 6,2.4 sono stati compresi come discendenti di Set, nel mondo rabbinico come
giudici o capi. Segnalo lo studio di A.T. WRIGHT , The Origin of Evil Spirits: The Reception of Genesis 6:1-4 in Early
Jewish Literature, Tubinga 2005 (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament II, 198).
40
che da questi matrimoni nascessero figli immortali come i loro padri, spingendo con ciò il Signore
ad intervenire con un decreto limitativo della durata della vita umana. 1
Getta questo breve racconto, il cui carattere mitologico2 appare evidente, una luce negativa sul
matrimonio o la sessualità? Per sé considerato no. Non mi appare giustificato il giudizio di P. ROTA
SCALABRINI: “Il racconto di Gen 6,1-4 con il peccato dei figli di Dio con le figlie degli uomini […]
mostra una sessualità lontana da ogni ideale di comunione e un'idea di fecondità vicina ad un delirio
di onnipotenza”.3 Il racconto non presenta le unioni divino-umane come un peccato; è la tradizione
successiva4 che vi ha visto un peccato di angeli presi da concupiscenza per le donne. Bisogna però
considerare la sua posizione: Gen 6,1-4 è intercalato tra la menzione della nascita dei figli di Noé
(Gen 5,32) e la decisione del Signore di sterminare l'umanità peccatrice, ad eccezione della famiglia
di Noé (Gen 6,5-8). Tale collocazione suggerisce che i matrimoni divino-umani e la conseguente
nascita di esseri semidivini abbiano avuto come esito una profonda corruzione della natura umana,
tale da indurre il Signore a pentirsi di aver creato l'uomo e a mandare il diluvio sulla terra.
Possiamo a questo punto concludere la nostra analisi. In Gen 1 la generazione di figli si situa
nel quadro del compito da Dio assegnato agli uomini di dominare la terra. In Gen 2-3 essa si
configura piuttosto come surrogato dell'immortalità perduta. L'uomo sa di dover morire, ma
generando dei figli lascia qualcosa di sé sulla terra. Solo chi muore senza figli muore interamente.
In Gen 1 Dio crea il maschio e la femmina e li benedice perché facciano figli e diventino numerosi.
In Gen 2-3 il Signore Dio costruisce la donna con una parte del corpo dell'uomo per dargli una
compagna, non perché gli faccia dei figli; è dopo il peccato che la donna riceve il nome di Eva,
perché destinata ad essere madre. Il matrimonio ha dunque un fine unitivo, e non solo procreativo. I
1 Non è da comprendere come una punizione: vedi D.L. PETERSEN, «Genesis 6:1-4, Yahweh and the Organization of
the Cosmos», Journal for the Study of the Old Testament 13 (1979), 47-64. Sarebbe peraltro strano che fossero puniti gli
uomini per una trasgressione non commessa da loro.
2 Vedi le osservazioni di M. e R. ZIMMERMANN, «Heilige Hochzeit der Göttersöhne und Menschentöchter? Spuren
des Mythos in Gen 6,1-4», Zeitschrift für alttestamentliche Wissenschaft 111 (1999), 327-352.
3 «Da principio fu così… Antropologia e teologia della coppia in Genesi», in Maschio e femmina li creò, Milano 2008
(Disputatio 20), 117.
4 È stata emessa l'ipotesi (poco convincente, a mio giudizio) che tale tradizione non sia successiva, ma anteriore a Gen
6,1-4, che sarebbe da leggere come una sorta di sommario del cosiddetto “libro dei vigilanti”, parte del libro di Enoch.
41
due racconti, della creazione del mondo e del paradiso terrestre, offrono due prospettive distinte
sull'unione tra l'uomo e la donna; non opposte, anzi complementari, ma distinte.
Del matrimonio il racconto del paradiso terrestre mette in evidenza tanto i vantaggi quanto i
pericoli. Il suo autore non ne ha dunque una visione idealistica, ma realistica. Unendosi alla donna
l'uomo trova un completamento di sé, e viceversa: i due uniti formano una sola carne. Ma poi la
donna presta orecchio al serpente e convince l'uomo a disobbedire alla volontà divina. La moglie
può dunque diventare una tentatrice per il marito, chiamato ad obbedire innanzittutto alla volontà
rivelata di Dio. L'amore umano è in grande bene, ma non l'unico e non il primo bene. Dio solo
conosce ciò che è bene, e la sua voce deve essere sempre ascoltata. Questo racconto, come abbiamo
notato, è viziato da una certa visione negativa della donna, tipica della cultura in cui il racconto ha
visto la luce. Non si devono per questo chiudere gli occhi sugli orizzonti che esso spalanca, quando
presenta l'unione dell'uomo e della donna come destinata a formare quella che suggestivamente è
chiamata “una carne sola”. Né si deve sottovalutare la sua portata realistica, quando mostra ciò che
la relazione tra l'uomo e la donna può divenire quando essi si ribellano alla volontà di Dio.
Possiamo dire in sintesi che il racconto del paradiso terrestre mostra tanto la grandezza quanto i
limiti dell'amore umano.1
Come abbiamo già avuto occasione di osservare, la storia del primo uomo e della prima donna
prefigura chiaramente la storia di Israele. Lo sguardo del narratore non ha di mira l'umanità in
generale, il cosiddetto genere umano, ma la concreta umanità del popolo cui appartiene, l'umanità
che ha preso forma nella storia che è la sua. Gen 1,1-2,3 termina con la santificazione del sabato,
giorno sacro per Israele; Gen 2,4-3,24 con la cacciata dal paradiso terrestre, prefigurazione della
cacciata di Israele dalla sua terra. L'uomo di cui parlano ambedue i racconti è l'uomo israelitico, non
un altro. Facendo l'uomo e la donna Dio non faceva che porre le prime pietre di una costruzione che
si saarebbe compiuta molto tempo dopo. Ma tutto è già lì nelle fondamenta, questa è l'idea che
ispira il narratore biblico. La ragione per cui la prima coppia umana è stata cacciata dal frutteto di
Eden è la medesima per cui Israele è stato deportato in Babilonia: per avere disubbidito ai
comandamenti del Signore Dio. La storia si ripete, potremmo dire; ma è forse meglio dire che una
storia prefigura l'altra e spiega l'altra.
1 Vorrei segnalare il mio articolo «Prospettive bibliche sull'amore umano», Anthropotes 20 (2004), 137-148.
42
Ciò impedisce di giudicare pessimistico il racconto del paradiso terrestre, che pure si conclude
con un evento tutt'altro che lieto. Il suo autore sa di appartenere ad un popolo peccatore, ma non per
questo abbandonato dal suo Dio. Questa mi sembra essere in qualche modo la morale ultima della
storia da lui raccontata. L'uomo ha peccato fino dall'inizio del tempo, non è dunque strano che abbia
continuato a farlo. Dio lo ha punito per questo, ma ha continuato a stargli vicino, e così continuerà a
fare, per sempre.
43
Il racconto del diluvio
Prendiamo ora in considerazione l'unità narrativa che si estende da Gen 6,5 fino a Gen 9,17.
La critica lo attribuisce sostanzialmente allo scritto sacerdotale, con una serie di aggiunte prese da
altra fonte. 1
Ripercorriamone per sommi capi la trama. Il Signore constata la corruzione della terra e
decide di distruggerla,2 risparmiando però Noé e la sua famiglia, con i quali intende mantenere3 la
sua berît, alleanza, cioè il suo impegno di proteggere e salvare. Come mezzo di distruzione Dio
pensa a un'enorme alluvione che sommerga interamente la terra, riportando in tal modo il mondo in
uno stato molto vicino alle sue condizioni iniziali, prima della separazione tra acqua e terraferma.
Come mezzo di salvezza Dio pensa ad una casa galleggiante a tre piani, capace di contenere non
solo quattro coppie umane (Noé e i suoi tre figli, con le rispettive mogli), ma anche coppie4 di
animali terrestri e volatili (non acquatici, ovviamente), e cibo sufficiente per il nutrimento di tutti.
Noé esegue diligentemente le istruzioni divine, e quando gli viene ordinato entra nell'arca. A questo
punto le acque si scatenano sulla terra, provocando la morte di tutti i viventi. Dopo centocinquanta
giorni le acque cominciano a calare e al termine di un anno la terra è nuovamente abitabile. Quando
gli viene ordinato Noé esce dall'arca insieme con tutti i sopravvissuti, erige un altare e immola
animali puri in sacrificio al Signore. Il sacrificio è gradito e il Signore decide che non sterminerà
mai più tutti i viventi per i peccati degli uomini. Dio benedice Noé e i suoi figli, e si impegna a non
mandare mai più il diluvio, istituendo l'arcobaleno come segno5 visibile di tale impegno.
1 Non sembra possibile identificare due racconti autonomi del diluvio, uno yahwista e uno sacerdotale, combinati
insieme da un redattore.
2 In ebraico è usato lo stesso verbo šḥt per designare tanto la corruzione quanto la distruzione.
3 La Bibbia CEI traduce: “stabilisco la mia alleanza” (Gen 6,18). Ma il causativo di qwm indica piuttosto l'azione di
“confermare” o “mantenere” che quella di stabilire, come osserva con ragione G.J. WENHAM (Genesis 1-15, The Word
Biblical Commentary, Waco 1987). L'alleanza (termine che compare qui per la prima volta) era quindi qualcosa di già
esistente.
4 Una coppia per ogni specie, secondo Gen 6,19-20; sette coppie di animali puri e una di impuri secondo Gen 7,2.
5 L'arco è un'arma. L'arcobaleno che appare tra le nuvole alla fine di un temporale è da vedere come un arco deposto,
non come un arco impugnato; rappresenta dunque la fine delle ostilità.
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Il diluvio è narrato anche in due poemi mesopotamici, Atrahasis e Gilgamesh. Sono
interessanti sia i punti di contatto con la narrazione biblica, sia soprattutto le differenze. Una
differenza importante è il motivo per cui viene deciso lo sterminio dell'umanità: la sua malvagità
secondo la Genesi, il disturbo che arreca agli dei nella mitologia mesopotamica.1 Un'altra, ancora
più significativa, concerne il sacrificio che ha luogo all'uscita dall'arca, che nei poemi mesopotamici
suscita l'entusiasmo degli dei che possono ricominciare a mangiare, mentre nella Genesi è
l'occasione in cui Dio annuncia la sua volontà di misericordia verso l'umanità peccatrice.2
La misericordia divina è il messaggio di fondo che sottende l'intero racconto del diluvio. Per
due volte Dio constata che il cuore dell'uomo è inclinato al male, quando prende la decisione di
sterminio (cfr. Gen 6,5) e quando dichiara al contrario che non sterminerà mai più i viventi sulla
terra (cfr. Gen 8,21). Prima si pente di aver fatto l'uomo, poi si pente di essersi pentito.
Rassegnazione divina a sopportare la cattiveria umana? Direi piuttosto disponibilità a ricominciare
una storia. Il ricordo del diluvio deve ammonire l'uomo a non fare il male, ma nello stesso tempo
testimonia la volontà divina di perdono e di ripresa. La misericordia divina non è una misericordia
imbelle, è al contrario creatrice.
Il racconto del diluvio è il racconto della seconda creazione del mondo. Noi viviamo in un
mondo creato, distrutto e ricreato. Il racconto della creazione ci ha presentato un mondo buono,
quello del diluvio ci presenta un mondo perdonato. Il secondo mondo non è peggiore o più guasto
del primo. È semplicemente il mondo della seconda chance. Dio ha dato agli uomini una seconda
possibilità, a loro di sfruttarla. Questo è, a mio modo di vedere, ciò che il racconto biblico del
diluvio intende insegnare.
Di tale racconto prenderemo in esame un solo brano, che interessa il nostro studio:
1 In Atrahasis I, 355-359 il dio Enlil si lamenta che gli uomini fanno troppo chiasso e non lo lasciano dormire. Alcuni
commentatori interpretano il chiasso come manifestazione di protesta: il diluvio castigherebbe dunque gli uomini per la
loro insubordinazione. Altri invece lo interpretano come esito di un numero eccessivo: il diluvio sarebbe allora una
misura per eliminare la sovrappopolazione. Nell'ultima parte del poema (cfr. VII,1-8) si legge infatti che gli dei presero
delle misure (infecondità fisica per alcune donne, consacrazione verginale per altre, forte mortalità infantile) per
impedire che gli uomini divenissero di nuovo troppo numerosi.
2 Sul senso del sacrificio di Noé, vedi le osservazioni di A. SCHENKER, «Die Stiftungserzählung des Brandopfers»,
Studien zu Propheten und Religionsgeschichte, Stoccarda 2003 (Stuttgarter biblische Aufsatzbände 26), 143-154.
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[1] Dio benedisse Noé e i suoi figli e disse loro: fate figli e moltiplicatevi, e riempite la terra.1 [2] Timore e paura
di voi saranno su tutti gli animali della terra e su tutti gli uccelli del cielo, su tutti quelli che si muovono sulla
terra e su tutti i pesci del mare: nelle vostre mani sono stati posti. [3] Tutto ciò che si muove ed è vivo sarà vostro
cibo: come la verdura, a voi ho dato tutto questo; [4] però la carne con la sua vita,2 il suo sangue, non dovrete
mangiare. [5] Certamente del vostro sangue, delle vostre vite, chiederò conto; ad ogni animale ne chiederò conto
e all'uomo; chiederò conto della vita dell'uomo, a ciascuno di suo fratello. [6] Chi versa il sangue dell'uomo, per
l'uomo 3 il suo sangue sarà versato, poiché come immagine di Dio ha fatto l'uomo. [7] Voi fate figli e
moltiplicatevi, pullulate sulla terra e moltiplicatevi in essa.4 (Gen 9,1-7)
La benedizione che Dio aveva pronunciato sulla prima coppia umana (cfr. Gen 1,28) è
reiterata sulle quattro coppie sopravvissute al diluvio, ed è ripetuta ancora una volta alla fine della
pericope, secondo la figura stilistica detta “inclusione”. Per quanto concerne il compito procreativo,
nulla è cambiato per l'umanità nel passaggio dalla prima alla seconda creazione.
È confermato pure il dominio sugli altri viventi, anche se Gen 9,2 non usa lo stesso termine di
Gen 1,28. Non si parla di dominazione da parte dell'uomo, bensì di soggezione (“timore e paura”)
da parte degli animali, posti5 in mano (= in potere) degli uomini. Non ritengo che mediante questa
diversa terminologia l'autore intenda rappresentare una situazione di conflitto tra uomini ed animali
destinata a prendere il posto dell'originaria convivenza pacifica. Anche per quanto concerne la
relazione tra l'uomo e gli altri viventi non vedo pertanto cambiamenti rispetto all'ordine originario
della creazione. Ricordiamo che nel racconto del diluvio Noé fa entrare nell'arca gli animali, perché
si salvino assieme agli uomini.
1 La Settanta aggiunge: “e dominatela”, armonizzando Gen 9,1 con Gen 1,28.
2 Il Targum pseudo-Yonatan parafrasa: “carne strappata da un animale in cui c'è ancora vita o da un animale abbattuto
prima che il respiro sia completamente cessato”. Così intesa, è una disposizione pietosa verso l'animale, di cui si deve
attendere che sia morto prima di usarne la carne come cibo.
3 In ebraico bā’ādām, che la Bibbia CEI traduce: “dall'uomo”. La preposizione b- può introdurre il complemento di
agente, ma anche di prezzo (vedi ad esempio 2 Sm 3,27), che mi pare qui preferibile. Segnalo lo studio di J. LUST, «For
Man Shall His Blood Be Shed. Gen 9:6 in Hebrew and in Greek», in Tradition of the Text: Studies Offered to D.
Barthélemy (Orbis Biblicus et Orientalis 109), edd. G.J. NORTON e S. PISANO , Friborgo-Gottinga 1991, 91-102.
4 La Bibbia CEI traduce: “dominatela”, modificando il testo.
5 In ebraico abbiamo un perfetto, che indica generalmente un'azione passata, solo in casi particolari presente. Non è
dopo il diluvio che gli animali sono messi in potere dell'uomo, lo erano già fin dal tempo della creazione.
46
Gen 1,29 assegna come cibo agli uomini i prodotti della terra. A ciò Gen 9,3 aggiunge la
carne degli animali: è questa una innovazione? Tale è l'opinione della generalità dei commentatori.
Il testo è però interpretabile diversamente: “vi ho dato” può riferirsi al passato, e precisamente al “vi
ho dato” di Gen 1,29, dove l'oggetto è l'erba, che era stata fatta spuntare il terzo giorno della
creazione, proprio per servire da cibo a uomini ed animali. Ciò che l'autore intenderebbe dire è che
fin dagli inizi il creatore aveva assegnato agli uomini come cibo la carne degli animali, non soltanto
la frutta e la verdura.
Gen 9,4 introduce però una limitazione: non si deve mangiare la carne assieme al suo sangue,
poiché il sangue è la vita.1 Abbiamo qui il principio giustificativo delle disposizioni che vietano di
mangiare sangue2 (cfr. Lv 7,26-27; 17,10-14 e Dt 12,15-16.23-25; 15,22-23).
Dal sangue dell'animale l'autore passa al sangue dell'uomo. Gen 9,5 dichiara solennemente
che Dio chiederà conto3 della vita di un uomo a chiunque l'abbia ucciso, animale4 o uomo che sia.
Abbiamo qui un altro principio giustificativo, delle norme relative alla pena di morte per omicidio
(cfr. Es 21,12; Lv 24,17; Nm 35,33). Il sangue dell'uomo non deve essere versato, se non allo scopo
di vendicare5 il sangue di un uomo che sia stato ucciso. Giova rilevare che è Dio in prima persona
che si incarica di chiedere conto del sangue versato;6 dove non arriva la giustizia umana, interviene
la giustizia divina.7 Gen 9,5 ha pertanto una portata che va oltre la mera giustificazione del dirittodovere di vendicare il sangue della persona uccisa.
1 Ciò dichiara esplicitamente Dt 12,23. In Lev 17,11 si dice che “la vita della carne è nel sangue”, e in 17,14 che “la vita
di ogni carne è il suo sangue”.
2 Essendo state date a Noè, furono considerate obbliganti per tutti gli uomini, non solo per gli israeliti. Per questa
ragione gli apostoli ne imposero l'osservanza anche ai pagani che si facevano cristiani: vedi At 15,20.29 e 21,25.
3 Il verbo è ripetuto tre volte nello stesso versetto, con forte effetto enfatico.
4 In Es 21,28-32 si prescrive di lapidare il toro che abbia provocato la morte di un essere umano.
5 Questo dovere toccava ad un parente dell'ucciso, che si assumeva l'incombenza di “vendicatore del sangue”. Per
l'omicidio non premeditato erano istituite le città di rifugio (cfr. Nu 35,9-34; Dt 19,1-13; Gs 20).
6 In Gen 42,20 sentiamo Ruben dire ai fratelli a proposito di Giuseppe: “ecco del suo sangue è chiesto conto”.
7 Nel libro delle Cronache si legge che il figlio del sacerdote Yehoyada fatto uccidere dal re Yoash morendo invocò:
“veda il Signore e chieda conto” (2 Cr 24,22), e che nello stesso anno il re fu ucciso nel suo letto (cfr. 2 Cr 24,25).
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Gen 9,6 sigilla questa dottrina con un detto cui la disposizione chiastica conferisce solennità:
“se uno ha versato il sangue dell'uomo,1 per l'uomo il suo sangue sarà versato”. Il suo e non quello
di altri: la vendetta deve essere limitata, come stabilisce la legge deuteronomica (“vita per vita”, Dt
19,21). Ricordiamo che a protezione della vita di Caino, condannato non a morte ma alla vita
nomade,2 il Signore concede (cfr. Gen 4,15) vendetta settupla,3 che il suo discendente Lamech
aumenta per sè fino alla misura di settantasette per uno (cfr. Gen 4,24). Il lettore contemporaneo
della Bibbia è generalmente urtato dalle regole relative alla vendetta, ma dovrebbe tenere presente
che nell'antico Israele la vendetta era l'unica protezione della vita di una persona.
Il secondo emistichio di Gen 9,6 riecheggia Gen 1,27: “poiché come immagine di Dio ha fatto
l'uomo”. Il motivo per cui il sangue dell'ucciso sarà vendicato è che l'uomo è stato fatto come
immagine di Dio: è ciò infatti che lo differenzia radicalmente dall'animale. L'animale può essere
ucciso (per cibarsi della sua carne), l'essere umano no. Dio ha posto gli uomini sopra tutti gli altri
viventi, e chiunque colpisca un uomo, qualsiasi uomo, colpisce colui di cui è l'immagine.
Il racconto della creazione del mondo si conclude con la consacrazione e benedizione del
settimo giorno, il cui scopo è chiaramente di fornire una giustificazione teologica al comandamento
che vieta di lavorare durante il sabato, destinato ad essere a suo tempo rivelato ad Israele al monte
Sinai. Il racconto della benedizione dei figli di Noè dopo il diluvio, oltre a confermare il compito di
dominare sugli altri viventi, fornisce la giustificazione teologica di due altri comandamenti, quello
che vieta di mangiare carne con il sangue e quello che vieta l'omicidio. Questi due, che hanno in
comune il rispetto della vita che appartiene a Dio e a lui solo, sono per tutti gli uomini, e non solo
per Israele, a differenza del precetto del riposo sabbatico. È evidente che per l'autore di ambedue i
racconti, della creazione come del diluvio, l'azione di Dio in favore dell'uomo non è mai disgiunta
dall'istituzione di un comandamento da osservare.
1 In ebraico dām hā’ādām, con un effetto paronomastico che si perde nelle traduzioni. Notiamo che “uomo” è ripetuto
tre volte in Gen 9,6, come “creare” è ripetuto tre volte in Gen 1,27. La triplice ripetizione piace all'autore sacerdotale.
2 Pena molto grave per un agricoltore come Caino.
3 Il Targum interpreta Gen 4,15 nel senso che Caino sarà colpito dalla vendetta alla settima generazione. Secondo il
Midrash fu ucciso accidentalmente dal suo discendente Lamech; i rabbini erano evidentemente scandalizzati davanti ad
un versetto che accordava così grande protezione alla vita di un fratricida.
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Possiamo concludere. Per il nostro studio due punti assumono particolare rilevanza. Il primo è
la reiterazione della benedizione elargita dal creatore alla prima coppia umana. Dopo la cessazione
del diluvio sono quattro le coppie a riceverla, Noè e i suoi tre figli1 con le rispettive mogli. Il suo
contenuto è sempre lo stesso: “fate figli e moltiplicatevi”. Pure la finalità della moltiplicazione è la
stessa: riempire la terra ed esercitare la propria autorità sugli altri viventi.
Il secondo punto è la ripresa del tema dell'uomo immagine di Dio, che come in Gen 1 serve ad
esprimere la superiorità dell'uomo su tutti gli animali, dei quali gli è stata affidata la cura. Ad un
animale la vita può essere tolta, ad un uomo no, perché lui e solo lui è immagine di colui che lo ha
fatto. Solo all'uomo è stata affidata infatti la responsabilità di governare a nome del creatore il
mondo. Chi abbatte una statua manifesta disprezzo per colui che la statua rappresenta. L'omicidio
viene quindi ad essere un crimine religioso, che Dio si incarica di non lasciare mai impunito. Egli è
“colui che chiede conto del sangue” (Sal 9,13); il motivo per cui protegge la vita di ogni uomo è la
dignità da lui conferita e la responsabilità da lui affidata all'essere umano.
1 Non risulta che Noé ebbe altri figli oltre quelli che entrarono con lui nell'arca. La benedizione di Gen 9 è dunque in
realtà destinata ai figli.
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Riepilogo
Tentiamo ora di cogliere gli elementi più significativi che la nostra indagine sui primi capitoli
della Genesi ha fatto emergere.
Giova richiamare innanzittutto la caratteristica essenziale delle narrazioni da noi prese in
esame. Le abbiamo chiamate racconti delle origini, dove è importante capire che le origini di un
fenomeno sono viste come espressive della sua natura. L'origine mostra la natura. Ciò che è
avvenuto all'inizio è normativo, rappresenta ciò che una data realtà è costitutivamente. Ciò che in
essi è narrato ha valore di archetipo o prototipo.
Da questo punto di vista non è senza importanza il fatto che queste narrazioni ci presentino
alle origini una coppia umana, e non divina. Non vi sono dei che si uniscono a dee, come era
comune nel mondo religioso antico orientale, ma un uomo e una donna. Con ragione sottolinea
questo dato P. GRELOT: “se il matrimonio non ha più un archetipo divino, vi è dunque un prototipo
umano, creato da Dio all'origine, che resta per sempre il modello da riprodurre”.1
Alcune scoperte archeologiche autorizzano la supposizione che nel periodo monarchico gli
Israeliti abbiano venerato pure una divinità femminile,2 che faceva coppia con colui che invocavano
col nome di yhwh. La Bibbia presenta invece una sola divinità, yhwh appunto,3 come autore della
creazione e salvatore del suo popolo. Giova ricordare che noi siamo in questa sede in ascolto della
testimonianza biblica, non alla ricerca delle tracce della più antica religione israelitica.
Abbiamo visto, sia pure di passaggio, il passo (Gen 6,1-4) in cui si racconta che prima del
diluvio i figli di Dio prendevano mogli tra le figlie degli uomini. Tali matrimoni divino-umani, da
cui nascevano giganti, sono ricordati in relazione alla limitazione della durata della vita umana, e in
nessun modo sono presentati come archetipo da cui è derivato il matrimonio umano.
1 La coppia umana nella Sacra Scrittura, Milano 1968, 30.
2 Il cui nome era Ašera. Su questa divinità vedi lo studio di P. MERLO , La dea Ašera, Roma, Corona Lateranensis,
1998. Nei papiri di Elefantina, l'isola del Nilo sede di una guarnigione ebraica, che risalgono al V secolo a.C., si
menziona la dea Anat come paredra di yhwh.
3 Che non ha peraltro tratti univocamente maschili.
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Il racconto della creazione del mondo, secondo l’interpretazione che ne abbiamo proposto,
contiene l'importante affermazione che l'uomo è stato fatto in qualità di immagine di Dio (cfr. Gen
1,27). Sulla terra l'uomo rappresenta in certo modo Dio e a tale titolo domina sugli altri viventi. Per
assolvere tale compito la specie umana deve essere numerosa e riempire la terra. Per questo Dio fa
l'uomo maschio e femmina e lo benedice perché sia fecondo (cfr. Gen 1,28). Il governo della terra è
lo scopo per cui Dio ha voluto creare l'uomo: “il cielo è del Signore, ma la terra ha data ai figli di
Adamo” (Sal 115,16).
È mia convinzione che l'immagine di cui si parla in Gen 1,26-27 debba essere intesa in senso
epifanico. Intendo con ciò dire che l'immagine manifesta la gloria più che riprodurre un modello.1
Leggiamo per comparazione ciò che è scritto nel salmo 8:
[5] Che cosa è l'uomo, perché di lui ti ricordi? Il figlio di Adamo perché te ne curi?
[6] Lo hai fatto poco meno di un dio, 2 di gloria e di onore lo hai coronato.
[7] Gli hai dato autorità sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
[8] le greggi e gli armenti tutti, e pure le bestie selvatiche,
[9] gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ciò che percorre le vie dei mari. (Sal 8,5-9)
Non si parla qui di immagine, ma di gloria. Il tema del dominio su tutti gli altri viventi, della
terra, dell'acqua e dell'aria, è però sufficiente a stabilire la relazione tra Sal 8,5-9 e Gen 1,26-28.
Mentre il salmo 39 dichiara: “tutta vanità è ogni uomo” (Sal 39,6), ed il salmo 89 esclama: “per
quale pochezza hai creato tutti i figli di Adamo” (Sal 89,48), il salmo 8 ed il racconto della
creazione proclamano l'uomo gloria di Dio.3 In duplice senso: da Dio l'uomo riceve gloria e a Dio
dà gloria, nella misura in cui svolge il compito che gli è stato assegnato sulla terra.
Grande cautela deve essere adibita quando si afferma che l'uomo è immagine di Dio in quanto
maschio e femmina. Non la coppia, ma la persona, ogni singola persona, è immagine di Dio. È
certamente legittimo riconoscere una certa corrispondenza tra l'uomo “uno por naturaleza y bino en
1 La riflessione di G IOVANNI PAOLO II nelle sue catechesi sull’amore umano interpreta l'immagine prevalentemente
nel senso della conformità con l'originale.
2 In ebraico ’elōhîm, che la Settanta ha tradotto angélous. In quest forma il paso è citato nella lettera agli Ebrei (2,7).
3 Vicino a ciò che significa immagine nel racconto della creazione è IRENEO di Lione quando scrive: gloria Dei vivens
homo (Adversus haereses IV, 20, 7).
51
personas”1 e Dio uno e trino, purché si eviti di attribuire concetti di questo genere agli autori biblici.
La testimonianza biblica e l'approfondimento teologico devono essere tenuti su piani rigorosamente
distinti. Ciò non significa ermeticamente separati: abbiamo richiamato in sede di introduzione
l'opportunità di distinguere tra senso inteso dall'autore e senso del testo.
Il tema dell'uomo immagine di Dio è ripreso in due altri passi dello scritto sacerdotale. In Gen
5,1-3 l'autore dà maggior rilievo al termine “somiglianza” rispetto al termine “immagine”, 2 forse
perché sta parlando di un padre e di un figlio, tra i quali è normale che vi sia somiglianza, fisica e
non solo fisica. Dio ha creato uno simile a lui, Adamo ha generato uno simile a lui, quindi simile a
Dio. Anche le due azioni, creare e generare, hanno tra di loro una certa somiglianza.3 La
procreazione è presentata come attività molto nobile, dato che trasmette la somiglianza divina.
In Gen 9,6 il fatto che l'uomo sia immagine di Dio è addotto per giustificare quella che
possiamo chiamare sacralità della vita umana. Il sangue dell'uomo non può essere sparso, e se lo è
Dio ne chiede conto a chi lo ha sparso, il quale pagherà con il suo proprio sangue. Sangue per
sangue: la vita di un uomo appartiene a Dio e nessuno, uomo o animale che sia, gliela può togliere
impunemente. La ragione per cui la vita di un uomo ha così grande valore e deve essere così
protetta è che Dio lo ha fatto come immagine di sé.
Fuori dal libro della Genesi troviamo soltanto due passi in cui l'uomo è detto immagine di
Dio. Il primo si trova nel libro del Siracide:
[1] Il Signore ha creato dalla terra l’uomo e ad essa di nuovo lo ha fatto tornare.
[2] Giorni numerati e tempo limitato ha dato loro, e ha dato loro potere su ciò che è su di essa.
[3] Secondo loro stessi4 li ha rivestiti di forza e secondo la sua immagine li ha fatti.
[4] Ha posto il timore di lui su ogni carne perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli. (Sir 17,1-4)
1 E. FARFÁN NAVARRO , «Tradición, Sagrada Escritura y Magisterio. Acerca del diseño de Dios sobre el matrimonio y
la familia», Anthropotes 15 (1999), 360.
2 Il quale sembra aggiunto allo scopo di armonizzare Gen 5,3 con 1,27.
3 La genealogia di Gesù secondo Luca si conclude con “Adamo figlio di Dio” (Lc 3,38).
4 Così in tutti i manoscritti greci (il testo ebraico di questo passo non è purtroppo stato conservato). “Secondo loro
stessi” si potrebbe intendere “secondo la loro necessità”. La Bibbia CEI traduce: “li rivestì di una forza pari alla sua”,
correggendo “secondo loro stessi” in “secondo sé stesso”.
52
Il fatto che l'uomo sia immagine di Dio pare essere stato da Ben Sira compreso in relazione
all'autorità che il creatore volle dare agli uomini sugli altri esseri viventi. L'altro passo si trova nel
libro della Sapienza:
Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità ed immagine del proprio essere1 lo ha fatto. (Sp 2,23)
Nell'interpretazione che di Gen 1,26-27 dà l'autore della Sapienza, l'uomo è immagine di Dio
in quanto creato per l'immortalità.
Queste sono le due sole riprese del tema dell'uomo immagine di Dio in tutto l'Antico
Testamento. Tanto il Siracide quanto la Sapienza fanno parte dei libri sapienziali, e ambedue
risalgono all'epoca ellenistica. Nessun accenno all'immagine di Dio nei libri sapienziali più antichi,
e nessuno nei libri profetici. L'interesse per questo tema pare essersi sviluppato negli ultimi secoli
prima dell'era cristiana, per acquisire poi notevole importanza nel Nuovo Testamento, soprattutto
nell'epistolario paolino.
Oltre all'affermazione che l'uomo è stato fatto come immagine di Dio, il racconto della
creazione del mondo offre un altro dato alla riflessione teologica: il fine procreativo dell'unione
matrimoniale tra l'uomo e la donna. Abbiamo potuto vedere che tale fine è ordinato ad un altro fine,
che è quello di assolvere il compito di governare gli altri esseri viventi, mantenendo l'ordine sulla
terra. Come il sole e la luna sono stati fatti per governare il giorno e la notte, così gli uomini sono
stati fatti per governare la terra. Nella visione dell'autore sacerdotale Dio ha messo ordine nel
mondo e ha deputato alcune creature a mantenere tale ordine. La generazione di figli è ordinata alla
moltiplicazione degli uomini sulla terra, necessaria per l'adempimento del compito per cui Dio li ha
creati. Governando il mondo l'uomo manifesta la gloria di cui Dio la ha rivestito e allo stesso tempo
glorifica colui che ha creato e ordinato il mondo.
Per essere fecondi l'uomo e la donna ricevono da Dio una benedizione, ricordata anche in Gen
5,2. Il racconto della creazione del mondo contiene tre benedizioni: degli animali acquatici e volatili
(cfr. Gen 1,22), della coppia umana (cfr. Gen 1,28), del settimo giorno (cfr. Gen 2,3). Questa ultima
benedizione, con cui termina il racconto, è nella mente dell'autore certamente la più importante. Il
sabato, giorno in cui il creatore ha riposato, è una sorgente potente di benedizione.
1
In greco tês idías idiótetos, letteralmente “della propria proprietà”. Alcuni manoscritti hanno aidiótetos, “eternità”.
53
Possiamo a questo proposito leggere un passo del libro di Isaia:
[3] ……… e non dica l'eunuco: ecco io sono un albero secco. [4] Infatti così ha detto il Signore degli eunuchi
che osserveranno i miei sabati, preferiranno ciò che a me piace e si terranno saldi alla mia alleanza: [5] darò loro
nella mia casa e tra le mie mura monumento e nome1 più grandi che figli e figlie; darò loro un nome eterno, che
non sarà eliminato. (Is 56,3-5)
Giova ricordare che la legge esclude gli eunuchi dalla partecipazione alle assemblee pubbliche
(cfr. Dt 23,2). Il profeta promette loro un ricordo imperituro nella sua casa, più desiderabile di
quello che darebbero loro i figli che la loro condizione fisica non gli permette di avere: tutto ciò in
cambio dell'osservanza del sabato e di tutti gli obblighi che loro impone l'alleanza del Signore. Il
compimento della volontà di Dio, e soprattutto dell'osservanza sabbatica, compensa abbondamente
la sterilità fisica. 2 Questa importante profezia ci aiuta a comprendere in modo più pieno e profondo
il discorso biblico sulla fecondità.
La benedizione della prima coppia umana viene ripetuta sulle quattro coppie sopravvissute al
diluvio. Malgrado l'uomo sia costituzionalmente portato al male, Dio lo mantiene nella posizione di
dominio sugli altri viventi e lo benedice perché abbia una numerosa discendenza e riempia la terra.
Un punto merita qui di essere rilevato: sia Adamo che Noè e i suoi tre figli hanno ciascuno una sola
moglie. Per popolare o ripopolare la terra sarebbe stato più conveniente che ne avessero parecchie.
Dobbiamo interpretare questo fatto come pronunciamento ideale a favore della monogamia? Esito
ad attribuire all'autore sacerdotale una simile intenzione, considerando che Abramo ebbe due mogli,
Sara e Hagar, e l'antenato eponimo di Israele pure due mogli, Lia e Rachele.3 A ciò si aggiunge il
fatto che la legge di Mosè non contiene alcuna disposizione contro la poligamia.4
1
In ebraico yād wāšēm, nome che è stato dato al luogo presso Gerusalemme in cui sono ricordate le vittime dello
sterminio hitleriano. Per yād (letteralmente “mano”) è intesa una stele (cfr. 1 Sm 15,12 e 2 Sm 18,18), eretta a ricordo di
una persona. In questo contesto il termine equivale dunque a “ricordo perpetuo”.
2
Questa promessa sarà ripresa, con estensione anche alle donne, nel libro della Sapienza (cfr. Sp 3,13-14).
3 Il primo uomo che ha due mogli è Lamech (cfr. Gen 4,19). Su questo fatto non è espresso alcun giudizio negativo;
giova ricordare che questo passo non appartiene però allo scritto sacerdotale.
4 A proposito di Gen 2,24 abbiamo menzionato la tesi di A. TOSATO, che spiega quel versetto come glossa inserita
dopo l'esilio nel racconto yahwista a sostegno dell'idea monogamica.
54
Nello scritto cui è stato dato il nome di Documento di Damasco,1 del quale sono stati ritrovati
manoscritti nella geniza2 di una sinagoga del Cairo e in alcune grotte di Qumran, la poligamia è
condannata (cfr. IV,20-V,1), equiparandola alla fornicazione. I passi biblici citati in appoggio sono
Gen 1,27 (chiamato il “fondamento della creazione”), Gen 7,9 e Dt 17,17. Non solo il fatto che Dio
creò il maschio e la femmina,3 ma anche che nell'arca entrarono “due a due, maschio e femmina” è
compreso come indicativo della volonta di Dio sul matrimonio, che vieta di prendere “due mogli
nella loro vita”. L'interpretazione antipoligamica dei racconti della creazione e del diluvio è dunque
antica, sicuramente precristiana.
Dopo il racconto della creazione del mondo, abbiamo preso in esame il racconto del paradiso
terrestre. Qui si narra dell'uomo modellato con la polvere del suolo, senza accennare in alcun modo
ad una somiglianza tra lui ed il creatore. Ad una somiglianza con Dio accenna il serpente, quando
suggerisce alla donna la possibilità di diventare “come Dio”, mantenendo la condizione immortale
ed acquisendo la conoscenza di ciò che è buono e ciò che è cattivo (cfr. Gen 3,5). Tale acquisizione
mette l'uomo al pari di Dio (cfr. Gen 3,22), il quale reagisce togliendogli la possibilità di vivere per
sempre. Se il racconto della creazione del mondo colloca l'uomo poco al di sotto di Dio (come si
legge in Sal 8,6), il racconto del paradiso terrestre ce lo mostra come autore di un tentativo mancato
di eguagliarsi agli esseri divini. Per non aver voluto dipendere da Dio per la conoscenza che più
conta per la vita, l'uomo ha perso niente meno che l'immortalità.
Perduta l'immortalità, all'uomo non rimane che la generazione di figli per potere attraverso di
loro continuare a vivere. Il racconto della creazione ci fa ascoltare Dio che benedice il maschio e la
femmina perché possano fare figli e riempire la terra, il racconto del paradiso mostra il Signore che
trasforma l'uomo in maschio e femmina, non per la procreazione ma per dare all'uomo l'aiuto della
donna (cfr. Gen 2,18). È l'unità originaria dei due in un solo corpo che spiega il fatto che l'uomo e la
donna si uniscono come marito e moglie, ricostituendo così un solo corpo (cfr. Gen 2,24).
1
Una versione italiana è disponibile in C. MARTONE, I testi di Qumran, Brescia 1996 (Biblica. Testi e studi 4), 114-
164.
2
La geniza è il locale della sinagoga in cui si ripongono libri consunti e non più utilizzabili che contengono uno dei
nomi divini, per rispetto al quale è proibito buttarli via o distruggerli,
3
Dai vangeli (cfr. Mc 10 e Mt 19) sappiamo che Gesù citò Gen 1,27 (unito a Gen 2,24) a sostegno dell'indissolubilità
del matrimonio (indirettamente della monogamia).
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Questa storia richiama alla memoria la teoria dell'androgino primitivo esposta in un dialogo di
PLATONE,1 secondo la quale all'inizio vi erano tre sessi, non due: l'uomo, la donna, l'androgino. La
superbia degli umani indusse Zeus a punirli, tagliandoli tutti in due. L'eros è la forza che spinge
ciascuno a cercare la metà da cui è stato separato: l'uomo cerca la donna se viene da un androgino,
cerca invece l'uomo se viene da un tutto maschile, così come la donna cerca la donna se viene da un
tutto femminile. La teoria platonica spiega quindi l'attrazione, sia eterosessuale che omosessuale.
Molto diverso è il messaggio di Gen 2,24, che non si riferisce alla mera attrazione, come appare dal
possessivo: “a sua moglie”. L'uomo lascia i genitori e si lega non ad una donna, ma alla sua donna,
cioè a sua moglie. È qui inteso l'amore coniugale, non semplicemente tra uomo e donna.
Nel racconto del paradiso terrestre la finalità prima del matrimonio non è la procreazione, ma
piuttosto l'unità tra le persone dei coniugi. Questa si esprime nel sostegno e nell'affetto. L'essere
umano come il Signore lo ha creato non è autosufficiente, ma ha bisogno di aiuto. Che genere di
aiuto? Ascoltiamo su ciò il Qohelet:
[9] Meglio due di uno, perché hanno miglior compenso nella loro fatica. [10] Se cadono, uno rialzerà l'altro: guai
a chi cade e non c'è un altro a rialzarlo. [11] Se due giacciono insieme, possono scaldarsi: ma uno solo come si
scalderà? [12] Se assalgono uno, due potranno resistergli; la fune formata da tre corde non si spezza in fretta.
(Qo 4,9-12)
Sono qui menzionate da un lato necessità materiali e dall'altro aggressioni: io ritengo che si
possa estendere l'aiuto di cui parla Gen 2,18 oltre questo ambito, e includervi ogni tipo di soccorso,
compreso quello morale. L'uomo ha infatti bisogno di un aiuto che sia adeguato a lui, tanto è vero
che nessun animale è giudicato una soluzione adeguata al suo problema, che non è quindi di natura
solo pratica. L'aiuto che una moglie porta al marito è di natura soprattutto affettiva, tanto è vero che
l'uomo si attacca più a lei che ai genitori, che pur lo hanno generato e fatto crescere.
Rispetto al racconto della creazione, la procreazione sembra dunque passare in secondo piano.
La donna non è infatti voluta e fatta per fare figli, ma per essere di aiuto all'uomo di fronte alle
avversità. Solo dopo il peccato si parla di gravidanza, parto e maternità. Prospettiva seconda, ma di
enorme rilievo. La discendenza è infatti un succedaneo, quasi un surrogato dell'immortalità perduta.
L'uomo non rimane per sempre su questa terra, ma ci rimangono i suoi figli, il suo “seme”, qualcosa
1 Cfr. Simposio, §§ 189-192.
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dunque di lui.1 Prima o poi l'uomo deve morire e scendere negli inferi2 riunendosi ai propri padri.
Se però ha avuto figli, non muore completamenee, come si legge nel Siracide: “suo padre è defunto,
ma è come se non fosse morto, poiché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé” (30,4). Il Signore
aveva fatto la donna per dare all'uomo una compagna. Dopo però la perdita dell'immortalità ciò che
l'uomo si aspetta da lei è soprattutto che gli dia dei figli, per continuare a vivere. Il nome Eva che
Adamo dà a sua moglie allude infatti alla vita. Nell'Antico Testamento la discendenza è bene
primario, equivalente alla vita stessa dell'uomo.3 Bisognerà attendere che si faccia luce l'idea di una
vita dopo la morte4 perché si delineino prospettive diverse.
Nella visione che ci prospetta il racconto del paradiso terrestre, il matrimonio appare ordinato
alla soddisfazione del bisogno di compagnia insito nell'essere umano da un lato, e alla procreazione
dall'altro. Riguardo al primo fine, si deve però registrare l'elemento negativo rappresentato dalla
tentazione. L'uomo riceve dal Signore i doni della vita, del comandamento e della donna. Poi entra
in scena il serpente e inganna la donna, non l'uomo. È lei che trasgredisce il comandamento dato da
Dio, e spinge l'uomo a fare altrettanto. La donna agisce con buona intenzione, vuole offrire al
marito la possibilità di accedere alla conoscenza; non vi è alcuna perfidia nella sua azione. Rimane
però il fatto che lo induce a disobbedire al comandamento divino. Quella che era stata fatta per
essere di aiuto fa l'opposto che aiutare. L'uomo non manca di farlo presente al Signore: “la donna
che mi hai posto accanto, è lei che mi ha dato dell'albero perché ne mangiassi” (Gen 3,12). È come
se dicesse: grande idea che hai avuto. Implicitamente l'uomo accusa non solo la donna, ma pure
colui che l'ha tratta dal suo corpo e data a lui come moglie. Ciò non lo esonera tuttavia dalla colpa
in alcun modo: non avrebbe dovuto dare retta a lei, ma obbedire al comandamento ricevuto. Un
marito non deve compiacere sua moglie, ma far valere la sua autorità.
1 Leggiamo nel libro di Henoch: “ho dato loro delle donne, perché le inseminino e generino dei figli, così che non tutto
scompaia di ciò che hanno fatto sulla terra” (15,5).
2 Lo še’ôl, simile all'Ade dei greci, un'immensa caverna sotterranea dove i morti vivono come ombre.
3 Nel libro dei Giudici si legge che “il Signore restituì ad Abimelech il male che aveva fatto a suo padre uccidendo i
suoi (scil. di Abimelech) settanta fratelli” (Gdc 9,56): chi uccide i figli uccide il padre, poiché spegne ciò che di lui
rimane nel mondo dopo la sua morte.
4 La credenza nella resurrezione dei morti è attestata nel secondo libro dei Maccabei (cfr. 7,9 e 12,43), composto nella
seconda metà del II secolo a. C.
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Non a caso il cosiddetto castigo della donna prevede non solo la sofferenza del parto, ma
anche la subordinazione al marito. Nell'interpretazione che ho proposto di Gen 3,16, non è intesa
una dominazione brutale da parte dei mariti, ma l'esercizio dell'autorità che a loro spetta nei
confronti delle mogli. All'autore preme mettere in rilievo che non è la donna che deve comandare
all'uomo, ma viceversa.
Su questo punto, mi piace riportare un brano tratto da un libro riconosciuto come canonico
dalla Chiesa greca, ma non da quella latina. Si tratta del libro che nelle Bibbie greche è chiamato
“primo Esdra” (Esdra alfa), mentre nel mondo latino è chiamato “terzo Esdra”.1 Vi si narra di una
gara oratoria in cui tre paggi del re Dario espongono pubblicamente tre tesi sul tema: chi è il più
forte. Il primo sostiene che più forte di ogni cosa è il vino; il secondo che più forte è il re; il terzo
che più forti sono le donne, ma aggiunge poi che più forte di tutto è la verità.2
Ecco due passaggi del discorso del terzo paggio, Zorobabel:
[20] L'uomo abbandona suo padre, che l'ha allevato, e la sua patria, e si attacca a sua moglie, [21] e con la
moglie sta fino al termine della vita, e non ricorda più né il padre né la madre né la patria. [22] Da questo dovete
capire che le donne ci dominano:3 non lavorate forse e faticate, e tutto portate e consegnate alle donne? [23] Un
uomo prende la spada e parte per un viaggio; rapina, ruba, attraversa mare e fiumi, [24] affronta il leone e
cammina al buio; e ciò che ha rubato, rapinato e saccheggiato lo porta all'amata. [25] Inoltre l'uomo ama più sua
moglie che il padre e la madre. [26] Molti sono usciti di senno a causa delle donne e sono divenuti schiavi a
causa loro, [27] molti sono andati in rovina, sono caduti e hanno peccato a causa delle donne. (III Esdra 4,20-27)
[35] La verità è grande e più forte di tutto. [36] Tutta la terra invoca la verità, il cielo la loda: tutte le sue opere
sussultano e tremano, e in lui non c'è ingiustizia. [37] Ingiusto è il vino, ingiusto il re, ingiuste le donne, ingiusti
tutti i figli degli uomini e ingiuste le loro opere: non vi è in loro verità, e nella loro ingiustizia periranno. [38] La
verità dura e domina nei secoli, vive ed è potente nei secoli dei secoli. [39] Presso di lei non vi è preferenza o
distinzione di persona, ma compie ciò che è giusto e si astiene da tutto ciò che ingiusto e malvagio. Tutti
approvano le sue opere, [40] e nel suo giudizio non vi è nulla di ingiusto. A lei la forza, il regno, il potere e la
magnificenza di tutti i secoli. Benedetto il Dio della verità. (III Esdra 4,35-40)
1 Con questo titolo è edito in appendice a molte edizioni della Vulgata latina.
2 Segnalo l'articolo di T. J. SANDOVAL , «The Strength of Women and Truth: The Tale of the Three Bodyguards and
Ezra's Prayer in First Esdras», Journal of Jewish Studies 58 (2007), 211–227.
3 Si osservi il contrasto con Gen 3,16, dove si dice che all'uomo spetta di dominare la donna.
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A me sembra che la riflessione espressa in questo passo non sia distante dall'intendimento
dell'autore del racconto del paradiso terrestre. L'affetto ha bisogno di essere governato, altrimenti
può portare a commettere dei crimini, come Zorobabel mette efficacemente in evidenza. Sopra
l'affetto deve stare dunque la verità, che non è altro che la legge divina. Se Gen 2,24 mostra la
ricchezza dell'amore umano, in forza del quale l'uomo e la donna formano una sola carne, il seguito
della storia mostra che tale amore non è un valore assoluto. L'unico assoluto è la volontà di Dio,
nella docilità alla quale l'uomo e la donna sono salvati, ed è salvato anche il loro amore.
Il racconto del paradiso terrestre non testimonia sicuramente a favore dell'eguaglianza tra
marito e moglie. Non a torto vi fa riferimento l'apostolo Paolo quando deve dimostrare che il marito
è il capo1 della moglie. I suoi argomenti sono due: 1) non l'uomo proviene dalla donna, ma la donna
dall'uomo; 2) non l'uomo è stato creato per la donna, ma la donna per l'uomo (cfr. 1 Cor 11,8-9).
Paolo non usa l'argomento che non l'uomo, ma la donna si è lasciata ingannare dal serpente, che usa
invece l'autore della prima lettera a Timoteo (cfr. 1 Tim 2,14). Né l'uno né l'altro interpretano male,
secondo me, l'intenzione dell'autore del racconto del paradiso terrestre, che abbiamo riconosciuto
essere condizionato da una cultura che non aveva un'alta considerazione della donna.2 Al lettore
contemporaneo della Bibbia questo può spiacere, ma ciò non lo autorizza a imporre agli autori
biblici idee e concezioni che sono loro totalmente estranee. Una lettura ideologicamente corretta
della Bibbia, oltre che essere ridicola, è anche ciò che di meno interessante si possa pensare. Le idee
e concezioni degli autori biblici devono essere rispettate, senza per questo rinunciare a prendere una
distanza critica, rifiutando di identificare tali idee e concezioni sic et simpliciter col messaggio
rivelato di cui la Scrittura è portatrice. La Bibbia non è fatta per essere letta superficialmente.
Possiamo concludere il nostro riepilogo. I racconti della creazione e del diluvio provengono
dalla tradizione sacerdotale, il racconto del paradiso terrestre dalla tradizione sapienziale. I primi
presentano il matrimonio come finalizzato alla procreazione, il secondo lo vede primariamente in
funzione del bene dei coniugi e della soddisfazione delle loro esigenze di appoggio ed affetto.
Schematizzando potremmo dire che una tradizione dà rilievo al fine procreativo, l'altra al fine
unitivo e a quello procreativo. Abbiamo come due fasci di luce che illuminano aspetti diversi della
stessa realtà. Il matrimonio serve sia la causa della vita che la causa dell'amore.
1 Non pochi esegeti vogliono dare a “capo” il senso di “origine”, forzando il pensiero dell'apostolo.
2 Come d'altra parte la cultura antica in generale. Basta pensare a ciò che della donna scrive ARISTOTELE.
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Né la fecondità né l'amore sono d'altronde valori assoluti. La Bibbia li presenta invece come
doni e compiti che Dio dà all'uomo nel suo percorso sulla terra. Il vero assoluto è l'obbedienza alla
volontà di Dio. Il racconto della creazione si chiude con la consacrazione del settimo giorno,
fondamento dell'osservanza sabbatica. Dio ha affidato all'uomo il compito di governare il mondo, e
lo ha chiamato a santificarsi mediante l'obbedienza alla sua legge. Il racconto del diluvio termina
con l'offerta di olocausti, mediante il quale l'uomo salvato rende omaggio al suo salvatore. Il
racconto del paradiso terrestre mette l'uomo e la donna davanti all'albero della conoscenza di bene e
male, al quale devono trattenersi dallo stendere la mano per lasciarsi invece nutrire dalla parola e
dall'insegnamento divino. È la legge divina il tema principale di queste narrazioni, non il rapporto
tra l'uomo e la donna. Prima di dire qualcosa sull'uomo e sulla donna, la Bibbia ci dice qualcosa
sulla compagnia che Dio intende fare a colui che ha voluto fare come immagine di sé.
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