Isola Nera 3/52
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Isola Nera 3/52
Isola Nera 3/52 casa di poesia e letteratura Casa aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace. Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - gennaio 2009 - Lanusei, Sardegna Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste (Italia) http://www.unesco.org/poetry/ “L'unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere.” ( E. Che Guevara ) Quando comare morte si avvicina Eugen Berthold Friedrich Brecht Lode del dubbio Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate serenamente e con rispetto chi come moneta infida pesa la vostra parola! Vorrei che foste accorti, che non deste con troppa fiducia la vostra parola. Leggete la storia e guardate in fuga furiosa invincibili eserciti. In ogni luogo fortezze indistruttibili rovinano e anche se innumerabile era l'armata salpando, le navi che tornarono le si poté contare. Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta e giunse una nave alla fine dell'infinito mare. Oh bello lo scuoter del capo su verità incontestabili! Oh il coraggioso medico che cura l'ammalato senza speranza! Ma d'ogni dubbio il più bello è quando coloro che sono senza fede, senza forza, levano il capo e alla forza dei loro oppressori non credono più! Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio! Quante vittime costò! Com’era difficile accorgersi che fosse così e non diverso! Con un respiro di sollievo un giorno un uomo nel libro del sapere lo scrisse. 1 Forse a lungo là dentro starà e più generazioni ne vivranno e in quello vedranno un'eterna sapienza e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce. Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze, che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta. E un altro giorno un uomo dal libro del sapere gravemente cancella quella tesi. Intronato dagli ordini, passato alla visita d'idoneità da barbuti medici, ispezionato da esseri raggianti di fregi d'oro, edificato da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie un libro redatto da Iddio in persona, erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio. Veramente gli è difficile dubitare di questo mondo. Madido di sudore si curva l'uomo che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare. Ma sgobba madido di sudore anche l'uomo che la propria casa si costruisce. Sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai. Splendida è la loro digestione, infallibile il loro giudizio. Non credono ai fatti, credono solo a se stessi. Se occorre, tanto peggio per i fatti. La pazienza che han con se stessi è sconfinata. Gli argomenti li odono con gli orecchi della spia. Con coloro che non riflettono e mai dubitano si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono. Non dubitano per giungere alla decisione, bensì per schivare la decisione. Le teste le usano solo per scuoterle. Con aria grave mettono in guardia dall'acqua i passeggeri dl navi che affondano. Sotto l'ascia dell'assassino si chiedono se anch'egli non sia un uomo. Dopo aver rilevato, mormorando, che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto. La loro attività consiste nell'oscillare. Il loro motto preferito è: l'istruttoria continua. Certo, se il dubbio lodate non lodate però quel dubbio che è disperazione! Che giova poter dubitare, a colui che non riesce a decidersi! Può sbagliare ad agire chi di motivi troppo scarsi si contenta! ma inattivo rimane nel pericolo chi di troppi ha bisogno. Tu, tu che sei una guida, non dimenticare che tale sei, perché hai dubitato delle guide! E dunque a chi è guidato permetti il dubbio! Bertolt Brecht nacque ad Augusta il 10 febbraio 1898 da Berthold Friedrich Brecht e Sophie Brezing, in una famiglia di recente borghesia. I nonni paterni erano originari del Baden, mentre quelli materni provenivano da Bad 2 Waldsee, nell'Alta Svevia. Il padre era cattolico, sua madre era protestante e il giovane Brecht fu educato nella fede della madre. Il 20 marzo Bertolt venne battezzato nella chiesa evangelica Barfüßerkirche e il 18 settembre la famiglia traslocò nella nuova abitazione nella città bassa vicino a Perlachberg, quartiere di artigiani e artisti. La fede protestante della madre segnò l'educazione culturale e linguistica del figlio, nella quale la lirica religiosa evangelica e il tedesco di Lutero lasciarono un'impronta decisiva. Il 29 giugno del 1900 nacque il fratello Walter, che più tardi diventerà professore di tecnologia cartaria al Politecnico di Darmstadt e il 12 settembre dello stesso anno la famiglia si trasferì in un appartamento più grande nella Bleichstraße 2, in una delle case della Fondazione Haindl, costruite qualche anno prima per i dipendenti nel sobborgo di Klancke. Come città industriale e commerciale, Augusta si distingueva, oltre che le sue imprese bancarie, per i tessili, per l'industria dei coloranti e per le cartiere. Il padre era emigrato dalla Foresta Nera proprio per lavorare nella cartiera Haindl, di cui, in seguito, diventò il direttore. Bertolt ebbe un'infanzia poco felice a causa del carattere schivo e di frequenti problemi di salute. Dopo la scuola elementare frequentò il Realgymnasium Augsburg. Come compagni di classe ebbe tra gli altri Caspar Neher e Rudolf Prestel. Nel 1913 cominciò a scrivere le prime poesie, tra cui L'albero in fiamme. Tra il 1914 e il 1915 scrisse altre poesie, imbevute di patriottismo e di entusiasmo per la guerra e di tutto ciò che è tedesco. Nel 1916, in un tema in classe sul verso oraziano Dulce et decorum est pro patria mori, Brecht espresse un giudizio negativo sulla morte eroica affermando tra l'altro: « Il detto che dolce e onorevole è morire per la patria può essere considerato solo come propaganda con determinati fini [...] solo degli stupidi possono essere così vanitosi da desiderare la morte, tanto più che pronunciano simili affermazioni quando si ritengono ancora ben lontani dall'ultima ora. Ma quando la comare morte si avvicina, ecco che se la squagliano con lo scudo in spalla come fece nella battaglia di Filippi l'inventore di questa massima, il grasso giullare dell'imperatore. » L'episodio provocò un piccolo scandalo e Brecht evitò l'espulsione dalla scuola solo grazie all'intervento del padre benedettino Romuald Sauer, amico di famiglia. Scrisse altre poesie, tra cui La leggenda della prostituta Evelin Roe e L'Inno a Dio. Nel 1917 ottenne il cosiddetto Notabitur (diploma d'emergenza concesso anzitempo agli studenti che intendevano arruolarsi) a causa degli eventi bellici. Il clan brechtiano festeggiò con canzoni, che Brecht compose e suonò con la chitarra, e scorribande notturne. Già al liceo Brecht mostrò un comportamento indipendente, anticonformista, polemico e tendente a primeggiare sui suoi compagni di classe. Insieme ad essi Brecht scriveva la musica per le sue poesie e tutti insieme giravano per la città. Sempre nel 1917 si iscrisse all'università dove frequentò in modo discontinuo le facoltà di scienze naturali, medicina e letteratura. Nel 1918, dopo aver partecipato ai funerali di Frank Wedekind a Monaco, dedicò al drammaturgo - grande modello degli anni giovanili (il primo figlio di Brecht si chiamò Frank) - la quartina Alla sepoltura di Wedekind. Dello stesso periodo è la commedia Baal. La giovinezza e le prime opere In seguito Brecht dovette interrompere gli studi perché arruolato e distaccato al corpo sanitario, in un ospedale militare di Augusta. In questo periodo conobbe Paula Banholzer che nel 1919 gli diede un figlio, Frank, che cadde nel 1943 durante la seconda guerra mondiale sul fronte russo. Scrisse la Canzone per i cavalieri del reparto D. Nel novembre scrisse la poesia la Leggenda del soldato morto. Nel 1919 scrisse anche critiche teatrali per il giornale socialista Augusburger Volkswille; si avvicinò al movimento spartachista. Il 1° maggio 1920 morì sua madre ed il giorno successivo scrisse la poesia Canzone di mia madre. Nello stesso anno divenne amico del celebre cabarettista Karl Valentin. Il lavoro con Valentin influenzò molto le sue opere successive. In quegli anni si recò spesso a Berlino costruendo importanti relazioni con persone che gravitavano intorno all'ambiente teatrale. A Monaco consegnò il manoscritto di Baal in un teatro e scrisse la tragedia Tamburi nella notte. Nel 1921 Brecht conobbe il drammaturgo Arnolt Bronnen, di cui diverrà grande amico. Tamburi nella notte Nel 1922, anno in cui vinse il Premio Kleist per Tamburi nella notte, andò a Berlino dove il 3 novembre sposò l'attrice e cantante d'opera Marianne Zoff. Un anno dopo nacque la loro figlia Hanne. Dello stesso periodo è la poesia Del povero Bertolt Brecht, Nel 1923 scrisse il dramma Vita di Edoardo secondo di Inghilterra e conobbe la futura moglie Helene Weigel. 3 Nel 1924 si trasferì definitivamente a Berlino dove lavorò con Carl Zuckmayer come drammaturgo presso il Deutsches Theater, e (sempre nel medesimo anno) nacque suo figlio Stefan. A novembre conobbe la futura collaboratrice Elisabeth Hauptmann. Nel 1925 scrisse la commedia Un uomo è un uomo. Dal 1926 intrattenne stretti contatti con artisti di tendenza socialista e ciò influenzò molto la sua Weltanschauung. Le sue prime opere furono influenzate dallo studio degli scritti di Hegel e Marx. Nel 1927 uscì il primo libro di poesie Il libro di devozioni domestiche (Hauspostille). Conobbe il sociologo Fritz Stengerg che lo stimola ad approfondire gli studi di marxismo. Scrisse la tragedia Mahagonny. Collabora con Erwin Piscator all'interno di un collettivo di un teatro di cui fanno parte anche Tucholsky, Kisch e altri. Il 2 novembre divorzia da Marianne Zoff. Nel 1928 scrisse la commedia L'Opera da tre soldi su musica di Kurt Weill che va in scena il 31 agosto e che divenne il maggior successo teatrale della Repubblica di Weimar. Nel 1929 sposa, in aprile, Helene Weigel. Il 1 maggio assiste ad una manifestazione di operai che vengono maltrattati dalla polizia tedesca. Nel 1930 andò in scena la commedia Ascesa e caduta della città di Mahagonny. Scrisse il dramma didattico La linea di condotta, dove Brecht ormai mette in scena tematiche marxiste. Scrive il dramma Santa Giovanna dei Macelli e il dramma didattico L'eccezione e la regola. Scrisse, anche, il dramma didattico Il consenziente. A ottobre gli nasce la seconda figlia, Barbara. Nel 1931 terminò la sceneggiatura del film Kule Wampe e scrisse il dramma La madre. Nel 1932 Brecht andò a Mosca per la rappresentazione di Kule Wampe. Da novembre con Doblin, Brecht frequentò un ciclo di otto lezioni sul marxismo tenute dal filosofo Karl Korsch. Tiene discussioni con Korsch anche a casa sua per approfondire la dialettica materialistica. Scrisse la commedia Teste tonde e teste a punta. Conobbe Margarete Steffin (Grete). All'inizio del 1933 la rappresentazione di Linea di condotta (Maßnahme) venne interrotta da un'irruzione della polizia e i produttori vennero accusati di alto tradimento. Il 28 febbraio, giorno successivo al rogo del Reichstag, Brecht, insieme alla moglie, il figlio Stefan ed alcuni amici, abbandonò Berlino. Egli al momento dell'avvento al potere di Hitler, si trovava ricoverato all'ospedale, senza neanche passare da casa sua, egli fece le valigie e dall'ospedale fuggì a Praga, poi successivamente a Vienna, Zurigo, poi a giugno a Parigi, dove andava in scena il balletto I sette peccati capitali. Lì venne raggiunto anche da Margarete Steffin. L'amica Karin Michaelis invitò la Weigel a trasferirsi a Skovsbostrand presso Svendborg in Danimarca dove rimase per cinque anni. Nel maggio dello stesso anno i suoi libri vennero messi al rogo. L'esilio fu molto duro anche se in quegli anni produsse le sue opere più note. Viaggiò molto a Parigi, Londra e New York per rappresentare i suoi testi teatrali. Scrisse numerosi articoli su giornali per rifugiati ed emigranti di Praga, Parigi ed Amsterdam. Ritornò a Parigi, incontrò Margerete Steffin e si mise d'accordo con l'editore Willy Munzberg per pubblicare una raccolta di poesie Canzoni, poesie, cori (Lieder, Gedichte, Chore) che sarà pubblicata l'anno seguente. In autunno l'attrice danese Ruth Berlau andò a conoscere Brecht per invitarlo a una lettura nella capitale danese. A dicembre Brecht si trasferì nella casa di Svendborg dove arrivò anche Margerete Steffin. Nel 1934 pubblicò il Romanzo da tre soldi, scrisse il dramma didattico Gli Orazi e i Curiazi. Scrisse anche il breve saggio Cinque difficoltà per scrivere la verità. Nel 1935 partecipò a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti, dove lesse un suo testo per la difesa della cultura e contro il nazismo. Nel 1936 diresse una rivista pubblicata a Mosca La parola. Nel 1937 scrisse il dramma I fucili di Madre Carrar. Nel 1938 scrisse il dramma Terrore e miseria del terzo Reich. Nel 1939 fuggì dalla Danimarca e si recò a Stoccolma in una fattoria nell'isola di Lidingo. Pubblicò il libro di poesie Poesie di Svendborg. Scrisse la tragedia Madre Coraggio e i suoi figli. A questo periodo risale anche Vita di Galileo. Nel 1940 fuggì dalla Svezia e andò in Finlandia. Scrisse il dramma La resistibile ascesa di Arturo Ui, ultima opera scritta in collaborazione con Margerete Staffin. Nel 1941 fuggì dalla Finlandia per recarsi a Mosca dove il 30 maggio morì Margarete Steffin. Attraversò la Russia, imbarcandosi a Vladivostok per stabilirsi in California. Per cinque anni abitò a Santa Monica, non lontano da Hollywood. Il suo tentativo di entrare nel mondo del cinema non ebbe successo per cui si limitò ad organizzare alcune rappresentazioni teatrali per piccoli teatri. In seguito decise di concentrare la sua attenzione sulle sue opere maggiori. Il 9 settembre 1943 a Zurigo esordì Vita di Galileo. Tra il 1942 e il 1945 scrisse il dramma Le visioni di Simona Machard e il dramma Schweyk nella seconda guerra mondiale. Nel 1946 scrisse la seconda redazione della Vita di Galileo. Accusato di avere opinioni comuniste, il 30 ottobre 1947 fu interrogato dallo House Committee on Un-american Activities di cui riportiamo un breve estratto dei verbali: Stripling: Mr Brecht, would you mind stating your personal particulars, your name, address, birth date and place etc. to put on record? Brecht: My name is... Stripling: Speak in the microphone, please. Brecht: My name is Bertolt Brecht. Stripling: Spell your name, please. 4 Brecht: spells BERTOLT BRECHT. Stripling: Where do you live? Brecht: I live number 34 Seventy-third Street West, New York. Stripling: Where were you born? Brecht: I was born in Augsburg, Germany, the 10th of February 1898. Stripling: The Committee has… Could you repeat your birth date? Brecht: February 10 1898. Stripling: 1898? Brecht: 1898. Stripling: I think particulars from the immigration office state it was 1888. Brecht: I beg your pardon? Stripling: I need to check whether details from the Immigration Office are correct… Brecht: I was born in 1898. Stripling: Mr Brecht, do you wish to use an interpreter? Brecht: Yes, I would like an interpreter. Stripling: Call the interpreter. Stripling: Mr Baumgardt, do you swear you will diligently, and with exactitude, translate all of the questions that witness Bertolt Brecht will be asked, and that you will equally diligently and with exactitude translate all of his anwers; will you swear this unto God? Baumgardt: Unto God. Stripling: You may take a seat. Il giorno successivo, durante la prima di Vita di Galileo a New York, fuggì a Zurigo, dove rimase per un anno (l'ingresso in Germania gli fu proibito) e mise in scena Antigone di Sofocle tragedia da lui scritta e ispirata a quella sofoclea. Tre anni dopo ottenne la cittadinanza austriaca. Nel 1948 ritornò a Berlino Est insieme alla moglie, Helene Weigel, dove fondò il teatro Berliner Ensemble che diventò una delle più importanti compagnie teatrali europea e si dedicò soprattutto alla attività di regista. Completò il dramma I giorni della Comune. Nel 1953 assistette all'insurrezione degli operai di Berlino e scrisse una lettera in cui difendeva il partito comunista. Scrisse le poesie Elegie di Buckow. In realtà furono pubblicati, della sua lettera, solo i passaggi relativi all'appoggio dato al Partito,e la propria dichiarazione di lealtà, mentre nella sostanza il documento era fortemente critico nei confronti della repressione del movimento operaio. Gli anni successivi lo videro impegnarsi molto per il teatro. Alcune rappresentazioni in città europee gli crearono delle tensioni con i vertici del partito SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands). Alcuni suoi pezzi teatrali furono rifiutati. Nel 1956 Brecht era da tempo in cattive condizioni di salute. All'inizio di maggio s’ era fatto ricoverare all'Ospedale della Charitè per curare i postumi di un'influenza da virus. Morì il 14 agosto a causa di un infarto cardiaco. Alla sera, alle sei, perse conoscenza, poco prima di mezzanotte morì. Secondo la sua volontà, Brecht fu seppellito senza cerimonie nel cimitero di Dorotheenstädtischer Friedhof in Chausseestrasse, che si scorgeva dalle finestre della sua abitazione dove viveva da separato in casa con la moglie. Là giace in un angolo adiacente la strada, di fronte alle tombe di Hegel e di Fichte, sotto una pietra dai contorni irregolari, che porta incise soltanto le lettere del suo nome: Bertolt Brecht. Il 17 agosto alle nove del mattino ebbero luogo i funerali in forma strettamente privata. La famiglia, i collaboratori più stretti, come pure gli amici Hanna Eisler, Erich Engel, J. Becher accompagnarono il feretro alla tomba. Accanto alla tomba di Brecht ora riposano le persone che gli hanno voluto bene e che hanno lavorato con lui: la moglie Helene Weigel, Elisabeth Hauptmann, Ruth Berlau, Kurt Engel, Gaspar Neher. LE OPERE • Baal (1919) - Scritto nel 1919 ma rappresentato per la prima volta a Lipsia nel 1923 • Im Dickicht der Städte (1921) - La prima stesura fu del 1921 ma la prima rappresentazione ebbe luogo nel 1923 a Monaco di Baviera. • Tamburi nella notte (Trommeln in der Nacht) (1922) - Viene rappresentato per la prima volta il 29 settembre 1922 a Monaco. La prima versione del pezzo si chiamava "Spartakus" in quanto ispirata dalla rivolta spartachista di Berlino (5-12 gennaio 1919) • Libro di devozioni domestiche (1927) • L'Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) (1928) - La versione cinematografica seguirà nel 1931. • Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny) (1929) - Nel 1930 a Lipsia la prima di quest'opera crea uno scandalo teatrale. • Linea di condotta (Die Massnahme) (1930) 5 • L'eccezione e la regola (Die Ausnahme und die Regel) (1930) • Santa Giovanna dei macelli (Die heilige Johanna der Schlachthöfe) (1930) • La madre (Die Mutter) (1932) • Canzoni, poesie, cori. (Lieder, Gedichte, Chore)(1934) • Poesie di Svendborg (Svendborger Gedichte) (1934) • (Die Gewehre der Frau Carrar) (1937) - La prima venne rappresentata a Parigi • Terrore e miseria del Terzo Reich (Furcht und Elend des Dritten Reiches) (1935-38) • Madre Coraggio e i suoi figli (Mutter Courage und ihre Kinder) (1939) - La prima viene rappresentata a Zurigo nel 1941. • L'anima buona di Sezuan (Der gute Mensch von Sezuan) 1938-40 • Poesie 1938 - 1941 (1938 - 1941) • Raccolta Steffin (1938 - 1941) • Il signor Puntila e il suo servo Matti (Herr Puntila und sein Knecht Matti) (1941) - La prima viene rappresentata a Zurigo nel 1948. • Vita di Galileo (Leben des Galilei) (1938-56) - Esistono tre versioni differenti di quest'opera. La prima è quella danese, poi vi è quella americana (1945) infine quella berlinese (1956) • La resistibile ascesa di Arturo Ui (Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui) (1941) • Il cerchio di gesso nel Caucaso (Der kaukasische Kreidekreis) (1944-45) • Antigone (1948) Riduzione e adattamento dell'Antigone di Sofocle basata sulla traduzione che Friedrich Hölderlin aveva realizzato nel 1804. • Storie da calendario (Kalendergeschichten) (1949) • Gli affari del signor Giulio Cesare (Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar)(1937-1939; pubblicato postumo). • Scritti sulla letteratura e sull'arte (raccolta di saggi postumi). • Scritti teatrali - Torino, G.Einaudi, 2001 (Trad. di E.Castellani, R.Fertonani, R.Mertens). • Diario di lavoro a cura di W.Hecht (traduzione di B. Zagari) Torino, Einaudi, 1976 (Diario di lavoro 1: 19381942 e Diario di lavoro 2: 1942-1955 ) • I capolavori, 3a edizione, a cura di Hellmut Riediger, traduzione di Emilio Castellani, Ruth Leiser, Franco Fortini, Laura Pandolfi, Ginetta Pignolo e Nello Sàito, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007. ISBN 9788806174279 Fonte: Wikipedia.it Dici: «Per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era appena cominciato. E il nemico ci sta innanzi più potente che mai. Sembra gli siano cresciute le forze, ha preso una apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori, non si può più mentire. Siamo sempre di meno. Le nostre parole d'ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili. Che cosa è ora falso di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi? 6 O dobbiamo sperare soltanto in un colpo di fortuna?» Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua. “Meditate che questo è stato” Primo Levi Se questo è un uomo Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per un pezzo di pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi. "Se questo è un uomo" è la poesia che fa da preludio all'omonimo libro. Qui, Primo Levi, racconta con estrema forza la dura esperienza vissuta nei Lager. In "Se questo è un uomo" vengono raccontate le dure regole dei campi di sterminio. "Considerate se questo è un uomo/Che lavora nel fango/Che non conosce pace/Che lotta per un pezzo di pane/Che muore per un sì o per un no", ed i versi diventano ancora più forti se paragonati alla normalità descritta dal Nostro: "Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/Il cibo caldo e visi amici" È una poesia che offre anche uno spaccato di storia, facendo luce sui quello che avveniva nei Lager. Profonda è la riflessione di Primo Levi, nel guardare alla condizione delle donne: "Considerate se questa è una donna,/Senza capelli e senza nome/Senza più forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il grembo/Come una rana d'inverno." Il Nostro invita poi a riflettere, anzi, a "meditare" affinché non venga dimenticato quello che è stato. Per Primo Levi è necessario che ciò che di assurdo qualcuno ha commesso, non cada nell'oblio : "Vi raccomando, queste parole/ scolpitele nel vostro cuore". Primo Levi nacque a Torino il 31 luglio del 1919. La sua giovinezza fu caratterizzata da studi regolari e profonde letture. Appartenne ad una famiglia ebraica, si laureò in chimica nel 1941, ottenendo il massimo dei voti. Il suo diploma reca la menzione "di razza ebraica". Levi entrò nel Partito d'Azione clandestino. Il 25 luglio del 1943 cadde il governo fascista Tuttavia, le forze armate tedesche occuparono il nord e centro Italia. Levi si unì ad un gruppo partigiano operante in Val d'Aosta, ma venne arrestato. Fu poi deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, dove vi rimase dal febbraio 1944 al gennaio 1945. Per tutta la durata della permanenza nel Lager, Levi riuscì a non ammalarsi, eccezion fatta per la scarlattina venutagli proprio quando nel gennaio 1945 i tedeschi, sotto 1'incombere delle truppe russe, evacuarono il campo, abbandonando gli ammalati al loro destino. Nel giugno iniziò il viaggio di rimpatrio che durò circa 5 mesi. Una volta a Torino trovò lavoro presso una fabbrica di vernici. Intanto, nacque "Se questo è un uomo". A settembre del 1947 sposò Lucia Morpurgo, da cui ebbe due figli: Lisa, Lorenza e Renzo. Levi presentò il dattiloscritto alla casa editrice Einaudi, che lo rifiutò. Il testo fu invece pubblicato dall'editore De Silvani di Torino. Il successo, 7 all'inizio, fu scarso. Le cose cambiarono quando il libro uscì nella collana dei"Saggi" Enaudi. Nel 1963 , la stessa Casa Editrice, pubblicò La tregua. Nel 1978, Primo Levi, diede vita a La chiave a stella, vincitore del premio Strega. Nell'aprile del 1982 uscì Se non ora, quando?, con immediato successo. Primo Levi fu anche impegnato in attività giornalistiche. Nell'aprile del 1986 pubblicò I sommersi e i salvati, ritornando così sulla traumatica esperienza dei Lager. Morì a Torino l'11 aprile del 1987. Ringraziamo vivamente la Fonte: Netverbum.it, rubrica a cura di Maria Antonietta Izzinosa Elie Wiesel ( tratto da La notte. Wiesel fu rinchiuso ad Auschwitz all'età di 15 anni ) Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. la Giornalisti Specializzati Associati – Milano Gli albori del tango "Il tango è un pensiero triste che si balla" (Anibal Troilo “Pichuco”) Così si dice nella tradizione porteña. E’ un ballo basato sull'improvvisazione, caratterizzato da eleganza e passionalità. Il passo base del tango è il passo in sé, dove per passo s'intende il normale passo di una camminata. Essendo ballo d’ improvvisazione, in pista non esiste l'idea di sequenze di passi predefinite, e sta alla fantasia dei ballerini costruire come in un dialogo il proprio ballo. 8 La posizione di ballo è un abbraccio frontale asimmetrico in cui l'uomo con la destra cinge la schiena della propria ballerina e con la sinistra le tiene la mano, creando quindi una maggiore distanza tra la spalla sinistra dell'uomo e la destra della donna. Poche regole semplici dettano i limiti dell'improvvisazione: l'uomo guida, la donna segue. Fondamentalmente è l'uomo che chiede con un linguaggio puramente corporeo alla propria ballerina di spostarsi. Tuttavia, per motivi didattici sono state introdotte delle sequenze con passi predefiniti, come la Salida basica. Il termine "tango" iniziò a diffondersi a Buenos Aires verso il 1820, riferito ad un tipo di percussione usata dagli afromaericani. Può sembrare una forzatura associare questo significato con la danza che, sebbene almeno in apparenza porti lo stesso nome, si diffuse sessant'anni dopo. Ecco il perchè. Nell'800 Buenos Aires è la città dove "far fortuna". Nonostante la durezza dei lavori disponibili, data la grande disponibilità di manodopera, i salari erano piuttosto miseri. Famiglie di Italiani, Francesi, Ungheresi, Ebrei e Slavi, cui presto si unirono schiavi liberati e Argentini della seconda e terza generazione, provenienti dalle pampas, convivevano in squallidi appartamenti in quartieri costruiti dal nulla, detti "Orilla", creando una miscela unica e irripetibile di tradizioni etniche e culturali che è diventata l'ingrediente magico di un processo creativo. Nei vicoli dell'Orilla, i nuovi Argentini condividevano un destino di disillusione disperazione, da cui ben presto emerse una speranza comune rappresentata da una volontà di fuga, sia pure soltanto momentanea, dall'oppressione, sentimento forte espresso in canzoni, cantate in "Lunfardo", il dialetto degli emarginati, sorta di lingua comune fortemente influenzata dal Francese e dall'Italiano. Le canzoni cantavano la tristezza delle persone, ma anche la loro felicità e le loro gioie. Cantavano la nostalgia e la distanza, ma anche le speranze e le aspirazioni. Cantavano la solitudine, ma anche la lealtà e la fratellanza nell'avversità. La canzone, come in tante altre parti del mondo, divenne la consolazione in musica dell'uomo. E la canzone richiede come suo completamento espressivo la danza ed è così che nel vicoli di Buenos Aires, è nato il tango. La gente della pampa, i Gauchos, portano la Payada, un'antica forma di poesia popolare caratteristica delle feste di paese: il Payador improvvisa sei versi endecasillabi, seguiti da un caratteristico stacco di chitarra. Intorno al 1870 la payada si evolve e ad essa si unisce il ballo: è la Habanera, danza spagnola diffusasi a Cuba e portata dai marinai fino alle due sponde del Rio della Plata, che si diffonde ma immediatamente si trasforma, assumendo l'andamento caratteristico e insolito di una camminata in cui l'uomo avanza e la donna indietreggia. Nasce così la Milonga(che in Spagnolo significa festa), e milonguear significa passare la notte alternando canto e ballo. Dal porto di Buenos Aires arriva anche il Candombè, danza caratteristica dei neri (che avevano abitato un piccolo borgo nella parte vecchia prima di scomparire decimati dalla febbre gialla), in cui le coppie ballano separate ma molto vicine, abbandonandosi a sensuali movimenti pelvici. Sono gli ingredienti che si fondono nel tango. Il '900: sviluppi e tendenze A partire dal 1900, quando il tango comincia a entrare nei teatri e nei caffè, si impone il trio bandoneòn-violinopianoforte. Mentre il genere si evolve e l'orchestrazione diviene più ricca, negli anni '10 al trio si sostituisce sul palco il sexteto tipico: due bandoneònes, 2 violini, pianoforte, contrabbasso. Cominciano così a dedicarsi al tango strumentisti e direttori sempre più colti musicalmente, quasi sempre italiani. Il tango divenne intenso, drammatico, malinconico. Il giro di bassi cadenzava la situazione di inerzia impotente che si rivelava agli occhi di quei suonatori del "ghetto" mentre la melodia traduceva le emozioni di coloro che la canzone cantava. La lotta per superare l'inerzia delle circostanze e la bramosia di una nuova libertà si trasferivano prepotentemente nella musica del tango, come lava eruttata da un vulcano. Un famoso tango di Canaro e Mores, "Adios Pampa Mia", esprime perfettamente questo stato d'animo. I parolieri descrivevano una visione fatalistica delle loro sfortunate condizioni sociali, cui spesso associavano la vergogna di deludere e tradire la loro classe sociale, la famiglia, gli amici e la nostalgia per i tempi perduti e gli amori sfuggiti. Il tango divenne così, quasi automaticamente, una metafora della vita stessa. Discepolo, uno dei primi compositori di tango, disse:"Il tango è un pensiero triste espresso in forma di danza". Ma il tango non è solo un pensiero, è un'emozione, una sensazione, un enigma. E' una danza non solo del momento, ma della potenzialità del momento. E' la danza con centinaia di segreti, migliaia di ombre, milioni di misteri. E' la danza della velatura azzurrina della nebbia e dello sfavillio del riflesso delle luci dei lampioni sui mosaici di petra delle strade; è la danza di uno sguardo scambiato, di uno stiletto in una mano invisibile. Il Tango univa la sua persone e divenne quasi un inno alle loro aspirazioni. Leone Tolstoi, il grande scrittore russo, descrisse il tango come l'"inno di morte" del capitalismo. Essendosi attirato addosso la disapprovazione delle autorità costituite, il tango divenne una forma di espressione underground. L'adolescenza del Tango era passata nelle osterie e nei bordelli di Buenos Aires. Gli adepti si incontravano in oscuri bar per bere, suonando e ballando in angoli scarsamente illuminati. La sensualità e l'eroticità del Tango fecero ben 9 presto nascere l'identificazione fra la capacità di ballarlo bene e la mascolinità e il machismo. Gli uomini si insegnavano trucchi e segreti l'uno con l'altro, esercitandosi fra di loro prima di mostrare la propria abilità per attrarre e sedurre le ragazze nei bordelli. Jorge Luis Borges, il grande scrittore sudamericano, così esprimeva questo concetto: "Nessuno può dire in quale città il tango sia nato, Buenos Aires, Rosario o Montevideo, ma tutti sanno in quale via - la via delle prostitute". La Legge per il suffragio universale del 1912 condusse ad una maggiore integrazione delle classi popolarie il tango conquistò una nuova libertà. Ma nonostante lo si potesse nuovamente danzare alla luce del sole, il tango aveva ormai acquisito il sapore di un frutto proibito. Ognuno voleva ballare. Ognuno voleva essere visto ballare. Era diventato più popolare di prima, aveva conquistato l'alta società, per cui vennero organizzate feste di tango e aperte sale da ballo per soddisfare la crescente domanda e la sua fama ben presto varcò i confini del Sud America. Nel 1911, mentre a Londra George Grossmith e Phyllis Dare si esibivano al Gaiety Theatre, nella New York Revue per la prima volta negli Stati Uniti si sentiva parlare del tango. A partire dal 1912, i due danzatori americani Irene e Vernon Castle ballarono una loro personale reinterpretazione del ballo e in Europa il tango furoreggiava nei Tango Café e nelle Tango Tea Rooms. Le caratteristiche audaci del tango ovviamente fecero in modo che non venisse approvato da tutti. Nel 1913, il teologo americano Campbell Morgan espresse una curiosa ipotesi insinuando che il tango fosse la conferma della teoria di Darwin, ovvero della discendenza dell'uomo dalla scimmia. Contemporaneamente, in Europa, l'Arcivescovo di Parigi, il Cardinale Amette, dichiarava che "I Cristiani non dovrebbero in buona coscienza prendere parte al tango". L'anno successivo, lo stesso Papa Benedetto XV si scagliò veementemente contro il tango, "è oltraggioso che questo ballo indecente e pagano, un assassinio della famiglia e della vita sociale, sia anche ballato nella residenza papale!". Il tango si diffuse in tutta Europa, causando problemi ovunque veniva danzato. Nel 1914, il Kaiser Guglielmo II proibì ai suoi ufficiali di ballare il tango in uniforme considerandolo lascivo e contrario alla pubblica decenza. Il capò della polizia di Monaco di Baviera bandì il tango una volta per tutte alle festività primaverili, sostenendo che "... ha molto più a vedere con la stimolazione sensuale ed erotica che con la danza". Canzoni celebri e grandi geni del tango Uno dei più famosi tanghi è "La Cumparsita" di Gerardo Matos Rodriguez, scritta nel 1916, che descrive una piccola banda o processione di strada come quelle che si vedono durante il periodo di carnevale. Un altro famoso tango è "El Choclo", di Angel Villoldo, composto nel 1905. In Sspagnolo "choclo" significa pannocchia di granoturco, ma nel gergo colloquiale sta ad indicare anche una parte dell'anatomia maschile. In questo caso, però, molto probabilmente "El Choclo" era il soprannome di un amico di Villoldo, così soprannominato per il particolare colore dei suoi capelli. "Caminito" di Filiberto, 1926, è invece dedicata a un vicolo del quartiere portuale di Buenos Aires, La Boca, dove approdavano gli immigrati. Nonostante i vent'anni che separano la composizione di questi tanghi, tutti e tre raccontano di uomini traditi dalle donne che amavano. "A Media Luz" del 1925, composta da Edgardo Donado, ritrae la visione nostalgica di una camera col sottofondo musicale di un grammofono che suona vecchi tanghi della gioventù del cantante vicino ad una tavola perennemente apparecchiata in attesa del ritorno della donna amata. Rodolfo Valentino nel film "I quattro cavalieri dell'apocalisse" rese popolare una versione piuttosto melodrammatica e teatrale del tango, ma il più grande impulso alla sua diffusione venne da Carlos Gardel. Figlio di una stiratrice di origine francese che era emigrata in Argentina, Gardel crebbe con il tango e ne condivise le umili origini. La prima partitura di tango fu pubblicata nel 1888, contemporaneamente alla nascita di Gardel. Famoso, di bell'aspetto, popolarissimo cantante di tanghi, compositore e stella cinematografica, Gardel divenne ben presto popolarissimo in Argentina. Nel 1930 l'esercito prese il potere e la gente perse la libertà politica e il diritto di voto. Il tango, la voce del popolo, fu ridotto al silenzio. Gardel emigrò da Buenos Aires a Parigi seducendola prima di essere tragicamente ucciso, vittima di un disastro aereo, a Medellin in Colombia. E ancora oggi la sua tomba, al cimitero Chacarita di Buenos Aires, è meta di pellegrinaggi. Negli anni Trenta, George Raft, che mostrava alcune delle autentiche emozioni del tango, colpì l'immaginazione di milioni di spettatori cinematografici. Il ballo che George Bernard Shaw considerava "...essere l'unica danza sociale moderna che è riduttivo chiamare un ballo" era entrato nella fase della sua maturità. I MUSICISTI ITALIANI Julio De Caro (1899-1989), assieme al fratello Francisco, viene cacciato di casa dal padre, originario di Milano e insegnante di conservatorio, alla notizia che i due hanno tradito la musica classica per suonare tanghi nell'orchestra di Arolas. I due fratelli porteranno nel tango degli anni '20 una straordinaria inventiva, che si esprime in contrasti dinamici, fantasie contrappuntistiche, brillanti trovate esecutive: glissandi, effetto chicharra ("cicala - sfregando le corde del violino dietro il ponticello), effetto lija ("carta vetrata"), fischi, risate. Francisco Canaro (1880-1964) introduce l'uso dell' estabillista (un cantante che interviene solo nel ritornello) preferendo un modello di esecuzione che non è ne' semplicemente strumentale, ne' pienamente vocale. Tipico l'effetto canyengue, ideato dal contrabbassista Leopoldo Thompson, ottenuto battendo con l'archetto o con la mano sulle corde 10 dello strumento. Juan D'Arienzo (1900-1976) sviluppa un ritmo molto ballabile, quasi ossessivamente metronomico, alternando pause a strappate simili a colpi di frusta o di zappa. Carlos Di Sarli (1900-1960) valorizza gli archi, usa fraseggi melodici che valorizzano spesso l' unisono e ritmi articolati su contrasti legato-staccato. Osvaldo Pugliese (1905-1995) si distingue per ardite tessiture armoniche e una accentuata poliritmìa, ossia una particolare forma di canyengue da lui stesso chiamata la yumba. ASTOR IL RIVOLUZIONARIO La sua opera, che comprende più di 1000 composizioni, continua ad influenzare i migliori musicisti del mondo di ogni generazione; per citarne solo alcuni Gidon Kremer, il violoncellista Yo-Yo-Ma, il Kronos Quartet, i pianisti Emanuel Ax e Arthur Moreira Lima, il chitarrista Al Di Meola, gli Assad brothers, e numerose orchestre sinfoniche e da camera. Il suo è uno stile unico, ribelle Ringraziamo la Fonte: tangoargentino.altervista.org / Wikipedia It Poesie e Parole del Tango All'inizio le parole del Tango erano in generale comiche. Erano normalmente scritte in prima persona e descrivevano alcune delle caratteristiche salienti del personaggio principale. Man mano che la popolarità del tango cresceva sia a Parigi che nel resto del mondo ed il mercato del tango si espandeva anche tra le classi medie dell'Argentina anche le parole e, non solo la musica, iniziavano a cambiare. Dal 1917 in poi, un nuovo tipo di parole cominciò ad essere scritto. Molti dei più celebri poeti argentini e uruguaiani scrissero per il tango. E visto che le parole migliorarono in qualità, questo fu il periodo in cui iniziarono a comparire molti tra i più famosi cantanti di tango che avrebbero dominato il panorama. Con lo sviluppo del tango come forma strumentale, anche la forma della canzone del tango iniziò a guadagnare sempre più popolarità intorno alla metà degli anni venti. Molti dei primi tanghi con parole sono stati inclusi nel sainete, una forma di teatro popolare. I cantanti, sia uomini che donne, adattarono questa forma e la inserirono nei loro repertori, con l'accompagnamento delle chitarre. Tra i cantanti di tango più famosi di questa generazione si trovano i nomi di Agustín Magaldi (1901-1938), Azucena Maizani (1902-?), Rosita Quiroga (1901-1984), Mercedes Simone (1904-?) e Libertad Lamarque (1909-1999). Carlos Gardel è nato l'11 Dicembre 1890 a Tolosa, Francia. Si è trasferito con sua madre in Argentina quando aveva appena 27 mesi. La sua carriera finì il 24 giugno 1935 quando perse la vita in seguito ad un tragico incidente aereo che avvenne a Medellin, in Colombia. Registrò centinaia di canzoni e creò alcune tra le più belle interpretazioni di classici come Volvió una Noche, El Día que me Quieras, Tomo y Obligo, Madreselva e Mi Buenos Aires Querido. Diventò molto famoso nell'America Latina e parte del suo successo era dovuta alla sua continua presenza alla radio e alla televisone. Anche gli anni quaranta registrano una nuova crescita della canzone che diede origine a una nuova generazione di cantanti, tra i più famosi citiamo: Roberto Goyenche (1926-1994), Alberto Podesta (1924- ), Francisco Fiorentino (1905-1955), Alberto Castillo (1914- ) e Ángel Vargas (1904-1959). Tra gli autori più famosi Santos Discepolo, Homero Manzi (1907-1951), Catulo Castillo (1906-1975), Homero Expósito (1918-?) e Enrique Cadicamo (1900- ?). Il contenuto delle loro canzoni andava oltre la tematica tradizionale dell' amore e della delusione d'amore, loro creavano dei veri e propri ritratti di vita.... Tra i centinaia di titoli disponibili è necessario menzionare almeno i seguenti “Uno” (Discepolo, com música de Mariano Mores), “Sur” (ManziTroilo), “La última curda” (Castillo-Troilo), “Malena” (Manzi-Demare) e “Los mareados” (Cadicamo-Cobian). El Dia Que Me Quieras Acaricia mi ensueño el suave murmullo de tu suspirar. Como rie la vida si tus ojos negros me quieren mirar. Y si es mio el amparo de tu risa leve que es como un cantar, ella aquieta mi herida, todo todo se olvida. El día que me quieras la rosa que engalana, se vestirá de fiesta con su mejor color. Y al viento las campanas 11 dirán que ya eres mía, y locas las fontanas se contaran su amor. La noche que me quieras desde el azul del cielo, las estrellas celosas nos mirarán pasar. Y un rayo misterioso hara nido en tu pelo, luciernaga curiosa que veras que eres mi consuelo. El día que me quieras no habra más que armonía. Será clara la aurora y alegre el manantial. Traerá quieta la brisa rumor de melodía. Y nos daran las fuentes su canto de cristal. El día que me quieras endulzara sus cuerdas el pajaro cantor. Florecerá la vida no existira el dolor La noche que me quieras desde el azul del cielo, las estrellas celosas nos mirarán pasar. Y un rayo misterios hará nido en tu pelo. Luciernaga curiosa que veras que eres mi consuelo Dimitri Ruggeri Cluster Bombs Sono come coriandoli: cadono su maschere bianche. E’ un aratro che scava la terra: ferita di guerra! E’ un nero che cade sul grano. E’ privazione di terra. E’ privazione di fame. (cadono coriandoli) Maschere sinistre decapitano i loro boia a colpi di pala, piccone e vanga: ferita di guerra! Adora la terra! Sui tuoi altari inesplosi! Benedici Dio tuo. Nascosto tra maschere. Ne avrà bisogno anche Lui. La carne è rigonfia e sradicata. E’ l’ora del Carnevale. E’ l’ora delle Maschere, sinistre, solo sinistre; quelle che sognavi da bambino 12 quando nel letto inumidito ti nascondevi. (Al Libano e al suo Carnevale) Menzione speciale Giuria al Premio Europeo di Poesia Wilde - [email protected] Ermanno Eandi Siamo sensibili Siamo sensibili, il vetriolo del mondo attuale non deturperà la nostra fantasia. Siamo sensibili, orologi rallentati sfiorano i nostri animi giocondi, acquistiamo minuti indispensabili con la moneta dell’irrazionalità. Siamo sensibili, non indosseremo mai abiti d’apparenza, scoperchieremo tombe mnemoniche inesplorate. Siamo insensibili, al disprezzo dei non volanti, alla tortura della nostra ineguaglianza, al possesso smisurato di alambicchi posticci. Siamo inutili, le vostre necessità svaniscono nell’eterno. Anche se calpestate il nostro cipiglio brumoso, e calpestate ogni giorno la nostra incoerente duttilità; Noi, con l’orgoglio di saper piangere e l’angoscia di guadare luoghi irraggiungibili vi rammenteremo che... ...siamo sensibili. Ermanno Eandi (Torino 1963). Poeta, Giornalista, scrittore. Numerosi gli eventi culturali internazionali che l’hanno visto protagonista. È iscritto alla SIAE come autore della parte letteraria delle canzoni.Collabora con diversi quotidiani nazionali. Ogni settimana appare una sua poesia dedicata a Torino nella rubrica “Torino in versi”, sul quotidiano “Torino Cronaca Qui”. Ha pubblicato, inoltre: Il Pazzo della Mole (1994);“Particelle d’Ipertensione” (1995); “Esso” dialogo con un pronome (1996); “Sportiamoci in versi” antologia di poesia sportiva (Bradipolibri edizione 2003, 2004, 2005); “Dove osano i granata” (Bradipolibri 2004); "Segnali di vita dal pianeta Sedna" antologia poetica con i detenuti della Casa Circondariale di Asti (Colibrì 2005); “Il Toro Siamo Noi” ( edizioni Toronews 2006). Info: http://www.eandiermanno.it Alfonsina Storni Argentina Novembre stava spegnendosi quando ti incontrai. Il cielo era azzurro e gli alberi di un verde acceso. Mi ero addormentata a lungo, stanca d’aspettarti, credendo che non saresti mai arrivato. Dicevo a tutti: guardate il mio petto, lo 13 vedete?, il mio cuore è livido, morto, rigido. Ed oggi dico: guarda il mio petto: come il mio cuore è infuocato, vigoroso, meravigliato. Chi é colui che amo? Non lo saprete mai. Mi scruterete gli occhi per scoprirlo e non vedrete mai il fulgore dell’estasi. Io lo imprigionerò perché mai sappiate immaginare chi ho dentro il mio cuore, e lì lo cullerò, silenziosamente, ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Vi darò i miei canti, ma non il suo nome. Lui vive in me come un morto nella sua tomba, tutto mio, lontano dalla curiosità, dall’indifferenza, dalla malvagità. LUCIANO SOMMA Il tuo sorriso Ovunque andrò quasiasi cosa possa accadere lungo il corso della mia esistenza non potrò staccarmi dall'immagine nitida che ho nel mio cuore del tuo sorriso non è possibile trovare un'altra che possa sorridermi come facevi tu in quelle ore fantastiche dove sogno e realtà formavano un connubio confidavamo i nostri desideri le nostre ansie le nostre aspirazioni tutto è legato a quei momenti ogni attimo ogni gesto ogni suono ogni parola ed è per questo che ovunque andrò ti vedrò accanto YOUR SMILE (Traduzione di Pamela Franz Allegretto) Wherever I go/ anything/ can happen/ along the course/ of my existence/ I can't rid myself/ of the sharp image/ that I have in my heart/ of you smile/ it's not possible/ to find another/ that can smile at me/ like you did/ in those unearthly hours/ where dream is reality/ a marriage was formed/ we confided our desires/ our anxieties our dreams/ everything is bound to those moments/ every instant every gesture/ every sound/ every word/ and it is for this/ that wherever I go/ I'll see you at my side. da LA MIA RICCHEZZA- Ed.L'Araldo del Sud- Napoli- 1971 eda L'ALBA DI DOMANI Ed.NOIALTRI- Pellegrino(Messina)Febbraio 2005 -http://www.partecipiamo.it/Poesie/Luciano_Somma/1.htm http://www.scolastica2000.it/MUSICALMENTE/somma/somma.htm Salvatore Maresca Serra E’ questo segno E’ questo segno, muto e lacerato, antico eppure nascente, 14 urlante sotto la pelle risarcita dai giorni tutto il suo dolore e la sua gioia. E’ questo segno, tormentato dalle lunghe orazioni, e scarno di peccato, debitore e creditore della tua grazia. Ignoto a se stesso e ignaro. Scavato dall’essenza del suo nulla. Operoso, instancabile, tremendo: che fissa il mio sguardo senza pietà alcuna. E senza alcun rancore. Che mi ricorda il nome ignoto delle cose, le vanità perdute nel gioco, le saggezze noiose degli adulti. E’ lui, questo Prometeo, ladro di fuochi che brillarono, solo nell’ore dell’attesa. Quando invecchiai sognando d’essere ancora feto. E’ questo segno, che pullula d’immortali finzioni, di nomi che rubai al destino, di storie sofferte e gioite che mai vissi. In fondo a quella strada, asfaltata di derisioni e percorsa da mille ruote, e così, battuta da mille meretrici che vissero in me. ANNA BAITON Storie scritte di donne dl nuovo millennio ancora abbracciate alle canzoni d'amore. Piccole e grandi veneri che vivono solocon le forti emozoni e tradiscono cercando nuove illusioni. Donne che non hanno più tempo per fare l'amore con giorni per loro senza ore. La domenica con elmetto e bastone o con una medaglia appesa al collo per una forte passione. Nel nuovo millennio rapite,tradite, ancora schiave privato il loro cuore della chiave. Vestite di niente con lunghe gambe abbracciate ad un palo per provocare e pensare di avere. Coperto il corpo, nascosti i capelli,senza trucco per impedire sogni impossibili e belli. Donne che ormai vivono davanti ad un televisore con i battiti impazziti del cuore. Luminose come luna e stelle leggere nel tener per mano delle piccole ombre nere. Chat, messaggi, ore ed ore per scoprire con amarezza inutili viaggi. Donne di tanti colori donne che fanno vivere esclusivi amori. 15 IL RACCOLTO DELLE PATATE Adriana Alarco de Zadra / Bolivia Non posso alzarmi. Tremo di freddo anche se il mio corpo é caldo per la febbre. L’esaurimento che ho da qualche settimana non migliora ed ogni giorno sono più debole. Giuseppe vuole che vada in campagna per il raccolto ma oggi non ne ho proprio le forze. María, mi dice, dai, muoviti… come finiremo di riempire i sacchi di patate da vendere se te ne stai cosí oziosa... e lo sai che vengono a prenderli più tardi. Non posso fare tutto io, anche se chiamo i miei fratelli ad aiutarmi. Sei una fannullona. ¡Alzati! Non mi servi più! Ma non è vero. Lavoro duramente quando me lo chiede, anche se mi manda i fratelli al materasso, all’imbrunire, e non posso riposare tutta la notte. Ma dice che mi vuole bene. Vuole aver un figlio e chiamarlo Gesù, per formare una Sacra Famiglia, ma io prendo delle erbe per non restare incinta, se no come potrei aiutarlo in campagna? Meno male che lui questo non lo sa. ‘Le donne che appartengono ad una famiglia lavorano per i loro uomini nel campo di giorno ed aprono le gambe la sera’, ripete sempre Giuseppe. Sará cosí come la mia, la vita di altre donne? Scavare, aprire i solchi, seminare, pulire i canaletti, raccogliere, riempire i sacchi, vendere, cucinare la minestra, preparare i formaggi con latte di capra, pulire, lavare, soddisfare gli uomini della famiglia. Le piantagioni più vicine sono assai lontane e, a parte i mercanti, non abbiamo altri visite. Di giorno mastico la coca e di notte fumo marihuana per poter resistere. Forse é quella la ragione che alle volte non penso bene e non so cosa rispondere a Giuseppe o ai suoi fratelli. Non mi sono mai negata prima a fare i lavori che mi impongono, perché non mi picchiano e mangio bene. Ma oggi sto proprio male. Tremo tanto che le tavole su cui sono sdraiata rimbombano contro la branda. Vedo dal mio angolo che è arrivata una persona alla porta della capanna. Non so se è un mercante che viene a prendere le patate, ma da come si comporta capisco presto che deve essere un medico. Mi esamina, mi osserva, mi fa delle domande. Che se ho avuto figli, o malattie o se ho sanguinato. Se mi porta all’ospedale potrò curarmi presto. È malconcia, dice il visitatore. Non posso darti più monete di quelle che hai già avuto. Vedo che Giuseppe mette i soldi in una scatola ed è molto di più di quello che lo pagano per le patate. Tra i due mi caricano sul camion e mi accomodano fra le borse piene di tubercoli della raccolta della settimana. Non hanno potuto riempire più sacchi senza il mio aiuto, allora formo parte io della transazione. Mi porteranno ad un ospedale che non so se è molto lontano e lo chiamano postribolo. Spero che sia meglio del mio giaciglio e che mi assistano bene. Preparati ad aprire le gambe e tirar fuori la lingua dice il dottore, mentre io tremo come una foglia per la febbre e mi raggomitolo sul fondo del camion, coprendomi con un sacco di yuta che è rimasto vuoto. II Edizione Concorso Internazionale di Poesia Città di Sassari “L’Isola Dei Versi” 2008/2009 - SCADENZA: 30 Aprile 2009 Inserito all’interno della rassegna “OTTOBRE IN POESIA”. Ideatore e direttore artistico: LEONARDO OMAR ONIDA. Organizzazione: ARTS TRIBU & Progetto OttobreinPoesia Con il patrocinio di: Comune di Sassari, Provincia di Sassari, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Lettere e Filosofia, ERSU Sono previste due sezioni: A e B. Si può partecipare anche ad entrambe le sezioni, seguendo il regolamento apposito e versando le quote di partecipazione di ciascuna sezione. INDIRIZZO SPEDIZIONE – Spedire le opere concorrenti a Onida Leonardo Omar, Premio Internazionale Città di Sassari “L’isola dei Versi” – Via Einaudi, 14 – 07100 (Sassari) - Allegare attestazione del pagamento agli elaborati. SEZIONE (A) – POESIA EDITA Libro di poesia e/o prosimetri, in lingue: Italiana, Sarda (redatto in sassarese, gallurese, logudorese, campidanese, nuorese). Per questa sezione, ciascun autore può partecipare con un solo libro edito. SPEDIZIONE - NUMERO COPIE - Inviare a mezzo raccomandata A/R 4 copie del libro e in busta chiusa i propri dati anagrafici, indirizzo, e-mail, numero di telefono (cellulare e/o fisso) e soprattutto curriculum artistico dell’autore. QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE (A) – Euro 20,00. I volumi entreranno a far parte dell’archivio del Progetto OttobreinPoesia. Il Progetto,tra le tante iniziative, prevede anche la divulgazione delle novità editoriali all’interno dei propri siti internet, in molti blog letterari e presso le Facoltà di Lettere e Filosofia delle Università di Sassari e Cagliari. Di ciascun volume pervenuto verrà realizzata una “Scheda Artistica” che sarà presentata all’interno delle 3 giornate della III edizione del Festival Internazionale OTTOBRE IN POESIA 2009, attraverso reading, incontri, performance artistiche e teatrali all’aperto. Al vincitore unico : - Euro 300,00 (- Targa o medaglia - Attestato di merito) SEZIONE (B) – POESIA INEDITA Da una a tre poesie a tema libero di non più di 60 versi ciascuna (sono inclusi anche gli spazi bianchi). TESTI – I testi devono essere inediti e in lingue: Sardo (redatti in sassarese, gallurese, logudorese, campidanese, nuorese), Italiano, Inglese, Spagnolo, Francese, Arabo, Russo. 16 Non sono ammessi testi che siano già stati premiati ai primi 3 posti in altri concorsi. SPEDIZIONE - NUMERO COPIE – i partecipanti dovranno spedire: - o in busta chiusa a mezzo posta un totale di 7 copie per ogni poesia, di cui 6 anonime riportanti solo uno pseudonimo e 1 sola copia completa dei dati anagrafici, indirizzo, e-mail, numero di telefono (cellulare e/o fisso), riportante in alto lo stesso pseudonimo indicato nelle copie anonime. - o, (solo per la sezione B) via e-mail, allegando un file riportante i dati dell’autore e il titolo delle opere partecipanti. In questo caso, la quota potrà essere versata solo attraverso bonifico bancario (vedi PAGAMENTO QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE B) Allegare attestazione del pagamento agli elaborati. QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE (B) – Euro 15,00. Paola Musa Amore sciamano Vieni discendi ora lo sguardo sui miei sensi. Alita in me, versa il tuo calice d'ombre su questo cielo rovesciato, rifulgimi accanto. Ti sento - oh come fiorisci furtivo tra i canneti del mio lago! sei un'onda lenta, silenziosa. Rimesti il mio richiamo in questa luminosa oscurità. Non esitare, non pensare, è tempo ti ho atteso così tanto amore, ma adesso non parlare bevi, disciogli con me il bagliore dei tramonti, disserra le aurore acerbe delle labbra sii pietra focaia su questa piccola morte . Non c'è argine o solco qui percorri dunque con le dita ogni confine indietro, avanti , ancora sali su queste vette di carne e sangue attraversa i valichi della mia bocca danza su queste dune agitate dal vento e suona sul ventre i tuoi tamburi di sciamano . Suona, amore, i tuoi tamburi, adesso intona con me le corde di questo rito breve. Il giallo di ginestra sulle scogliere siano il nostro giaciglio Il cielo, sgombro e attonito, effonda i nostri fuochi fatui. Adesso salgono, salgono i canti verso gli dei invidiosi. Li vedi? Stanno spiando i nostri corpi dai loro astri immoti. Paola Musa è nata in Sardegna e vive a Roma. Laureata in lingue, è scrittrice, poetessa e paroliere. Ha vinto una selezione di poesie raccolte in un volume dalla casa editrice “Arpanet”, recensita da Elisabetta Sgarbi, Editor Bompiani, e una targa di merito nel concorso “Renata Canepa” per la poesia “L’Angelo sterminatore”. Ha composto le liriche per la commedia musicale “Datemi tre caravelle” interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano di Battista. Ha 17 pubblicato il suo primo romanzo, “Condominio occidentale” (Salerno Editrice - 2008). E’ di prossima pubblicazione il secondo romanzo, “Il terzo corpo dell’amore”. Giacomo Leopardi L’infinito Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare Carlos Sànchez Argentina Dramma Quello che osserva Quando osserva sa Che non ci sei tu. Ma dato che lui è debole Tu ritorni un’altra volta Al tuo antico sguardo. Egli guarda e tu lo sai Tu guardi e lui lo vede. Quando si ignorano Tu sei morto. (estratto da L’ inquilino Scomodo - bilingue ) Alessandro d’ Angelo Notte Il domani si avvicina, il sonno ci sorprende, un futuro avanza. Nell’ultimo gesto, nell’ultimo sorriso la forza di vivere ancora. Night Tomorrow is comming near, sleeep surprises us… Future advances. --In the last gesture, 18 in the last smile… The strength to live still. Maya ( illusione) Gente ancorata alla terra, umanità ancorata alle illusioni, gente felice di avere. Di avere il non avere, di rispettare il non avere, di valutare il non essere. ( traduzione al tedesco) Leute der Erde verbunden, Menschen dem Wahn festgelegte, Leute zufrieden zu haben. Keines Gut zu haben, Das nichts haben hochzuachten, Das nicht sein zu schatzen. Due anime s’ incontrano Un gesto, un cenno, una voce. Un saluto, una risposta noi siamo! ( traduzione al francese) Un geste, un signe, une voix. Un salut, une reponse, nous sommes ! Alessandro D’Angelo ( Roma, 1943) , vive e opera a Roma. Poeta e Studioso di Scienze biologiche, fitoterapia e astrologia, dopo aver vinto una Borsa di Studio all’Istituto Superiore di Sanità approfondisce gli studi attraverso ricerche istopatologiche su cervelli umani presso l’Ospedale Santa Maria della Pietà applicandosi allo studio dell’immunofluerescienza. Pubblicazioni :“Dai Silenzi”; ediz. Il Campidoglio 1978; “Luna – Dalla Mitologia alla Scienza”; –ediz. I Templari 1980,“Parole di Luce” – ediz. I Templari 1985,“Astrodiagnosi Storica ed Astro-Alchemica di Luigi Capuana” 1995. Articoli presenti su riviste italiane ed estere: Filosofia della poesia, Caino e l’umanità Benedetta, L’amore nell’antico testamento, Melchisedec nei vangeli apocrifi, il perdono nel Talmud, Parallelismo storico fra Buddha e Cristo. Siti, blog di riferimento: http://www.polarisweb.it/dangeloalessandro/religione.htm, http://mercurio30.spaces.live.com / http://www.polarisweb.it / dangeloalessandro/poesialettera.htm , e-mail: [email protected] Daniela Micheli IL GRIGIO PRIMA DEL NERO Non si salutano. Qui non ci si saluta mai. Deve essere una delle abitudini del luogo, e dà una sensazione di vuoto anche se siamo in tante, ammassate in questa sporcizia dalla uniforme tonalità di grigio. Io lo so che è una delle abitudini di questo posto e non delle persone che lo occupano, perché tanti di questi fantasmi io li conosco e non erano così taciturni e indifferenti. Tempo fa, abitavano con me e tante altre anime dietro un muro, assieme a me lottavano per sopravvivere e con me sono arrivati alla nostra nuova residenza stamattina, stipati come bestie dentro camion odoranti di carne già cadavere e gli occhi accecati dal ricordo dei morti lasciati sul selciato a diventare liquame per le fogne. 19 Ora mi ritrovo a pensare che, in previsione di questo viaggio, ci avevano abituati agli spazi ristretti senza luce ed aria e che tutto questo fa parte di un progetto del quale mi è sconosciuto il senso. Mi ricordo quando iniziarono a costruire i muri dentro la città e ci imposero di non varcarne mai i confini se non provvisti di permesso di lavoro ed anche per quelle uscite le regole erano ferree e la punizione di piombo. Da tempo erano iniziati i lavori di congiungimento delle nostre case ed era strano osservare nell’unire i muri in un unico, lungo serpente di mattoni, come avessero cura di escludere ogni giardino, ogni prato da quello che sarebbe stato, mesi dopo, il nostro ghetto. Una città nella città. I più fortunati erano riusciti a salvare un albero ed era un privilegio che i proprietari impararono a sfruttare, chiedendo qualche cosa in cambio per sedersi all’ombra, generalmente un pezzo di pane perché i crampi della fame erano sempre in agguato e mai si placavano. Gli affamati aumentavano di giorno in giorno e anche quelli di noi più orgogliosi furono costretti a scendere nelle strade a scambiare i loro oggetti più preziosi con il pane. Io ero una ragazza fortunata perché mio padre era stato beneficiato del permesso di lavoro nella fabbrica: ogni mattina all’alba lui si incolonnava assieme agli altri fortunati e si recava fuori le mura, sfilando dentro ad un tunnel di fucili spianati e pronti a sparare contro chiunque osasse fare un passo diverso e fuori dalla fila; a volte, quando rientrava, estraeva una pagnotta nera da sotto la giacca ed era una festa, anche se mia madre piangeva mentre divideva il pane in pezzi che parevano enormi ma che, una volta terminati, avevano solamente riempito un angolino della nostra immensa fame. Mio padre ci raccontava che si era fatto un amico, un controllore polacco che lo aveva preso in simpatia e, quando poteva, gli passava di nascosto il pane, consapevole che se lo avessero scoperto avrebbe rischiato grosso. Credo che fu grazie a quel signore polacco se io e mia madre ora siamo qui e non siamo morte di fame come quelli restati a vermificare per le strade del ghetto. Mio padre lo abbiamo visto ieri mattina per l’ultima volta poi ci hanno divisi: lui con gli altri uomini, io e mia madre con le donne ed i bambini. Treni diversi, destinazioni ignote. Quanti bambini sul nostro treno… alcuni neonati sono morti per gli stenti delle loro madri; io e la mia lo abbiamo capito dal pianto di dolore delle donne che chiamavano disperate i loro piccini scuotendoli e ricevendo in risposta solo le grida di dolore dalle madri che ancora vedevano nei loro bambini un alito di vita. Io e mia madre ci siamo tenute abbracciate tutto il viaggio, cercando di non udire i gemiti, i lamenti e le invocazioni; ci siamo dette che in fin dei conti siamo fortunate perché siamo ancora assieme e vive, e che i nostri occhi non avrebbero certamente potuto vedere più orrore di quanto già impresso per sempre nella nostra memoria. Ci hanno fatto scendere dal treno dopo non so più quanto tempo, a spintoni e urla ci hanno fatto entrare, assieme alle altre, in uno stanzone enorme: qui erano già altre donne ed altri bambini, tante persone, ma non c’era confusione di voci alte, solo brusii leggeri e parole sussurrate piano. Nessuno ci ha salutate. Nessuno ha salutato nessuno. Una di loro ci ha indicato due tavoloni di legno con materassi lerci e consunti in un angolo scuro e sporco; abbiamo obbedito e la donna ci ha detto di non protestare e di tacere sempre, qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stato meglio non fare sentire la nostra voce. Ci ha anche consegnato una cartolina con un panorama di montagne che non riconosco, assieme alla raccomandazione di scriverla subito e spedirla ai nostri parenti per rassicurarli che siamo arrivate al campo lavoro e che tutto sarebbe andato per il meglio. Io e mamma non sappiamo a chi indirizzarla perché dei nostri parenti non abbiamo più notizie da molto tempo; decidiamo allora di spedirla alla signora Schicklgruber che ci ha sempre aiutate quando poteva e siamo certe che è preoccupata della nostra sorte. Nel nostro angolo c’è una finestra con le sbarre che dà su un cortile di ghiaia: qui, incolonnate, parecchie donne che tengono per mano i loro bambini, si dirigono verso uno stabilimento che sulla facciata riporta la stella che da tempo ci decora le vesti e dal nostro punto di osservazione privilegiato, io e mia madre riusciamo a vedere anche una tenda davanti al portone d’ingresso; è simile al tendaggio che avevamo all’ingresso della nostra sinagoga ed anche la frase è la stessa: “Questa è la porta per la quale entrano i giusti”. Con i loro cani lupo di fianco, i tedeschi ridono mentre spintonano le donne ed i bambini nel portone; non capisco quello che dicono; anche se il mio tedesco alla scuola era sempre stato lodato non riesco ora ad afferrare tutte le parole che pronunciano, ma percepisco tutto lo scherno e la cattiveria attraverso il vetro sbeccato e mancante in diversi punti, prima delle sbarre arrugginite. Sentiamo una nenia risuonare nella sala e ci scostiamo dalla finestra, unendoci alla preghiera. Io e mia madre non chiediamo nulla, seguiamo il consiglio della donna che ci ha dato la cartolina, ma siamo stupite dell’ora insolita in cui viene intonato il Kaddish, così come del fatto che ad intonarlo sia una del nostro stesso sesso. Ci ritroviamo a rispondere assieme alle altre donne Yeè Shemè Rabbà Mevarach fino a che un grido di gioia ci interrompe: è una ragazzina, con due enormi e affamati occhi neri sul volto scavato, che indica fuori dalle finestre sbarrate la neve che ha iniziato ad imbiancare il cortile. 20 Per un attimo dimentichiamo dove ci troviamo ed osserviamo in silenzio la magia che scende dal cielo. Il turbinio di fiocchi si posa a terra e, immediatamente, si colora di nero: è come se una cenere si mescolasse al ghiaccio facendone poltiglia lordata. Sporca come gli abiti che indossiamo, come i letti che abitiamo, come gli occhi avari di speranza che non vogliamo chiudere. Sorrido nel pensare che come tutto ciò che vedo qui, anche la neve è sporca. N.B. Racconto tratto da Incipit La neve era sporca di George Simenon Daniela Micheli, chi è: “Io non so se le biografie si fanno così; accontentatevi.” …abbiamo aperto il forum ,invitando alcune delle persone che conoscevamo dagli altri siti a partecipare. E' un luogo così, una via di mezzo tra il serio e il faceto, nel senso che si pubblica, ci si commenta, ma non disdegnamo nemmeno due battute fini a se stesse. Ci sono degli autori che io ritengo validissimi, sia in prosa che in poesia, tutti comunque legati dall'urgenza di gettare le loro emozioni prima sulla carta e poi condividerle con gli iscritti. A fine anno ho raccolto 30 pagine degli autori iscritti, Pinina Podestà ci ha regalato un suo quadro e ho stampato su www.ilmiolibro.com la nostra antologia: un anno di parole vissute assieme. Vengono organizzati periodicamente una sorta di laboratori di scrittura che a me personalmente hanno aiutato moltissimo a crescere nella scrittura. Ora vorremmo crescere, andare su carta regolarmente con le pagine migliori e da qui nasce il progetto di Costantino ( Liquori, N.d.R.), la Plumen, che per ora è semplicemente un blog ove raccogliere le pagine, domani chissà cosa potrà diventare... Ulteriori su: www.inpuntadipenna.org, www.paginediplumen.com Antonella Colonna Vilasi Intelligence. Nuove minacce e terrorismo Edizioni Universitarie Romane – 2008 ( a cura di Enrico Pietrangeli) E’ uscito in libreria il nuovo libro della saggista Antonella Colonna Vilasi, Intelligence. Nuove minacce e terrorismo. L’autrice è al suo quindicesimo libro; ha pubblicato libri sulla mafia ed il terrorismo, è esperta di psicologia giuridica, storica, giurista, internazionalista e criminologa, inoltre svolge attività di didattica universitaria su tematiche criminologico-forensi. E’ la prima scrittrice europea ad aver pubblicato una trilogia sull’intelligence: Segreto di stato e intelligence, Intelligence, Intelligence. Nuove minacce e terrorismo. Nei prossimi giorni uscirà in Francia l’inedito L’intelligence expliquee aux enfant. Il libro, presentato dal giudice Ferdinando Imposimato, è suddiviso in sette capitoli, L’intelligence contemporanea: le nuove minacce e le nuove sfide; il reato di terrorismo nella storia e nel diritto internazionale; brevi cenni sull’escalation del terrorismo internazionale islamista: un approccio sociologico; psicologia del terrorismo; la nascita del SISDE ora AISI; brevi cenni sulla nascita dei servizi di intelligence italiani; lo stemma dell’ AISE (ex SISMI) ed il logo dell’AISI (ex SISDE). La pubblicazione evidenzia come, in seguito all’attacco alle Torri gemelle, si sia intensificato in maniera esponenziale il dibattito attuale sul ruolo dell’intelligence nella sicurezza delle Nazioni occidentali. L’autrice analizza quindi, dopo brevi cenni sulla storia dei servizi di intelligence italiani nei primi anni di vita dalla loro istituzione, attraverso un approccio multi-focus, il terrorismo dal punto di vista sociologico, psicologico, storico ed internazionalistico. Infatti, in quasi tutti i Paesi occidentali, seppur con diversi gradi di coinvolgimento politico, ci si è adoperati nel ridefinire priorità, compiti e ruoli degli organismi di intelligence, riformando strutture e modalità operative, aumentando la dinamicità di un settore fortemente condizionato dalla burocrazia, sviluppando nuove capacità di contrasto nei confronti degli emergenti network criminali organizzati a livello internazionale e transnazionale, elaborando delle strategie di prevenzione e gestione degli attacchi asimmetrici portati a livello globale. I moderni servizi di intelligence dovranno affrontare nuove minacce incombenti, in evidenza, tra le tante, la scarsità delle risorse idriche ed il problema energetico. Premio “POESIA SENZA CONFINE” 2009 LA GUGLIA Associazione Culturale – Onlus, con sede ad Agugliano (Ancona) ha indetto il concorso di poesia “POESIA SENZA CONFINE” 2009 che si sviluppa in tre sezioni : A) a carattere nazionale, poesia in lingua, sezione rivolta a tutti i poeti italiani- B) a carattere regionale, poesia dialettale, riservata ai poeti marchigiani- C) a carattere regionale, poesia in lingua e in dialetto, riservata agli studenti marchigiani- Scadenza 31 marzo 2009- La partecipazione al concorso è gratuita. I REGOLAMENTI e la scheda di iscrizione sono reperibili nel 21 sito www.associazionelaguglia.it Segreteria del premio nazionale “POESIA SENZA CONFINE” 2009, [email protected] FRANCO PROVASI PENSIERI DI UN SOGNO Facendo provare ad altri quello che la vita un giorno ha regalato ha noi, è il modo peggiore -per essere soli con se stessi.Si cresce apprendendo non quello che la vita insegna tramite il vissuto, perché ci cambia, e la nostra rivalsa la rivolgiamo sulle persone fragili che ci circondano: - ma si cresce rimanendo sempre noi stessi, nel bene e nel male.I nostri comportamenti rivelano il nostro passato e si deve avere il coraggio che non influiscano sul nostro futuro, e su chi ci circonda. A Moira La sorgente luminosa accende il cielo ricamando un canovaccio che stringe a sé nell’azzurro delle sue vesti il mondo. Occhi invisibili di un manto scordato celano nell’aurora dal rosso chiarore visioni trasportate su candide onde al risveglio della vita. Le foglie dei mandorli abbracciano i loro bianchi germogli, accarezzati dalle ali degli uccelli che tessono i sogni nel profondo mare del cielo, alimento dell’anima. Lacrime di un pianto antico, gocce di speranza che dissetano i fiori, cuori in cerca d’amore ghirlande al sorriso di un volto. Le farfalle raccolgono con le loro ali, mani disegnate dalla fantasia il candore dei fiori, come parole, invocazioni elevate al cielo promuovendole al tempo come polline d’amore. Rincorro l’amore come il dannato culla la sua disperazione, ubriaco di un sogno di un gesto mancato, un dono, parole ingoiate assorbite dal timore dall’incertezza nel vortice dell’abisso, riecheggiano mute nella valle del dolore. Come vorrei essere il mantello del suo vagabondare, abbracciarla come una sera d’estate coi suoi sogni argentati avvolge il giorno, donandole ristoro, nella passione del mio cuore. Il tremore del corpo come vela strappata dall’albero della vita, nei solchi dello spirito i pensieri come vento agitano le membra; le mie gesta,le parole 22 simili a una scogliera frastagliata dalle onde dell’esistenza e la morte mi accarezza l’anima. Ogni stella è una lacrima, i fiori hanno perduto il loro calore: il mio corpo è sospeso nel vuoto in un tempo senza luce, come foglie portate dal vento, vascelli senza prora. Antonella Masia Io nel mio volo d’ aquila Sorvolo il deserto dei sentimenti che annebbiano le menti degli esseri umani Fin dalla notte dei tempi si sa dell'esitenza dell'amore ma pochi ne conoscono la nostalgia, il calore Quanto male può fare se ne stiamo così a distanza vela i nostri sguardi di malinconia alla sua sola invocazione E' fisica, è così forte questa sensazione risentita dal più profondo del nostro essere Volo davanti all'immensità della felicità a questo mare limpido infinito così simile ma così diverso come l'onda in un mare in tempesta che si lascia morire sulla spiaggia per poi rinascere nuovamente mare Volo d'aquila alla ricerca di un nido in un paesaggio lunare dove si mischiano le armoniche note del cuore i miei occhi pronti ad affrontare l'arsura del giorno e gli avvoltoi in caldissimi cappotti di egoismo Malgrado la mia stanchezza continuo a far scintillare i raggi del sole con un velocissimo e maestoso colpo d'ala andrò a posarmi sui rami della libertà Da aquila non conosco la saggezza che molti hanno contesto la cosiddetta sanità di mente io innamorata dell'amore Vivo nel vento e nell'oasi della vita dentro una clessidra di sabbia colorata mista a frammenti di spazi infiniti Aquila così diversa e audace nei suoi pensieri salgo sul treno dei sogni che sanno sempre dove andare anche a costo di viaggiare da sola, in ogni ovunque, in ogni dove, in ogni cielo io sono umana e volo. UGO FOSCOLO 23 Sepolcri All'ombra de' cipressi e dentro l'urne Confortate di pianto è forse il sonno Della morte men duro? Ove più il Sole Per me alla terra non fecondi questa Bella d'erbe famiglia e d'animali, E quando vaghe di lusinghe innanzi A me non danzeran l'ore future, Né da te, dolce amico, udrò più Il verso E la mesta armonia che lo governa, Né più nel cor mi parlerà lo spirto Delle vergini Muse e dell'amore, Unico spirto a mia vita raminga, Qual fia ristoro a' dì perduti un sasso Che distingua le mie dalle Infinite Ossa che in terra e In mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve Tutte cose l'obblio nella sua notte; E una forza operosa le affatica Di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe E l'estreme sembianze e le reliquie Della terra e del ciel traveste il tempo. Ma perché pria del tempo a sé Il mortale Invidierà l'illusion che spento Pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando Gli sarà muta l'armonia del giorno, Se può destarla con soavi cure Nella mente de' suoi? Celeste è questa Corrispondenza d'amorosi sensi, Celeste dote è negli umani; e spesso Per lei si vive con Pamico estinto, E l'estinto con noi, se pia la terra Che lo raccolse infante e lo nutriva, Nel suo grembo materno ultimo asilo Porgendo, sacre le reliquie renda Dall'insultar de' nembi e dal profano Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, E di fiori odorata arbore amica Le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d'affetti Poca gioja ha dell'ur'na; e se pur mira Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto Fra 'l compianto de' templi acherantei 0 ricovrarsi sotto le grandi ale Del perdono d'Iddio; ma la sua polve Lascia alle ortiche di deserta gleba Ove né donna innamorata preghi, Né passeggier solingo oda il sospiro Che dal tumulo a noi manda Natura. Pur nuova legge impone oggi I sepolcri Fuor de'.guardi pietosi, e il nome a' morti Contende. E senza tomba giace il tuo Sacerdote, o Talia, che a te cantando Nel suo povero tetto educò un lauro Con lungo amore, e t'appendea corone; 24 E tu gli ornavi del tuo riso i canti Che Il lombardo pungean Sardanapalo Cui solo è dolce il muggito de' buoi Che dagli antri abduani e dal Ticino Lo fan d'ozj beato e di vivande. 0 bella Musa, ove sei tu? Non sento Spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume. Fra queste piante ov'io siedo e sospiro Il mio tetto materno. E tu venivi E sorridevi a lui sotto quel tiglio Ch'or con dimesse frondi va fremendo Perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio Cui già di calma era cortese e d'ombre. Forse tu fra plebei tumuli guardi Vagolando. ove dorma il sacro capo Del tuo Parini? A lui non ombre pose Tra le sue mura la città, lasciva D'evirati cantori allettatrice, Non pietra, non parola; e forse l'ossa Col mozzo capo gl'insanguina il ladro Che lasciò sul patibolo i delitti. Senti' raspar fra le macerie e i bronchi La derelitta cagna ramingando Su le fosse, e famnelica ululando; E uscir del teschio, ove fuggia la Luna, L'ùpupa, e svolazzar su per le croci Sparse per la funerea campagna, E l'immonda accusar col luttuoso Singulto i rai di che son pie le stelle Alle obbliate sepolture. Indarno Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade Dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti Non sorge fiore, ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. Dal dì che nozze e tribunali ed are Diero alle umane belve esser pietose Di sè stesse e d'altrui, toglieano i vivi All'etere maligno ed alle fere I miserandi avanzi che Natura Con veci eterne a sensi altri destina. Testimonianza a' fasti eran le tombe, Ed are a' figli; e uscian quindi i responsi De' domestici Lari, e fu temuto Su la polve degli avi il giuramento: Religion che con diversi riti Le virtù patrie e la pietà congiunta Tradussero per lungo ordine d'anni. Non sempre i sassi sepolerali a' templi Fean pavimento; né agi incensi avvolto De' cadaveri il lezzo i supplicanti Contaminò; né le città fur meste D'effigiati scheletri: le madri Balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono Nude le braccia su l'amato capo Del lor caro lattante onde nol desti Il gemer lungo di persona morta Chiedente la venal prece agli eredi Dal santuario. Ma cipressi e cedri Di puri effluvj i zefiri impregnando 25 Perenne verde protendean su l'urne Per memoria perenne, e preziosi Vasi accogliean le lacrime votive. Rapian gli amici una favilla al Sole A illuminar la sotterranea notte, Perché gli occhi dell'uom cercan morendo Il Sole; e tutti l'ultimo sospiro Mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali Amaranti educavano e viole Su la funebre zolla; e chi sedea A libar latte e a raccontar sue pene Ai cari estinti, una fragranza intorno Sentia qual d'aura de' beati Elisi. Pietosa insania, che fa cari gli orti De' suburbani avelli alle britanne Vergini dove le conduce amore Della perduta madre, ove elementi Pregaro i Genj del ritorno al prode Che tronca fe' la trionfata nave Del maggior pino, e si scavò la bara. Ma ove dorme il furor d'inclite geste E sien ministri al vivere civile L'opulenza e il tremore, inutil pompa, E inaugurate immagini dell'Orco Sorgon cippi e marmorei monumenti. Già il dotto e il ricco ed Il patrizio vulgo, Decoro e mente al bello italo regno, Nelle adulate reggie ha sepoltura Già vivo, e i sternmi unica laude. A noi Morte apparecchi riposato albergo, Ove una volta la fortuna cessi Dalle vendette, e l'amistà raccolga Non di tesori eredità, ma caldi Sensi e di liberal carme l'esempio. A egregie cose il forte animo accendono L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella E santa fanno al peregrin la terra Che le ricetta. lo quando Il monumento Vidi ove posa il corpo di quel grande, Che temprando lo scettro a' regnatori, Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela Di che lagrime grondi e di che sangue; E l'arca di colui che, nuovo Olimpo Alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide Sotto l'etereo padiglion rotarsi Più mondi, e il Sole irradiarli immote, Onde all'Anglo che tanta ala vi stese Sgombrò primo le vie del firmarnento; Te beata, gridai, per le felici Aure pregne di vita, e pe' lavacri Che da' suoi gioghi a te versa Apennino! Lieta dell'áer tuo veste la Luna Di luce limpidissima i tuoi colli Per vendemmia festanti, e le convalli Popolate di case e d'oliveti Mille di fiori al ciel mandano incensi: E tu prima, Firenze, udivi il carme Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco, 26 E tu i cari parenti e l'id'ioma Desti a quel dolce di Calliope labbro Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma D'un velo candidissimo adornando, Rendea nel grembo a Venere Celeste. Ma più beata ché in un tempio accolte Serbi l'itale glorie, uniche forse Da che le mal vietate Alpi e l'alterna Onnipotenza delle umane sorti Armi e sostanze t'invadeano ed are E patria e, tranne la memoria, tutto. Che ove speme di gloria agli animosi Intelletti rifulga ed all'Italia, Quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi Venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a' patrii Numi, errava muto Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo Desioso mirando; e poi che nullo Vivente aspetto gli molcea la cura, Qui posava l'austero; e avea sul volto Il pallor della morte e la speranza. Con questi grandi abita eterno, e l'ossa Fremono amor di patria. Ah sì! da quella Religiosa pace un Nume parla: E nutria contro a' Persi in Maratona Ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi, La virtù greca e l'ira. Il navigante Che veleggiò quel mar sotto l'Eubèa, Vedea per l'ampia oscurità scintille Balenar d'elmi e di cozzanti brandi, Fumar le pire igneo vapor, corrusche D'armi ferree vedea larve guerriere Cercar la pugna; e all'orror de' notturni Silenzj si spandea lungo ne' campi Di falangi un tumulto e un suon di tube, E un incalzar di cavalli accorrenti Scalpitanti su gli elmi a' moribondi, E pianto, ed inni, e delle Parche il canto. Felice te che il regno ampio de' venti, Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi! E se il piloto ti drizzò l'antenna Oltre l'isole egèe, d'antichi fatti Certo udisti suonar dell'Elleaponto I liti, e la marea mugghiar portando Alle prode retèe l'armi d'Achille Sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi Giusta di glorie dispensiera è morte; Né senno astuto, né favor di regi All'Itaco le spoglie ardue serbava, Ché alla poppa raminga le ritolse L'onda incitata dagl'inferni Dei. E me che i tempi ed il desio d'onore Fan per diversa gente ir fuggitivo, Me ad ad evocar gli eroi chiamin le Muse Del mortale pensiero animatrici. Siedon custodi de' sepolcri e quando Il tempo con sue fredde ale vi spazza Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti Di lor canto i deserti, e l'armonia 27 Vince di mille secoli il silenzio. Ed oggi nella Tròade inseminata Eterno, splende a' peregrini un loco Eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio Onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta Talami e il regno della Giulia gente. Però che quando Elettra udì la Parca Che lei dalle vitali aure del giorno Chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove Mandò ìl voto supremo: E se, diceva, A te, fur care le mie chiome e il viso E le dolci vigilie, e non mi assente Premio miglior la volontà de' fati, La morta amica almen guarda dal cielo Onde d'Dlettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea L'Olimpio; e l'immortal capo accennando Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa, E fe' sacro quel corpo e la sua tomba. Ivi posò Erittonio, e dorme Il giusto Cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne Sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando Da' lor mariti l'imminente fato; Ivi Cassandra, allor che Il Nume In petto Le fea parlar di Troia il di mortale, Venne, e all'ombre cantò carme amoroso, E guidava i nepotì, e l'amoroso Apprendeva lamento ai giovinetti. E dicea sospirando: Oh, se mai d'Argo, Ove al Tidìde e di Laerte al figlio Pascerete i cavalli, a voi permetta Ritorno il cielo, invan la patria vostra Cercherete! Le mura opra di Febo Sotto le lor reliquie fumeranno. Ma i Pepati di Troja avranno stanza In queste tombe; ché de' Numi è dono Servar nelle miserie altero nome. E voi, palme e cipressi che le nuore Piantan di Priamo, e crescerete ahi presto! Di vedovili lagrime Innaffiati, Ptoteggete i miei padri: e chi la scure Asterrà pio dalle devote frondi Men si dorrà di consanguinei lutti E santamente toccherà l'altare. Proteggete i miei padri. Un dì vedrete Mendico un cieco errar sotto le vostre Antichissime ombre, e brancolando Penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, E interrogarle. Gemeranno gli'antri Secreti, e tutta narrerà la tomba Igio raso due volte e due risorto Splendidamente su le muto vie Per far più bello l'ultimo trofeo Ai fatati Pelidi. Il sacro vate, Placando quelle afflitte alme col canto, I prenci argivi eternerà per quante Abbraccia terre il gran padre Oceàno. E tu onore di pianti, Ettore, avrai 28 Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato, e finché il Sole Risplenderà su le sciagure umane Manuela Pagliuca Magico istante Fiamma luminosa rubino rosso brillante del mio cuore. Rara avis amore estremo amore grande sentimento profondo pàthos struggente della mia vita. Magico istante misterioso incanto d’ ogni respiro. I tuoi occhi il mio sole. Il solo pensarti dona luce e calore il solo pensarti ogni nembo dirada. Torno felice a casa la sera perché tu ci sei . Vascello fantasma alla deriva sarei se tu non ci fossi e questo mondo alieno e quest’ etra plumbea. È grazie a te che riesco ad incedere tra gli impervi angusti anfratti della vita. Ti amo… Giovannimaria Fresu In effetti, la cassiera del market aveva lo sguardo visibilmente preoccupato. Poi, con un tono di rassegnazione ci rivolge una domanda: perdoni l'impertinenza, ma lei, mi trova sufficientemente bella? Non mi prenda per matta, ma sono giorni che non mi dò pace. Perché, vede, non sono più tanto sicura che la mia presenza fisica, il mio incarnato, rientri nei requisiti necessari per far parte della categoria di belle donne e poter, quindi, aver diritto ad un soldato per 29 proteggermi dagli stupratori. Il mio ragazzo me lo dice sempre che sono bella, ma lui fa il manovale in nero in un cantiere edile e ha poco tempo per affinare il suo senso estetico. Io, per quanto mi sforzi e pur trascurando i fianchi che ricordano i quadri di Botero, non raggiungo un metro e sessantotto con un tacco da dodici, che, nel mio caso, non è più una scarpa ma uno sgabello. Il Premier Berlusconi, lui si che se ne intende di fascino muliebre, guardi le gnocche che affollano le sue reti televisive e si rende conto che il suo concetto del bello ha misure a me inaccessibili. La Carfagna, ha presente? Nessuno conosce i suoi trascorsi politici, eppure l'ha voluta come Ministro della repubblica. Lei crede che il lato estetico non c'entri niente? Mio fratello, intanto, si è buttato in politica, in camera sua tiene appesa una foto della Ministra, tratta da un vecchio calendario, ci ha scritto sopra: le mie pari opportunità. Io al confronto non potrei fare neppure il consigliere comunale di Nughedu. Conta, il bell'aspetto, conta. Oramai è applicato anche sul lavoro. Vede quella mia collega? E' bella, si, ma non riesce ad impilare due barattoli di pomodori e l'hanno assunta a tempo indeterminato, io, pur con un diploma, sono precaria. Ma poi, uno stupratore, quale metro estetico adopera quando sceglie le sue vittime? Uno suo, violento, patologico e casuale o quello di Berlusconi, secondo cui, se vanno difese solo quelle belle, un minimo di selezione è d'obbligo. Perciò, se sei vittima di violenza entri di diritto nella categoria delle donne belle, se, al contrario, la fai franca cominci a porti qualche dubbio sul tuo grado di femminilità. Anni addietro, una pubblicità di un noto purgante per l'infanzia, diceva: “ai bambini buoni la dolce...”. E quelli meno buoni? Che spingano. Roberto Miano DiGì Aveva un cognome strambo e lungo, il nome dal canto suo non era affatto breve, si chiamava Dominijanni Giovanbattista. A lui piaceva, ma gli amici per comodità lo abbreviavano, si trattava di una vera e propria inizializzazione istintiva, “DiGì” suonava facile per chiunque e poi si prestava a diversi pseudonimi. Alle elementari, per esempio, fu proprio la maestra a battezzarlo affettuosamente “Di Già”, perché era bravo nel dettato, gli piacevano le parole e finiva sempre prima di tutti, ogni volta diceva “fatto!” alzando la mano, lei lo guardava e gli chiedeva “Di gia?”. Allora “DiGì” diventò per tutti “Di già”. Alle medie, invece, sul registroverso delle presenze, alla lettera D ricorreva in appello “Dai Gioca…” (senza punto esclamativo). DiGì non era bravo col pallone e poi aveva una tuta acetata celestina ed argento così brutta da fargli preferire Saccoia, esemplare di “homo apallonis” in via di estinzione ma dotato di tuta blu adidascalica tale da giustificare ogni volta una scelta speranza nuova. Quando però mancava qualcuno, e l’adidas di Saccoia non bastava a far numero, il capitano della squadra, vinto il pariddispari finale, costretto a chiamare DiGì, alzava le spalle e urlava “Dai Gioca…” (senza punto esclamativo). E allora DiGì giocava, e non tirava mai indietro né la gamba né il cuore, si impegnava più di tutti, e di sicuro più di Saccoia che, pur immobile, continuava a godere dell’immunità adidas (al day dream about sporting). “Dai Gioca” era uno degli studenti più promettenti, anche e soprattutto nel senso che prometteva ai genitori di studiare, ai professori di impegnarsi e ai compagni di passargli i compiti, azione che gli risultava meno complicata rispetto a quella omologa da svolgersi col pallone. Studiava perché era un dovere, non perché gli piacesse, lo doveva fare, non gli risultava complicato, lo faceva e gli riusciva anche bene. Aveva una calligrafia strana con la quale scriveva temi di italiano decisamente contorti, troppo per l’interesse da mezzo foglio protocollo della professoressa. Indipendentemente da cosa scrivesse e da come lo scrivesse, l’elaborato gli fruttava puntualmente un “sei più”, una volta, soltanto una, la matita blu ex cattedra abbozzò un “settuguale”. “Uguale a cosa?” Chiese Di Gì alla professoressa, senza riuscire a staccare gli occhi da quell’equivalenza impossibile “Uguale a nulla, è un “sette menomeno”! Rispose lei senza guardarlo in faccia. Si trattava di un tema sul lavoro del papà. DiGì sapeva del papà soprattutto dai racconti della mamma, aveva notizia che non era tornato dal lavoro un giorno quando lui aveva 5 anni. Del papà portava con orgoglio il cognome lunghissimo, ma avrebbe volentieri scambiato qualche lettera di quel cognome per qualche giorno con lui. Il tema era buono, il “sette menomeno” era però un volto politico che la prof. aveva elargito a tutta la classe, con qualche variante, perché a giorni avrebbe incontrato i genitori. 30 Tema: il lavoro del mio papà. di Domnijanni Giovanbattista Papà fa un lavoro difficile. Lui è pilota di arioplani, lo so che si scrive aeroplani, ma papà ride quando li chiamo arioplani, e allora ce lo spendo un errore da matita rossa per un sorriso. Lui li sa guidare tutti, ma per andare al lavoro prende il Jumbo Jet, che si pronuncia “giambo” ma si scrive “jumbo” con la ju di juventus. A casa papà non c’è quasi mai, non c’è quando mamma è silenziosa, non c’è quando si arrabbia con me, non c’è quando piange da sola in cucina, non c’è quando guardiamo nel lettone “sette sere per non dormire”. Papà però ci manda un sacco di cartoline, che però non sono proprio un sacco perché c’entrano in un cofanetto di caramelle, quelle Sperlari, che non si incartano mai. Pubblicità stupida, io le caramelle le scarto, mica le incarto. Le cartoline più belle però le attacco al frigorifero, con la calamita, vicino ai personaggi di Capitan Harlock che si attaccano col sapone. Mamma ogni tanto le guarda le cartoline, io la vedo, le legge, le guarda, le rilegge e poi le avvicina al naso, forse l’inchiostra profuma, forse le parole di papà profumano, forse invece pensa, soltanto, sola, tanto. Mamma li odia gli arioplani. Lei va al lavoro con l’autobus infatti. Papà è un papà speciale, si perché lui sa volare, come gli angeli. Infatti mamma un giorno mi ha detto che lui sta in cielo, allora io ho detto: “Certo mamma, dove vuoi che sta? E’ un pilota di arioplani!” Lei mi ha dato un bacio in testa e poi mi ha risposto “hai ragione”. Ma non mi sembrava convinta. Papà ci manca tanto, io aspetto che ritorna, dalla finestra guardo il cielo, ogni tanto passa qualche arioplano, il cielo è grande, molto grande, ce lo ha detto anche la professoressa, io dico che invece è anche più grande di quanto dice, tanto che anche un papà con un jumbo jet ci può si perdere, deve essere così. Mio papà fa un lavoro difficile, e mi sa che alla riunione dei genitori non potrà venire.” DiGì aveva pochi amici e neanche troppo buoni, ma lui non lo ignorava e semplicemente voleva loro bene. Erano diversi, brancolavano intorno a lui, difficilmente con lui, loro collezionavano figu dei calciatori, lui collezionava tappi di bottiglia, che riempiva con la cera e schiccherava su piste disegnate col gesso. Loro guardano jeeg robot, lui preferiva meravigliarsi con spazio 1999 oppure disegnare. Colorava interi fogli bristol A3, con pastelli azzurri e blu e poi, in un angolo in alto, vicino al sole giallogoro, ci disegnava piccoli aeroplani. Nel finestrino, con la matita stilizzava il dettaglio di un omino che presumibilmente guidava. Anche nei disegni il cielo era troppo grande, tanto che negli angoli di ogni foglio sembravano quasi poter scappare, prima le speranze poi anche i ricordi. Ma mentre DìGì cresceva il cielo stava cessando di essere così ingombrante. Appariva ogni giorno più piccolo, non era più ovunque, ma piuttosto dietro un motorino, sullo sfondo di un calcio di rigore, tra i gesti improvvisamente interessanti di una ragazzina, sullo sfondo del desiderio di una bicicletta nuova oppure riflesso in una vetrina di giacche per papà o nell’acqua sul marmo di una fontanella. Il cielo sembrava meno affamato e meno celeste, sempre più grigio, forse perché troppo curioso di guardare in basso e sempre più puzzolente di silenzio, forse perché livido di rimorsi. Forse. Fatto sta che quel cielo non faceva più paura il giorno delle pagelle. DìGì prese la sua, era un ottimo, la guardò, esclamò “ottimo!”, poi la piegò più volte a farci un aereo e la lanciò, seguendone la planata fin sotto la scaletta della Giacomo Puccini. Volo breve, ma pur sempre un volo ottimo. La raccolse, e la portò a casa per spiegarla di nuovo, anche alla mamma. Al liceo DiGì era entrato in punta di piedi, il suo nome venne presto sostituito da Dotto Giullare, perché era bravo, perché non era alto e perché era goffo e faceva ridere tutti. Continuava ad avere pochi amici, ma questa volta erano buoni. Poteva sempre contare infatti sui suoi pennarelli “punta fine”, sulle tdk-d, su Giallo ("compagno" di banco e spacciatore di musica rock) e sulla propria coscienza, incontrata per caso un giorno, al bagno, durante una vicenda decisamente personale. DiGì si innamorava ogni mese di una compagna di classe (erano dodici e, a conti fatti, ne aveva per un anno intero), era in grado di formulare e disegnare la derivata di ogni suo attimo felice, ma di contro non avrebbe mai potuto descrivere né la sensazione né il sapore di un bacio, tanto meno avrebbe inventato nulla, per uno stupido senso dell’onore e per la consapevolezza che mentire non avrebbe certo ingannato la sua fame di sentimento. Il sesso era un mistero di cui sentiva dire e di cui iniziava a vagheggiar da solo in bagno. Dalla I alla III C sarebbe stato invisibile. In quegli anni comprese che Pitagora oltre aver scritto un teorema aveva ispirato una canzone di un tal Marco Ferradini, che per l’occasione si affidò alla teoria di H. Pagani. DiGì invece, consapevole che la donna triangolo era quanto di più complesso un uomo potesse desiderare, preferì decisamente la lirica di Pitagora. 31 Prendi un cateto, costruisci il quadrato, fai lo stesso sull’altro lato. Somma le aree e ne estrai la radice, solo se tu hai la calcolatrice. Hai ottenuto un risultato importante di cui ognuno oggi abusa, fino a ieri tu eri ignorante, oggi tu sai cos’è l’ipotenusa. In tre anni era mancato da scuola due sole volte, aveva sempre lo stesso libretto delle giustificazioni, tutti i suoi compagni, specie durante latino ed inglese, lo considerano indispensabile. Fuori di scuola DiGì era impalpabile per chiunque. A far eccezione, confermando la regola, c’era sempre e comunque Giallo che continuava a registrargli quella musica strana dei Led Zeppelin. Fu proprio mentre guardava la copertina del DiriGibile che DiGì comprese che il papà non sarebbe tornato più, le cartoline erano da tempo tutte nel cofanetto, sul frigo c’erano i post.it e qualche bollettino da pagare. La mamma non piangeva più, di tanto in tanto invece piangeva lui, specie se a cantare era Janis, o se Crosby, Stills, Nash e Young gli ninnanannavano un “our house” da brividi. Il cielo non c’entrava proprio nulla, non era “stairway to heaven” (Led Zeppelin) la canzone giusta, piuttosto “highway to hell” (AC/DC). Si perché il papà, pilota di aerei di linea, era morto per un incidente stradale, sul taxi che lo portava all’aeroporto. Sua madre glie lo aveva ripetuto, di nuovo. “Papà è in cielo”. “Si mamma, ho capito. Papà è in cielo, ma io ti ripeto la mia domanda, che è retorica, ma è l’unica possibile e anche l’ultima su papà “Dove vuoi che stia un pilota di “arioplani?” DiGì aveva due biglietti dell’autobus in tasca. Quel giorno sarebbero andati al cimitero. Nel walkman aveva la tdk nuova degli ac/dc, “back in black”, dipingeva di nero la voglia di spaccare il culo al mondo, ma suonava così romantica. Back in black, I hit the sack, I've been too long, I'm glad to be back Yes I'm let loose from the noose, That's kept me hangin' about I been livin like a star 'cause it's gettin' me high, Forget the hearse, 'cause I never die I got nine lives, cat's eyes abusing every one of them and running wild * Quella foto impolverata, quella col berretto da comandante, così come quella puzza di fiori marci, non se li ricordava, non poteva. DiGì ebbe la certezza di essere orgoglioso di suo padre, potendogli dare un voto, quel giorno decise che valeva almeno un “otto menomeno”. Un “otto menomeno” è un “ottuguale” e cioè uguale all’infinito. Si perché l’infinito è un otto sdraiato a guardare il cielo. DiGì era cresciuto molto quel giorno, sua madre dopo tanto tempo aveva sorriso di nuovo, mandando giù la tristezza con due leccate di lacrime finalmente salate, e lo fece per la prima volta senza far colare neanche un po’ di ombra dal suo cono stretto in pugno. La vita è bizzarra, perché può scegliere di cominciare da dove non te l’aspetti, la consapevolezza della morte è il punto di unione con la cognizione della realtà, se la si acquista successivamente al punto, la consapevolezza torna dietro, gli uomini la chiamano memoria. DiGì stava riflettendo proprio su questo fatto e gli tornavano in mente le lezioni di geometria, di filosofia, di religione, tutti i voti “menomeno”, stava rielaborando ogni ipotesi, ogni cosa, e tutto finalmente tornava, molte cose strane tali non lo erano più. “Il cerchio non perde consapevolezza, continua ad essere, raddoppia – sdoppiandosi – simmetricamente, diventa infinito, questione di punti di vista, l’otto “menomeno”, caro papà, è un infinito sdraiato, costretto tra due trattini. Si poteva obiettare – come Ileana per esempio, la filosofanciulla del primo banco - che tra due trattini non ci sarebbe mai stato un infinito, ma DiGì era convinto che ad un numero infinito di coscienze-vite, contenute ognuna tra due trattini, nascita e morte, riesce solo di immaginare che ciò che si osserva, e cioè la vita al margine dei sensi soggettivi, sia infinita o forse infinibile. Si perché è disumano anche soltanto provare ad rappresentarsi che tutto finisca con noi, disumano, o meglio assolutamente egoistico, e l’egoismo altro non è che la pretesa di rinchiudere l’inesauribile tra due punti. Arroganza di chi vuole far vestire l’universo con i suoi panni. E quando l’uomo, che è nato, muore, i due trattini svaniscono e il suo infinitotale deluso si ridistribuisce sugli altri ancora illusi. Questa teoria elaborata nello spazio di almeno 4 fermate di autobus non era poi da scartare, ne avrebbe preso nota DiGì, stava acquisendo la consapevolezza di avere un ruolo, di essere (in)dotto, un piccolo scioccomplicato uomo. Sfrattato da 32 una favola, si sentiva costretto a combattere i luoghi comuni, al-fiero donchisciotte contro l’avvento dei mulini, lui nano con il pisello piccolo, giullare senza circo, né corte. I suoi spettatori erano occasionali, ma DiGì avrebbe recitato ovunque ci fosse stata voglia di ascoltarlo. Ascoltare lui, pigro, che non leggeva, ma che scriveva di vita. Se dalla matematica aveva imparato la formulazione di equazioni esistenziali, dal latino aveva compreso che “è morta solo quella lingua che viene ignorata dall’orecchio”, la letteratura invece lo annoiava, odiava gli autori, almeno quelli fin lì studiati e, soprattutto, non tollerava i “saggiatori”, i libri di scuola erano scritti dagli studiosi e non dagli studiati. Che senso ha studiare l’idea di Sapegno se poi è Dante che è in discussione? La scuola non funzionava. DiGì se ne sarebbe definitivamente reso conto durante l'esame di maturità. Il membro esterno della commissione esordì con una domanda scandita pesantemente. “Lei non crede che la vita sia rappresentata al meglio in tutte le sue sfaccettature dalla metafora de “i promessi sposi”? DiGì non era d’accordo. Ma analizzò attentamente la domanda. Era una domanda retorica. Di quelle che ammettono e pretendono solo un cenno di consenso. “Strutturazione” narrativa e “struttureazione” emotiva sono separate da una semplice vocale che diventa muta nella “assaggistica” esposizione ex cattedra, laddove una teoria filosofica diventa assioma e un’opera qualsiasi diventa L’opera. Manzoni Alessandro, uno dei nomi più citati sulle tavole dei tuttocittà italiani, diventò per lo stesso motivo “il Manzoni”. Costui scrisse “Fermo e Lucia” nel 1821, la sua fortuna fu di non vivere nell’era di Marta Flavi, moglie del signor Costanzo Show, imbonitrice televisiva per madri Agnesi, anagnostiche, spossate e affamate di promesse. E poi cos’è una metafora? Un'immagine, un’allegoria, una figura, un simbolo, un traslato. DiGì faceva il tifo per la parola allegoria, perché aggiungeva la vocale “o” ad allargare l’allegria. Non c’era alcun segno di allegria in quel poco che aveva letto de “i promessi sposi”, eppure sembrava che un personaggio di quel lago di Como fosse fuggito al tempo, al romanzo e alla trama nascondendosi nei quiz televisivi dai tempi della tivvì. Il signor Michele Buongiorno, che ripeteva a tutti “alleg(o)ria!”, sembrava un personaggio ossessionato da un ruolo, né più ne meno di una Gertrude di Monza o di un Don Rodrigo. Dunque la vita è romanzabile? O soltanto giocabile? Chi è talmente genio da riuscire costringere la complessità della vita (infinita nei tratti pur brevi) nelle righe di un opera pur buona (finita nelle argomentazione pur infinite). DiGì era decisamente perplesso, considerava i “promessi sposi” un’opera totalmente da rileggere, forse, senza note al margine, senza interrogazioni al limite, senza “tropi” a squittire nascosti tra le righe. Il prof Smiroldo fissò DiGì pregandolo, con gli occhi, di tacere. Digì non era d’accordo, non con quella domanda fornita di risposta pre-affrancata, e lo dimostrò al suo professore di Latino con un gesto di stizza invisibile al membro esterno. Cinque anni a maturare opinioni e poi all’esame devi abbassare gli occhi e non rispondere ad una domanda che ti sfida a farlo, se ne hai coraggio. La verità è che poi DiGì non credeva di avere il coraggio per sfidare un professore, armato di penna e diritto di voto, era dell’opinione che Manzoni avesse mentito sulla vita, la sua non era una metafora, al limite un “metà forum” (gioco di parole riservato al suo pensiero). Sorrise. Alessandro non aveva avuto il coraggio, per esempio, di raccontare che Lucia aveva capito in gran segreto che si può amare anche dopo aver scopato “da bravi” con un amante “innominato”, aveva omesso di raccontare che Don Abbondio era un povero diavolo che si masturbava riciclando storie dal confessionale e non aveva rivelato che Renzo (molto meglio il nome Fermo) probabilmente non sarebbe mai stato un buon marito e che sarebbe stato salvato non tanto dalla divina provvidenza quanto invece dall’ipocrisia e dalla mancanza dell’istituto giuridico del divorzio. L’unica intuizione felice sembrava essere che quel matrimonio, in effetti, non s’aveva da fare e quindi – ma questo DiGì l’avrebbe potuto dire anni dopo, forse in suo libro - neanche quel romanzo del cazzo! DiGì sollevò gli occhi, senza dire nulla, accomodandosi sulla sedia. “Mi dica signor Dominijanni, come la giudica la figura de “il popolo” nell’episodio de “l’assalto ai forni”?” Anche qui DiGì aveva un’idea precisa, ma era consapevole che la risposta non sarebbe mai stata soddisfacente, il prof. Smiroldo lo guardò riuscendo per la prima volta, e con un solo sguardo, a spiegargli cosa significasse rimettersi alla divina provvidenza, manzoniana o no. Ma era un esame di maturità e DiGì stava soprattutto giudicando se stesso, doveva rispondere secondo coscienza. “Positivo! Mi perdoni, volevo dire positiva, la figura del popolo è positiva, secondo me, perché quello dell’assalto ai forni è un gesto estremotivato!” “Che significa estremotivato? Inventa le parole signor Dominijanni?” Il membro interno guardò DiGì che non fece una piega e anzi sorrise, prima di rispondere. “Sì signore, lei sta inventando la morale, decidendo che sia assoluta e prendendola in prestito dal nipote di Cesare Beccaria, lei è un manzoniano inguaribile, lei giustifica ogni cosa solo se rientra nel cono d’ombra metaforico de “i promessi sposi”, allora io, che invece lecco con gli occhi ciò che vivo e non ciò che leggo, ebbene, io invento le parole, ma mi rendo conto che in sede d’esame potrebbe non essere opportuno e chiedo scusa per la precedente licenza glottologica. Ma per tornare alla sua domanda, se io dovessi “aver fame” perché, per esempio a causa di un brutto voto al liceo, non riuscissi a trovare un lavoro, assalterei senza ombra di dubbio un alimentari, perché ciò ha senso, più di quanto non ne abbia assaltare la logica, depredando “podiosamente” quegli spiccioli di preparazione che i maturandi si 33 portano ad un esame, non trova?” DiGì fece silenzio, era tremendamente serio, il professor Smiroldo sembrava incazzato, ma abbassati gli occhi e portata una mano sui capelli, con lo sguardo basso, sorrise di gusto. Il signor membro esterno non aggiunse nulla, non fece alcuna questione nemmeno sul “podiosamente” pronunciato da DiGì, se fosse cioè un impertinente neologismo o solo un refuso da ec-citazione. Fece altre domande. DiGì rispose su Leopardi, su D’annunzio ed ebbe modo di leggere e commentare qualcosa dell’inferno di Dante. Non ricevette alcun encomio, ma neanche alcun biasimo per il contenuto irriverente delle sue esternazioni. Il membro esterno gli fece gli auguri, stringendogli la mano professionalmente, il prof. Smiroldo non disse nulla, gli mise una mano sulla spalla, senza aggiungere nulla. DiGì, il nano giullare, quel giorno aveva rovesciato il contenuto del proprio cono d’ombra interamente sulla giuria. Quella mano del prof. di Latino fu più di un diploma, era il voto migliore che avrebbe potuto sperare, era l’annullamento dello spazio infinito dei punti che costituiscono la retta che va dal banco alla cattedra. Il voto fu “ottimo menomeno”. Un voto con le palle. Saccoia aveva preso sessanta sessantesimi, così come Licopoli, DiGì, invece e soltanto lui, cinquantasei sessantesimi. Un ottimo menomeno è un ottimo non fine a se stesso, uguale a qualcosa, all’università, per esempio. Quando non hai un traguardo scegli di andare avanti. Strada facendo succederà qualcosa. Così fece DiGì (non)scegliendo “Economia e Commercio”. In facoltà tutto era diverso, tutto troppo facoltativo, e non era un gioco di parole. I primi due anni furono spesi al prezzo equo dell’incapacità di gestirsi. Erano molte e fin troppo le opportunità dell’apparente “far nullaccademico”, come per esempio vagheggiare l’universognato con le tette, calcolare la derivata di un culo, tenere il libro chiuso e il walkman sempre acceso e far in modo di non trasformare una fila in-mensa in immensa. DiGì comprese tardi che tutte queste cose si dovevano fare a corollario di un “progetto di studio” e lui, tra l’altro, era privo di un progetto qualsiasi. Non riusciva a prefigurarsi dottore (con le virgolette ), non ne aveva né il vanto né l’ansia, sapeva che doveva laurearsi, ma non aveva un’idea concreta del quando e del cosa diventare. Al terzo anno, quando certi esami di diritto erano ormai improcrastinabili, DiGì aveva un nuovo soprannome, alcuni amici de “l’acquario” (la gigantesca aula di studio, a vetri, della facoltà) lo battezzarono “Dopo, giuro!”. Era divenuta nota infatti la sua ritrosia a frequentare contesti sociali impegnativi, come le feste universitarie, o emotivi, come l’altro sesso. Il concetto di far festa con l’altro sesso poi metteva in ballo opzioni incrociate ingestibili. In più di un occasione si tirava fuori di impaccio con frasi tipo “ci vediamo dopo” e alla domanda “dopo quando?” rispondeva puntualmente “Dopo, giuro!”. L’ultima la disse a Marinella, timidamente, senza alzare la testa dal Trabucchi. Diritto Privato era il suo incubo peggiore, aveva sentito parlare di Tolkien e del suo Signore degli Anelli, ma era convinto che nessuna trama fantasy avrebbe mai potuto salvare DiGì dal Potere del Legislatore. Maturato al liceo dove regna la regola del “di tutto un poco” si trovava, non senza affanno, nell’elegante palude brachilogica del “tutto di ogni cosa!” Un esame di diritto, che si palesava curiosamente come un dovere, era prova ardua. DiGì trovò conforto e chiavi di lettura nel latino. Il giorno dell’esame fu proprio una breviloquente citazione in latino che impressionò un esaminotauro, tanto da consentirgli di arrivare a chiudere l’esame con una gratifica di ventiquattro trentesimi. Fu un “sette menomeno”, stessa emozione del tema delle medie, un sette uguale, questa volta ad una cosciente molta soddisfazione. Quel giorno infatti DiGì si riconobbe il diritto ad un premio, un cd doppio live dei Police. Ci furono altri esami, tutti difficilissimi. Rimandò ogni volta l’intento di farlo al primo appello, trattava se stesso come gli altri. Si ripeteva “lo faccio dopo!” “Dopo quando?” Si domandava. “Dopo, giuro!” Si convinceva. Si laureò tardi, con quasi due giri di tabellone, qualche tassa patrimoniale, poche probabilità e qualche imprevisto e nemmeno una roulotte in “vicolo corto”. Furono sette anni, anziché quattro, alla fine dei quali discusse una tesi di demografia, un’opera decontestualizzata e totalmente inutile ai fini professionali, gli valse però dieci punti. Ottenne un “centoquattro”, un onestoico ottomenomeno. Un'altra equivalenza infinita. Infinita come la sensazione di non arrivare pur comunque a “mai nulla”. La laurea significava anche Doc Gi. Per un solo giorno però, perché DiGì abbandonati i marmi e le angosce universitarie smise di essere da subito studente universitario, mettendosi in tasca quel diploma di laurea, quasi a difendere un forsegreto che solo qualche benzinaio avrebbe svelato di tanto in tanto (“ah dotto’ quanto metto?). Fu l’inizio della fine, o la fine dell’inizio. DiGì smise di andare in bici, in piscina, e di giocare a calcetto. cominciò a prendere peso. Nel frattempo la musica era 34 cresciuta con lui. I dischi erano diventati cd, e nel computer vivevano specie clonate di canzoni, prima disperse in singole unità, poi in riunite i ellepingui riserve di cartelle, destinate ad essere masterizzate o magari direttamente fruite, crude appena pescate dal web, come sushi, senza essere cotte dal burning rom. Era l’era in cui la musica fuggiva dalla case editrici per andare a vivere nel web allo stato brado, certi computer erano in grado di catturare mandrie intere di mp3, altri di razziarne intere vallate, l’onestà non reggeva il confronto con la possibilità spudorata di poter clonare musica. Erano lontani i tempi di my sharona, 45 giri pluriregalato di qualche festa medie-vale. La pirateria navigava in internet senza la jolly roger, la normalità era ormai la devianza dalla legge. Un cd masterizzato costava un pezzo da mille lire, un originale almeno trenta. Giunto al confine dell’anno 2000, quando l’ombra del millenium bug minacciava l’ordine delle cose tutte, DiGì passò la sera del 31 dicembre 1999 lavorando come cameriere a Planet Hollywood, gli sembrò una sera come tante altre e lo fu, ma solo dopo il brindisi con i colleghi realizzò che quello che per anni era stato un film di fantascienza, era invero diventato un film di storia. “Spazio 1999” telefilmoon di infanzia meravigliata era ormai fuori gioco, fantascienza squalificata dal tempus fugit, come le tute a zampa di elefante dello sfigato equipaggio di quella luna sfuggita all’orbita terrestre e, questo era anche più figo, alle ispirazioni dei poeti più coglioni. DiGì entrò nel nuovo millennio con un vassoio in mano, poco più tardi scoprì il sesso, cioè tutto quello che facevano gli altri a differenza di lui, lui lo aveva fatto molto tardi e continuava a farlo poco e male, troppo per non iniziare a collezionare rimpianti. Era una sorta di maniaco intenzionale, dotato di notevole autocontrollo in virtù del quale riusciva a sostituire con le seghe mentali quelle più convenzionali, un’autoflagellazione con cui lasciava andar via ogni occasione di amore “superficiale” per cercare di essere sopra le righe e risultare oltremodo accettabile, piuttosto che desiderabile. Questa cosa cominciò a montare sulla sue spalle mediocri come una scimmia, e si sa che le scimmie sanno tenersi ovunque, e accompagnò la sua involuzione fisica. Fu allora che Glauco, esteta omosessuale, nonché cameriere suo collega, lo battezzò, “Dolce e Gabibbo”, perché portatore sano di una latente sensibilità femminile, perché di carattere dolce e perché tondelirante come il Gabibbo. A completare il tutto contribuiva la felpa rossa con cappuccio da cui difficilmente DiGì si separava. Intanto i Led Zeppelin erano stati integrati dai Tool, Janis Joplin da Elisa, i Queen dai Porcupine tree, I Jethro Tull dai Metallica, gli AC/DC dagli Stone Temple Pilots (…). La musica, quella con la emme di mood e non di mp3, continuava a fornire vie trasversali, paralleli intersette. Le parallele intersette (concetto del tutto inventato) erano le strade musicali capaci di districare i nodi umorali ovvero in grado di far intersecare sensazioni parallele. Concetto difficile, complesso, ma per DiGì assiomatico. Il suo mondo era continuamente segnato da un cono d’ombra enorme, proiettato dalla realtà quotidiana che si frapponeva tra lui, osservatore, e quello idealizzato. La vita per DiGì era ciò che lui “osservava”, ma raramente nelle sue osservazioni era presente Giovanbattista. Era persona sensibilmente estroversa, ma assolutamente insensibile dell’io. Un giorno, un’amica, togliendo un capello dalla sua felpa rossa, non avendo nulla di meglio da fare e dire, fece una domanda apparentemente banale a DiGì “Ma tu, chi sei veramente? DiGì ci pensò qualche secondo, si rese conto che nessuno gli aveva mai chiesto questa cosa. “Io sono DiGì”, e cioè Dominijanni Giovanbattista. Tu e tutti gli altri esistete almeno finché io vi vedo e vi racconto, foss’anche a me stesso.” “Che cazzate dici DiGì?” “Dico che l’importante è che almeno io dica!” “Sei strano, lo sai, vero?” “Si lo so!” “Quand’è che metterai a posto la tua vita, e – oserei dire - i tuoi fianchi?” “Non lo so. Tu invece faresti all’amore con me?” “Sono sincera, credo proprio di no…” “Risposta banale!” “Sarà banale, ma è anche l’unica che opziono!” “Io però non merito un’unica risposta”. “Io invece non ti sto seguendo più, Dolce.” “Non fa niente, non preoccuparti, ci sono abituato.” “A cosa? A non scopare?” “No, cioè si, forse anche a quello, ma comunque mi riferivo al non essere compreso.” “Ma a te non piacciono gli uomini?” “A me piacciono le persone, e quindi tra queste anche gli uomini, ma rispondendo più specificatamente alla tua domanda, direi che preferisco le donne, senza dubbio alcuno!” “E perché ti chiamano Dolce e Gabibbo?” ”Perché fa ridere!” “Dici? Io non sto mica ridendo” 35 “Beh un po’ fa ridere. E i tuoi occhi stanno sorridendo. Alla prossima, allora.” “No aspetta, prendiamo un caffè, ti va?” “Mi va? Si! Direi però di prenderne due, o al limite uno con due cannucce!” “Sei un collione!” “Collione”? “Un “coglione” ellenico!” “Cosa significa un coglione ellenico?” “Che sei in parte coglione e in parte-none” “Uh madonna, che stronzata!” “Si in effetti. Dai, era per dire che mi piaci, in fondo!” “In fondo o in parte? “Infondomipiacinparte. E non ti fare strane idee” “No! Semmai me ne faccio di belle” “E cioè?” “Iniziamo col caffè” “Iniziamo! ‘spe’, cellulare… “Caffè rinviato?” “No, appuntamento rinviato!” “Hai rinviato un appuntamento per un caffè? Ci mettiamo un minuto a bere un caffè.” “Si lo so. ma magari per parlare spendiamo qualche minuto in più, o no?” “Non capisco, cosa è cambiato da due minuti a questa parte?” “Diciamo che sei uscito da un cono d’ombra.” “Interessante.” “Esatto, interessante, ora mi sembri improvvisamente interessante nonostante questa insopportabile felpa rossa.” “Ne ho anche una verde dei Queen.” “E perché non una blu degli Alice in Chains?” “Ti piacciono i Chains?” “Da morire!” “Sai, questo conferma che la musica intersetta le strade.” “Che vorrebbe dire ‘sta stronzata?” “Ti spiegherò, andiamo? “Andiamo!” * AC/DC - back in black Fonte: Plumen - www.paginediplumen.com www.ilromanziere.com – Il Sito Letterario GIOVANNI PASCOLI LA FONTE DI CASTELVECCHIO O voi che, mentre i culmini Apuani il sole cinge d'un vapor vermiglio, e fa di contro splendere i lontani vetri di Tiglio; venite a questa fonte nuova, sulle teste la brocca, netta come specchio, equilibrando tremula, fanciulle di Castelvecchio; e nella strada che già s'ombra, il busso 36 picchia de' duri zoccoli, e la gonna stiocca passando, e suona eterno il flusso della Corsonna: fanciulle, io sono l'acqua della Borra, dove brusivo con un lieve rombo sotto i castagni; ora convien che corra chiusa nel piombo. A voi, prigione dalle verdi alture, pura di vena, vergine di fango, scendo; a voi sgorgo facile; ma, pure vergini, piango: non come piange nel salir grondando l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo: io solo mando tra il gorgoglio blando qualche singhiozzo. Oh! la mia vita di solinga polla nel taciturno colle delle capre! udir soltanto foglia che si crolla, cardo che s'apre, vespa che ronza, e queruli richiami del forasiepe! Il mio cantar sommesso era tra i poggi ornati di ciclami sempre lo stesso; sempre sì dolce! E nelle estive notti, più, se l'eterno mio lamento solo s'accompagnava ai gemiti interrotti dell'assiuolo, più dolce, più! Ma date a me, ragazze di Castelvecchio, date a me le nuove del mondo bello: che si fa? le guazze cadono, o piove ? e per le selve ancora si tracoglie, o fate appietto? ed il metato fuma, o giàpicchiate ? aspettano le foglie molli la bruma, o le crinelle empite ne' frondai in cui dall'Alpe è scesa qualche breve frasca di faggio ? od è già l'Alpe ormai bianca di neve ? Più nulla io vedo, io che vedea non molto quando chiamavo, con il mio rumore fresco, il fanciullo che cogliea nel folto macole e more. Col nepotino a me venìa la bianca vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo andare come vaccherella stanca va col suo redo. Nella deserta chiesa che rovina, vive la bianca Matta dei Beghelli più ? desta lei la sveglia mattutina più, de' fringuelli? Essa veniva al garrulo mio rivo sempre garrendo dentro sè, la vecchia: e io, garrendo ancora più, l'empivo sempre la secchia. Ah! che credevo d'essere sua cosa! Con lei parlavo, ella parlava meco, come una voce nella valle ombrosa parla con l'eco. 37 Però singhiozzo ripensando a questa che lasciai nella chiesa solitaria, che avea due cose al mondo, e gliene resta l'una, ch'è l'aria. www.piccoligiornalisti.it Mauro Petrelli PENSIERI E STRADE Roma di notte è incantevole. I lampioni bronzano l’atmosfera e tutto sembra sospeso e stregato. I negozi chiusi, il rumore delle auto e sirene in lontananza, cani che comunicano tra loro, con noi, con il mondo o abbaiano e basta. Qualche ombra sfugge veloce alla vista per infilarsi in un portone o auto, qualche altra scorre lentamente tra pensieri e strade, tra quartieri e monumenti e tra palazzi e storia, o storie. Roma è una città viva, pulsante, è un organismo, e come tale la notte è esposto agli attacchi dei parassiti, dei germi e batteri. Jerome si definiva anima sociale, culo capitale. In verità, lui era un parassita, un problema paesaggistico per la società, uno di quelli che la gente preferiva ignorare, o per appagare il proprio falso altruismo, gli dava qualche moneta, senza accorgersi che chi da l’elemosina non era lui, ma quell’ammasso informe e maleodorante che alla sua moneta rispondeva con un sorriso. Dormiva, lontano dagli sguardi puliti e salvi dei passanti, tra la parete di un tabacchi e quella di un bancomat dove si era ricavato una nicchia in cui dormire, d’inverno è frequente vedere, nel centro di Roma, clochard dormire nei luoghi più disparati. Ormai ci dormiva da due mesi, era come casa sua. Generalmente si addormentava quasi subito, grazie all’aiuto del vino, ma a volte di vino non se ne trovava, allora elemosinando qualche spiccio riusciva a comprarsi una bottiglia di vodka scadente che lo assopiva, in parte lo sedava, ma non lo faceva dormire come avrebbe voluto. A volte beveva anche solo per sopportare il suo odore, piscio misto a merda e muffa, decorato con puzzo di vino di seconda scelta e sudore. D’inverno era un problema lavarsi, era preceduto e seguito dal suo odore. Quando passava, la gente spariva, quando chiedeva, la gente spariva. Girava per Trastevere, Campo dé fiori, Piazza Navona, Lungotevere, Ponti. Vedeva luci, colori, persone con calde pellicce e sorrisi smaglianti, tutte gioielli e brillanti, ma anche persone più misere che ostentavano ricchezze che non avevano, e altre, poche che sembravano semplici, vere.Mentre passeggiava sul Lungotevere tra penombra e realtà, pensava agli anni in cui abitava con Nancy e nei quali era felice. Lavorava come tipografo e Nancy come cameriera, non erano ricchi, ma per loro era come se lo fossero stati, erano pieni d’amore, di gioia, di speranza. La notte dormivano abbracciati, anche senza far l’amore, si coccolavano e Nancy rideva, rideva sempre. Nancy cucinava da dio e Jerome beveva come un dio, ma senza creare disagio a Nancy, combaciavano perfettamente. Da un pò di tempo Nancy non si sentiva troppo bene, e una sera ebbe un malore, Jerome la portò subito all’ospedale. Gli diagnosticarono un tumore. “Fase terminale.” Gli disse il dottore, e timbrò a vita il cervello di Jerome con quella dicitura: ”Fase terminale.”. “Fase terminale!” Ripeté Jerome, mentre scavalcava un ramo caduto sul marciapiede del Lungotevere. Durò tre anni il calvario di Nancy. Sorrideva sempre a tutti, a tutti quelli che la venivano a trovare, poche persone, Jerome, Anna e due loro amici, che sparirono dopo la morte di Nancy. Nancy morì una sera di novembre. Jerome aveva speso tutto ciò che possedevano per cure e medicine. Fu licenziato cinque giorni prima per “lunghe e prolungate assenze ingiustificate sul posto di lavoro”. Beveva sempre di più, beveva e piangeva, camminava e si lasciava andare. Nancy gli sorrise anche prima di morire, rideva, rideva sempre. Faceva molto freddo quella notte. Il Tevere era ingrossato e le luci sembrava fossero trascinate via dall’acqua del fiume. Aveva raccattato qualche euro, si toccò la lunga barba bianca e gialla e si diresse all’unico bar che ancora gli dava ascolto. Chiese un rhum, una bottiglia di vino scadente e un caffè.Pagò il caffè e il rhum, gli diedero il vino a credito. Lui fece la finta di non accettare e di fare per andarsene. “Nessuno ti offrirà niente stanotte! Prendi e non rompere!” Gli urlò il barista. Jerome allora, come toccato dalla consapevolezza del freddo e del dolore, si avvicinò al bancone, bevve il rhum tutto d’un sorso, il caffè, poi prese la bottiglia di vino, ringraziò ed uscì. Si diresse da Mc Donalds e ordinò un hamburgher 38 con patatine, mangiò con foga e uscì all’aria aperta. Accese un mozzicone che aveva in tasca e si diresse verso la sua nicchia.. La sua roba si trovava dentro un rottame d’auto incendiata e abbandonata a pochi metri da lì. Buttò il mozzicone e preparò il suo giaciglio. Un panino di cartoni e una coperta come materasso, poi cartoni, giornali e stracci, sembrava un cassonetto. Ma almeno lì stava al caldo. Da sotto le coperte si scolò la bottiglia di vino, pian piano si addormentò e questa gli scivolò di mano con l’ultimo quarto che si rovesciò, un altro tassello tra i suoi odori. ”Nancy è in Francia” Fu l’ultima cosa a cui pensò, prima di perdere i sensi. Sognò di lunghe strade, una strada che sapeva di dover percorrere. Cominciò a camminare, quando d’improvviso si svegliò. Il bancomat emetteva degli strani rumori metallici ed elettrici, poi aumentarono, poi diminuirono, poi ci fu un colpo sordo e ricominciarono, solo che ora erano più cadenzati. Si alzò, il vino doveva essere proprio schifoso perchè, ne sentiva più del solito, il suo peso in testa. Mentre tentava di raggiungere lo schermo del bancomat, per cercar di capire cosa stesse succedendo, vide in terra un biglietto da 500 euro, poi più in là da 50, 100, 20 e altri ne uscivano dalla fessura. Uscivano in continuazione, facevano un lento giro della morte oppure uscivano e planavano dolcemente in terra. Lo sportellino si apriva e chiudeva e molte banconote si spiegazzavano tutte, senza indugiare oltre cominciò a raccoglierli. Prese prima i tagli più grandi e li mise nelle scarpe, poi nelle mutande. Cazzo, ne uscivano come vomitati, Jerome raccoglieva e godeva, stentava a crederci. Poi i soldi finirono e cominciarono ad uscire ricevute. Raccolse anche i pezzi da cinque, si allontanò e lasciò lì tutta la sua roba. ”Servirà a qualcun’altro”pensò. Si diresse senza esitare un attimo, verso l’hotel dei Patrizi, un albergo a cinque stelle, luminosissimo, vicino Campo dé fiori. “Non ci credo, non può essere vero! Non ci credo!” Pensava fra se, mentre attraversava la piazza. Qualcosa stava cambiando, la speranza, la vita, l’identità, ora era qualcuno, qualcuno con i soldi. Salì il gradino ed entrò. Un enorme masso di sdegno con aculei di critica lo investì. Aprì le braccia e urlò: ”Lo so! Puzzo da far schifo. Ho fatto una scommessa e ho perso. Dovevamo vivere un mese da barboni e non ho resistito! Ho i soldi per pagare!” Un addetto alla sicurezza fece per avvicinarlo, il puzzo gli diede la nausea e, ad un metro da lui Jerome disse: ”Guarda ho i soldi! Per favore fatemi lavare e ripulire!” e tirò fuori due banconote da 500 euro, il vigilante si fermò, guardò il direttore che fece cenno all’uomo di farlo avvicinare. Jerome guardò l’uomo poi il direttore, e si avvicinò sicuro. Si sentiva come Mel Brooks in “vita da cani”, l’unica differenza era che Jerome non è mai stato ricco e il direttore somigliava ad un prete impomatato. “Buona sera, vorrei la stanza migliore che avete. Inoltre vorrei una camicia della mia taglia, pantaloni, una giacca… colori scuri vanno bene...e non dimenticate la biancheria intima!” Il direttore lo guardò sconcertato, disgustato, imbarazzato e incredulo contemporaneamente. ”Signore.”Disse, ”Tutto questo ha un costo.” Cercava di trovare in Jerome la consapevolezza che quei soldi che possedeva li aveva rubati e che non poteva chiedere e pretendere. “Costo?”Chiese Jerome. “Posso pagare qualsiasi cifra! Ah, vorrei anche un tagliacapelli elettrico e lamette da barba!” Disse Jerome chinandosi e tirando fuori dei calzini quattro banconote da 500 accartocciate, le stese per bene, le poggiò a ventaglio sul banco e disse: “...e la cena in camera, vino incluso.” “Ho bisogno di un documento, signore.” Chiese il direttore. Jerome mise la mano all’interno della giacca lacera e tirò fuori la carta d’identità.Gliela porse, il direttore annotò tutto e disse, porgendogli le chiavi: “Ecco a lei, signore, la sua camera è la 105, buona permanenza signore!”. Jerome prese al volo la chiave e chiese, “Quando potrò avere ciò che ho chiesto?” “Tra meno di un’ora, signore.” Rispose il direttore con un inchino lento e ruffiano. Jerome entrò in camera, si diresse al frigo bar. C’era una bottiglia nuova nuova di vodka alla fragola, ne bevve una bella sorsata e se la portò in bagno. Si spogliò, aprì l’acqua della doccia, la miscelò e s' infilò dentro. Cominciò ad usare una quantità esagerata di sapone, s’insaponò quattro volte di seguito. Rimase lì sotto per tre quarti d’ora, fino a quando non bussarono alla porta. Bevve un’altra lunga sorsata, prese un asciugamano, se lo avvolse intorno alla vita e andò ad aprire. Erano tre dipendenti dell’albergo con pantaloni, scatole di scarpe, camicie, cravatte e varie scatole. Li fece entrare. Qualcuno si presentò, ma lui non lo sentì. “Porto la 48.” Disse, mentre si asciugava. “Ecco a lei il tagliacapelli e le lamette.”. Gli disse un tipo con la faccia da faina, prese il rasoio elettrico e le lamette e rientrò in bagno. Mentre i tizi si organizzavano e sistemavano le loro cose, la macchinetta faceva il suo lavoro, poi scrosci d’acqua e tirate di naso. Jerome uscì, completamente rasato e sbarbato, aveva dei piccoli taglietti che sanguinavano sul mento e il suo viso era più pallido che mai a causa della recente rasatura, si notava anche al buio. 39 “Sono pronto!” Disse con l’accappatoio semi aperto. Infilò subito un paio di mutande grigie, poi chiese un tagliaunghie e la faina si prodigò non poco per cercarlo, lo interruppe uno di loro, uno con una faccia tonda e gli occhi piccoli, vicini e luminosi, il quale gli diede il suo tagliaunghie. Jerome amava questo rito, il piacere superava la parola, era come una liberazione, un desiderio nascosto, completò l’opera e infilò i calzini. Gli passarono un paio di pantaloni grigi e neri, poi due o tre cravatte, quattro camicie mentre lo guardavano con meraviglia e curiosità, ma a lui andava bene qualsiasi colore. Era ubriaco ed estasiato, gli diedero la giacca, la indossò, si guardò allo specchio, sorrise, fece una piroetta e cadde all’indietro, su alcune scatole. Scoppiò a ridere, rise di gusto per un paio di minuti, poi si alzò, porse 200 euro a ciascuno come mancia e disse: “Ok, ok ragazzi! Bravi! Molto bene!” Poi con calma teatrale aggiunse: “Ora, ragazzi, fuori dai coglioni!” Emanò un sorriso enorme, aprì loro la porta e li accompagnò dicendo, “Sera..” I tizi uscirono in fila indiana, “Buonasera signor De pien.” “Sera..” “Buonasera signor De pien.” “Sera..” “Buonasera signor De pien.” “Sera..” Chiuse la porta, guardò l’ora dal televisore. Le cinque e trentacinque del mattino. Un’ora come un’altra per rinascere, si sedette e cominciò a contare i soldi. “5.500 euro!” pensò, “Cazzo credevo di più!”. Poi cominciò a bere, dalla vodka passò allo spumante, poi birra e whisky. Decise di uscire, prese i soldi e scese nella hall. “Signor De Pien, scusi!” lo chiamò il direttore. Si fermò. “Le chiedo di saldare ogni volta che uscirà, sono spiacente, ma sono regole ferree.”Continuò il direttore. “Quanto devo?” chiese Jerome, poggiandosi con i gomiti sul banco e dondolandosi con il resto del corpo. “Ecco... con l’anticipo di 2.000 euro... con i vestiti...tutte ottime marche...lei deve... 1.500 euro.”. Disse il direttore porgendo il conto a Jerome. “Cazzo, 1.500 euro!” Esclamò Jerome e continuò, “Ma Cristo iddio, come cazzo è possibile dico io...”. “Questo è uno degli alberghi più costosi di Roma, lei sicuramente…” “Si... si, ha ragione!” Lo interruppe Jerome e barcollando mise vistosamente sul banco 1.500 euro in contanti, salutò, prese il documento e uscì. Il direttore, serio e impassibile, probabilmente pensò: “Feccia, spurgo della società, chissà a chi li avrà rubati, quei soldi!” Ma a Jerome non importava ciò che pensavano gli altri, ormai era troppo ubriaco per pensare, camminava, ha continuato a camminare per circa due ore. Il traffico si era come rinvigorito, cresciuto e guardando la strada, lo sfondo, le pubblicità, si accorse che non lo avevano avvisato per la cena. Si fermò a fare colazione in un bar molto esclusivo, all’ultima moda. Pagò, uscì e in un tabacchi notturno si comprò due sigari toscani “Gran riserva” e si avviò verso il Tevere, così per passeggiare e per vedere se la sua roba c’era ancora. C’era tanta gente invece, una pattuglia e un’autoambulanza stavano nei pressi della sua nicchia. Si avvicinò e vide se stesso disteso, con barba e capelli lunghi, paonazzo, con la bottiglia di vino che aveva macchiato la sua lacera giacca a vento. Aveva fatto freddo la notte. Guardò il Tevere, non pensava più a nulla, s’incamminò e sparì nell’aria stanca del mattino. Rivista Letteraria Trimestrale Nugae: rivistanugae.blogspot.com Mauro Montacchiesi 40 Una liturgia mistagogica Nel mio labirinto di specchi si rifrange il glissando di una cetra orfica! La mia scettica acatalessia non mi comporta, invero, di comprendere se sia lo stesso, mitico aèdo Orfeo, col suo plettro, a blandirne le corde! E laggiù, in quel mio diorama, in quella mia grande tela di scene dipinte, dove giochi di luce tutto fanno sembrare reale, ma dove tutto è una Fata Morgana, laggiù, nei penetrali, nei plessi più reconditi del mio labirinto, avverto, senza vedere, una liturgia mistagogica che mi centripeta, che mi coopta, ma che poi mi centrifuga verso l’ ascetica anagogia, verso la catarsi dell’ anima, unici egressi dalla reclusione della materia! LA PAROLA NEL WEB - www.netverbum.it PIA DEIDDA E L’ ULTIMA FATA “C'erano tante cose che le sorelle non capivano di lei. Spesso si chiedeva se fosse nata dalla stessa jana maista tanta era la differenza che riscontrava con le altre tre. No, non avrebbe volato nemmeno quella notte. Avrebbe attraversato il bosco utilizzando le gambe”. Cicytella è diversa dalle sue sorelle fate-streghe e ci accompagna in una storia fantastica e passionale, che si snoda fra fornelli, piatti prelibati e succulenti della cucina sarda, prodotti dell'artigianato, feste e ricorrenze, indimenticabili paesaggi, in una lontana Sardegna medievale e pur ancora a noi vicina nelle sue tradizioni e nella sua bellezza. L'autrice, ispirandosi ad una leggenda che si racconta nelle grotte Is Janas a Sadali, ha creato una favola piena di sentimento, a volte umoristica, a volte ironica, sicuramente intrisa di amore e di nostalgia per una terra antica piena di fascino come la Sardegna. Della stessa autrice ricordiamo “Rubia”. PIA DEIDDA, L'ultima jana, Fabriano Edizioni, 2008 - www.lezionidibello.it - il sito della scrittrice Daniela Rindi Infelicità: complemento d’emozione “Il fatto successe la mattina del 30 aprile 1971. Mia moglie portata in chirurgia io alla neuro in camera di sicurezza come detenuto. Il giorno 4 maggio portato a Montelupo dalla polizia con la Pubblica Assistenza di La Spezia. Il 5 visita e medicazione alla gola.” N. N. 41 Si chiamava Natale, perché era nato il giorno di Natale, nel 1884, era un ex ferroviere, ma iniziò come “Frenatore”. Ai tempi, in cima ad ogni vagone c’era un piccolo scompartimento di pochi metri quadrati, all’interno un volano che, quando la motrice frenava al segnale del macchinista, con un fischio del treno, ogni frenatore doveva girare a mano per rallentare il proprio vagone. Non ha mai fatto carriera perché antifascista, comprava l’Avanti tutti i giorni, era un socialista vero. Il fascismo gli consentì solo lo scatto a “Capotreno”, niente di più di quello che oggi è un “Controllore”. Una vita passata a fare il capotreno. Un giorno, mentre stava tornando a casa alla fine di un turno, fu fermato da una squadra, perché era sparito un carico di farina da un vagone. Fu interrogato e fortunatamente rimandato a casa, ma fu lui a frenare il treno nella galleria tra la stazione di Rio Maggiore e La Spezia, per permettere lo scarico dei sacchi di farina. Lo sapevano tutti. Aveva solo la quinta elementare, ma una dote innata per la scrittura, aveva studiato da autodidatta e leggeva tantissimo. Scriveva lettere talmente belle che suo nipote fu l’unico a cui i sindacati accettarono la richiesta di trasferimento dalle Poste di Sestri Levante a La Spezia. Solo grazie alla sua lettera. Aveva anche l’abilità di raccontare. Riusciva ad incantare con le sue storie narrate con sapienza, le rendeva vive, faceva realmente lavorare l’immaginazione. Era anche un esploratore, amante della montagna. Fu il primo a guidare la spedizione del giro delle Dolomiti partendo da La Spezia… in vespa! Quando andò in pensione non interruppe la sua attività al sindacato, continuò a procurare tessere, a presenziare a riunioni e si mise pure a fare il calzolaio, per aiutare un amico. Sua moglie si chiamava Maria, lei è sempre stata una casalinga, entrambi nonni di innumerevoli nipoti, a loro volta figli di numerosi figli, però soli, chiusi nella loro vecchiaia quasi centenaria. Sono sempre stati poveri, la pensione non permetteva granché, una modesta casa in curva con un piccolo balconcino affacciato sulla ferrovia, a Pegazzano. Il treno era una presenza che, col suo suono rassicurante, accompagnava le loro giornate, un passaggio ritmato e inesorabile... tutum tutum tutum tutum. Carne una volta al mese, per il resto molta minestra di patate. I fagioli venivano utilizzati almeno tre volte: prima inzuppando il pane nel brodo e condito con olio e sale, poi solo i fagioli conditi, infine il terzo giorno pasta e fagioli. La stufa era sempre spenta, la legna costava troppo, allora Maria la sera sferruzzava maglioni e sciarpe uno dietro l’altro. Il tempo si muoveva lento, come i loro corpi anziani in attesa della fine. Ogni mattina lui andava a passeggiare lungo la ferrovia…in fondo su quelle rotaie c’era cresciuto, c’era vissuto. Ricordava ancora quando con i suoi compagni di scuola veniva lì a giocare agli indiani, si sdraiavano poggiando le orecchie sui binari, per sentire le vibrazioni dell’arrivo del treno. Il treno rappresentava i cow-boy e quando passava gli venivano lanciati i sassi, che erano le frecce degli indiani. Ad un certo punto Maria s’ammalò, non si sa bene di cosa, all’epoca tutte queste certezze mediche non c’erano, uno stava male e basta…tutt’al più ad un certo punto moriva. Il male era all’intestino, fu operata, le inserirono una deviazione, un ano artificiale, che servì solo a rendere la vita un inferno ad entrambi. Doveva fare tutto lui, la spesa, gestire la casa, accudirla, cambiare il catetere, svuotare il sacchetto delle feci. Un amico al dopolavoro ferroviario gli raccontava della sua esperienza, della moglie nella stessa situazione e lo spaventava dicendogli che non ce l’avrebbe mai fatta, come sua moglie d'altronde. La malattia la stava corrodendo lentamente da dentro e la sofferenza diventando un’agonia. Senza mezzi, senza medicine, ogni notte addormentarsi diventava sempre più difficile e insopportabile. Neanche lui dormiva più, non sopportava la sua sofferenza, la propria impotenza. Tentò di comunicarlo ai figli, di chiedere aiuto…intanto la sua angoscia, la sua disperazione crescevano silenziose. Una vita passata uno accanto all’altro è sufficiente a rendere inaccettabile una fine sbagliata, a farti soffrire al punto di sfiorare la follia. Quella notte questo doveva essere il sentimento che guidò la sua mano, impugnato un martello, a colpirla così forte sulla fronte. Per ben tre volte il sangue gli schizzò sulla faccia. Andò poi in cucina, si asciugò il viso, prese dal cassetto un coltello, tornò in camera e si sdraiò a letto affianco a lei. Le prese una mano, se la strinse al petto e con l’altra fece correre la lama lungo il collo. Così li trovarono il mattino dopo, in un letto di sangue, mano nella mano…a novant’anni. Non erano morti, però, questo il paradosso, questa la tragedia. Le sue mani erano troppo fragili per infierire colpi mortali. Lui fu rinchiuso nel carcere psichiatrico a Montelupo Fiorentino, poi successivamente trasferito all’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Questo gesto d’amore folle li separò per sempre, lui non tornò più a casa, lei non lo perdonò mai. Passò il resto della sua breve vita da solo. Morì per un raffreddore a 91 anni. Quello stesso Natale disse ai pronipoti:-Quando morirò ricordatevi sempre di questo vecchio…-. Progetto Babele Rivista Letteraria - www.progettobabele.it Oronzo Liuzzi 42 Andante in la maschera di Arlecchino è incisa sul volto della verità …inafferrabile e inquieta e chiassosa e arrogante. relativa e volubile. il tempo trasparente sopravvive all_ombra del tempo della passione nella passione…del sacro e nel sacro e del canto libero diss’io… la maschera…in figura…camaleontica lingua. strozza il pensiero del profeta Nel mezzo del cammin di nostra vita la maschera… salutai con rammarico l_ideologia appassita insoddisfatta inesistente fuori dal senno. L’ inganno trionfa Nel mezzo del cammin sul palco di una piazza cittadina e nei dialoghi televisivi e nelle campagne elettorali e nella new economy …finge e tranquilla si atteggia a velina in un talk show e strizza l’_occhio al grande fratello e spreme il vuoto del sapere. diss’io… Carlo Molinari Estratto da L’ era della ghirlanda Pascal Guitton e Janette Leroy, artisti di strada a Parigi, vivono un rapporto d’amore molto intenso. Tutto s’interrompe bruscamente dalla sera alla mattina per la fuga di lei con un uomo benestante. Il racconto narra la situazione interiore e la vita quotidiana del giovane Pascal nel “dopo Janette”: un mondo che sprofonda psicofisicamente, fino all’intervento dei servizi sociali e di uno psichiatra. Ma si intromette anche la vicina di casa, Veronique Perrin, più vecchia di lui di una quindicina d’anni e… L’era della ghirlanda era terminata. Ogni cosa s’era fatta acerba, amara da sopportare, nera nella tetra notte più nera. Tutto declinava senza che vi fosse un sole al tramonto. Gli uccelli impigliati nei rovi si erano zittiti, quasi quella fosse la loro ultima destinazione, naturale. Tutto ammutoliva anche in mezzo alla baraonda e alle fragranze delle bancarelle rionali. Sciami di casalinghe ronzavano intorno ai carretti che svendevano pentolame e cianfrusaglie, con il deciso rifiuto di comunicare tra loro. Nessun colore tinteggiava l’arcobaleno del dopo temporale, poiché la tempesta aleggiava ancora e si abbatteva come un uragano silente dentro il suo animo. Ogni sera. L’era della ghirlanda era compiuta. Costringeva a deglutire penosità e a stringere i denti, come se vi fosse una lama conficcata in fondo alla schiena. Troppo tempo passato nella solitudine del proprio monolocale, tra oscure serrande e mura che trasudavano odore pestifero di chiuso. Colonie di muffe che si espandevano a macchia di leopardo. Un frigorifero gelidamente rinsecchito e depredato dagli ultimi avanzi di cibo e scatolette che Pascal Guitton aveva acquistato giorni addietro alla bottega alimentare di fronte a casa sua. I ronzii delle auto che frusciavano sotto casa non parevano altro che sarabande di pulviscoli. Nulla che stordiva, nulla che infastidiva. A volte - ma sempre e solo di sera o a notte fonda - Pascal riusciva a galleggiare per qualche attimo sulle onde della cupa depressione che lo tormentava ormai da oltre sei mesi. Altre sere invece vi riusciva per ore intere. Ed esplodevano scatti d’euforia fulminea, quasi avesse ingurgitato venti caffé in un colpo solo. Si ritrovava così quasi sempre in camera sua, in canottiera e mutande, di fronte ad una grande specchiera montata fra le ante di un vecchio armadio stile primo novecento. A ballare, a simulare coreografie, secondo la creatività del momento. 43 Ballava in modo stralunato senza mai fermarsi anche per ore e ore, immaginando di filmarsi con una videocamera al ritmo di qualche hit del momento o placandosi, con qualche brano più melodioso. Per tentar di dimenticare. Non vi era mai una consequenzialità logica: ogni sera tutto mutava in base allo stato d’animo più o meno abbattuto. O in base all’euforia, del tutto imprevedibile. Pascal aveva acquistato al mercato delle pulci qualche musicassetta di artisti vari e un vecchio radio-registratore. Pochi euro ma tutto funzionava bene. A meraviglia (…). Carlo Molinari è nato a Conegliano (TV) nel 1964 ed è laureato in Giurisprudenza, vincitore di numerosi premi letterari internazionali. Ha pubblicato “Tra Strelizia e Calycanthus, “Voci da galera” (Marca Aperta Editrice), “La Margherosa”, “Il libro dei mesi 2008” (Antonio Carello Editore) e “Cantico” (EdiGiò). DOMENICO DEFELICE SENSAZIONI E NEBULOSE LA PITTURA EMOTIVA DI OTTAVIO CARBONI (estratto) Per la voglia d’esplorare il mondo che lo circonda, a tappe coloristiche, Ottavio Carboni ci riporta ai periodi di Picasso. Sono momenti distinti da una determinata cromia, che denotano l’umore, il suo stato d’animo in quel preciso istante, ma scandiscono anche il lento maturare, il modificarsi, della sua interiorità. E’ così che nascono i vari periodi della sua pittura, come il verde, il rosa, il grigio, e pure il grigio-azzurro, del quale, troviamo molti interessanti esempi nel catalogo curato dall’Amministrazione comunale di Sassari per l’Antologica tenuta dall’otto novembre al 6 dicembre 2003. Ed è sulle quaranta e più opere in esso riprodotte, che, in sintesi, si può percorrere il lento cambiamento nel tempo dello stile della sua pittura, la quale, dal frammentismo quasi astratto degli anni quaranta e cinquanta, pur mantenendosi sempre nello stile dei macchiaioli, si avvicina al perfetto figurativo degli anni settanta e ottanta, culminato in una serie di ritratti, specialmente femminili, in cui, a zone sapientemente curate (il viso, per esempio, il seno), si associano altre (i vestiti, lo sfondo) realizzate con tocchi veloci d’ abbozzo. Ogni opera ha origine da due stili ed è dalla lettura in contemporanea di entrambi che si comprende il narrato dell’arte di Ottavio Carboni. Le radici - Esempi di tecnica bifronte possono essere considerati La modella1, Nudo2, ma anche Maria Silvia3 e Maternità4, che dimostrano come questa maniera di sentire ed esprimere la pittura non sia un vezzo, ma abbia radici profonde in tutta la formazione e il carattere dell’artista. La nostra preferenza va ai lavori citati, è vero, ma anche a quelle opere ove canta la luce oltre il colore o attraverso il colore (egli dà “forza ai colori - scrive Tonino Meloni - , esaltando la luce come fosse una struggente sinfonia”5), metamorfosi che troviamo in Paesaggio d’estate6, per esempio, Villa antica con giardino fiorito7 o nei vasi con fiori, dove la vaghezza delle pennellate, la quasi astrattezza delle figure, l’appena accennato, il non detto, si riassumono in un canto basso, che altro non è se non il lieve sussurro della poesia. Sono questi i punti sui quali è nostra intenzione soffermarci, nel tentativo di ricondurre a sintesi – anche se col rischio di più di una ripetizione – la ricerca e il cammino da lui effettuati in tanti anni: le radici da cui ha origine la 1 1975 - Olio su tela 70 x 100. 1975 - Olio su tela 70 x 100. 3 1962 – Olio su tela 60 x 80. 4 1962 – Olio su tela 60 x 80. 5 Ottavio Carboni. Antologica 1948 – 2003, pag. 62. D’ora in poi citeremo il Catalogo solo con Antologica. 6 1970 – Olio su tela 60 x 80. 7 1959 – Olio su tela 60 x 80. 2 44 sua pittura; il canto di una Natura nella quale sembra del tutto assente l’uomo e la contraddizione della caccia; la luce e le sue nebulose; la poesia della periferia; la bellezza della imperfezione... Quello che presentiamo è il nostro Carboni. La nostra è una libera, personalissima interpretazione di una parte della sua pittura. Se, poi, dovesse coincidere con quella di altri, meglio. Ottavio Carboni è nato a Sassari il 16 novembre 1927. Dal 1939 al 1942 ha frequentato l’atelier di Giuseppe Biasi. E’ andato a bottega, insomma, come hanno fatto tutti i grandi artisti. Ma aveva appena quindi anni quando ha deciso di abbandonare gli studi ed arruolarsi volontario nella Marina Militare, partecipando, suo malgrado, alla seconda Guerra Mondiale dal 1943 al 1945, e perdendovi un rene. Negli anni 1946 – 1952 è a Roma, dove frequenta corsi di Restauratore Artistico e, per pagarsi gli studi, “vivacchia a Cinecittà – scrive Enrico Porqueddu8 -, dove fa la comparsa in film che hanno segnato la storia del cinema italiano e internazionale come “Ladri di biciclette”9, “La carrozza d’oro”10 con Anna Magnani, “Cielo sulla palude”11 e il mitico “Quo Vadis”12. Gli anni dal 1953 al 1957 sono per lui assai intensi di lavoro e di apprendimento. A Sassari, studia decorazione pittorica con maestri come Filippo Figari e Stanis Dessy e consegue (1957) la Maturità Artistica a pieni voti, con relativo diploma di insegnante di Educazione Artistica e Disegno. In quanto a lavoro, “per conto dell’Istituto d’Arte e con il patrocinio della Sopraintendenza ai Beni Culturali, restaura alcuni dipinti al Museo Sanna di Sassari, la Cantoria di San Michele ad Alghero, gli altari della chiesa di Santa Maria in Betlemme, gli stemmi del Vescovo Monsignor Mazzotti e due pale d’altare del maestro di Perfugas in aiuto al Prof. Pagliani di Roma13”. Dal 1957 si può dire che ritorna a risiedere stabilmente a Sassari (nonché a Guspini), insegnando fino al 1993 e partecipando a una infinità di collettive in tutta Italia, oltre ad allestire, pure in Italia e all’Estero, numerose personali. Dal 1980 ha preso parte alla Giuria di molti concorsi d’Arte organizzati in Sardegna. Lungo sarebbe, pertanto, l’elenco dei Premi e dei Riconoscimenti ottenuti tra il 1953 ed oggi14. Non lo abbiamo mai incontrato di persona. Allorché, a Roma, abbiamo iniziato l’attività critico- artistica, dalla quale è scaturito, poi, Andare a quadri15 – il nostro primo lavoro in tal campo -, Carboni aveva lasciato già la Capitale. Attraverso le tante foto che si possono ammirare: in occasione del Primo Premio assegnatogli, per esempio, al Concorso regionale Città di Cagliari 1965; del Premio Marc’Aurelio, Roma 1975; del Premio Viareggio 1976; del Premio Dante Alighieri, Roma 1977; del Premio Città di Lecce 1978, tutte presenti nella citata Antologica; nonché di quelle con D. Fantini (1962), Pietro Annigoni (1962), Stanis Dessì (1962), Guttuso (1963), Aligi Sassu (1964), e le tante apparse su quotidiani e riviste: La Nazione Sarda (1963), Sassari Sera (1 maggio 1973), Il Giornale d’Italia (1997), Il Sassarese (30 novembre 2003), eccetera, il pittore ci appare un uomo di statura media e mingherlino, stempiato, dagli occhi penetranti, vivace, carico di energia. “Ottant’anni, uno dietro l’altro vissuti sempre... “armato” di pennelli. Li ha festeggiati il 16 novembre scorso. In famiglia con discrezione, com’è nel suo carattere schivo. Ottavio Carboni, classe 1927. Piccoletto, con il nasino alla Pinocchio e una testa ormai... deserta. Ma piena di momenti – scrive nel cappello 8 Il Sassarese, del 30 novembre 2003. del 1948, della coppia Vittorio De Sica/Cesare Zavattini; il film, di recente restaurato, è tratto dal romanzo di Luigi Bartolini e narra l’esperienza dolorosa di un disoccupato. Tra gli interpreti: Lamberto Maggiorani, Lianella Carell, Elena Altieri, Enzo Staiola. 10 (Le carosse d’or, 1952, di Jean Renoir, con Anna Magnani, Duncan Lamont, Paul Campbell, Odoardo Spadaro. 11 del 1949, di Augusto Genina, con Rubi D’Alma, Ines Orsini, Mauro Matteucci e Michele Malaspina. 12 Questo Quo vadis? (del 1951, tratto sempre dal romanzo di Sienkiewicz, già tradotto in film nei primi anni del Novecento) è di Mervyn LeRoy e ha come interpreti Peter Ustinov, Leo Genn, Deborah Kerr e Robert Taylor. 13 Ottavio Carboni. Antologica 1948 – 2003, pag. 69. 14 Ricordiamo soltanto - perché il primo - il Primo Premio al Concorso provinciale di pittura “Marina di Stintino” (1956) e due dei più recenti: Primo Premio al Concorso Nazionale di pittura estemporanea “Lucca e le sue mura” (1979) e il Primo Premio alla Biennale Internazionale d’Arte “Artisti per la pace”, La Spezia 1991. Per altro si rimanda al capitoletto Premi e riconoscimenti anch’esso, comunque, incompleto. 15 Edizioni Pomezia-Notizie, 1975. 9 45 Enrico Porqueddu all’intervista apparsa su Il Sassarese del 30 dicembre 2007 -, episodi, ricordi di personaggi che lo commuovono anche se non lo dà a vedere”. L’intervistatore lo definisce “La concretezza della fantasia” e “Un quindicenne in divisa”, rilevando che “L’incontro con Giuseppe Biasi è stato determinante per iniziare un percorso artistico che ancora continua” e che “L’otto settembre lo sorprende a Venezia: ‘La Patria in armi ha bisogno di voi’ e Ottavio finisce nella Repubblica Sociale”. Uomo d’arte ma anche d’azione, insomma, personaggio che già altrove, in altra intervista “Obiettivo Ottavio Carboni” – quasi certamente degli anni Cinquanta16 -, rilasciava battute al vetriolo nei confronti di suoi colleghi “neonati che, pure, si avviano tranquillamente verso l’età di Matusalemme” e, a domanda su coloro che “per spalmare i colori, usano tutto fuorché i pennelli”, rispondeva secco: “Evidentemente non li sanno adoperare”. L’unica cosa che gli si può rimproverare è un po’ di reticenza. All’insistenza dell’intervistatore di far nomi, rimane tetragono nel rifiuto, non volendo, confessa con ironia, inimicarsi nessuno e tanto meno uno che, oltre a dipingere, si diletta di critica, prima per se stesso (in positivo, naturalmente!) e poi per gli altri... Noi, col nostro carattere, ce lo saremmo senz’altro inimicato, e con gioia! La ricerca - La tecnica pittorica carboniana si dispiega tra figurativo ed astrattismo, generando una specie di perenne nebulosità, nella quale si sciolgono non solo erbe e fiori, ma qualsiasi oggetto: le barche, le case, i paesaggi e gli stessi esseri – animali e uomini nei casi rari in cui sono presenti -, in qualunque tempo o stagione. Un latte primordiale, un liquido amniotico multicolore, uno speciale nutrimento-base senza del quale, forse, l’arte di Ottavio Carboni neppure esisterebbe. Un elemento distintivo insomma. Così, Autunno nella campagna sassarese17, per esempio, acquista l’aspetto di un fantastico paesaggio sottomarino, con le case, in alto, sciabordate da limpide e calme acque e, in primo e secondo piano, masse mobili di alghe in cui a predominare sono il verde, il giallo e l’arancione, tutti in una più o meno ampia gradazione di colori. Una impressione, che trasforma la realtà solida (terreno, roccia) in sogno liquido, come avviene anche in Campagna sassarese18, dove l’agglomerato di case sembra venire investito da destra da una specie di tsunami. In entrambi i lavori, piccoli arbusti sfrondati in primo piano sono come fragili scheletri senza speranza sul punto di dissolversi, in un ambiente già abbandonato dall’uomo e che il tempo va riducendo in frantumi, in polvere, in un nuovo humus sul quale innestare una nuova creazione. La pittura di Carboni si dispiega in uno spazio da lui di continuo esplorato tra l’arte classica della figura ancora levigata e gli impressionisti, i macchiaioli, fino a sfiorare il vero e proprio astrattismo. In un pot-pourri di tecniche, insomma, inteso, naturalmente, in senso positivo, più come costante ricerca, scelta di motivi via via sempre più adatti a rappresentare il vissuto istantaneo, che come arida mescolanza di formule. Carboni non si lascia influenzare facilmente dai movimenti, ma se ne serve piegandoli alle sue necessità contingenti, pervenendo, così, a uno stile tutto suo, nel quale, anche quando sembra abbandonarsi “alla elaborazione sa non essere artificioso”19. Vista in questi termini, l’etichetta di impressionista è per lui riduttiva. Lo stesso Impressionismo non è un monolitico. Nato in Francia intorno al 1870, nel corso degli anni prese strade tutte particolari, influenzato dalla natura e dalla cultura dei vari artisti, nonché dalle regioni in cui gli stessi si trovavano a vivere ed operare. Carboni è legato all’Impressionismo italiano e, più ancora, a quello elaborato dai pittori sardi. Fin dall’origine nel Movimento c’è stato uno scambio tra l’arte del riprodurre la figura – la pittura in particolare – e la cultura letteraria in genere – narrativa e poesia. Nel Gruppo iniziale – via via sempre più numeroso -, che si riuniva al Caffé Guerbois di Parigi, accanto a pittori come Cézanne, Monet, Renoir, Sisley, Bazille, Degas, Pizzarro, c’era, per esempio, lo scrittore giornalista e romanziere Émile Zola (e anche musicisti, come Maître20). Ebbene, per l’Impressionismo italiano il percorso è stato simile, come pure per la frangia operante in Sardegna. Ne è un esempio proprio Carboni, che accanto a pittori come Filippo Figari, Giuseppe Biasi, Stanis Dessy, eccetera, non mancò di frequentare, tra gli anni 1939 – 1942, il poeta Salvatore Ruju. Così ha ragione Wally Paris21 allorché avvicina Carboni alla musica di Paul Hindemith e Ferruccio Busoni, come segno di mescolanze diverse e come aderenza, non voluta, del Nostro, ma epidermicamente sentita, ai canoni fondamentali del Movimento, che è stato, fin dall’origine, mescolanza di culture. Carboni deve essere pittore che usa lo Studio solo in fase di ritocco e completamento dell’opera. Egli, come tutti gli impressionisti, ama dipingere dal vivo, all’aperto – partecipa a una infinità di estemporanee -, dove i fenomeni della Natura non sono offuscati ed elaborati dal filtro del ricordo. Sotto il cielo al naturale, nello svolgersi delle diverse stagioni, gli accidenti investono e rivestono direttamente l’artista, il quale s’imbeve di essi e ad essi trasmette i propri stati d’animo. Simbiosi perfetta, cioè, tra esterno e intimo. Il pittore dipinge la realtà, o, almeno, pensa di dipingere ciò che si svolge sotto i propri occhi, ma, in vero, il risultato è solo ciò che più gli urge dentro in quel preciso istante. Vuol dire che, senza volerlo, interpreta. 16 L’Informatore, senza data. 1972 – Olio su tela 60 x 80. 18 1960 – Olio su tela 60 x 80. 19 A. M., in Nuova Sardegna, 5 giugno 1958. 20 E’ uno dei personaggi che appaiono ne Lo studio del pittore, di Edouard Manet e che viene definito, a pag. 228, vol. VIII, della Storia dell’Arte (Istituto De Agostini, Novara 1978) “pianista e critico”. 21 Wally Paris – Ottavio Carboni o la pittura come espressione della musica del Novecento, in Antologica, già cit, alle pagine 10 e 11. 17 46 L’essenza del perfetto impressionista è il reale che si catapulta nel suo intimo, che si mescola al suo interiore e gli fa vedere tutto colorato e frammentato in ragione del suo momentaneo onirismo. E ciò ch’è del momento, non sarà dell’attimo successivo. L’evoluzione è rapida come il trascorrere del tempo. Così possiamo avere, dello stesso pittore, più opere del medesimo personaggio, del medesimo paesaggio, del medesimo oggetto, ma che rendono sulla tela prospettive, ampiezze o campi visivi, particolari e, principalmente, differenti varietà di colori perché visti in attimi diversi. Come esempio, prendiamo due lavori, entrambi intitolati Campagna d’inverno22, che nell’Antologica sono distinti con i numeri 81 e 82. Sono ripresi dallo stesso punto, stessa la prospettiva, stesso il formato 60 x 80. Ma ci sono differenze. Qualche particolare dell’uno è sparito nell’altro, forse inghiottito da quella specie di galassia in cui il paesaggio è immerso, e alcune spatolate di bianco accennano alla luce solare, leggermente spostata in senso orario, in una scansione di vero, come se si assistesse al trascorrere del tempo stando anche noi accanto al pittore a guardare lo stesso punto, mentre la terra continua il suo giro intorno al sole, modificando e spostando via via le ombre e le luci. L’impressionista è artista che coglie sensazioni d’attimi che possono, ma non debbono essere necessariamente visive. Del visivo, però, hanno certamente l’impulso. In ogni modo, vanno oltre, fino a giungere a ciò che vien detto “musica d’uso” (Hindemith) o “durata pura” (Bergson), che con la pittura hanno attinenza solo perché questa non è la pedissequa riproduzione del continuo vissuto – fatta assai bene dalla fotografia -, ma dell’interpretazione in relazione a rigurgiti interiori. L’aspetto sfumato, quasi astratto, dell’Impressionismo, è da ascriversi proprio al fenomeno del continuo e scambievole travaso: dalla Natura agli occhi e al cuore dell’artista e, da questi, nuovamente alla Natura. Ciò e come Ottavio Carboni vede, non è, non può essere, la mia casa, il mio paesaggio, l’oggetto, il cielo... Che la diversità delle tinte sia lo specchio momentaneo del suo intimo sentire, lo dimostrano anche i vari “periodi” in cui qualcuno ha tentato di dividere la sua pittura, stadi nei quali, di volta in volta, si trova a dominare un colore o, perfino, la semplice sua sfumatura. Per noi non si tratta di veri e propri stacchi, cioè di serie assai consistenti di opere dello stesso taglio, intensità e cromia, come, per intenderci, nei famosi e già citati “periodi” picassiani. In Ottavio Carboni abbiamo solo momenti - pause pure fluttuanti, intermittenti – nei quali uno o più colori predominano su altri o si alternano. Pezzi di una certa intensità e di una particolare gamma coloristica, certo, ma non tali da poterli accostare ad altri e formar le serie. A unirli, questi lavori, è sì l’intensità e la quasi unicità delle tinte, ma non la scelta tecnica, né la volontà seriale. Enzo Espa23, nella Presentazione all’Antologica, ne fa, comunque, un puntiglioso elenco, non soltanto dei periodi (“Periodo verde, periodo grigio, periodo rosa, periodo bruno, periodo sfumato, rosa puntinato”), ma anche della sfumatura del colore dominante (“Bruno grigio, bruno sfumato, bruno rosa, blu bianco, bianco-paesaggio-invernale, rosa puntinato...”). Una circolarità. Il rosa puntinato e, ancora, il rosa puntinato... Ma, pure a condividerli, sono sempre – ripetiamo – periodi assai brevi (che, a quel che si dice24, si esaurisce, ciascuno, al massimo entro la durata di un anno) che si alternano, o si accavallano. L’altalenare di chi cerca, non di chi ha già imboccato la strada maestra che conduce alla meta; è il tormento di chi è ancora alterato dalle interne passioni, non di chi le domina. Forse, per questo ha ragione Giovanni Fadda25 (ma non solo) quando afferma che Ottavio Carboni “potrebbe essere definito un impressionista romantico”. L’animo tormentato è quasi nota dominante dei romantici. Sennonché, affiora – o ci sembra che affiori – una qualche contraddizione tra gli estimatori del pittore. Perché qualche pagina dopo Fadda, Wally Paris lo accosta – come già ricordato – alla “musica d’uso”, la quale – si faccia attenzione – “era in opposizione all’estetismo romantico”. Pur essendoci differenza tra romanticismo puro e il suo estetismo, la verità sta in ciò che noi succintamente abbiamo già indicato, e né Fadda, né Paris, allora, sono in contraddizione: Carboni non ha mai navigato nelle acque tranquille di un Movimento, ma in quelle perigliose della ricerca continua e forse neppure oggi, sebbene superati gli ottanta anni, ne scorge il difficile e lontano approdo. La Natura e la quasi assenza dell’uomo - Barche26: un’autentica selva di barche (tanto che le acque si vedono a sprazzi); di case sulla riva; vari dossi di colline sullo sfondo; il cielo al di sopra, ridente. Natura paesaggistica, ma non un essere umano, non un pesce, un uccello: una carne viva, cioè. Non sappiamo quante siano le tele che hanno come soggetto Guspini. Ci sembrano abbastanza, un segno d’amore verso quel paese, non c’è dubbio. La Chiesa di Guspini27: la piazzetta (o semplice strada?), il piccolo sagrato, il frontale, il campanile, le case... Ma non un uomo e neppure un cane. Ecco Scorcio guspinese28: anche qui, case e case (forse la 22 Ambedue del 1978 e misura 60 x 80. Enzo Espa: La retrospettiva di Ottaviano Carboni. Una rassegna d’arte in uno spazio-ambiente fuori del tempo – In Antologica, alle pagine 7 – 9. 24 E’ ancora Enzo Espa. 25 Assessore alla Cultura del Comune di Sassari, in Antologica..., pag. 4. 26 Il lavoro è apparso in bianco e nero su L’Unione Sarda del 24 febbraio 1968. 27 In bianco e nero sul Quotidiano Sardo del 16 Giugno 1958. 28 In bianco e nero nella rubrica “Gazzettino culturale” de L’Unità. 23 47 vista dell’intero paese), al centro la chiesa e la vetta del campanile, le colline di sfondo e il cielo. Anche qui Natura paesaggistica, ma neppure un essere vivo. Siamo nel mezzo del giorno e gli abitanti, o sono tappati nelle proprie abitazioni, o tutti al ...lontano mare, a tuffarsi in splendide acque! Ancora Case di Guspini29: completamente abbandonate? Guspini: case del centro storico30: anche qui non ci sono esseri viventi e porte e finestre in primo piano – quelle che si distinguono meglio – sono ermeticamente chiuse... Lasciamo Guspini, andiamo altrove, chissà! Ecco le case di campagna di un Paesaggio invernale31: sono deserte, ma forse perché fa freddo, tutto è spoglio e c’è pure la spennellata di neve. Anche in Sera d’inverno a Baddi Manna32 la popolazione è sparita, sta forse ermeticamente chiusa in quelle case divorate dagli umidori e dalle ombre che si addensano... Quanti saranno i paesaggi dipinti da Ottavio Carboni? Forse migliaia e gli unici umani che ci è dato incontrare sono le ombre dei pescatori di tonno33 e altre due ombre di pescatori che stendono le reti34, forse perché, le reti, non hanno virtù e potere di stendersi da sole! La nostra non vuol essere ironia, ma esagerazione, come la zummata per mettere a fuoco ed evidenziare un particolare. Un particolare, però, che nella pittura di Ottavio Carboni è regola, o quasi. Vuol essere la messa in evidenza di come il pittore eviti maniacalmente, accuratamente, di inserire nei suoi paesaggi persone e animali; di come egli ponga attenzione massima alla scena e alle cose, in cui trova umori e sensazioni e nelle quali riversa passioni. A lui non interessa eccessivamente neppure la prospettiva, né verità formali e coloristiche (…). http://www.bibliotecaresistente.tk – Contro ogni forma di silenzio colpevole: la lotta Natascia Prinzivalli Sono Sono gli zigomi austeri di mia nonna la bellezza romana di mia madre lo stupore di mia figlia un rossetto sbavato il nero che trucca un desiderio morente una smagliatura di rete. Sono i miei libri i pensieri apocrifi la solitudine sul ciglio del letto una eco di caverna. Noia che uccide l’enfasi Tedio vittorioso Cannibale ruminatrice Sono una Parsifal Sono Ginevra Genevieve Genoveffa Non ducor duco Moschea di El Riferc Una strada di Roma 29 Ancora in bianco e nero, ne La Nuova Sardegna, del 1970. 1959 – Olio su tela 70 x 100. 31 1977 – Olio su tela 60 x 80. 32 1959 – Olio su tela 70 x 100. 33 Pescatori di tonno, 1958 – Olio su tela 60 x 80. 34 Stesura delle reti, 1965 – Olio su tela 60 x 80. 30 48 Missionaria Geografa Metamorfica Gesuitica inquisitrice Pagana inquisita Il desiderio di un uomo Santa Cortigiana Demiurgica La tua febbre di conquista Violentatrice di amori Memoria violentata Cieca dogmatica Ingenua cartesiana Strega all’indice Paladina in terra santa Arpedonapta del Nilo Pellegrina per paura Eremita per necessità Lanzichenecca Elegante epicurea Impudicamente casta Schiava di una lusinga di carne Lavandaia parigina Geisha del Celeste Impero Piacere di bordello La tua mancanza nei miei interspazi Sono l’aguzzina che si crocefigge. Giuseppe Giuntoli Io la nuvola Il vento mi porta La’ dov’e’ l’infinito ; Cresce in me il desiderio di conoscere chi mi tiene Chi sono , dove vado , che faro’ ? Io povera nuvola alla ricerca del calore , quando mi sciogliero’ , quanto vapore ancora dovro’ raccogliere perche’ in me diventi goccia di vita ? David Ismaele Bramo La mia bramosia d'amore per te non ha tempo. Ho atteso anni per averti,ma non sono mai passati. Nel momento in cui sei stata mia,tutto è sparito. Avrei potuto aspettare un eternità,e poi un altra ancora,se avessi saputo che alla fine arrivavi. Il tuo cuore un secondo della tua anima,averla potuta sfiorare è stato sublime,luce d'eternità mi abbracciano,ed io ho la gioia nel cuore che rifugge il tempo e lo spazio attorno a me. Amo la vita che si esprime nell abbandono dell'altro con la paura in una mano ed il cuore nell'altra. Pensieri Se pensavo Ma non pensavo Se sapevo Ma non sapevo 49 Non voglio sapere. Voglio farmi travolgere,e quando smetto di girare,capire che sto solo riprendendo fiato per ricominciare. Non ho le parole. Il tuo silenzio. L'indifferenza. sono la cosa più bella. dopo la naturalezza della morte nel bruco,e degli occhi nuovi,con cui la farfalla guarda il mondo. A volte la morte del cuore è la rinascita dell'anima. Consigliamo vivamente ai Lettori il dialogo: periodico di cultura, politica, dialogo interreligioso dell'Irpinia - Direttore: Giovanni Sarubbi Serena Milisenna LABIRINTI DELLA MIA STORIA Vivo questo tempo. E ne sono lo specchio delirante di delusioni e sogni. La mia anima m'accompagna in questo tintinnante oscillare. Di sole e di pioggia. Non ho nulla. Se non l'essere, il vivere, la memoria, la speranza. Se non questo mio scrivere adesso di cristallo e sangue. Non so nulla. Ma del passato so tutto: la mia vita è intessuta intorno ai visi, ai racconti, alle morti, alle nascite di nomi che mi hanno preceduto. Che negli abissi del ricordo sono simulacro della mia Storia. Tiziana Liverani Madre del Mondo nuda ti porgo l'incavo delle mie mani e l'invisibile luce del mio cuore Giuseppe Savazzi Le promesse sono collegate allo scopo La protezione, la sicurezza, la credibilità e l’autentico valore di un prodotto non dipendono dal suo costo, ma dalla stabilità e dalla sicurezza del produttore. Il valore della garanzia del produttore è pari alla forza della ditta. Non importa ciò che l’azienda ti promette quando acquisti il prodotto; se essa non esisterà più, quelle promesse saranno nulle, vuote, ed inutili. Così, la cosa più importante non è la promessa, ma colui che promette. Forse hai comperato un’auto che non è più in fabbricazione. Non solo la fabbrica ha smesso di costruire quel modello, ma ha anche smesso di produrre i ricambi. Ora l’unico posto in cui potrai trovare i ricambi è dallo sfasciacarrozze. Le garanzie non significano niente quando la ditta non può più mantenere le promesse. Le promesse e le garanzie vengono formulate per produrre, mantenere e sostenere lo scopo del prodotto. Quando una fabbrica dà una garanzia, non controlla prima il tuo ambiente, le tue condizioni o cosa sta accadendo nel tuo Stato. Il suo unico interesse è che ciò che hai acquistato rientri nei termini della garanzia. Ogni altra condizione non influenza il contenuto della garanzia. Le garanzie vengono elaborate dalla prospettiva del produttore, non del consumatore. Se sta piovendo, o se sta arrivando un uragano, o se il cane è appena stato ucciso, o se hai appena perso il lavoro, la garanzia è ancora 50 valida, a patto che siano rispettati i termini specificati. Al produttore non interessa ciò che sta accadendo nella tua vita. Se ciò che hai acquistato rientra nei termini della garanzia, ti spedirà i ricambi. Il tuo ambiente non è parte delle sue considerazioni. Le promesse di Dio per noi funzionano allo stesso modo. Il loro valore si basa sulla stabilità e sulla credibilità di Dio. Diversamente da molti produttori, Egli non dichiarerà mai fallimento. Terrà fede alle sue promesse in eterno, perché sono state fatte per mantenere, sostenere e produrre i Suoi scopi per le nostre vite individuali e per l’umanità in generale. Le Sue promesse non possono fallire perché i Suoi scopi prevalgono sempre. Come per le garanzie dei prodotti le promesse di Dio non dipendono dal nostro ambiente. Le condizioni della nostra vita non influenzano la Sua capacità di mantenerle. Quello a cui Dio tiene di più è la nostra relazione con Lui e la nostra fedeltà nell’aderire alle Sue richieste. Non dovremmo permettere alle circostanze di influenzare le Sue promesse. Egli vuole che noi abbiamo fede nella Sua intenzione e nella Sua capacità di mantenere le Sue promesse, qualsiasi cosa stia accadendo nelle nostre vite. Non serve che noi aiutiamo Dio ad onorate i Suoi impegni. Abramo e Sara lo impararono quando lei, trascorsi venticinque anni dalla promessa del dono di un figlio da parte di Dio, divenne impaziente. Non era ancora diventata madre, così pensò lo scopo facendo concepire un figlio da Abramo e Agar, la sua schiava. L’Eterno però, non gradì il tentativo di Sara di assisterLo e, quando nacque Ismaele, Dio non lo riconobbe quale figlio della promessa, non essendo nato da Sara. “Or quello (il figlio di Abramo) che nacque dalla serva fu venerato secondo la carne, ma quello che nacque dalla libera fu generato in virtù della promessa” (Galati 4:23). I tuoi piani non cambiano e non possono cambiare gli scopi di Dio più dei piani di Sara. Non importa quanto tu voglia l’approvazione di Dio nel realizzare le Sue promesse secondo i tuoi piani; Dio sosterrà solo il Suo scopo. Dio si è completamente impegnato a sostenerti se sei all’interno dei Suoi scopi, ma se sei fuori dimenticatene. Le sue promesse sono più potenti dei tuoi piani. Il piano di Sara non faceva parte dello scopo di Dio, così Egli non lo sostenne. Le Sue promesse vanno di pari passo con il Suo scopo, perché tutte le garanzie sono correlate al fine prioritario del produttore. Così vediamo che lo scopo precede sempre ed influenza la funzione, il progetto, il potenziale, la natura e le capacità intrinseche di un prodotto. Predetermina anche le richieste ed i compiti che il Creatore chiederà ad un prodotto e le dotazioni da lui fornite a tale scopo. Infine è una priorità rispetto alle promesse, in quanto le promesse vengono fatte per consentire al prodotto di realizzare l’intento originale del Creatore. Domenico Turco Il pane della libertà Petali di fiori, rugiada e sogni: nient’altro pasto ci sarà concesso nel freddo inverno che trascorreremo in questo campo di concentramento. Resi pazzi dal digiuno forzato trasformiamo in pietanze immaginarie le cose quotidiane: la luna è marzapane, cioccolato il ferro delle catene, e zucchero a velo la neve che fascia di gelo i piedi avvolti a malapena da scarpe consumate. Ma il cibo che qui ci manca di più è il pane della libertà, negato a tutti i prigionieri della Terra, agli innocenti vinti dalle tenebre, devastati da una fame ancestrale. Generata Su una Nuvola Lontano lontano c’è una ragazza con fiori colorati tra i capelli, la misteriosa regina dei sogni che strega la mente in volo nel tempo come stelle cadenti a San Lorenzo… Lei vive di polline e rugiada fresca raccolta dalle mani delle fate, vestita di raggi d’arcobaleno 51 danza sotto la luce del mattino, seta che avvolge l’aria e la accarezza gentilmente, gentilmente svelando i segreti dell’infinito all’Anima, figlia della Bellezza inalterabile. Ed io, nato dal fango originario, divento statua d’oro a mezzogiorno quando le acque ambrate del paradiso invadono le terre del crepuscolo e un nuovo giorno appare all’orizzonte illuminando di splendore il mondo. Il cuore s’incatena nel tormento se nel gioco dei colori riemerge lo spettro di colei che spicca il volo, la più bella di tutte, la radiosa fanciulla generata da una nuvola… L’ uomo libero L’Uomo Libero non ha confini, il suo limite è l’infinito, le sue vie sono sempre aperte come le porte di un tempio invisibile – è lui, il sacerdote dell’Ignoto… L’Uomo Libero spregia le catene ma non si lascia travolgere dalla lotta, il suo campo di battaglia è la vita, la prima preoccupazione, l’Amore. L’Uomo Libero è vento: accende le ceneri addormentate, spettina le foglie degli alberi, grida dall’alba del sole al tramonto della luna per ricordare al mondo una sola parola: libertà! “La sostanziale irriducibilità della vita alla ragione non implica tuttavia la rinuncia ad indagare le misteriose ragioni che la governano.” Domenico Turco ( Canicattì –AG- 1976) Poeta-filosofo, saggista e scrittore, autore di 5 libri pubblicati dal 1994 al 2006. Collabora come critico, editor, operatore culturale e giornalista "free lance" con quotidiani, periodici, riviste, case editrici e siti Internet nazionali e internazionali. Ulteriori su: http://www.mondo3.it - http://rossoenero.myblog.it Sibilla Aleramo Chiudo il tuo libro, snodo le mie trecce, o cuor selvaggio, musico cuore… con la tua vita intera sei nei miei canti come un addio a me. 52 Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi singhiozzando, senza mai vederci, né mai saperci, con notturni occhi. Or nei tuoi canti la tua vita intera è come un addio a me. Cuor selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie trecce snodo. (Sibilla Aleramo a Dino Campana, Mugello, 25-7-1916) Dino Campana In un momento Sono sfiorite le rose I petali caduti Perché io non potevo dimenticare le rose Le cercavamo insieme Abbiamo trovato delle rose Erano le sue rose erano le mie rose Questo viaggio chiamavamo amore Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose Che brillavano un momento al sole del mattino Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi Le rose che non erano le nostre rose Le mie rose le sue rose. ( Dino Campana a Sibilla Aleramo, 1917) Vito Maltese Ci sono Angeli fermi al metrò, in attesa di una corsa che vegli sul desiderio, e pensi che il mondo sia follia vestiti di piacere che imbracano cavalli, ed io in attesa del tuo risveglio ammirato dal fisico estasiante, piango felice come se vedessi una donna in bilico su di una corda da circo, e penso che sparirò... dopo aver regalato emozioni di un tempo che parli del cielo, cancellando ipocrisie in fremiti partorenze. Costantino Liquori Tu suoni alla porta La porta trattiene il respiro. Tu suoni alla porta, io ti vengo ad aprire. La mia mano destra accompagna la porta. Tu hai la mano sinistra occupata, una valigia. Ci guardiamo, tu non dici niente. Appari presso di me con un collo troppo lungo e due spalle troppo esili. Cerco i tuoi occhi. 53 Stai per fare un passo avanti, dunque lo fai. Chissà per quale motivo mi viene in mente che dietro potresti avere una coda di gallo. Potresti avere un cigno sgozzato nella valigia, potrebbe essere un dono per me. Ora poserai il cappotto, oppure senza fare nulla tornerai indietro, o piuttosto aprirai quella bocca nascosta dalla quale usciranno arance invece che parole. Posi la valigia, lo fai senza piegarti, senza cambiare il ritmo del tuo mistero. Quando hai suonato sapevo il tuo nome e tutto il resto, ora ti guardo e devo pensarci bene. Ti stai per liberare del cappotto, non dici niente. Adesso sarebbe del tutto naturale se la tua valigia si aprisse da sola, solamente comandata da un’esigenza. Ne uscirebbe una sola stanza con nel mezzo una sola sedia e in alto una sola finestra, con un solo raggio di sole. In un angolo remoto un sognatore orologio. Cosa hai intenzione di fare adesso? Entrerai più in fondo e prenderai possesso dei sogni ancora a disposizione? Vorrai senz’altro lavarti le mani, ed io potrò finalmente dirti. No, l’attesa non si rompe, ed io devo ancora rispondermi a proposito di te, che per il momento non accenni ad andare avanti. Tu mi osservi da un universo ritagliato e incollato, universo che tende al marrone, o meglio, il marrone tiene insieme codesto universo. Alle tue spalle, dietro di te più nitida e lontana, in prospettiva, una teoria di costruzioni con finestre fitte, tante, tutte uguali. Sulla strada un uomo tende le braccia ad una donna costretta a subire il prolungamento della sua stessa testa. Ma c’è anche un secondo uomo che vorrebbe prenderla con sé. Per strapparle le budella e sputarle via. A fianco, a sinistra della contesa, una figura in negativo guarda un punto lontano e non dice. Forse è di te che si tratta. Immediatamente sotto, un insetto pare sbocciare da un volto più grande, un viso che gli fa da tana, una faccia d’argilla. E’ un pensiero che ti rientra addosso dal plesso solare. E’ una presentazione come un’altra, un modo di farsi ricevere, un sistema per mostrarti a me. Un rebus. Avanzi nella penombra, emerge il tuo viso. Mi appari disegnata su di un pallidissimo celeste, un celeste raschiato via nel vano tentativo di consumarlo, di estinguerlo. Un celeste anziano. La bocca tua un accennato rombo, dipinto giusto perché ci deve stare, giusto perché è giusto che ci si metta. Un rombo che adesso è muto, stretto e intenzionato a non aprirsi, almeno per il momento. Nel celeste sbiadito e corroso hai una moneta per orecchino, e la collana si compone di altre monete con altrettante facce messe a confronto con la tua. Tante copie di te. Il filo bianco che tiene insieme il tuo viso si immerge nel corpo che non si vede, che non trova la luce che abbisogna. Ti trovi già, senza aver camminato, ai margini della stanza che promette. Ma che ancora non regala luce piena. E’ lì, ai margini del cambiamento di stagione, che si rivela per un lungo attimo la donna fiore. Linee rosa, linee blu di Prussica. Questi sono i contorni che la finestra, ancora lontana, mi rivela per dimostrare la sua commozione nel riceverti. La donna fiore un folletto, la donna fiore dura ben poco. Ti guardo meglio Ti osservo di più e non riesci a diventare un fiore a me familiare, non so ancora distinguere. Non ti decidi. Adesso avverrà l’esplosione, ti solleverà e, invece di scagliarti, ti terrà sospesa in alto, inclinata ad arco. Nel fumo soltanto un uccello impassibile osserverà la tua sospensione, a sorvegliare che tu non ricada, che la tua scomoda situazione si tramuti in disegno e ti condanni. Non c’è verso di decifrarti, non c’è verso di chiarire. Il qualcosa che ti ha seguito fin qui non vuole farsi avanti, resta timido e si dimostra garbato dietro di te. Il gonfio e verde mostro ha un pallido sfondo di cartone attaccato al sedere. Non avanza, aspetta l’evolversi della scena, che io dimostri almeno piacere nel riceverlo. Immenso nella sua mole e leggero al tempo stesso. La sua una terracotta di un bel verde davvero. La sua una testa metà di toro, l’altra metà appartiene all’elefante. Le corna e le zanne sono bianche, gli occhi, due fori neri spaventosi e profondi, hanno qualcosa dell’animale domestico. La terrificante mascella non è altro che un origamo di cartone. A piacere si può scegliere il verso del mostro, si può anche unire il davanti con il didietro. La proboscide, all’occorrenza, può partire dal sedere e andare a congiungersi alla bocca, diventare coda. Sta di fatto che il mostro domestico è tutto lì, da qualsiasi parte si cominci a considerarlo. Sta di fatto che tu l’hai portato. Cos’altro hai lì con te, cosa vuole significare tutto questo? Sei nella stanza premiata dalla finestra in piena luce. Forse vuoi sederti, hai ancora il cappotto. Ma il buio improvviso ti riassale, ti afferra, vuole cambiarti fisionomia. Tu non fai resistenza. La tua metamorfosi assume l’aspetto di un polmone canceroso, adesso possiedi una testa di varano. Il braccio di cobra accarezza affettuoso una forma composta di pezzi che potrebbero essere i tuoi. Ogni particolare si allontana e diventa difficoltoso il riconoscerti. 54 Stregonerie. Ti impregni nuovamente di colore, di molto più alta, accetti e ingoi la luce. Un grande e vaporoso mantello rosso, rosso di piume al posto di un comune cappotto, per farti regina, per elevarti a sposa. Sopra il mantello la testa di civetta, una civetta dagli occhi gelidi e cattivi,come di solito non si addice ad una sposa in carne ed ossa. Con la nuova testa sei altera, finalmente più forte. Non hai alcuna pietà per la tua parte scacciata, che si attarda ancora ai tuoi piedi, che si ostina e piange. Non accetta di essere di molto più brutta e fragile della madre sua. Tu sei l’atroce sposa e fai la prova generale dei tuoi atteggiamenti. Potrei metterti a disposizione una frase esca, per darti l’opportunità. Vorrei individuare il costruttivo nel tuo silenzio enigmatico. Ora è la volta del Papa e dell’antipapa. Ora hai una testa di cavallo, hai due teste di cavallo che si stanno davanti. La prima con tanto di armatura e grandiosa nel suo aspetto, servita e amata quanto le si addice. La seconda nel suo logoro vestito rosso stracciato e vinto, ma doppiamente pericolosa nella sua sottomissione. Ambedue si gettano in faccia quello che posseggono di regale. Tu mi osservi. Si è rotto il ghiaccio oppure stai per andartene di nuovo. Se posso ardire vorrei la tua idea sul silenzio. Sei sul divano marrone. Il muro, lo spigolo, il chiaroscuro, il palmo cubista della tua mano. Il concavo, l’orecchino e la profondità, il pollice, l’ornamento e la solidità. Il muscolo, il tendine, le dita della mano e della candela l’immagine ricorrente. La piramide e il recipiente, la proposta trapezoidale. Il tuo laboratorio di falegname. Il tuo negozio di bambole. Ti riproponi, continuamente mi costringi. Accanto a te un frutto aperto, la sua polpa rossa e lacerata. Te come il frutto, il suo dividersi, il suo miracolarsi in viva carne. Tu e i miracoli, uniti e inseparabili. Pieghi la testa all’indietro, questo il momento cruciale, questa la chiave del rebus, un’incrinatura nella tua ermeticità. L’occasione di saperti con dettagli maggiori. La testa all’indietro. Qual è il movimento seguente? Sul tuo viso un intero paesaggio. Neve e rocce, tetti e camini, scalini e vento, laggiù alberi secolari, colline e colline, echi e sogni, una finestra. Sanatorio. La mia casa sembra già al corrente, ma io fatico a capire. Ora ti espandi fino ad abbracciare una figura che si forma sul momento, approfittando degli spazi che tu stessa lasci vuoti. La circondi, fai in modo che il suo colore sia digerito dal tuo. E’ un lungo e totale baciarsi senza che nessuno spazio resti escluso. Dove sei tu, dove il tuo rosso? E’ turgido e immerso nel bacio. Si scorge solamente un tuo piede, rimasto nel suo colore d’origine. Un piede che all’amplesso arrendersi non vuole. La tua entrata. Vado con gli occhi al pavimento. La valigia ti è affianco e tu sei intenta ad estrarre. Ben venga un’azione precisa. Estrai e posi delicatamente, sistemi sul pavimento quello che la valigia ti vuole dare. Gesti da rituale. Affondi la mano fino quasi a far scomparire il gomito, tiri su, estrai e posi, tiri su ancora, ancora estrai, posi. Ecco la donna foglia, la donna libro e la donna preghiera. Segue la donna lillà, la donna lievito e la donna sussurro. Inoltre la donna acqua, la donna profumo e la donna esternata. Segue la donna anagramma. Esce la donna ricamo, la donna rifiuto e la donna girasole. Posi la donna lucertola, la donna sirena e la donna troppo alta. Lentamente la donna erba, la donna gravida e la donna bambina. Distribuisci anche la donna leonessa, la donna indaffarata e la donna hollywoodiana. Vuoi grattarti il naso ma continui il flusso, si fa strada un tic nervoso. Una dopo l’altra la donna incarico e la donna sorriso, la donna sonno e la donna martello, la donna inchiostro e la donna che va via. La donna che mai più si ripresenta, la donna offesa e la donna derisa. La donna guerrigliera, la donna buongiorno e la donna speranzosa sono le ultime ad uscire dalla valigia. Una folla sul pavimento. Io vorrei osare un chiarimento. Io che sperimento obiezioni. Sei senza cappotto, sei con le gambe accavallate e ti rivolgi a me, limpida e inesorabile. Costantino Liquori nasce a Roma nel 1952, Artista poliedrico. Collabora a diverse sceneggiature cinematografiche. Realizza più di 60 documentari per la rete 3 della Rai. Regista di studio dei seguenti programmi: “Tortuga”, “L’Altra Edicola”, “Parola di medico”, “Edicola medica”. Dal 1997 si interessa alla fotografia e all’elaborazione digitale.Pubblica il libro “Orango patata” con la casa editrice “Sottotraccia”.Consulente della società Tecnark Italia per mostre ed eventi culturali, firma i seguenti progetti: “La gente Inuit”, “On the way” ( le invenzioni più importanti dell’uomo dalla nascita di cristo fino ad oggi), “Il Tevere e l’acqua sua”, “L’acqua e le sue storie”, “Capri fra 800 e 900”. Nel 2008 pubblica i libri “Caimani” e “Etilico punto it”. Contatti:[email protected] 55 III Festival Parola nel mondo Vorto en la mondo, Palavra no mundo, Palabra en el Mundo, Worte in der Welt, Rimayninchi llapan llaqtapi, Paraulas in su Mundu, Cuvant in Lume III, Parole dans le Monde, Word in the world Dal 14 al 17 maggio 2009 La Pace, il pane e l’acqua di ogni giorno Ai poeti che pure si ritengono buoni organizzatori, gente di coerenza e azione; ai professori, col compito di dare luce alle menti; ai giornalisti, quelli dalle verità che non zittiscono, agli operatori culturali, quelli che fanno fiorire i sogni. Cinque esperienze di Palabra en el Mundo valgono una storia, cinque volte abbiamo convocato per celebrare la poesia e leggendo come atto di solidarietà, sia col Festival Internazionale di Poesia dell’ Habana, sia col Congresso Brasiliano di Poesia. E la risposta è stata sempre più dello sperato, comunque sempre meno del possibile. Con la presente convochiamo tutti i poeti, professori, giornalisti e operatori culturali, artisti in generale, affinché si sommino all’ iniziativa: adesso Parola Nel Mondo è un Festival di Poesia che si svolgerà in ogni luogo dove incontreremo riscontro. Diciamo che la pace mondiale è possibile se raggiungeremo l’ obiettivo di unire le nostre voci, diciamo che l’acqua e la terra possono e devono essere una risorsa di tutti, diciamo che il futuro dipende dai nostri atti di presenza, diciamo che la poesia degli atti può più che i cannoni, diciamo che la civilizzazione tutta dipende da quanto saranno più forti la parola e l’amore per la vita dell’ecatombe di armi o i crolli in borsa. Diciamo poesia e diciamo di unire le nostre voci in coro, diciamo poesia e con questa illuminiamo la vita, alleggeriamo un cammino, indichiamo i risultati, abbracciamo la causa di cantare all’ alba, all’ erba che cresce, al fiore mentre sboccia, diciamo poesia per carezzare, per sussurrare, per cantare, per gridare e, in ognuno di questi gesti, diciamo Cambiare la Vita. Per queste ragioni d’amore e poesia invitiamo ad organizzare Palabra in ogni luogo: scuola, teatro, caffè letterario, ristorante, anfiteatro, spiaggia, parco, piazza, strada, case, circoli culturali, stazioni radio o tv, salone di conferenze, centri commerciali, stazioni…ovunque sia impossibile. Una o tante letture di poesia, che unite ad altre in diversi punti del pianeta daranno forma al Festival di Poesia di Parola nel Mondo. Le idee che vogliamo mettere in movimento partono dalla poesia, e questa va sempre più in là del semplice leggere poesia. Pretendiamo che questo Festival sia luogo d’ incontro, un invito inesorabile, una comunione tra quelli che scrivono e quelli che vivono. Un’ impronta nell’anima, un metterci d’accordo nel necessario, ciò che non ha nome, un momento per caricare le nostre armi di futuro. Il III Festival Parola nel Mondo si svolgerà, in ogni luogo che vorrà accogliere l’invito, dal 14 al 17 maggio 2009. Crediamo che si possa, crediamo che si debba e soprattutto vogliamo portare poesia da leggere agli studenti; che pure loro la leggano, e che esprimano le emozioni provate con disegni, scritti, ogni forma d’arte. E che questi risultati vengano scambiati con altre scuole della stessa zona o diversa, poco importa. O evidenziati in mostre estemporanee. Questo è invito del Progetto Culturale SUR Internazionale (Proyecto Cultural SUR Internacional) e della rivista di Poesia Isla Negra, destinato, in ogni luogo, a coloro che possono fare proprio il lavorare in comune accordo con diverse entità culturali. Lo lasciamo nelle vostre mani, affinché si sommino cuori e forze. Perché la poesia sia qualcosa in più che una parola. 56 Gabriel Impaglione Tito Alvarado Contatti, info per l’ Italia: [email protected] / [email protected] Enzo Cumpostu Operazione Shardana Oggi, al sorgere del terzo millennio, prestare servizio per tutelare e garantire la giustizia e l’ordine nella nostra isola potrebbe essere considerato, per certi versi, quasi una vacanza, un premio, vista l’eccezione di relativa beatitudine, rispetto alla regola diffusa della globalizzazione criminale in tutta Europa, in certe aree dell’isola; in questo senso l’isola dei nuraghi e dei dolmen, delle domus de janas; tutti gli antichi e silenziosi testimoni, forse, di tanti efferati misfatti e crimini nella storia antica della nostra terra e delle genti che l’hanno abitata, potrà sembrare davvero un Eden. Tuttavia, tutto questo è solo apparenza poiché la realtà ha mille e più sfaccettature; realtà spesso isolate e non sempre conosciute ai più,, drammi sociali che hanno investito e che investono comunità intere, famiglie: dalle leggi delle chiudende del periodo di Carlo Alberto alle new economies con internet in primo piano, il crimine continua, purtroppo, il suo diabolico “itinere”. Ma ieri, però, di certo così non era; ieri inteso come il passato appena trascorso, quei pochi decenni che ci separano e che comunque abbiamo vissuto, io per primo: nella mia infanzia, nella mia giovinezza; altri, tra voi, in età adulta e altri ancora leggeranno, solo nei libri e nelle cronache dei giornali rispolverate negli archivi microfilmati, quel che avvenne in questa frazione di tempo passato non lontano dai nostri ricordi. Fantacriminalità ,fantapolitica, fantaspionaggio o fantaterrorismo? Niente di tutto questo: semplicemente un qualcosa che sarebbe potuto accadere realmente… La nave arrivò, come tutte le mattine, puntualmente alle sei e trenta di quella giornata d’Aprile del 1980, attraccando nel molo; il solito viaggio, la solita traversata e monotona spola quasi fosse un Caronte di dannati peregrinanti, traghettati da una parte all’altra del Tirreno con il suo carico di merce umana, talvolta consistente e talvolta meno. L’umido mattino di primavera apparve subito agli occhi del giovane Capitano Gigli, promettente ufficiale della Gendarmeria, capocorso all’Accademia Militare, due encomi al suo attivo, profondo conoscitore di diverse lingue straniere, comprese quelle orientali; diversi, inoltre, gli incarichi importanti e delicati ricoperti nella sua seppur breve carriera di ventottenne ufficiale dell’Arma combattente. Un ragazzone alto ben più di un metro e ottanta, biondo dagli occhi azzurri, con origini nordiche; sportivo, ben piazzato e così non poteva che essere per lui, paracadutista e istruttore esperto di alpinismo e rocciatore, subacqueo e pilota d’elicottero e questi erano i brevetti che luccicavano sopra i taschini che addobbavano la sua impeccabile uniforme fresca di sartoria. Le ragazze del paese, dove avrebbe trascorso le ore libere dagli impegni di lavoro frequentando i caffè del centro cittadino, non sarebbero rimaste insensibili di fronte al fascino del giovane fiorentino; schivo e sospettoso ed allo stesso tempo attento, perfetto calcolatore, freddo e determinato qualora il caso lo avesse richiesto. E con un debole, quasi un tallone d’Achille: la sua – spesso poco controllata – passione per le donne; questa, forse, la vera ragione che gli era valso il trasferimento, di certo inatteso e non considerato, in quel luogo, quale comandante della Compagnia. La sua Alfa impiegò poco più di un’ora per giungere a destinazione, dove nella caserma del Comando v’ era, ad attenderlo, il Colonnello De Dominicis, un poco meno che sessantenne ufficiale in prossimità della sospirata pensione, oramai rassegnato per la sua mancata promozione a Generale, visto che la greca sulle spalline la vedrà solo il giorno in cui lascerà il servizio. De Dominicis, Comandante della Legione, si chiedeva cosa diavolo aveva fatto questo promettente giovane ufficiale per essere trasferito, dall’oggi al domani, in piena Barbagia. La risposta non si fece attendere: lo chiamò, giorni prima, un suo vecchio compagno di corso, il Colonnello Rosario Mancuso del Comando Generale. Gli disse che Gigli fino a pochi giorni prima era in servizio in uno speciale Nucleo Operativo Antidroga appena costituito e che seguiva una importante nonché delicata indagine relativamente a un grosso traffico di cocaina tra il Sud America e la capitale. E nel corso di queste indagini – spiega sempre Mancuso a De Dominicis – Gigli, attraverso una attività di copertura, era riuscito ad introdursi in ambienti della “città bene” dove, senza rivelare la propria identità, frequentava una ragazza, Veronica, figlia di un alto magistrato, dedita all’uso di coca in maniera assidua e amica di alcuni personaggi equivoci, probabilmente gli stessi che provvedevano a rifornire la cerchia dei suoi amici ogni qualvolta veniva organizzato un festino “ a tema”. 57 Gigli preparò dopo alcune settimane di paziente e meticolosa opera investigativa con un pizzico d’ intelligence una trappola ben ingegnata per i trafficanti; i quali lo credettero, oltre che intimo amico di Veronica, interessato all’acquisto di una consistente partita di coca. Il giovane Capitano si dimostrava pratico nel camuffare e interpretare parti estremamente rischiose. E ci cascarono proprio “come dei grulli” – amava scherzosamente ricordare Maurizio ai suoi colleghi, compiaciuto per i risultati operativi ottenuti. La risposta della malavita locale, purtroppo, non si fece attendere: dopo circa una settimana, mentre usciva di casa, in pieno centro e in una via non lontana dalla caserma in cui Gigli lavorava Veronica venne avvicinata da un uomo, travestito da finanziere; due, tre, quattro colpi di Luger P08, alla quale preventivamente era stato applicato un silenziatore, di certo non capace di attutire completamente i gas dello sparo ma utile per confondere il rumore, nel pieno caos delle ore di punta in un intensissimo e caotico traffico; colpi sparati in rapida successione con la canna che toccava le costole e nessuno, per strada, si era accorto di quel che stava accadendo, se non quando la videro cadere bocconi, pesantemente, sull’asfalto, con un sordo tonfo. Credevano, i malavitosi, che Veronica fosse una spia dei Gendarmi mentre così non era; durante una perquisizione, ordinata dal magistrato e coordinata operativamente dallo stesso Gigli vennero sequestrati nella villa del capo dell’organizzazione (e nel bunker seminterrato della medesima) quantitativi industriali di cocaina, migliaia e migliaia di banconote dai più svariati tagli: dalle dieci alle cinquanta e centomila lire nonché dollari, lire sterline, marchi tedeschi, tanti marchi tedeschi… E poi armi, munizioni, esplosivo e, dulcis in fundo, una serie di videocassette e pellicole Super 8 e 35 mm., riprese con videocamere e cineprese professionali nascoste nelle case dove si svolgevano i coca-party; in alcuni, Gigli riconobbe Veronica ma era facile riconoscere anche molti altri personaggi di rilievo: i criminali, evidentemente, avevano acquisito i filmati con la chiara intenzione ricattatoria nei confronti di qualcuno. Fu questa la vera ragione per la quale Maurizio, il capitano fiorentino, venne di punto in bianco trasferito nell’isola di Sandalyon: il padre di Veronica voleva a tutti i costi che la storia si chiudesse lì e tutto fosse messo a tacere; lo voleva lui e lo volevano gli amici del padre, alcuni dei quali erano presenti e ingloriosamente immortalati proprio in questi filmati estremamente compromettenti con altre donne della Roma dei salotti “bene”. L’Alfa bianca acquistata dal padre di Maurizio un mese prima a Firenze, quasi a festeggiare la promozione al grado di capitano, arrivò sulla piazza antistante la caserma del centro, nel quale ad attenderlo vi era il Colonnello De Dominicis. Dopo una veloce presentazione, De Dominicis accompagnò Gigli all’interno della caserma, nell’ufficio del Comandante. Gli onori di casa li fece il Maggiore Mendez, altro valido ufficiale e abile investigatore, Comandante ad interim. De Dominicis presentò Gigli al suo predecessore, il Capitano Solanis, destinato ad altro incarico al Nord. Il Colonnello, in un improvvisato briefing, insieme al Maggiore Mendez avvertì Gigli che nel luogo, negli ultimi tempi, erano stati segnalati strani movimenti che facevano ritenere imminente la preparazione di un ennesimo sequestro di persona. E, sempre nell’ufficio di Mendez, Solanis lo istruì su quelli che riteneva i personaggi sui quali avrebbero dovuto ricadere maggiormente le attenzioni degli uomini della Compagnia, in particolare quelli della “squadriglia”. Dopo pranzo, il Colonnello si congedò dai suoi uomini e ripartì mentre Mendez, Solanis e Gigli si avviarono ad accompagnare verso la sede di destinazione il capitano nuovo arrivato. La strada per raggiungere il paese era tortuosa e poco sicura, tant’è che per percorrere poco più di trenta chilometri impiegarono tre quarti d’ora. Gigli prese possesso dell’alloggio del comandante e a dire il vero fu come impressionato dal poco felice luogo nel quale era stata costruita la caserma, con le sbarre alle finestre e la porta blindate non perfettamente integrata al piccolo borgo: il terrorismo rosso faceva paura anche lì, non solo nelle metropoli del Centro e del Nord. L’indomani, di buon mattino, Gigli chiamò a raduno tutti i suoi uomini: “ Buongiorno a tutti, sono il nuovo comandante della Compagnia, sono il Capitano Gigli, Maurizio Gigli, fiorentino. Per me la Sardegna è un ambiente nuovo sotto la veste di ufficiale dell’Arma della Gendarmeria, non capisco un’accidente del vostro dialetto! Spero che con il vostro aiuto e i vostri consigli riesca a continuare nel migliore dei modi il lavoro portato avanti in questi anni dal mio collega Solanis. Penso che andremo d’accordo: sono qui sperando che diate il meglio di voi perché si giunga a importanti risultati”. Gigli fece parlare un po’ tutti, cercando di capire carattere e personalità in ognuno dei suoi uomini: il maresciallo maggiore aiutante Abis, quello che sarà il suo braccio destro, Comandante della Stazione; sempre con la battuta pronta, un barzellettaro simpatico e sornione che abitava, insieme alla consorte e ai suoi due bambini, poco lontano dalla caserma; e poi Lorenzi, il brigadiere trentenne appassionato di caccia e cercatore esperto e appassionato di funghi, conoscitore dei posti, compresi quelli meno accessibili. E via via gli altri. Gigli volle subito toccare con mano quanto raccomandatogli il giorno prima da De Dominicis e Solanis: chiamò il maresciallo per farsi consegnare i fascicoli con tutti i rapporti informativi dei personaggi che rappresentavano la cerchia dei pregiudicati sui quali riporre particolare attenzione: tra questi spiccavano i nomi di Iuanneddu Tancas, conosciuto 58 come “Recottu”, due rapine a mano armata alle spalle, tentato omicidio, detenzione e porto d’arma da guerra, detenzione di esplosivi, indagato ma poi prosciolto per un tentativo di sequestro. A seguire, nel suo sfogliare ed esaminare le carte, c’era Peppeddu Frues noto “Ballasola”, nomignolo che gli venne cucito addosso allorché a soli diciotto anni uccise un suo confinante di pascolo con una fucilata a palla che squarciò, devastandolo, il torace della vittima, uccidendolo all’istante. Per quel gesto insano da balente Frues scontò dodici anni di prigione. Gesto attribuibile sia a futili motivi di sconfinamento del bestiame ma soprattutto a una relazione segreta che la vittima ebbe la disgrazia di avere con la fidanzata di Frues il quale, evidentemente, non dimenticò. Gigli mandò subito Lorenzi verso le località nei quali entrambe – “Recottu” e “Ballasola” – avevano i loro ovili; ovili che erano – secondo gli uomini di Gigli – luoghi pretestuosamente utilizzati quali attività di lavoro dove tutto accadeva e si faceva fuorché praticare l’antica e nobile arte professionale “de sos pastores”. Il livello d’allarme era alto, sia Recottu che Ballasola mancavano dal paese da più di una settimana e tutto lasciava presagire che da lì a poco sarebbe successo qualcosa. Ci fu una spiata via radio. Gigli lesse la nota e da decisionista senza mai esitare un attimo, passando rapidamente dall’idea all’azione disse: “ andiamo! Forse facciamo in tempo”. Radunò di tutta fretta i suoi uomini e partì velocemente per il luogo segnalato. Fece fermare le auto lassù in alto, prima che i tornanti in discesa permettessero loro, zigzagando sui tornanti quasi se fosse un percorso da gara rallystica, di raggiungere il porto; da lì sopra, con un panorama davvero mozzafiato, sarebbe stato molto facile controllare i movimenti dei due, visto che i militari rimasero nascosti tra la macchia mediterranea e con i binocoli e le radio trasmittenti a portata di mano, perfettamente mimetizzati per non farsi notare non solo dai due interessati, relativamente distanti, ma soprattutto da qualcuno di passaggio che avrebbero potuto fungere da palo o comunque essere in combutta con loro. Dopo tante ore l’attesa di Gigli e dei suoi uomini la faticosa opera di sorveglianza dei due fu premiata: all’orizzonte, infatti, si delineò la sagoma di una imbarcazione, presumibilmente una motobarca, tra novanta e i cento piedi di lunghezza. Lorenzi prese il suo Swarowsky: “ strano capitano… non mi sembra una motobarca del posto…da pesca o turistica… questa è più grande, sembra più grande e diversa” Gigli controllò: aveva la passione per il mare e la vela, quindi di imbarcazioni da diporto se ne intendeva eccome. “ Quello infatti a prima vista sembrerebbe un motopesca ma non lo è” disse Gigli. Intanto s’ accorsero che Recottu e Ballasola si erano frettolosamente avviati verso un gommone ormeggiato lì vicino, dove un ragazzo era lì pronto ad attenderli. “ La barca non entrerà in porto, stanno andando a recuperare qualcosa” disse con certezza Gigli; così effettivamente fu: al loro rientro, il gommone conteneva un pesante carico, ne contarono otto di casse, parte di legno e altre ancora metalliche. “Capità e che cos’è? Droga?” chiese quasi con una espressione di meraviglia il giovanissimo Gavino Manicas, assegnato di recente. “ No Gavi’, non è droga..Secondo me… è altro…” disse sottovoce Gigli rispondendo agli interrogativi dell’altro. Non appena i gommone toccò terra, Gigli diede ordine ai suoi di abbandonare le postazioni e ritornare alle auto. “ Qui Condor Uno a Cervo Quattro e Cervo Cinque: non intervenite, ripeto: non intervenite! Lasciamo ritornare Alfa e Bravo ai loro obiettivi” ordinò il capitano via radio ai suoi. Così fecero: Lorenzi e altri tre militari seguirono il furgone senza farsi notare e venne confermato il sospetto del capitano e cioè che quel misterioso carico venne dapprima portato in prossimità dell’ ovile di Recottu per poi essere trasferito, in nottata, verso le pendici di Monte Contone. All’alba del giorno dopo, Gigli che con Abis e Lorenzi aveva pianificato una perlustrazione a ventaglio, alle pendici del monte - prima di procedere alla perlustrazione meticolosa delle grotte – diede ordine di agire. Era questa, infatti, la zona dove erano stati visti i due disgraziati trasportare il carico sbarcato dalla misteriosa motobarca. Monte Contone era a circa due chilometri dagli ovili dei due pseudo allevatori e sulle pendici vi erano gli accessi, non visibili e difficilmente accessibili ai più di diverse grotte naturali; c’è da dire che gli uomini della squadriglia di Lorenzi conoscevano le più note e accessibili ma ve ne erano alcune, in particolar modo una, non facilmente raggiungibile se non con particolari attrezzature. “Vediamola” - disse deciso Gigli “ potrebbero esserci delle sorprese”. Lorenzi entrò per primo e lo seguirono a ruota i suoi, poi entrò Gigli e poi ancora Abis, visibilmente provato data l’età e il fisico non più di un ragazzo ventenne, mentre ad altri – tra cui Manicas – venne ordinato di restar fuori qualora qualcosa di strano succedesse, compreso l’arrivo dei due disgraziati. “ Sa grotta de sos mortos “ era veramente impervia e il suo percorrerla, all’interno, non era di certo agevole e richiedeva perizia, attenzione. Per fortuna, già da anni prima il comando Generale aveva dato disposizioni che il personale operativo nell’isola di Sandalyon fosse dotato nei Comandi di Compagnia e Stazione di tutte le attrezzature necessarie per accedere all’ interno delle grotte, essendo -o meno- dei provetti speleologi. 59 D’improvviso un grido provenne dal fondo della caverna la cui fine si poteva fare, per fortuna, quasi orizzontalmente: “Capitano, venga qui a vedere!” Abis e Gigli, con le loro lampade poste sopra il casco protettivo, si avvicinarono: casse accatastate, di color verde oliva, decine e decine; molte, molte di più di quelle viste il giorno prima scaricare dal gommone in quel di Cala Monaca; alcune in legno recanti caratteri stampigliati in cirillico mentre altre erano contenitori metallici, sempre di color verde oliva o mimetico, apparentemente a tenuta stagna. “ Queste sono armi sovietiche” disse Gigli, esterrefatto. Con calma, le casse vennero portate fuori, all’aperto, dove il Capitano, non senza attimi di impazienza, diede ordine di aprirle. C’era un po’ di tutto, sembrava l’arsenale dell’Armata Rossa: Simonov, fucili per tiratori scelti Dragunov, gli immancabili e tristemente famosi AK-47 e AKM-47 Kalashnikov. Poi pistole, tante pistole: Tokarev, Makarov, e le tristemente note pistole automatiche VZ 61 Skorpion di fabbricazione cecoslovacca. Molti anche i razzi controcarro RPG-7. Altre casse vennero aperte, con cautela, dalle quali uscirono fuori mortai e relativi proiettili, mitragliatrici leggere, munizionamento di tutti i generi. “ Signor Capitano che faccio… chiamo via radio Santu Onofre e facciamo avvertire la Procura?” chiese il maresciallo, indeciso sul da farsi. “No, per ora no“ disse secco Gigli – “ avverta De Dominicis al comando Legione, ci penseranno loro ad attivarsi in questo senso, eventualmente”. De Dominicis arrivò quasi con la velocità di un lampo, in poco più di un’ora, nelle campagne dove era avvenuto il ritrovamento, il rumore dell’aria spezzata dalle pale del rotore dell’elicottero si fece sempre più forte e assordante, da rimbombare nelle vallate circostanti; l’AB-205 decollato da Alas posò i pattini su un pianoro poco distante la grotta. “Fiamma cinque-zero” era atterrato e dall’aeromobile scesero, oltre al De Dominicis, altre tre persone in borghese che Gigli non conosceva. L’anziano Colonnello, alla vista di tutto quell’armamentario, assunse uno sguardo di forte preoccupazione e, rivolgendosi ai tre in abiti civili che lo accompagnavano, disse: “ ci troviamo di fronte a un qualcosa che va ben al di là alle nostre previsioni e ben oltre alle capacità dei due farabutti. C’è qualcosa che non va.” De Dominicis fece allontanare dal luogo tutti gli uomini, restando da solo con Gigli e con i tre passeggeri partiti con lui. “Gigli, questi signori sono ufficiali ma fanno capo al controspionaggio, nella capitale” disse con una voce flebile il colonnello – “e lei dovrà collaborare mettendosi a loro completa disposizione”. Il capitano fiorentino, confuso e sempre più insospettito, non fece in tempo a prender parola che il più giovane dei tre si avvicinò alle armi e data una breve occhiata e improvvisando una più che approssimativa ispezione tecnica disse: “certamente, Capitano Gigli, lei si chiederà se è un caso oppure no che noi tre siamo qui in Sardegna proprio in questi giorni” disse l’uomo, capelli tirati all’indietro, castano e non alto, senza nessuna inflessione dialettale. “ veda Capitano la nostra Sezione è stata informata da fonti attendibilisime di strani movimenti che avvengono intorno alle acque dell’isola, esattamente nella orientale e sud-orientale con un notevole movimento di naviglio che non sempre si limita e restare in acque internazionali” continuò “e il direttore del Servizio vuole vederci chiaro su questa vicenda, non vorrei che si tratti di un qualcosa ordito a livello NATO e del quale i nostri “cugini” di Forte Braccini non ci hanno informato. E la cosa, ovviamente, non ci sorprende affatto.” Il Colonnello si allontanò per pochi minuti con i colleghi della venticinquesima e, dopo alcuni minuti di discussione, visibilmente animata, tornarono a parlare con Gigli. “Capitano – disse ancora l’ufficiale dei servizi con una espressione visibilmente seria fissando Gigli – so che lei conosce personalmente il comandante del Centro Incursori e Sabotatori di Torretta, nel quale ha frequentato con brillanti risultati diversi corsi d’ardimento; credo sia il caso di parlare con lui, qualcosa saprà dirci. Intanto andiamo a fare una visitina a questi qua… Beh si insomma…Come si chiamano? I due… Tancas e Frues, dopo un blitz improvviso, furono accompagnati coattivamente in caserma dagli uomini di Lorenzi e lì tenuti, per ore, ad aspettare prima di poter parlare con il neo-comandante dei Gendarmi del paese. Finito il sopralluogo intorno alla grotta e dato ordine di far presidiare le armi ritrovate Gigli tornò per qualche ora in paese per sentire quel che avevano da raccontare i due. “Tancas, Frues… non rovinate la vostra esistenza con le vostre mani… vi abbiamo seguito passo dopo passo, assisitendo e filmando ogni vostra mossa. Siete in trappola ora non vi resta che raccontare, a me e ai miei colleghi chi, perchè e per cosa servono tutte queste armi. Ora parlate, con calma, io non ho fretta, nessuno qui ha fretta, resto qui a vostra disposizione ad ascoltare i vostri racconti”. Poi si avvicinò ai due, scuri e tristi in volto, con il capo chino; e i due non avevano più quell’aria sbeffeggiante e sogghignante che li caratterizzava, balentes per eccellenza del vecchio paese, incutendo timore un po’ ovunque, non solo tra le campagne e la gente di Ghìrtala. Offrì loro le sue sigarette e cominciò a parlare: “Tancas, so che tu hai un bambino” disse il capitano “ ti do la mia parola e ti prometto sul mio onore di ufficiale della Gendarmeria e dell’Esercito che mi adopererò con il Procuratore e con i 60 magistrati per far sì che tu abbia un trattamento di favore ma devi assolutamente collaborare con noi, devi darci una mano, sappiamo che tu e Frues sapete di certo moltissime cose e che le vostre parole saranno determinanti.” “ Su capità… Ma bois itte nazzis: amus a torrare in galera o nono?” chiese Tancas. Gigli fece cenno al maresciallo Abis di non aver capito e subito il sottufficiale tradusse: “ signor capitano, Tancas chiede se dovranno tornare in galera o se invece potranno restare liberi”. “Vi faremo cambiare identità e residenza” assicurò il capitano “le vostre mogli e compagne, i vostri figli, vi seguiranno, lascerete la Sardegna, vi daremo una casa, un lavoro dignitoso” disse rassicurando i due – “ ma sia chiaro che se non collaborerete lo Stato sarà inflessibile con voi e non ci sarà nessun avvocato prezzolato che potrà tirarvi fuori dai guai. Avete un paio di giorni per pansarci, ci sentiremo.” Fatti portare via i due, Gigli prese la cornetta in mano e chiamò il Centro di Torretta. Il Capitano di Fregata Aurelio Ferraris Bardolini era un vecchio amico di famiglia (il padre di Gigli aveva frequentato l’Accademia Navale ma dopo pochi anni di servizio da Sottotenente di Vascello si congedò per sposarsi e andò a lavorare in un grosso istituto di assicurazioni fiorentino) e di Gigli conosceva non solo il carattere e il suo particolare dinamismo ma soprattutto le sue doti di militare, essendo stato lui stesso il suo istruttore per il brevetto di subacqueo incursore. Il giovane capitano fiorentino non era fatto per le carte bollate e le aule dei Tribunali poiché il suo ruolo, quello che praticamente gli era più congegnale e che rispondeva maggiormente alla sua indole era sicuramente quello di uomo d’azione. Anche in operazioni al di fuori dei confini nazionali. Ferraris arrivò a Ghìrtala in piena notte bordo di un elicottero che atterrò nel campetto sportivo del paese laddove la Ghirtalese, squadra di seconda categoria, giocava le sue partite; l’ufficiale degli Incursori di Marina fu fatto accompagnare da Gigli nella zona dove furono ritrovate le armi; Gigli era sempre seguito a vista dagli ufficiali del controspionaggio, con De Dominicis sempre al seguito. “Comandante Ferraris” disse l’ufficiale fiorentino al vecchio amico di famiglia “che piacere rivederla! Allora, dia una occhiata in giro, mi dica… vorrei la sua opinione in merito: ma che è… i pastori sardi vogliono fare un colpo di stato? ” ironizzò Gigli. “ Dai Maurizio, portaci in caserma che ne parliamo…piuttosto: hai del buon vino in dispensa? Che ci hai preparato per cena? ” disse sorridendo e assolutamente non stupito di vedere quella santabarbara dentro quelle casse accatastate vicino alla grotta. Durante la cena che Lorenzi aveva organizzato, improvvisandosi quale provetto cuoco, gli ufficiali vollero restare soli, conversando tutta la notte. Perché non era certo una questione da poco. E è a questo punto che Ferraris prese in contropiede tutti, anticipando la pioggia di interrogativi che gli ufficiali, soprattutto quelli del controspionaggio, stavano per porgli. “Signori, noi del Centro sapevamo che ci avreste chiamati. Abbiamo solo dovuto aspettare ma ora, vista la vostra voglia di conoscere e visto che le armi sono state ritrovate vi parlerò del perché qui in piena Barbagia sono piovute tutte queste armi.” Ferraris aprì la sua ventiquattr’ore e tirò fuori un mare di carte e fascicoli: “ come voi ben sapete l’attacco cruento alle istituzioni portato avanti dalle Brigate Rivoluzionarie negli ultimi anni ha pesantemente influito sulla politica nazionale con riflessi diplomatici anche in quella internazionale. Sappiamo tutti che le Brigate sono addestrate in campi paramilitari in Cecoslavacchia, in altri paesi del Patto di Varsavia e addirittura in Palestina. Abbiamo avuto la notizia dalle nostre Unità Speciali della Sezione “Sierra” di Mosca che l’Armata Rossa da più di un anno prepara e non solo sulla carta dei piani di invasione dell’Europa e Sandalyon è stata presa in considerazione quale luogo di un ipotetico aviosbarco da effettuare con degli ekranoplani (1) e con aviolancio di VDV. “ Ma a che pro questo?” domandò Gigli, l’unico che osò rompere il silenzio in quella notte, davanti al camino e a diverse bottiglie di Cannonau. “ perché in questo modo” - continuò Ferraris sgranocchiando con gusto “pane carasatu chin casu marzu” (2) spalmato sopra dall’inconfondibile sapore particolarmente piccante, spento dai sorsi di buon vino del luogo che viaggiava sui quattordici gradi – “ il Cremlino toglierebbe ogni possibile via di fuga ai membri del Governo italiano: la prima ondata dello sbarco, quella grossa e consistente, potrebbe avvenire in Calabria o in Puglia, per poi risalire in poche ore verso Roma. L’isola di Sandalyon, di fatto, potrebbe divenire un presidio d’emergenza per l’Italia anche grazie alla collaborazione del mio Centro, dal quale continuare a impartire direttive e dal quale mantenere i contatti con le altre regioni d’Italia, l’Europa e gli altri stati aderenti alla NATO.” Il Maggiore del controspionaggio, infuriato, chiede a Ferraris: “Comandante, mi pare di capire che si tratta di una operazione dietro la quale si cela la regìa della vostra Divisione e del vostro Centro, avreste però dovuto avere l’accortezza se non il dovere di avvisarci! E che cazzo!” urlò furibondo il Maggiore, mentre De Dominicis annuiva e approvava – scuro in volto e visibilmente incazzato - l’indignazione dell’ufficiale. 61 Ferraris ribattè subito: “Appunto, Maggiore, non sono cazzi vostri, se la missione è stata scoperta come temevamo e avevamo – tra l’altro - messo in conto anche questo è per via degli innumerevoli spostamenti di armi e munizionamento di vario genere. Lei non immagina che tutta ‘sta roba ha fatto il giro del globo prima di approdare qui.” “ Ah, lo immagino perfettamente Comandante Ferraris! Eccome se lo immagino!” urlò ancora il Maggiore. Ferraris chiese la parola, tirando fuori dalla sua borsa un copioso dossier sul quale, di sfuggita, era possibile leggere: SMD Stato Maggiore della Difesa – Unità Speciali Difesa – Classifica di segretezza: SSS Segretissimo. L’ufficiale di Marina spiegò che Recottu e Ballasola erano stati assoldati dal Servizio anni addietro, allorché vennero colti in flagranza di reato mentre cercarono di rapire, in Toscana, un ricchissimo imprenditore. “ Vede caro De Dominicis… furono proprio i suoi colleghi a consigliarci i loro nominativi, visto che nel contesto dell’operazione loro conoscevano e sapevano perfettamente come muoversi neii luoghi laddove l’equipaggiamento avrebbe potuto essere custodito. Avremmo potuto facilmente distribuire materiale nostro, magari proveniente dai depositi e magazzini dell’Esercito o della Marina ma abbiamo preferito utilizzare armi di fabbricazione sovietica e nond’ordinanza italiana poiché, in caso di effettiva occupazione e sbarco da parte del nemico, sarebbe stato più facile reperire le munizioni, le parti di ricambio, attraverso operazioni di sabotaggio.” Ferraris continuò tra l’attenzione e l’incredibile silenzio dei presenti: “ Bruxelles e Washington gradirebbero che la cosa restasse tra queste mura, nessun magistrato deve esserne a conoscenza, nemmeno i suoi uomini Gigli, faccia in modo di istruirli in questi termini…Depisti… E i due ghirtalesi beh… lasciateli liberi, dopotutto sono molto meno pericolosi liberi che in un carcere di massima sicurezza… Credetemi, e sono anche più al sicuro”. NATO Clandestine Special Forces HQ – Object: Non-Orthodoxe War Project: TOP SECRET: Operation Shardana: così gli Alleati avevano battezzato questa inusuale operazione che prevedeva delle contromisure in caso di invasione dall’Est, nello specifico in Sardegna. Recottu, Ballasola e un altro centinaio di unità, uomini e donne tutti reclutati nei centri abitati della provincia, facevano parte della “Operazione Shardana” che, oltre a garantire l’aspetto logistico ovvero distribuire le armi, le munizioni, l’esplosivo nascosti nei depositi clandestini presenti a macchia di leopardo avevano il compito di consegnare ai membri dell’organizzazione le decine di radio ricetrasmittenti BLU (3), dotate di un sofisticato sistema di scrambler(4) la cui decodifica era estremamente difficile; questo per garantire un buon livello di comunicazione interno nella rete clandestina e segretissima non intercettabile dal nemico; i satelliti, allora, erano quasi una chimera. Gli “Shardana”, i pastori-guerriglieri che avrebbero dovuto fronteggiare la prima ondata dello sbarco: minando le strade principali e secondarie, distruggendo porti turistici e commerciali, aeroporti come Terranoas e Kalarium, reti ferroviarie, seppur a scartamento ridotto; la seconda ondata dell’aviosbarco sarebbe stata contrastata dai riservisti richiamati in loco attraverso un’altra rete clandestina “ufficiosa”, questa volta completamente militare che aveva previsto il richiamo in loco, nei diversi centri abitati dell’isola, operato tramite ufficiali e sottufficiali nativi del posto. Gigli, prima che un uomo era un militare: ubbidì, senza esitazione, agli ordini e fece liberare i due, che ritornarono alle loro case. Nessuno dei suoi uomini seppe mai nulla, né alcun magistrato di Santu Onofre e tanto meno di altre città venne messo a conoscenza del ritrovamento. Il capitano fiorentino prestò servizio in paese per altri due anni, quando nell’inverno nel 1982, a seguito di un tentativo di sequestro non andato in porto, partecipò ad un conflitto a fuoco nel quale rimase gravemente ferito, perdendo l’uso del braccio sinistro, conflitto estremamente cruento nel quale furono sparati migliaia di colpi e nel quale, iroia della sorte, Recottu e Ballasola rimasero uccisi e con loro due giovanissimi militari. Per quella brillante operazione fu promosso di grado a soli trent’anni, era l’ufficiale superiore più giovane d’Italia, trasferito poi vicino casa, dove diede addio ai suoi sogni e ai suoi progetti d’azione, assegnato ad un anonimo ufficio del Ministero. Era emerso, ancora una volta, l’italico neo dei paradossi che ha visto un giovane capitano alternarsi tra cacciatore e “compagno di battaglia”, per una causa che forse andava ben al di là degli articoli del codice penale e del T.U.L.P.S. Un po’ come quando nella Grande Guerra qualche cittadino chiamato alle armi e partito da Sandalyon, divenuto dopo il conflitto bandito e braccato in ogni dove dell’ isola, venne decorato o promosso sul campo per meriti di combattimento. Legenda ( punti 1-2-3 from Wikipedia.it) (1)Ekranoplano: Questo tipo di aeromobile si muove volando a pochi metri dalla superficie (in genere sull'acqua), sfruttando, per il sostentamento, l'effetto suolo. Sostanzialmente una volta che il mezzo ha accelerato si sviluppa al di sotto di esso quello che può essere definito come un cuscino d'aria dinamico. Sono anche noti come WIG (Wing In Ground effect), Ala ad effetto suolo o GEV (Ground Effect Vehicle) Veicolo ad effetto suolo, quest'ultimo il termine più generico. Il termine ekranoplano è l'adattamento dal russo del termine экраноплан, ekranoplan, letteralmente "schermoplano". Infatti questa particolare tipologia di velivoli, che a prima vista sembrano grandi idrovolanti caratterizzati da ali tozze e da giganteschi piani di coda, venne sviluppata dai sovietici a partire dagli anni'50. Il loro inventore, un ingegnere navale sovietico, Alexeev Rostislav Evgenievich. Il programma KM: venne portato avanti dall'Unione Sovietica a partire dal 1963. Il primo mezzo di questo tipo, il KM-1 ("Caspian Sea Monster", Mostro Marino del Mar Caspio, soprannome datogli dall'intelligence statunitense), 62 "volò" per la prima volta nel 1966. Questo fu la base sulla quale venne sviluppato il primo schermoplano appositamente progettato per la produzione in serie, l'A-90 Orlyonok. Questo, costruito in soli 3/4 esemplari, entrò effettivamente in servizio con la Marina Sovietica. Un'ulteriore versione, il Lun, venne costruito a partire dal 1987. Si trattava di uno schermoplano armato con sei missili antinave, posti sul dorso della fusoliera. Ne venne costruito un solo esemplare, con un altro mai completato. Tutto il programa venne cancellato nel 1992, in seguito al crollo dell'URSS ed alla conseguente crisi economica. (2)Casu marzu Il casu marzu (o hasu muthidu) è un particolare prodotto alimentare della Sardegna, che desta tanta curiosità a causa del suo particolare processo di formazione. È conosciuto anche come casu frazigu, casu modde, casu becciu, casu fattittu, casu gumpagadu (i nomi si differenziano a secondo delle regioni storiche dell'Isola). Si tratta di un particolare formaggio dal gusto piccante, che gli è conferito dalle larve della mosca casearia (Piophila casei) che lo contaminano. Le norme comunitarie non ne consentono più la produzione ed è severamente proibita dalla legge la commercializzazione, perché in contrasto con le norme igieniche e sanitarie. Per poter salvaguardare questo prodotto la regione Sardegna lo ha inserito nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani: tale riconoscimento certifica che la produzione è codificata da oltre 25 anni così da poter richiedere una deroga rispetto alle normali norme igienico-sanitarie. Familiarmente, viene ancora ottenuto, in modo naturale, tramite la Piophila casei (conosciuta anche come mosca casearia), un insetto dalle cui uova, deposte sulla forma di pecorino, nascono centinaia di larve che traggono nutrimento dalla forma di cacio stessa, cibandosene e sviluppandosi in essa. Formaggi con larve o contenenti le deiezioni di queste ultime sono presenti non solo in Italia ma anche su territorio extranazionale. In particolare, sono presenti sul mercato europeo il formaggio tedesco German Milbenkäse e la specialità francese mimolette, oltre, naturalmente, ad altre varietà meno note ma che ripropongono tutte lo stesso procedimento biologico di costituzione del formaggio sardo. (3)BLU: Banda Laterale Unica Nelle radiocomunicazioni, una banda laterale è una banda di frequenze più alta o più bassa rispetto alla frequenza portante, contenente un'energia risultante dal processo di modulazione. Nonostante tutte le modulazioni abbiano bande laterali per definizione, esse sono più discusse e rilevanti in modulazione di ampiezza. La modulazione in ampiezza di un'onda portante è caratterizzata normalmente da due bande laterali. Le frequenze al di sopra della frequenza portante costituiscono la banda laterale superiore (upper sideband - USB) mentre le frequenze al di sotto della portante costituiscono la banda laterale inferiore (lower sideband - LSB). Nelle normali trasmissioni AM sono presenti la portante ed entrambe le bande laterali, mentre se non è presente la portante viene definita banda laterale doppia. Una trasmissione nella quale rimangono una intera banda laterale e parte dell'altra, è chiamata trasmissione in banda laterale residua, usata soprattutto nella diffusione televisiva, che altrimenti occuperebbe un'eccessiva larghezza di banda. Una trasmissione nella quale è trasmessa una sola banda laterale è chiamata modulazione a banda laterale singola (Single-sideband - SSB). La SSB è usata soprattutto nelle frequenze inferiori ai 30 MHz, dai radioamatori e nelle comunicazioni navali, aeree, militari e diplomatiche. Nella SSB la portante è soppressa e ciò riduce significativamente la quantità di potenza elettrica usata (circa il 70% rispetto alla AM), ma lasciando comunque inalterata tutta l'informazione trasmessa nella banda audio. La ricezione della SSB avviene in modo simile alla AM, ma si deve reintrodurre nel ricevitore la portante soppressa nel trasmettitore, con un circuito chiamato BFO per questa ragione un ricevitore AM convenzionale non e' in grado di demodulare correttamente un segnale in banda laterale a portante soppressa. L'estensione delle bande laterali stabilisce l'ampiezza del canale radio utilizzato. Se due emissioni sono troppo vicine rispetto a questa ampiezza, si crea una interferenza tra di esse. Per questo motivo il segnale audio modulante è in genere filtrato prima del processo di modulazione, in modo da lasciar passare le sole frequenze comprese tra 300 e 3000 Hz (tipicamente). In questo modo una emissione SSB occupa una banda passante di 2,7 kHz, contro i 6 kHz di una emissione AM equivalente. (4)Scrambler: apparecchio elettronico utilizzato per distorcere il segnale radio e che rende necessario l’utlizzo di un decodificatore per procedere alla ricezione Enzo Cumpostu (Nu,1963). E’ affetto da osteogenesi imperfetta, malattia delle ossa fragili (Per informazioni utili sulla patologia rimandiamo al sito Web dell'Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta www.asitoi.it ). Radioamatore, ha lavorato come impiegato contabile, è Volontario del Soccorso della Croce Rossa Italiana a Nuoro e lavora come coadiutore amministrativo presso l’Azienda Sanitaria Locale di Nuoro, in forza alla Unità Operativa Ser.D. – Servizio per le Dipendenze, alle dirette dipendenze del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze – D.S.M. e D. – Direzione Amministrativa. Nel 1995 è stato candidato alle amministrative quale consigliere comunale per la sua città. E adesso…libri 63 Penelope Guzman - Il colpevole Di Elliott Parker Una cittadina degli Stati Uniti dei nostri tempi. Un’investigatrice privata, Penelope Guzman, conosciuta per la sua abilità e professionalità. Una donna dalla personalità complessa e multiforme, un affascinante mix di dolcezza e riflessività, impulsività e determinazione. Un’avventura intrigante e coinvolgente, da leggersi tutta d’un fiato. "Era un uomo di circa quarant’anni, atletico e di bell’aspetto. Indossava un cappotto di pelle scuro che lasciava intravedere un elegante completo, anch’esso scuro. La pelle bianchissima, la folta capigliatura bionda e due penetranti occhi azzurri color ghiaccio tradivano allo sguardo di un osservatore attento le sue origini germaniche. Anche se a dire il vero in quel momento i suoi occhi erano nascosti da un elegante paio di occhiali, anch’essi scuri, che contribuivano a dare al suo look un certo stile Matrix." Info, ordini: http://www.penelopeguzman.com/ [email protected] Vincenzo Ierardi (estratto da Nel Bianco Mattino) Nel bianco del mattino le colombe velate, recitavano la mia iniquità nell’ombra. Un lieve soffio da quelle mie labbra uscì, in un silenzio che coronava la mia fronte sudata come una preghiera dolce di vergini. Sono peccatrice di me, è la mia pena s’innalza contro me stessa. Ecco le rose dell’ardore, ecco il mio pianto prezioso con una voce più soave e singhiozzante: sibilava… Mi abbandono solo al tuo amore eterno. Caterina Massaiu ali di libertà le ali della libertà la guerra non piegherà , grondano rosso spavento e aliti senza respiro , ma il seme cadrà sempre, è si riapriranno forti saranno i morti dei due popoli a coltivare 64 su terre lontane d'oriente primavere di bianco azzurro e di verde sui muri di cemento che cingon le fronti. Massimo Zaccheddu Una principessa vive il suo principe, quando in esso trova la sensibilità dei momenti, i quali, spesso, non vengono riproposti, la chiave della nobiltà recrimina l'umanità, una sensibile armonia del buon cuore, può far rifiorire un vero amore. Quando gli alberi non hanno il vento, i colori della natura regalano vitalità alla tristezza autunnale lasciando che le foglie vivano l'ultimo alloro. Massimo Zaccheddu è cantautore riconosciuto e poeta pluripremiato, impegnato nella diffusione della musica e la cultura sarda in Italia e all’ estero.Vive ed opera a Santhià ( Vercelli). Lavora alla diffusione di musica che combina il dialetto e i suoni della tradizione etnica rigenerati dalla sensibilità moderna. Fra tutti, si ricorda il brano NINNIU. ETNO 1, prodotto da Rai Trade ed Helikonia con il supporto di Toast Records. Antonello Cassan Fabrizio De André diceva del poeta Riccardo Mannerini: …"da lui ho imparato a pensare"… "Riccardo Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché quando navigava una caldaia gli era esplosa in faccia. E’ morto suicida, molti anni dopo… Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. E’ una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima.". EROINA Testo successivamente rielaborato dall’Autore e da Fabrizio De André con il titolo “Cantico dei drogati” per l’album “Tutti morimmo a stento” del 1968 (n.d.c.). Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il domani, il dopodomani e le altre albe 65 mi troveranno a tremare mentre nel mio cervello l’ottovolante della critica ha rotto i freni e il personale è ubriaco. Ho paura, tanta paura, e non c’è nascondiglio possibile o rifugio sicuro. Ho licenziato Iddio e buttato via una donna. La mia patria è come la mia intelligenza: esiste, ma non la conosco. Ho voluto il vuoto. Ho fatto il vuoto. Sono solo e ho freddo e gli altri nudi ridono forte mentre io striscio verso un fuoco che non mi scalda. Guardo avvilito questo deserto di grattacieli e attonito vedo sfilare milioni di esseri di vetro. Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il suo motivo, e il cielo e la terra io non posso raggiungerli e toccare… Sono sospeso a un filo che non esiste e vivo la mia morte come un anticipo terribile. Mi è stato concesso di non portare addosso vermi o lezzi o rosari. Ho barattato con una maledizione vecchia ma in buono stato. Fu un errore. Non desto nemmeno più la pietà di una vergine e non posso godere il dolore 66 di chi mi amava. Se urlo chi sono, dalla mia gola escono deformati e trasformati i suoni che vengono sentiti come comuni discorsi. Se scrivo il mio terrore, chi lo legge teme di rivelarsi e fugge per ritornare dopo aver comprato del coraggio. Solo quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota avrò un premio. Sarò citato di monito a coloro che credono sia divertente giocare a palla col proprio cervello riuscendo a lanciarlo oltre la riga che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito. Come potrò dire a mia madre che ho paura? Insegnami, tu che mi ascolti, un alfabeto diverso da quello della mia vigliaccheria. SIGNORE, GUARDAMI, IO SONO IRISH Testo successivamente rielaborato dall’Autore e da Fabrizio De André con il titolo “Signore, io sono Irisch” per l’album dei New Trolls del 1968 “Senza orario senza bandiera” (n.d.c.). Signore, sono qui, io sono Irish, quello che non ha la bicicletta. Tu lo sai che lavoro dai Lancaster e che, a sera, le mie reni non cantano. Mi hai date tante cose belle e il mio cuore le ha viste volentieri: i boschi, le rose, la fratta, i piccoli stagni dei cieli e la notte, le labbra di Ester, i suoi seni, quei suoi impossibili occhi, il sonno, il risveglio, il rumore del fiume, l’odore dei legni duri…O mio Signore, purtroppo c’è qualcosa che non va! Io che lavoro dai Lancaster, dormo e mangio a trenta miglia dalla chiesa di padre Enrico. Come posso, o Signore, santificare il tuo giorno? I camion sono fermi, 67 le auto non passano, ed io nel tuo giorno sono stanco, Signore. Trenta miglia più trenta sono troppe a piedi ed Irish, tu ricordi Signore, non ha la bicicletta. I passeri, gli scoiattoli, le lepri gioiscono nel tuo giorno, io nò. Non so più se io sono tuo figlio: in quel giorno non vengo alla tua casa, io non ti onoro; come posso fare, dimmi? Posso stare sul prato a parlarti di me? O debbo venire in fondo alla valle? Soffro, Signore e tu devi, capisci? devi fare qualcosa. Andrà bene anche vecchia la bicicletta che manderai ad Irish, perché tu, che sei buono, hai tanti amici e a qualcuno di loro la puoi chiedere una vecchia bicicletta. Che sia robusta, piuttosto, e grazie, mio Signore, grazie! Dio, pardon….la Madonna Te ne renderà merito, di certo. Io sono Irish, Signore, quello che verrà da te in bicicletta. Liberodiscrivere® edizioni è un marchio registrato di STUDIO64 s.r.l. -Via G.T. Invrea 38 rosso 16129 Genova Telefono 010.540464 Fax 010.8632411- E-mail: [email protected] - www.Liberodiscrivere.it Tiziana Aresu A me stessa Ricordati di portare con te l’amore per il tuo cuore, per la tua mente, per il tuo corpo. La ragione ed il cuore non disgiungerli mai, perché tu non debba lottare contro di te. E quando non capisci perché proprio quello è il sentiero che ti si è aperto dinnanzi, non porti domande. Abbi il coraggio di procedervi senza fiatare perché il lamento è tempo perso. Amati fino alle lacrime solo così saprai di cosa hai bisogno e chi ti può stare accanto. Quando rivolgerai lo sguardo indietro, fallo con tenerezza, ma non tergiversare. Quando guarderai in avanti, ammantati di coraggio E non scordare la fiducia nel tempo che viene. Sorridi al presente, anche se le lacrime righeranno il viso E non temere nulla di ciò che vivi Temi soltanto te stessa, quando avrai rinunciato a vivere. 68 Alma Saporito Segnano le stagioni i miei capelli sciolti imprigionati poi da copricapo guardi - credendoti non visto il mio transito ipotetica mappa di giorni infausti. Tocco la superficie delle pietre gesti sovrapposti a mani antiche. Aspetto che la corsa delle nubi oscuri il sole allora tornerò tra spazi chiusi rassicuranti costrizioni. Ridono le foglie tra i riflessi di luce delle gocce d’acqua lucidi di verde i prati accoglieranno presto i fiori io dipingo le labbra di rosso in attesa dell’estate. Carlo Caredda L’ invasione delle locuste Memento: Cogito ergo sum, Cassetto della memoria Meteore,Galassie,Universo Inizio,Fine,Big-Bang,Big Crunch Colori e Luce,Spettro,Diffrazione,Rifrazione Prisma,Arcobaleno! Relativo,Assoluto,non ricordo… Atomi, Molecole,Bombe,Morte ? Hiroshima,Nagasaki,Fungo Velenoso o mangereccio ? Probabilmente è scritto nel DNA, Elica,Aereo,Volo,Uccello, Ali….. Il pensiero affiora o affonda ? Mi dicono che dipende dal Sig. Archimede. Azzurro (Cielo ?),Rosso (Fuoco?),Bianco (Sposa ?) Ho bisogno di riposare ……….. Cervello,Computer……. Differenze ?? Tante,Nessuna. Potenza ed impotenza,ritorniamo ai colori ! Bianco o Nero ? Impressione primigenia, Esistenza di Universi paralleli (Probabilmente non si incontrano !...) Bosoni,Protoni,Muoni, meccanica Quantistica 69 Protervia dell’Uomo, ascolto e non sento, guardo e non vedo, parlo e non dico. Muoio e son Vivo ! Sogno e son Desto ! Oggi ho aumentato la RAM al mio computer ! Ho visto la luce ed il buio Assonanze e dissonanze…. Sono Agnostico…! Rasoio di Ockham o…da Barba ? Risposta,Domanda,Rifletto, Lucidità o Verità? Forse ho bisogno di Credere Esiste un Dio Vero ?? Ho una forte Emicrania, Mangiato pesante ! Alto,Scosceso,Montagna, Fatica, sono forse vicino alla vetta ? ( DIO ??....) Non Riesco,il mio cervello sin rifiuta di capire Questo l’ho scritto ieri,ho capito ! Apoteosi dell’assurdo. Finalmente Riposo. Francesca Farina Io sono l’albero e la foglia, sono il frutto, il miele e l’ape e la nuvola e il vento e l’alto cielo, sono il gatto, la martora ed il muschio, sono il coltello, il taglio e la ferita, sono la squadra, il cerchio ed il tamburo, il suono, il cadavere e la danza, il rigoglio, il verme, oscura terra, zolla, scorpione, indice, lanterna, guaio, detrito, scarto ed illusione, mente, memoria, e te, mano che scrivi. Sono la goccia, io, e sono il lago, acqua perenne e pozza insanguinata, sono mannaia e chi mi ha sferrata, sono mortaio e seme che ho pestato, io sono il pianto e chi mi ha consolato, sono radice, fiore, sputo, fiele e sono cedro, puro arco, piede, sono puttana e chi mi ha generato e sono uno rimasto senza fiato, sono quel fiato a lui presto fuggito, sono il cucciolo che si è assopito, la biada, il forno, il pane che ho sfornato, io sono l’ultimo, ramingo, smorto nato, il derelitto e il diseredato, il letto, il fianco, il sesso avvelenato ed il piacere, il cuore, lo starnuto, sono violino, sono alto liuto, il cameriere e il vino che ha versato, il commensale e il vino che ha libato, il panettiere e il filone che ha bruciato, la legna, il fuoco, l’arbusto incendiato, il dio, il lampo, il tuono risuonato, il fulmine di Giove, il fulminato 70 Amelia Rosselli Parigi, 24 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996 O mio fiato O mio fiato che corri lungo le sponde dove l’infinito mare congiunge braccio di terra a concava marina, guarda la triste penisola anelare: guarda il moto del cuore farsi tufo, e le pietre spuntare sfinirsi al flutto. Uno spazio Libero!!! Il blog di Isla Negra http://isla_negra.zoomblog.com IL GRIDO D’AIUTO DELL’AGRICOLTURA SARDA “Pastori sardi-per un giusto prezzo del latte ovino”. È un gruppo creato nel social network Facebook, a sostegno del settore agricolo della Sardegna e come denuncia della perenne crisi della nostra amata terra, che rischia di portare all’estinzione coloro che l’hanno resa celebre nel mondo e in essa sono stati l’essenza della sua storia: i pastori. La situazione ormai è al limite della tolleranza; prima che s’ arrivi ad un punto di non ritorno, sinonimo di perdita di valori, passioni e sentimenti fino ad oggi presenti in tutti noi; è fondamentale agire. L’agricoltura sarda è attanagliata da una dura crisi. A causa di chi? Sono molte le risposte a questa domanda, senza dubbio grave responsabilità sta nelle istituzioni; le quali sebbene si siano impegnate per il settore, forse non l’hanno fatto in modo corretto. Dopo decenni di finanziamenti oggi ci ritroviamo in una situazione di disagio, frutto delle politiche distorsive soprattutto dei decenni passati. Atteggiamenti che concedevano denaro in abbondanza a questo settore, che posero le basi per un suo sviluppo , ma che non hanno avuto risultati soddisfacenti. La crisi si manifesta ad ampio spettro, dalla non adeguata retribuzione del prodotto agricolo, al continuo abbandono dei giovani delle campagne, alla crescente subordinazione del settore da aiuti. Nei famosi piani di modernizzazione economica della Sardegna degli anni Settanta e Ottanta vennero concessi tanti finanziamenti per lo sviluppo agricolo, che al tempo non educarono l’agricoltore a un loro proficuo utilizzo. Queste politiche non erano intese molto spesso come investimenti a lungo termine, ma come sussidi economici per un limitato periodo, i quali hanno portato la nostra terra a una continua dipendenza da queste entrate. Tali errori stanno alla base poiché al tempo favorirono lo sviluppo di tanto capitale fisico nel settore, ma forse ancora nessuno pensava al potenziamento di un altro tipo di capitale, quello umano, che a distanza di anni avrebbe potuto aiutare il settore ad espandersi e dare impulso a ragionamenti con un maggiore carattere imprenditoriale. I prodotti delle campagne sarde vengono retribuiti in modo non dignitoso, si pensi al latte ovino pagato circa 0,75 euro al litro a fronte di un costo di produzione (stimato dalla Coldiretti) di circa 1,20 euro, al prezzo della carne di agnello pagata all’allevatore anche a 2,00 euro il chilo mentre al mercato viene venduto a un prezzo che arriva ad essere sette volte superiore, o al valore dato a tutti quei prodotti di nicchia che ormai sono prossimi all’estinzione per la loro non 71 valorizzazione sebbene ricercati dagli estimatori. Se a tutto ciò si aggiunge la lievitazione dei prezzi del mangime e dei concimi che sono raddoppiati, che futuro ci attende? Dove sono le istituzioni? La Sardegna grida aiuto, fino ad ora sono arrivate solo promesse, al limite qualche sussidio elargito durante campagne elettorali passate, per conquistare una poltrona politica che fa dimenticare in fretta gli impegni assunti in precedenza. Non vogliamo che ci si faccia stare zitti con sussidi economici spesso aventi l’aria di un atto commiserevole, per poi tornare al punto di partenza. Si ha bisogno di nuove politiche, con strategie ben definite e non vaghe, meglio se associate anche a una valorizzazione nella formazione di figure professionali che sappiano guidare il settore. Il pastore per secoli ha preso dalla sua terra, ma ha anche saputo ridarle ciò che meritava, oggi a questo nessuno ci pensa? I pastori hanno bisogno di utilizzare un social network per esporre i loro problemi? Forse non si sentono più in mano alle istituzioni o ai sindacati? Tutto ciò è sinonimo si di innovazione, d’altra parte siamo nell’era di internet, ma anche d’ una reale e concreta distanza da chi dovrebbe risolvere i problemi e ascoltare la nostra voce. Una Sardigna chena pastores est comente a la bider chena nuraghes. Contatti/ sostegno alla causa: [email protected] Isola Niedda Dae Sardinia po su Mondu Escrie a [email protected] Casa di poesia e letteratura aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte. Isla Negra En español Casa de poesìa y literaturas. Director Gabriel Impaglione [email protected] 72