Angela Peduto - L`amore e la morte in EA Poe

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Angela Peduto - L`amore e la morte in EA Poe
Angela Peduto
L’ amore e la morte in E. A. Poe
Poe e la psicoanalisi
Su Edgar Allan Poe, scrittore dell’incubo e dell’orrore, etilista, oppiomane, morto di «delirium
tremens» all’età di 40 anni, esiste nella letteratura psicoanalitica un unico monumentale studio,
quello che Marie Bonaparte diede alle stampe nel 1933 e al quale rimane soprattutto legato il suo
nome, preceduto tre anni prima da un breve articolo: ”Lutto, necrofilia e sadismo“ (M. Bonaparte,
1930), in cui venivano anticipate le sue idee. La tesi principale della Bonaparte, quella che essa
tenta di dimostrare attraverso la minuziosa analisi dei racconti di Poe e degli avvenimenti biografici,
è che lo scrittore soffre di una inconscia fissazione alla madre, morta di tisi quando egli aveva meno
di tre anni. E’ a causa di questa fissazione e della coazione a ripetere che egli tende a cercare e ad
amare donne con le medesime caratteristiche della madre, donne malate o morenti. Questa ricerca si
compie tanto nella finzione poetica quanto nella realtà della vita. Egli tenta di sfuggire alla madre,
di sciogliere la fissazione che lo unisce a lei, ma al tempo stesso non fa che ritornare a lei, ed essa
finisce per riapparire fatalmente in ogni nuovo oggetto. Nella necrofilia di Poe, latente e sublimata,
Marie Bonaparte vede perciò soprattutto riflesso il suo ”perenne lutto“, forte anche
dell’osservazione di E. Jones secondo cui ”la più comune (forma di necrofilia) pare non essere
qualcosa di molto superiore a un’estensione del ruolo svolto dall’amore nel lutto: il rifiuto
frenetico di accettare il triste evento e di staccarsi per sempre dall’oggetto d’amore“ (E. Jones,
1931). Accanto a questa ”necrofilia per fedeltà“ essa rintraccia in Poe anche l’elemento di sadonecrofilia, che ricollega all’impasto originario tra istinto erotico ed istinto aggressivo e alla
concezione sadica infantile del coito, unita al ritrarsi davanti all’identificazione totale col padre
assassino. ”Questi necrofili sembrano in effetti dei sadici timidi o intimiditi… (Essi) si limitano a
scivolare furtivamente vicino alla madre, alla donna già uccisa da quel padre esaltato che è per
tutti il destino. A questo punto si limitano a impadronirsi dei resti del padre, oppure riproducono,
ma su un cadavere, semplice simulacro di un vivente, gli atti del padre assassino… Tuttavia si
risparmiano, oltre all’aggressione, la pena capitale“ (M. Bonaparte, 1933). L’evento infantile,
inteso come dato biografico, è nella Bonaparte il riferimento costante, punto di partenza e punto
d’arrivo. Impegnata a riscoprire in ogni particolare della vita e della narrativa di Poe le tracce delle
sue esperienze infantili, essa si affida alle particolarità reali di tali esperienze, ed è questa realtà che
cerca minuziosamente di ricostruire. Se la psicoanalisi vive nell’interregno ambiguo di realtà e
fantasie, Marie Bonaparte si sbilancia a favore della realtà, ma di una realtà fattuale che finisce per
dominare il campo e rendere a volte asfittica l’elaborazione. Il merito della sua analisi è tuttavia
l’aver indicato nel lutto mancato della madre e nell’aggressione erotica condotta sul corpo
femminile un doppio percorso che si raccorda da un lato ai destini della depressione, dall’altro ai
destini delle perversioni. Questo mi è parso il filo da cui partire per dipanare, a mia volta, l’idea che
più mi suggestiona: l’idea di una madre sepolta viva, incarcerata nello spazio interno, mille volte
duplicata nello spazio letterario, oggetto che deve ad ogni costo sopravvivere e non essere mai
perduto. Seguire la vicenda di un tale oggetto nello scenario della sublimazione letteraria è ciò che
tenterò di fare.
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Poe, l’amore, la morte
Dalla morte Poe è ossessionato: nella vita, dove, stralunato e malinconico, vaga tra alcool, oppio,
amori destinati a niente, a un nulla… o alla morte; nei racconti, dove la morte è sempre presente, in
tutte le forme, in tutti i suoi volti notturni. Egli scrive, nella Filosofia della Composizione: “Qual è
secondo il parere universale dell’umanità, qual è fra tutti i soggetti melanconici il più
melanconico? La Morte, fu l’ovvia risposta. E’ quando questo soggetto, che fra tutti è il più
melanconico, quand’è che esso diviene poetico? E quando si congiunge intimamente alla Bellezza.
Dunque la morte di una bella donna è, fuor di discussione, il più poetico argomento al mondo,
come pure è fuor di dubbio che le labbra che più si adattano a sviluppare tale argomento sono
quelle di un amante che ha perso la donna amata” (Poe, 1846).
Molti racconti di Poe ruotano intorno a un personaggio femminile all’ombra del quale si
sviluppano vicende inquietanti d’amore e di morte. Nei due racconti che ho scelto, Berenice e
Lìgeia, il protagonista ama una donna eterea e idealizzata, in entrambi la donna si ammala e muore,
precipitandolo in una vertigine di terribili eventi che fatalmente lo riportano verso l’amante perduta;
egli è anche preso in una spirale persecutoria dove l’amata riappare, non più oggetto ideale quale
era inizialmente, bensì nelle vesti angosciose di fantasma che trascina alla morte. In entrambi questi
racconti il gioco amoroso si intesse attraverso atmosfere spirituali, rarefatte, solo per preparare un
unico evento, quello che sembra continuamente alluso e cercato, quasi spasmodicamente atteso
lungo il tragitto delle parole: la malattia e la morte dell’oggetto d’amore. Qui, nella malattia e nella
morte, l’oggetto d’amore emerge in tutta la sua potenza di fantasma sconvolgente e mortifero. Al di
là di questi due racconti troviamo ovunque donne malate, morenti, identificazioni con presenze
femminili che portano alla morte, fantasie di fusione annientante, spinte mortifere… E’ difficile non
pensare alla madre morta dell’infanzia. Ovunque è la sua ombra che sembra profilarsi, fantasma che
imprigiona il figlio, che si perpetua nella sua scrittura e negli amori impossibili della sua vita. In
questo spazio di morte, che a buon diritto può dirsi malinconico, nessun padre è presente a offrirsi
come oggetto riparatìvo o come Padre ideale che distanzia e separa. E’ sempre nel fantasma
materno che il testo poetico si esaurisce, fino a consumarsi in esso. C’è una straordinaria monotonia
nei racconti di Poe. Pagina dopo pagina ogni racconto segna la logorante riapparizione dello stesso
tema fantastico, ogni volta la parola lo riedifica, lo esibisce, Io ripercorre senza trovare alternative,
essa stessa impotente a situarsi altrove. La parola poetica di Poe è il suo canto di fedeltà alla madre
e il suo scacco finale davanti ad essa. Con precisione conturbante questo tema, d’amore e di morte,
percorre e anima il suo paesaggio letterario, ma forse è anche il nodo drammatico che avvelena gli
amori della sua vita: impossibili, sempre.
Berenice
In Berenice la parola situa subito il protagonista, Egeo, all’interno di una rapsodia depressiva:
malinconico e fragile visionario avvolto dalle ombre, Egeo è prigioniero di un ”ricordo che non
vuole estinguersi“, di memorie sottili che aleggiano in quella biblioteca dove egli si chiude per
lunghe ore, dove morì la madre e dove egli nacque. Il mondo in cui egli si muove è un vuoto di
tempo e di spazio, cosparso di frammenti disarticolati, di immagini isolate cui l’attenzione si
aggrappa (o meglio si incolla, ipnoticamente assorbita) non come a stimoli per pensare, per sentire,
ma come a segni, tracce fisiche, materiali senza senso. “Meditare continuamente per lunghe ed
estenuanti ore, concentrando l’attenzione su qualche sciocca nota in margine o sul testo d’un libro,
rimanere assorto per la maggior parte di una giornata estiva in una strana ombra che cadeva di
sbieco sulla tappezzeria o sul pavimento, perdermi per un’intera notte a fissare la fiamma immobile
di una lampada o le braci di un camino, fantasticare per giorni e giorni sul profumo di un fiore,
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ripetere in maniera monotona una parola qualsiasi finché questo suono, a forza di essere ripetuto,
si vuotasse di ogni significato, perdere ogni senso di moto o di esistenza fisica in un’immobilità
assoluta, ostinatamente prolungata, queste erano le (mie) più comuni e meno dannose
aberrazioni.” (Poe, 1835). Esiliato dalla vita, recluso nello spazio delle sue visioni, Egeo priva
l’esperienza reale di vita, la smonta, la riduce a un assemblaggio di forme prive di significato, e con
ciò la svuota della sua sensualità, separa gli oggetti, rendendoli così inservibili per un contatto
intimo. Se la spinta creativa obbedisce all’imperativo erotico — mettere insieme, unire — e regola
l’alchimia della sintesi e della trasformazione, la spinta distruttiva separa, scollega, frantuma. Si può
immaginare che da qui prenda origine tale smontaggio dell’esperienza, smontaggio che ha analogie
con i meccanismi ossessivi e che opera deanimando e desensualizzando il Sé e il mondo mediante la
rottura di legami. In questo tempio privato Berenice non può entrare, lei più che mai, donna reale
che vive e respira, pericoloso richiamo di desiderio; lei più che mai deve essere resa innocua,
devitalizzata, congelata in un’eco dai freddi meccanismi mentali di lui. “Io la vedevo non come la
Berenice vivente e respirante, non come la Berenice di un sogno, non come una creatura della
terra, non come una cosa da ammirare ma da analizzare, non come un oggetto d’amore ma come il
tema della più astrusa e disordinata speculazione” (Poe, ibid.). Egeo non può vederla, e cioè
investirla di significato emotivo, da viva. La malattia è la chiave che le dà accesso all’universo
pulsionale di lui. Una malattia fatale “s’abbatté come il simun sul suo corpo (…) Ed ora, ora io
tremavo alla sua presenza, impallidivo al suo avvicinarsi, e tuttavia, nel soffrire amaramente delle
pietose condizioni della sua rovina, mi ricordai ch’ella m’aveva lungamente amato e, in un
malaugurato momento, le parlai di matrimonio” (Poe, ibid.). Nella malattia di Berenice, Marie
Bonaparte vede il reincarnarsi della madre morente: ”E’ così che l’identità di Berenice si vede poco
a poco amalgamarsi con quella dell’amata madre di un tempo, morente di un male cosi vago e
incomprensibile come la tubercolosi materna doveva essere stata per il piccolo Edgar“ (M.
Bonaparte, 1933). E tuttavia, al di là di questa riemergenza in Berenice dell’imago materna, non
possiamo tentare di cogliere qualcos’altro? Non possiamo forse vedere nella morte di lei anche
l’irrompere di una spinta arcaica, fatta d’amore e di distruzione, che l’esasperata immobilità
mentale dì Egeo serviva a contenere? È perché muore che Berenice diventa oggetto di passione, o
invece muore proprio in quanto viene investita di passione? Passione amorosa o distruttiva, è Io
stesso, perché qui l’amore e la distruzione si sovrappongono. Travolto dall’ossessione dei denti, i
denti di lei, Egeo commette qualcosa che sprofonda nell’oblio, qualcosa che nel pulsare, nel
palpitare di quel corpo femminile creduto morto ma ancora vivo, nelle ferite d’unghie umane, nel
sangue che macchia gli abiti, nella crudeltà del gesto, si connota come violazione amorosa e mortale
al tempo stesso, poiché, in definitiva, il corpo nascosto nel sudario, sfigurato, era vivo: in uno stato
simile al sogno Egeo si reca al sepolcro dell’amica, la disseppellisce e le strappa i denti. Berenice si
risveglia e grida. Certo possiamo vedere qui affiorare il fantasma del possesso arcaico, così avido,
così totale, che può divenire datore e vettore di morte. Ci ricorda a questo proposito la Bonaparte
che l’impulso cannibalico infantile promuove, attraverso la paura della punizione, il fantasma del
morso da parte del seno materno: ”I denti di Berenice sono così fratelli di quelli della strega che,
nella versione di Perrault, divora i bambini ne La bella addormentata nel bosco” (M. Bonaparte,
1933). Madre divorata – madre divorante, questo sarebbe il circuito fantasmatico: madre e figlio
intrappolati in un fantasma di divorazione reciproca. Intuizione significativa, poiché porta la
vicenda fantasmatica a collocarsi di colpo in uno scenario primitivo, pre-oggettuale e pre-edipico.
Allora si potrebbe cogliere nel gesto estremo di Egeo la rappresentazione immaginaria di quella
”violenza fondamentale“di cui parla Bergeret, elemento ancora senza amore e senza odio, senza
aggressività e senza oggettualità, energia pura di autoconservazione che ha a che fare con la lotta
per la sopravvivenza in rapporto ad un pre-oggetto primitivo e non ancora con l’amore, i suoi
ostacoli, i suoi arresti, i suoi sviluppi, in rapporto ad un oggetto definito (Bergeret, 1994). La
malattia di Berenice segnerebbe allora il passaggio verso l’emergenza di una tale imago materna, di
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un tale oggetto folle e sconvolgente che trascina lui, il figlio, in un gioco per la vita o per la morte:
così, solo dandole la morte egli può tentare di sottrarsi alla morte.
Ligeia
C’è un lungo elenco di nomi femminili in Poe: Berenice, Morella, Ligeia, Madeline… Ligeia, come
le altre, è subito catturata dalla malinconica immanenza della morte; come le altre, si muove in un
universo amoroso che ha nel suo sfondo un oggetto aggredito e agonizzante. E’ l’idealizzazione che
fonda l’incontro amoroso con lei, ma fa di lei una semplice presenza abbagliante; privata di ogni
qualità sensoriale, la spoglia di ogni passione, di ogni segno vitale. “Era una visione aerea e
meravigliosa (…) la sua bellezza era quella degli esseri che vivono al di sopra o fuori dalla terra
(…) la bellezza delle favolose Uri dei Turchi” (Poe, 1838). Favolosa e disincarnata Ligeia si colloca
nel cuore stesso dell’inganno amoroso che intrappola il soggetto: supporto della parola, ma di una
parola insterilita poiché sganciata dal gioco del desiderio, oggetto d’amore, ma di un amore estetico
che si appaga nella pura contemplazione dell’amata. La lunga e dettagliata descrizione della
bellezza di Ligeia occupa l’intera prima parte del racconto. Marie Bonaparte vi ritrova, seppure
deformata dall’idealizzazione, la descrizione dei tratti della madre, quei tratti ”restati per sempre
vivi nella sua memoria inconscia“ (M. Bonaparte, 1933). E, tuttavia, l’insistenza con cui il testo si
sofferma su tale bellezza, la reiterazione delle parole che ne ripercorre ogni particolare, segnalano lo
sforzo di mantenersi su quel piano estetico dove l’oggetto ideale, bello e da ammirare, smentisce
con la sua perfezione e la sua immortalità la realtà del decadimento e della morte. Da questo punto
dì vista è interessante constatare che il tema centrale di questo racconto è proprio la sopravvivenza
dell’amata alla morte: Ligeia infatti, che si ammala e poi muore,è destinata a reincarnarsi in
Rowena. Una simile funzione denegante dell’oggetto ideale ci farebbe comprendere perché
continuamente affiori nella bellezza del volto di Ligeia un altro volto, segreto e diverso, una
“stranezza” inquietante che ne confonde i contorni e ne offusca l’identità. “La stranezza che io
trovavo in quegli occhi era di una natura ben distinta da quella della loro conformazione, colore e
splendore e andava, insomma, attribuita all’espressione … L’espressione degli occhi di Ligeia!
Quante lunghe ore vi ho meditato sopra! Come, durante un’intera notte d’estate, mi sono sforzato
di penetrarne il significato! Che cos’era dunque mai questo qualcosa molto più profondo del pozzo
di Democrito che giaceva in fondo alle pupille della mia amata? Che cos’era? Ero ossessionato
dalla passione di scoprirlo” (Poe, ibid). Freud ci ha parlato di questa “estraneità inquietante” o
Unheìmliche, che è lo stesso: qui ciò che è occultato si rivela, ma solo furtivamente, il noto allude
all’ignoto e, nella ineffabile compresenza di entrambi, apre il soggetto alla vertigine del fantasma.
Qui dunque, inizierebbe ad emergere nella sua forma più sottile l’ossessione del fantasma materno.
Ma dipaniamo l’altro filo. Vediamo allora che l’immagine idealizzata di Ligeia faceva di lei una
presenza incorporea e spirituale, e perciò rassicurante; ora l’Unheimliche segnala la rottura di un
tale equilibrio. Se tale rottura si consuma, gli affetti sono messi in libertà. Allora ciò che
incontriamo non è propriamente il volto della madre ma il volto “reale” del soggetto. Ligeia si
ammala, come le altre: ancora una volta si tratta di vedere qui non solo il corpo reincarnato della
madre ma anche il corpo offerto alla violenza dell’immaginario, alle passioni infine svelate del
soggetto. “Ligeia cadde ammalata; gli strani occhi lampeggiavano con una luce troppo… troppo
splendente; le pallide dita presero il cereo colore trasparente della tomba, mentre le vene azzurrine
della sua spaziosa fronte si gonfiavano e si abbassavano impetuosamente al flusso della più lieve
emozione. Compresi che ella doveva morire” (Poe, ibid). Vita e morte si contendono il corpo
femminile in un movimento che, portato al parossismo, ritroveremo nell’agonia di Rowena, quasi
un movimento orgastico cui gli occhi di lui assistono con la crudeltà che ha il bambino davanti alle
convulsioni agoniche della vittima appena colpita. Ligeia dovrà morire: la morte si inserisce come
punto di fuga del godimento… ma anche della nostalgia d’amore: “… solo nella morte compresi
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pienamente tutta la forza del suo affetto” (Poe, ibid.). Nella morte l’oggetto d’amore si dà con
assoluta certezza, si piega ad un possesso totale, assoluto. Onnipotente. “Ella riversava su di me
tutta l’esuberanza di un cuore la cui devozione più che appassionata giungeva fino all’idolatria…
nell’abbandono più che femminile di Ligeia ad un amore che assolutamente non meritavo e che mi
era indegnamente concesso, riconobbi alla fine il principio del suo ardente, del suo cosi sfrenato
rimpianto per una vita che ormai troppo rapidamente fuggiva; proprio questo sfrenato ardore…
questo appassionato, veemente desiderio di vita… solo di vita… non ho il potere di ritrarre” (Poe,
ibid.). La separazione, ma non necessariamente la morte, si muove nel registro del tempo. Qui, al
contrario, la morte consegna lei, l’oggetto d’amore, all’eternità fuori del tempo, suggella un
contratto d’amore senza termine… insieme per sempre… e, come estrema fantasia di unione, fonda
l’asservimento amoroso dell’oggetto, la sua illimitata fedeltà. Da un altro punto di vista, la morte
dell’oggetto segnala l’onnipotenza fantasticata del soggetto: ”essa muore… io do, io tolgo la vita”.
Ligeia muore, ma rinasce attraverso la morte stessa: notturna alchimia dì aggressione e di fusione,
di resurrezione e di morte, in cui si consuma segretamente la nostalgia di una stretta amorosa.
Nostalgia: nostos- ritorno, algos- dolore. Questi canti di distruzione e di morte sono disperate
invocazioni d’amore. Figura centrale nell’immaginario di Poe, la morte condensa realtà e fantasmi.
Non possiamo vedervi soltanto la reviviscenza del trauma reale (la morte della madre); intorno al
frammento reale, e a partire da esso, l’immaginario tesse il fantasma. Da questo momento è la morte
come fantasma che domina lo scenario. La morte è allora il ricordo nostalgico di cui egli aureola la
madre, e perciò è il godimento come nostalgia. Ma è anche il segno del suo tradimento. E se, nel
rimpianto, egli veste la madre di aerea, disincarnata bellezza, è perché essa non mostri il suo volto
segreto, perché non si sveli come figura del negativo, del vuoto e dell’abbandono. La morte, allora,
è anche la vendetta del figlio, messa-a-morte che istituisce il godimento nella crudeltà. Là, nel
punto dove l’oggetto muore, scompare, egli lo distrugge, lo abolisce, per farlo tuttavia rinascere nel
sogno d’unione dopo la morte, là dove si proietta l’onnipotenza del suo desiderio di averlo… per
sempre. La morte, dunque, anche come celebrazione narcisistica, trionfale recupero dell’oggetto,
per restituirsi un contorno, un’esistenza (un’identità), per non cadere nell’abisso della mancanza.
Del nulla. Perché questo abisso non annulli il soggetto bisogna che la morte, anziché separare, apra
percorsi di immortalità e di unione: morto, l’oggetto si trasfigura e rinasce vivo nell’immaginario,
ora sarà in eterno asservito al soggetto, mai più potrà sottrarsi agli intrighi della passione, sarà
distrutto per essere creato e creato per essere distrutto.
Da Ligeia a Rowena
La fedeltà a Ligeia richiede paradossalmente un altro oggetto su cui la distruzione possa compiere i
suoi riti mortiferi: Ligeia muore. In un istante di smarrimento egli sposa un’altra donna, così la
prima potrà essere polo d’amore e di struggimento a patto che l’altra si lasci travolgere dal
vertiginoso deflusso della marea pulsionale. È Rowena, la bionda, la fragile, che si fa vittima
sacrificale perché l’altra possa essere amata nella distanza del rimpianto. Rowena, amante
degradata, si contrappone a Ligeia, “l’amata, la maestosa, la bella, la morta”, una, egli la odia di
un odio più demoniaco che umano, per l’altra l’amore può liberamente dispiegarsi. “Io la odiavo di
un odio degno dell’inferno più che di questo basso mondo; la mia mente sì volgeva indietro (oh,
con quale intenso rimpianto!) a Ligeia, l’amata, la maestosa, la bella, la morta: mi esaltavo nel
ricordare la sua purezza, la sua saggezza,, la sua sublime, eterea natura, il suo appassionato e
idolatrico amore; ora il mio spirito ardeva pienamente e liberamente di un fuoco più ardente di
quanto fosse stato il suo; nell’eccitazione dei miei sogni d’oppio… invocavo ad alta voce il suo
nome nel silenzio della notte o di giorno nei recessi della torre in cui trovavo rifugio, come se il
selvaggio impeto, la solenne passione, il divorante ardore del mio desiderio potessero richiamarla
ai sentieri della terra che ella aveva abbandonato” (Poe, 1838). Ma Rowena dev’essere sacrificata.
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Da questo momento la morte, liberata, si fa passione, godimento perverso, estetica barocca. La
morte dilaga e si moltiplica nelle rappresentazioni di se stessa, nella sovrabbondanza dei segni,
quasi impudica nel suo eccesso di offerta ai sensi e al linguaggio. Un crescendo di esaltazione, in
una sorta di macabra danza delle parole, sostiene la descrizione della camera nuziale, luogo in cui si
consuma la morte di Rowena. Niente più di questo corpo femminile degradato dal rito di
resurrezione e di morte che mille volte si compirà su di esso valgono a condensare lo spettro
multiforme dell’immaginario. Su questo corpo la violenza può avere libero corso, è il corpo che egli
uccide e resuscita ma sul quale ogni rito di rinascita ha solo l’effetto di rendere la decomposizione
più impudicamente presente. “Divenne chiaro che una lieve, debolissima e appena percettibile
colorazione era salita alle gote e lungo le piccole incavate vene delle palpebre,., non c’era alcun
dubbio che i nostri preparativi erano stati un po’ troppo affrettati… che Rowena era ancora viva.,,
ma in breve il colore scomparve dalle gote e dalle palpebre, lasciando un pallore più che
marmoreo; le labbra si raggrinzirono doppiamente e si serrarono nella spettrale espressione della
morte; un freddo viscido e repulsivo si diffuse rapidamente su tutta la superficie del corpo” (Poe,
ìbìd.). Questo corpo che si decompone riassume un’ambiguità fondamentale: morto-vivo, esso
allude in maniera inquietante ad un oggetto sospeso dentro, ambiguamente teso tra vita e morte,
oggetto non significabile perché non ancora perduto e perciò rappresentabile solo come materia,
sostanza, cosa. Questo corpo muore per non morire mai, ma il ritorno alla vita è soltanto una
macabra rappresentazione agonica, una convulsione di vita che ha l’effetto di rendere la morte
ancora più eccessivamente, insopportabilmente presente. Il suo spasimo allude a riti di crudeltà e di
piacere. Violenza e sessualità (o meglio, quel presentimento di sessualità che è l’universo anale)
sembrano intrecciare il groviglio di fantasie, oggetti, desideri, che sì celano dietro la preponderanza
di questo corpo femminile morente. Un corpo che è anche oggetto sacrificale cui il gesto crudele e
onnipotente di lui accorda vita e morte, conferendo alla morte il trasalimento della vita e alla vita la
pesantezza, l’offuscamento della morte. “Al colmo dell’orrore stetti in ascolto… il suono si sentì di
nuovo… era un sospiro… vidi… vidi distintamente un tremore sulle labbra; un minuto dopo esse si
dischiusero, scoprendo la linea brillante dei suoi denti perlacei… Ora un parziale colorito si
stendeva sulla fronte, sulle gote e la gola; un sensibile colore pervadeva tutto il corpo… la donna
viveva… e io, con rinnovato ardore, mi dedicai al compito di risuscitarla… ma invano;
improvvisamente il colore scomparve, le labbra ripresero l’espressione di morte e, un istante dopo,
l’intero corpo aveva ripreso la freddezza glaciale, il colore livido, l’assoluta rigidezza, il profilo
incavato e tutte le orribili caratteristiche di chi è stato per molti, giorni in una tomba” (Poe, ìbid.)
Egli si arresta qui, calamitato da questo polo di desiderio e di odio, di fascinazione e di repulsione;
prigioniero di questa visione oltre la quale c’è per lui l’ignoto. Morte come vendetta, morte come
godimento, morte come celebrazione onnipotente. Non morte simbolica ma morte immaginaria, che
diventa oggetto di un desiderio perverso, che non si scambia più e non può monetizzarsi nel
fantasma (J. Baudrillard, 1984). Morte, dunque, come reincarnazione e ritorno: “Eccoli finalmente,
gridai, non posso ingannarmi… non posso ingannarmi… questi sono gli intensi, i neri, gli strani
occhi del mio perduto amore… della mia donna… di lady Ligia” (Poe, ibid.),
La Madre morta
Lo spazio letterario offre a questo amoroso malinconico la possibilità, sia pure incerta, sia pure
fragile, di ridare parole al dramma infantile, rievocarlo, rimemorarlo, tentare per esso la soluzione
sublimatoria. Nell’area di gioco dei suoi racconti Poe può sognare, giocare con i morti e i fantasmi
— gioco del rocchetto (madre morta-madre resuscitata), gioco dello specchio — unica garanzia
contro la propria morte. È l’oggetto arcaico, la Madre, che egli cerca, con cui cerca di far relazione.
Ma non fa che rivivere, ripetitivamente, l’incontro con un oggetto femminile assolutamente
spaventoso, incontro che, nello scenario dei racconti, comporta il disfacimento e la corruzione
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(fisica, psichica) del protagonista e insieme del suo oggetto. Berenice, Madeline, Morella, Ligeia:
esse sono, con ogni evidenza, doppi immaginari dove celebrare il ritrovamento della madre e al
tempo stesso commemorarne ogni volta la perdita. Attraverso di loro l’antico oggetto d’amore si
ridà all’immaginario, ma per sottrarsi, per morire di nuovo: circolarità estenuante di illusione e
delusione, di possesso e di perdita, di resurrezione e di morte. Egli pare consumarsi in questo
appuntamento sempre tentato e sempre mancato; monotonamente egli rinnova un oggetto che poi è
destinato a morire. Il luogo verso il quale egli continua a gravitare è una specie di cimitero privato
dove la madre lo assorbe senza restituirgli nessuna parte viva. “.. e cosi tutta la notte al fianco io
giaccio del mio amore, mia vita e mia sposa, nel suo sepolcro laggiù presso il mare, nella sua
tomba presso la riva del mare”(Poe, 1849). D’altra parte, vivo, l’oggetto fenminile è tenuto
costantemente a lato: è un’astrazione, un’idea, una qualità spirituale, una presenza pallida e
incorporea. Solo nella dissoluzione della morte o nell’agonia prende corpo e diviene una presenza
reale, eroticamente allusiva. Allora il linguaggio lo racconta, lo accarezza, lo accompagna in tutta la
sequenza di distruzioni che la morte gli infligge. Vivo, è oggetto di un amore insterilito, impotente;
morto, è teatro di passioni folli. Allora veramente si anima e anima il soggetto, mettendo in moto
l’economia degli affetti. Allora desiderio e distruzione vi si consumano e lo consumano fino
all’annientamento finale di entrambi, soggetto e oggetto. L’oggetto amoroso rimane comunque
intangibile; spogliandolo di passione, l’idealizzazione lo proietta ad altezze sublimi, dove è
neutralizzata ogni valenza di desiderio. Se sfugge a questa negazione radicale dell’Eros è per
precipitare nella morte. Sono comunque sempre i segni (le parole) a veicolare la passione:
l’atmosfera stagnante, opprimente, la decomposizione, l’incubo, si ode, si respira, si percepisce,
attraverso una parola che, essa, è diventata corporea, laddove la parola che esprime l’amore
idealizzato è parola “cortese”, fragile quanto inanimata. Perfino la malinconia nostalgica che allora
esprime è un sentimento sottile, che vive di trasparenze purificate, un’eco di dolore. Quando il
corpo femminile si svela sotto il segno della morte anche la parola si anima: essa rinuncia allora ai
rarefatti artifici linguistici dell’idealizzazione, sprofondando nella morte si fa stranamente discorso
vivo, pulsante. L’oscillazione tra la difesa e la rivelazione del fantasma inconscio sembra tradursi
quindi in un’oscillazione formale tra una parola spirituale, inanimata, e una parola densa,
emozionalmente carica.
Nel reciproco riverberarsi tra il prima e il dopo, tra quanto ha vissuto nell’infanzia e quanto vive
dopo, accade che tutta la realtà successiva viene avvelenata dalla realtà iniziale e, inversamente,
tutto ciò che di fatalmente traumatizzante viene trovato nella realtà adulta è ricatturato in quelle
maglie e ne amplifica le qualità tragiche e minacciose: muore la madre, a tre anni, muore Helen,
amore dei quindici anni, muore Frances, la madre adottiva, Virginia, la moglie bambina, Frances, la
poetessa amata malata di usi. ”I miei lutti, scriverà, sono più di quanto io possa sopportare”. Come
un boomerang l’esperienza di morte di ora rimanda a quell’altra, quella di prima, e rinforza in lui il
sentimento di una maledizione, di una sofferenza ineluttabile. “Oh, Annie, ha visto, ha sentito
l’agonia dolorosa con la quale le dico addio, si ricorda la mia cupa espressione, come se avessi lo
spaventoso e orribile presentimento dell’infelicità… mi sembrava che in quel momento la morte mi
si avvicinasse e che fossi già avvolto nell’ombra di oscuri presentimenti. La mia vita mi appare
finita, l’avvenire mi appare un oscuro vuoto” (Poe, 1849), Ma ogni perdita, ogni morte, mentre
lascia rivivere i suoi lutti, si costituisce nell’immaginario anche come scenario in cui può scriversi
la violenza; dunque messa-a-morte che ribalta la morte sofferta, subita, di una donna, in morte data,
inflitta. Sullo sfondo traspare qualcosa di ancora diverso: nella morte soggetto e oggetto sono,
definitivamente, indissolubilmente prigionieri l’uno dell’altro; lì, attraverso il loro annientamento,
essi celebrano i loro amori. In questa traiettoria ci portano le sconvolgenti immagini dove il mare,
“inferno liquido”, abbraccia, avvolge, inghiotte: fantasia oceanica che della morte fa l’abisso che
ricongiunge e fonde, e quindi annulla la morte stessa in un miraggio di eternità. In queste acque egli
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consuma l’unione con lei, la Madre. La morte è l’arco teso del loro godimento fusionale, letale…
come l’oppio… vertigine del loro ricongiungimento indifferenziato. “Intorno alla nave c’è
l’oscurità della notte eterna e un caos d’acqua senza spuma, ma a destra e a sinistra, alla distanza
di circa una lega da noi, si possono scorgere distintamente e a intervalli i mostruosi baluardi di
ghiaccio che torreggiano contro il cielo desolato e sembrano le mura dell’universo. Come io avevo
immaginato, la nave si trova certamente in una corrente, se si può dare questo nome a una marea
che, mugghiando e urlando fra il banco dei ghiacci, si precipita verso sud con la velocità della
precipitosa caduta di una cateratta. E’,credo, impossibile concepire lo spavento delle mie
sensazioni; tuttavia il desiderio di conoscere i misteri di quelle spaventose regioni oltrepassa anche
la mia disperazione e finirà con il conciliarmi anche con il più tremendo aspetto della morte. E’
chiaro che corriamo verso qualche affascinante scoperta, qualche segreto che non si può
trasmettere, la cui conoscenza porta alla morte… Frattanto abbiamo sempre il vento in poppa e,
poiché siamo forniti di un’enorme quantità di vele, la nave talvolta emerge quasi interamente dal
mare. Oh, orrore su orrore… Il ghiaccio ad un tratto s’apre a destra e a sinistra, e noi stiamo
girando vertiginosamente in infiniti cerchi concentrici come intorno ad un immenso anfiteatro, la
cima dei cui muri si perde nelle tenebre dello spazio… Rapidamente i cerchi si restringono, e noi
nella stretta del turbine affondiamo vertiginosamente. In mezzo all’urlo, allo scroscio,
all’esplosione dell’oceano e della tempesta, la nave trema, mio Dio! e affonda” (Poe, 1833).
L’imago materna è li, finalmente ritrovata, ma al prezzo di questa totale dissoluzione dell’Io.
Questa fusione avvolgente e mortifera sembra l’ultima fantasia possibile; prima ancora, in un
immaginario tragitto regressivo, egli tenterà di reinvestire le tracce traumatiche, facendo di un corpo
femminile morente lo scenario delle pulsioni distruttive.
La Madre sepolta viva
Morta e rianimata ad ogni reinvenzione d’oggetto, la madre non muore mai veramente,
definitivamente. È lei che ipoteca l’amore; a lui, al figlio, non sarà proibito amare Virginia, la
moglie bambina malata di tisi da riscaldare nel letto di morte in un impressionante quanto tragico
rovesciamento di ruoli: Virginia figlia, Edgar madre… Virginia bambina, Virginia malata: la madre
attraverso di lei è diventata il suo bambino, ma egli sa da subito che la perde ancora… Elisabeth,
Helen, Frances, Virginia. Comunque una perdita. E le altre? Da amare, certo, purché “Imeneo,
Tempo e Destino” le rendano già inaccessibili: amerà l’eterea Frances, sposata, che lo fugge
terrorizzata dal suo carattere stravagante; amerà Helen e Annie contemporaneamente, oscillando
dall’una all’altra, implorando la prima di sposarlo e delirando d’amore per la seconda quando la
prima accetta, così, fino all’orlo del matrimonio, quando vaga ebbro per la città e la condizione
posta da Helen era la rinuncia all’alcool. Il matrimonio non si farà, naturalmente. Lui, Edgar, è
altrove, nella cripta nuziale dove madre e figlio consumano i loro amori defunti, prigioniero di lei
senza lasciarla mai veramente morire, bambino nostalgico alla ricerca di un oggetto
irrimediabilmente introvabile, ma al quale non sa rinunciare e che non sa perdere. Perderlo
aprirebbe la vertigine della separazione, del vuoto. Bisogna invece a tutti i costi che egli conservi
l’oggetto, trattenendolo disperatamente, facendo fusione con esso, sprofondando insieme ad esso in
un universo buio e sepolcrale. Non è morta, la madre, ma sepolta viva, incarcerata nelle parole,
nella scrittura, doppio segreto di ogni riapparizione femminile. Di volta in volta espropriata nella
sacralità che la morte vorrebbe conferirle, violata nella segretezza del sepolcro, indefinitamente
riesumata e messa a morte… tutto… purché non venga mai perduta. Avventuriero di un mondo
dove gioca la sfida coi propri fantasmi, egli non ne sa uscire. Raccontare è la sua maniera di
conservare e custodire la madre: farsene prigioniero, catturarla, resuscitarla, adorarla, respingerla,
lei, oggetto irrinunciabile, morbosa fonte d’amore e di morte. In assenza di un polo paterno di
riparazione e identificazione, in assenza di quel Padre simbolico indispensabile alla salvezza e alla
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nascita dalla claustrofobica cella materna, le cose rimangono a livello di un vissuto duale, dove la
fantasia estrema di ritorno a lei non può che configurarsi come fantasia angosciosa di sprofondare e
rimanere avvolto, sepolto, in un oggetto datore di morte. Escluso dal solare regno dei Padri, l’abisso
in cui egli precipita è un regno tanatico, dove l’amore si confonde con la morte, dove le eccitazioni
erotiche sono spasmi di agonia. “Da allora fummo avvolti in tenebre fittissime... ci avvolgeva in
continuità una notte eterna, non rischiarata nemmeno dalla fosforescenza del mare a cui, sotto i
tropici, eravamo abituati… Attorno a noi tutto era orrore, fitta oscurità, nero, opprimente desetto
d’ebano… ad ogni nodo compiuto dalla nave l’agitazione di quel nero, mostruoso mare diveniva
sempre più terribile, a volte, spinti ad un’altezza superiore a quella dell’albatro, ci mancava il
respiro, a volte soffrivamo di vertigini per la velocità della caduta in fondo a quell’inferno liquido
dove l’aria diventa stagnante e dove nessun suono poteva disturbare i sonni del Kraken (Poe,
1833). Tutto si gioca tra loro due, madre e figlio, in quell’ambigua falda del narcisismo dove la
madre non può essere né trovata né persa… in quel lìmite instabile tra il ritrovamento, che li
riunirebbe, e la perdita, che li separerebbe… limite instabile, giacché il ritrovarla prepara l’iperbole
dell’annientamento fusionale e il perderla apre il vuoto dei collasso narcisistico, buco psichico
riempito da frammenti persecutori o da immagini di mutilazione, castrazione, ferite cruente che
dell’Edipo non sono presagio ma solamente allusione. La loro funzione in realtà è diversa: funzione
riempitiva per eccellenza, esse tentano di colmare le fratture, i buchi, gli squarci vuoti, laddove
questi si profilano nell’orizzonte psichico. L’odio, ugualmente, serve a mantenere l’Io in vita, ad
attribuirsi, in una onnipotenza negativa, il potere di dare la morte per non esserne, all’inverso, preda
impotente. Così, la distruttività che si esercita sui personaggi femminili dei suoi racconti, mentre
soddisfa, da un lato, la sete di vendetta, diventa anche un baluardo difensivo per proteggerlo da una
doppia minaccia di annientamento: quella della fusione materna dissolutrice, da una parte, quella
del vuoto per la perdita d’oggetto dall’altra.
La Cosa
E’ Julia Kristeva a postulare l’esistenza di un oggetto originario, arcaico denominato Cosa per
sottolineare il suo porsi fuori dal dominio della significazione. ”Questo — qualcosa — sarebbe
precedente all’oggetto individuabile: orizzonte segreto e intoccabile dei nostri amori e dei nostri
desideri, esso assume per l’immaginario la consistenza di una Madre arcaica che tuttavia nessuna
immagine precisa riesce a inglobare“ (J. Kristeva, 1988). Cosa che necessariamente deve farsi
oggetto di un lutto perché ”il soggetto, separato dall’oggetto, divenga un essere parlante ma sul
quale, al contrario, il melanconico non cessa di esercitare un impossessamento d’amore e d’odio,
una captazione immaginaria che ne impedisce la perdita” (J. Kristeva, 1988). Ora, c’è uno sfondo
costante nei racconti di Poe, qualcosa che si annuncia con un sospetto di inquietante estraneità,
Unheimliche, e diventa poi ciò che sempre fu per lui fascino e terrore; non tanto la morte o la vita,
ma piuttosto la mescolanza di entrambe, la loro compresenza, l’ìndecidibilità tra l’una e l’altra.
Catalessi, morti apparenti, inumazioni premature, sonni mesmerici, esprimono l’oscillazione
tormentosa tra uno stato e l’altro. La vita ha sempre il colore pallido, spettrale, della morte, già ne
annuncia i segni, la corruzione; la morte, d’altra parte, non si situa mai in uno spazio di sicura
assenza… i morti sono sempre a un passo dal rivivere, dal risvegliarsi… riesumati, sepolti troppo
presto, ipnotizzati. Valdemar, sul punto di morire, viene posto nel sonno ipnotico che lo manterrà
vivo per sette mesi, sette mesi durante i quali egli è anche già morto. Per consegnarlo
definitivamente alla morte bisognerà risvegliarlo, ma il risveglio mostrerà che egli è solo
spaventosa, informe putrefazione. “Per amor di Dio, presto, addormentatemi o risvegliatemi
subito, presto io vi dico che sono morto… Mentre rapidamente facevo i passi mesmerici in mezzo
alle grida di — morto, morto – che addirittura esplodevano dalla lingua e dalle labbra del
paziente, tutto il suo corpo, ad un tratto, nello spazio di un solo minuto o anche meno, si sbriciolò
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decomponendosi completamente sotto le mie mani. Sul letto, davanti a tutti i presenti, giaceva una
massa quasi liquida di nauseante, orrenda putrefazione” (Poe, 1845). Quali fantasmi brulicano là
dentro? La Madre sepolta viva, sospesa tra vita e morte? O forse vi si agita questo qualcosa di più
arcaico, questo pre-oggetto indistinto, informe, ancora troppo corporeo e reale per avere nome? E’
forse questo livello più arcaico che risuona non solo in Valdemar, ma in tutte le inquietanti pagine
in cui Poe scivola verso le figure dell’impurità e della decomposizione: figure del caos, esse
evocano quel pullulare biologico indifferenziato posto al crocicchio tra l’ordine generativo della
vita e il disordine putrescente della morte. Esse sono, con ogni evidenza, figure dell’analità, di
un’analità che, non integrata né sublimata, può solo liberarsi nell’immaginario del soggetto,
mostrando così il suo fallimento come operatore di distinzioni e di frontiere. Anche a causa dì
questo fallimento l’Io non è mai veramente protetto dal richiamo della regressione fusionale; e
perciò, anche da questo punto di vista, noi vediamo sullo sfondo il pericolo dell’inghiottimento, del
divoramento nel corpo-a-corpo con la Madre arcaica. Senza frontiere stabili, egli continua a
gravitare verso un polo di fusione e indifferenziazione, mortale richiamo di un corpo materno che
invade ed è invaso. Ancora una volta si profila la perdita di identità: terrore-desiderio di essere
inghiottito, seppellito, soffocato. Come sottrarsi allora a questa immagine mortifera dell’oggetto
(dell’Amore) se non fuggendo?
Conclusioni
Abbiamo visto come il tema della madre morta possa essere agganciato a differenti scenari
fantasmatici; esso è in relazione, secondo la classica interpretazione di Marie Bonaparte, con la
madre morta dell’infanzia che, per il principio della ripetizione, si reincarna in ogni nuovo oggetto
d’amore; esso è anche in relazione con la madre messa-a-morte, uccisa e devastata dalle passioni
distruttive del soggetto; in esso, infine, si può cogliere il riflesso di un fantasma di
ricongiungimento fusionale con la Madre arcaica, che potrebbe ben esprimersi attraverso la
mediazione simbolica di un femminile legato alla morte e portatore di morte. Il tema della Madre
sepolta viva rappresenta un passo ulteriore: si collega infatti all’idea di un oggetto che viene
perennemente riedificato per non essere mai perduto, di un oggetto gelosamente custodito per
evitare che lo spazio psichico si svuoti. Mentre una serie di operazioni può essere messa in atto per
scongiurare la minaccia fusionale, operazioni tese o a distanziare tale oggetto neutralizzandone la
valenza libidica o ad annientarlo attraverso l’attivazione della distruttività, ciò che rimane sempre
essenziale è che lo spazio interno non si spopoli. Proprio lo spettro del vuoto psichico alimenta la
necessità di un impossessamento totale, divorante, dell’oggetto, fino allo sconfinamento fusionale.
È qui che incrociamo il dilemma narcisistico per eccellenza, quello che, come ci ricorda Green,
intrappola il soggetto tra l’angoscia di invasione e l’angoscia di separazione (Green, 1985). È
suggestivo pensare che la madre morta che anima i racconti di Poe si situi all’incrocio di questa
doppia significazione: morta nel senso della sparizione, dell’assenza, del vuoto d’oggetto, morta nel
senso di farsi luogo di operazioni mortifere che paradossalmente servono a resuscitarla e a renderla
immortale. L’oppio allora, come l’alcool, anestetizza e placa: Poe vi fece ricorso per tutta la vita.
Diversamente, la scrittura tenta di nominare e rappresentare, offrendo al malessere psichico
l’ancoraggio delle parole. Non si deve sottovalutare questa funzione essenziale che la scrittura
riveste in certi destini: la parola scritta assicura una presa nei confronti di un male altrimenti
indicibile e funziona così da baluardo contro il silenzio e la morte psichica. In Poe lo spettro del
nulla, del vuoto psichico, si profila proprio lì, nella fine dei segni, quando non resta più nulla da
scrivere. Nell’estate del 1849 egli pubblica Eureka, una lunga meditazione filosofica. Il 7 luglio
dello stesso anno scrive a Maria Gerani, la madre adottiva: “Non ci resta che morire insieme. Non
serve a nulla discutere con me ora: devo morire. Da quando ho finito Eureka non ho più alcun
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desiderio di vivere. Non riuscirei a portare a termine nient’altro” (Poe, 1849). Egli muore tre mesi
dopo, il 7 ottobre, in stato di delirio.
Riassunto.
L’autrice analizza quella parte della tematica letteraria di Poe che si sviluppa intorno ad una figura
femminile e in cui, secondo il ripetersi di una vicenda sempre uguale, la donna amata si ammala e
muore. Tale tematica viene messa in relazione con alcuni possibili scenari interni che, mentre hanno
come sfondo la madre precocemente morta nell’infanzia dello scrittore, offrono di questo evento e a
partire da esso una complessa rielaborazione. Il dominio nel mondo interno di un oggetto
devitalizzato, connesso all’oggetto d’amore primario, le operazioni distruttive che vengono
compiute su di esso, l’incapacità di sottoporlo ad un processo di lutto, mantenendolo invece in una
condizione di oggetto sepolto-vivo, sono alcune delle direzioni particolarmente esplorate.
Summary,
The Author analyses Poe’s works regarding a female lover who falls ili and dies, and which ahvays
follow the same plot. This theme is related to several scenes of the inner world which are the
complex working through of the event of the premature death of the writer’s mother. Some of the
aspects considered were the presence in the inner world of a controlling object, especialiy
connected with the primary love object, the destructìve actions against the object, the inability to
mourn and the maintenance of the relationsbip of a buried-alive object.
Bibliografia
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