Storia della lingua e linguistica - ZORA
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Storia della lingua e linguistica - ZORA
Zurich Open Repository and Archive University of Zurich Main Library Strickhofstrasse 39 CH-8057 Zurich www.zora.uzh.ch Year: 2015 Storia della lingua e linguistica Loporcaro, Michele Abstract: Unspecified Posted at the Zurich Open Repository and Archive, University of Zurich ZORA URL: http://doi.org/10.5167/uzh-116916 Published Version Originally published at: Loporcaro, Michele (2015). Storia della lingua e linguistica. In: Ghizzi, Chiara. Le forme dell’italiano scritto. Convegno internazionale di storia della lingua italiana (9-10 ottobre 2014). Pisa: Edizioni ETS, 133-157. «Quaderni» della Sezione di Italiano dell’Università di Losanna Comitato scientifico Mario Barenghi, Università di Milano-Bicocca Marco Santagata, Università di Pisa Alfredo Stussi, Scuola Normale Superiore, Pisa «Quaderni» is a Peer-Reviewed Publication. «Quaderni» è una pubblicazione con revisione paritaria. Impaginazione e cura redazionale di Enea Pezzini. Un grazie particolare ad Amelia Juri e Mattia Ferrari. Université de Lausanne Faculté des lettres – Section d’italien Quaderno di italianistica 2015 a cura della Sezione di Italiano dell’Università di Losanna www.edizioniets.com Il volume è pubblicato grazie a un contributo di © Copyright 2015 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884674355-8 Sommario del volume 7 maria clotilde camboni (A)sistematiche, (ir)razionali, (extra)schematiche: le rime interne 33 nadia belliato Per un commento al «Dittamondo»: il Paradiso terrestre e la personificazione di Roma (I xi) 49 alessia di dio «Per altrui sospira»: gelosia e tradimenti. Su un sonetto conteso tra Domizio Brocardo e Giorgio Musca 71 giulia raboni L’ anti-idillio di Vittorio Sereni Le forme dell’italiano scritto. Convegno internazionale di storia della lingua italiana (9-10 ottobre 2014). Atti, a cura di chiara gizzi 93 piero g. beltrami Storia della lingua e filologia romanza 111 paolo d’achille Storia della lingua. Lo stato della disciplina 133 michele loporcaro Storia della lingua e linguistica 159 uberto motta, niccolò scaffai, luca d’onghia «Storia dell’italiano scritto». Una tavola rotonda sommario 183 rita librandi Una storia dell’ italiano scritto per i nodi della storia della lingua italiana 191 Abstracts Indici, a cura di enea pezzini 197 Indice dei nomi, dei personaggi e delle opere anonime 206 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio Le forme dell’italiano scritto Convegno internazionale di storia della lingua italiana Losanna, 9-10 ottobre 2014 Atti a cura di chiara gizzi In questa sezione del Quaderno si raccoglie una serie di scritti dedicati alla Storia dell’italiano scritto (SIS), curata da Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin e uscita in tre volumi nel 2014 per i tipi di Carocci. Ad alcuni dei contributi proposti in un incontro di studio presso l’Università di Losanna il 9 e 10 ottobre 2014 (sono gli interventi di Pietro G. Beltrami, Paolo D’Achille, Michele Loporcaro, Uberto Motta, Niccolò Scaffai e Luca D’Onghia) si aggiunge la relazione presentata da Rita Librandi all’Accademia dei Lincei il 12 marzo 2015. Un ringraziamento va, oltreché agli autori e agli altri partecipanti all’incontro di studio (in particolare a Simone Albonico e Claudio Marazzini che ne hanno presieduto le sessioni), alla Scuola dottorale di Studi italiani – Letteratura, linguistica e filologia della Conférence Universitaire de Suisse occidentale, che ha dato il suo sostegno all’organizzazione delle giornate losannesi. Chiara Gizzi Storia della lingua e linguistica* michele loporcaro Universität Zürich I. Preliminari di metodo Il tema che mi è stato assegnato è di quelli che impongono, come entrata in materia, la figura dell’occupatio: non potrò infatti presentare un quadro complessivo dei rapporti fra le due discipline, né una ricostruzione della storia degli studi. Mi limiterò ad esporre alcune esperienze di lettura, su due fronti: quello del metodo (nella prima parte) e poi quello dell’analisi, in relazione al tema di queste giornate dedicate alle forme dell’italiano scritto. Cominciamo dal metodo. Per poter parlare di x e y bisogna che si sappiano definire x e y, in modo da poter trattare dei loro rapporti. E già qui insorgono difficoltà da non sottovalutare. Ce lo dicono i molti e diversi tentativi di definire e ridefinire la “Storia della lingua”. Alberto Vàrvaro, nel suo splendido e ricchissimo saggio di quarant’anni fa intitolato Storia della lingua: passato e prospettive di una categoria controversa, delimitava il campo della storia della lingua rispetto alla linguistica storica: quest’ultima corrispondente alla somma dei metodi della «grammatica storica di tradizione ottocentesca», di stampo neogrammaticale, e dello «strutturalismo diacronico di genitura praghese». *Il testo mantiene l’impostazione discorsiva e il riferimento al contesto enunciativo in cui è stato originariamente letto, a Losanna il 9 ottobre 2014, in occasione delle giornate di studio su «Le forme dell’italiano scritto», organizzate dall’amico Lorenzo Tomasin, cui va il mio grazie per avermi dato l’opportunità di sviluppare un discorso che da tempo avevo in mente. È appena il caso di dire – e, a lettura ultimata, non parrà vuota formula di rito – che la responsabilità di quanto sostengo nel seguito è unicamente mia. . Della storia della linguistica (in generale, o in Italia, o in relazione all’italiano) non avrebbe manifestamente senso parlare in questa sede, mentre quanto alla disciplina “Storia della lingua italiana” si può far riferimento a trattazioni che ne delineano magistralmente origine e sviluppo (vd. Stussi 1993, o il capitolo di retrospettiva in apertura di Marazzini 2002). Un panorama aggiornato della situazione attuale degli studi è in D’Achille 2015. . Vàrvaro 1972-1973, p. 44. Un grande Maestro, di quelli che segnano una (e più d’una, anzi) disciplina, del quale scrivevo ancora al presente per le giornate losannesi, scomparso il 22 ottobre 2014. Alla Sua memoria dedico queste pagine, a continuazione ideale di un dialogo al quale <[email protected]> Quaderno di italianistica 2015, Pisa, ETS, 2015, pp. 133-157. michele loporcaro Il saggio parte da una rassegna (il «passato» di cui nel titolo) delle trattazioni, dal Settecento in poi, ispirate a binomi come «lingua e nazione» o «lingua e letteratura». Segue l’enunciazione del programma (le «prospettive»), con una cesura netta rispetto a quanto precede, giacché la nuova «Storia della lingua» viene definita non tanto in rapporto a quei prodromi, bensì in opposizione alla linguistica storica tradizionale. Questa, scrive Vàrvaro, si fonda sul postulato secondo cui «Il sistema linguistico di cui studiamo l’evoluzione nel tempo è un sistema isolato, utilizzato da parlanti per i quali esso è l’unico sistema linguistico disponibile; l’interferenza di altri sistemi è esterna al parlante singolo ed alla comunità». Postulato da rigettare in quanto «comodo» ma «irreale», dal che emerge per contrasto il «compito della storia della lingua», definito come «lo studio dei modi, dei tempi e degli spazi dell’organizzarsi o disorganizzarsi di sistemi coesistenti». Si passa quindi a illustrare con esempi queste prospettive per l’allora futuro della disciplina, e nella rassegna dei modelli trovano posto Hugo Schuchardt (in particolare il suo Slawo-Deutsches und Slawo-Italienisches, 1884), Uriel Weinreich (Languages in Contact, 1953), i Fondamenti empirici per una teoria del cambiamento linguistico di Weinreich, Labov, Herzog (1968, edizione italiana 1977), e poi Joshua Fishman, John Gumperz, ecc. Basta quest’enumerazione per concludere che la prospettiva di rinnovamento delineata da Vàrvaro a inizio anni Settanta mandava la storia della lingua in direzione di una particolare linguistica: la sociolinguistica, con aperture, anzi, in direzione francamente extralinguistica, verso la sociologia del linguaggio. I nomi appena ricordati appartengono ad esponenti di spicco di quella che altrove ho chiamato la linea antimmanentista nella teorizzazione sulla lingua fra Otto e Novecento: linea che si riassume nell’accusa di Schuchardt ai neogrammatici di rappresentare la «antica opinione, la quale separava la lingua dall’uomo, conferendole vita autonoma». Ma tutto questo, si dirà giustamente, riguarda la linguistica: si vede dunque che quel brillante saggio di quarant’anni fa, ridefinendo le prospettive della «Storia della lingua», spostava la materia del contendere tutta sul fronte linguistico. Non mancano però – anche di recente – tentativi che, pur utilizzando ingredienti apparentemente simili (in particolare, il riferimento al contesto Alberto mi ammise – la mia parte nel “dialogo”, allora, consisteva nell’ascoltare – quand’ero un dottorando alle prime armi. . Vàrvaro 1972-1973, p. 45. . Ivi, p. 47. . Cfr. Loporcaro 2008, p. 59; 2012, p. 161. . Schuchardt 1885, p. 34 [231]. Contrapposta a questa linea è quella che invece, con Saussure, ritiene legittima (anzi, necessaria) una considerazione immanente della struttura linguistica: ad essa, facendo astrazione dalle pur cospicue differenze, possiamo ascrivere i neogrammatici e, nel Novecento, la linguistica strutturale e generativa (Brugmann, Saussure, Chomsky). storia della lingua e linguistica sociale) spingono la disciplina in ancora un’altra direzione. È questo il caso del saggio del 2010 di Massimo Arcangeli, Per una storia sociale dell’italiano e delle lingue d’Italia. Vi si fa riferimento all’altro lavoro ora citato come a «un magistrale saggio di Alberto Vàrvaro», ma la ricetta proposta, anche qui sulla via di un allontanamento dalla linguistica storica “tradizionale”, è ben più radicale: Il traguardo di una stretta solidarietà fra i due domini [cioè «una storia strutturale o “interna” dell’italiano», da un lato, e la storia esterna, dall’altro, con le note etichette del Brunot] […] sarebbe a portata di mano solo a impugnare strumenti più adatti e a modificare il punto di vista: preferendo all’esile specillo delle analisi minute e pedanti, aridamente elencatorie o limitantemente descrittive, bisturi e scalpelli che affondino nel corpo testuale nel suo valore di testimonianza di civiltà e di popoli, ideologie e identità, protocolli e cerimoniali sociali; puntando, anziché sui tempi brevi o medio-brevi dell’evoluzione linguistica, scanditi meccanicamente dai passaggi one to one della grammatica storica, sui tempi lunghi o lunghissimi della conservazione culturale [corsivi nell’originale]. Questa disciplina rinnovata, presentata in esordio come una sintesi che includa anche la considerazione strutturale della lingua (ma con molto altro, come si vede) si diparte dalla linguistica sempre più nettamente via via che il saggio procede. Così se ne articola ulteriormente il profilo, quattro pagine dopo: Sarebbe ora di pensare anche per la nostra penisola a una storia dell’italiano e delle lingue d’Italia nelle loro preminenti e originali componenti sociali (con particolare riguardo alla cultura materiale): la storia delle idee e delle religioni, i fattori identitari, di gender e generazionali, la circolazione, lo scambio e la vendita delle merci, le professioni e i mestieri, le mode e i costumi, la cucina e l’alimentazione, le strutture familiari e parentali, i riti e le cerimonie nuziali, la sessualità e le malattie (e annessi tabù), la guerra e l’organizzazione militare, gli insediamenti e gli assetti abitativi, la diffusione della cultura, del sapere, dell’informazione attraverso mezzi, materie, supporti diversi, gli assetti politici e le modalità di acquisizione del consenso […], il sistema scolastico e universitario e le altre strutture educative, l’organizzazione del sistema giudiziario e le forme di detenzione e di pena. C’è molta carne al fuoco: e in effetti l’autore stesso, in capo ad altre due pagine, confessa candidamente: «Non saprei nemmeno, francamente, da dove cominciare». Così, nel dubbio, come primo passo per un’impresa sì ambiziosa propone al lettore alcune annotazioni sulla filastrocca Ponte ponente ponte pì, ricordandone l’antecedente francese (Pomme de reinette et pomme . Arcangeli 2010, p. 193. . Ivi, p. 198. . Ivi, p. 202. . Ivi, p. 204. michele loporcaro d’api) sulla scorta di un saggio di P. Canettieri (2006-2007). Interessante, per carità: ma non si vede come questo illustri il superamento dialettico – con sintesi fra linguistica interna ed esterna – enunciato in apertura. Il superamento di quella intrinseca duplicità della disciplina, così sintetizzata da Alfredo Stussi, che ne addita due esigenze apparentemente opposte, in realtà complementari: l’esigenza d’una storia linguistica più organicamente correlata ad altre serie storiche, e l’esigenza d’una storia linguistica più attenta alla sua specificità, cioè all’evoluzione della lingua – verrebbe voglia di dire – iuxta propria principia. Difficile definire meglio – il che, per inciso, mostra eloquentemente come tre righe possano valere e pesare più di interi volumi – l’intrinseca duplicità della storia della lingua, duplicità difficilmente riducibile, anche solo a causa della percezione identitaria di chi la pratica: non credo infatti che faccia l’unanimità, fra gli storici della lingua (e lo mostreranno gli esempi discussi al §II), la ridefinizione virulentemente esternista testé menzionata, che sposta il baricentro completamente al di fuori della linguistica, in direzione di una storia esterna che, da storia esterna della lingua, si stinge in storia tout court; né d’altro canto ha fatto l’unanimità il lucidissimo e intellettualmente raffinato tentativo di Alberto Vàrvaro di ridefinire la storia della lingua italiana come sociolinguistica storica dell’italiano: nella media, non pare che lo storico della lingua identifichi i propri padri nobili in Schuchardt, Weinreich o Labov. Guarderà piuttosto a Bruno Migliorini e Alfredo Schiaffini, e non solo per ragioni di intitolazioni di cattedre. Il motivo è semplice, anzi banale: e ci riporta al tema di queste giornate. È il legame necessario e definitorio – per la storia della lingua – con lo studio della parola scritta. Schiaffini ha studiato testi, e se Migliorini ha trattato anche di altre forme d’esistenza dell’italiano (novecentesco), ci ha dato la prima complessiva storia della lingua italiana attraverso i testi dei secoli passati (Migliorini 1960). Al contrario, negli studi di W. Labov l’analisi delle testimonianze del passato ha un posto marginale: ricorre solo laddove è questione di proiettare – applicando il principio dell’attualismo – alle rime di Shakespeare o ad altro documento/monumento dell’inglese dei secoli passati una conclusione cui si è pervenuti con l’analisi del parlato odierno e della sua variazione. Così, appunto, nel saggio famoso del 1974 Come usare il presente per spiegare il passato. . L’antecedente francese era peraltro già individuato – mi segnala gentilmente Paolo D’Achille – in Cimarra 1988, 1994. . Stussi 1998, p. 8 (un saggio citato dallo stesso Arcangeli e premesso alla Storia linguistica dell’italiano di Martin Maiden). . Sulla poliedricità del Migliorini linguista vd. le pagine di Covino 2011. storia della lingua e linguistica Più in generale, la linguistica tratta certo anche di testi dei secoli passati, come la storia della lingua. Ma su questa fondamentale comunanza si innestano differenze rilevanti. Quella fondamentale è proprio di natura mediale: per la linguistica le testimonianze scritte non esauriscono l’insieme dei dati di partenza: ne sono, piuttosto, un sottoinsieme. Ciò è vero non solo perché esiste la linguistica sincronica, mentre una “Storia della lingua sincronica” sarebbe una contradictio in adiecto, ma anche per la stessa linguistica storica, come si è visto nel caso del saggio di Labov. Il linguista lavora anche con altri materiali, che non sono testi scritti bensì possono essere orali (registrazioni in dialetto o lingua basate su inchieste; testi orali inclusi in corpora di parlato); e possono anche non essere testi: i giudizi di grammaticalità dei parlanti; i paradigmi, risultato dell’analisi sincronica di una lingua; in linguistica diacronica, le forme asteriscate, risultato di un’operazione di ricostruzione per fasi predocumentarie (e dunque preistoriche) o per fasi di transizione non documentate, come la transizione latino-romanza. Sul fronte della storia della lingua, al contrario, la documentazione scritta sedimentata nei testi esaurisce il campo dei dati primari, per i secoli passati. Ha dunque una indubbia centralità in linea di diritto, non solo in linea di fatto (come invece per la linguistica diacronica). È dunque il caso di chiedersi in che modi e a quali fini lo storico della lingua e il linguista interroghino i testi scritti. Gli esempi saranno limitati alla storia dell’italiano, con un’ovvia avvertenza: ne fanno parte, certamente per l’epoca medievale prenormativa, anche testi che, se le cose fossero andate altrimenti, oggi attribuiremmo ad altre lingue. Se ad esempio il TLIO include testi antico-milanesi e antico-napoletani, ossia di varietà che, al loro livello basilettale, dovevano essere reciprocamente inintelligibili, è – come ha scritto Vàrvaro – perché la storia linguistica si fa (e si delimita) «in funzione del punto di arrivo». Costituitasi l’Italia – nozione culturale prima che politica – tutte le varietà romanze venute a trovarsi sotto la lingua tetto a base fiorentina fanno parte non solo della storia linguistica d’Italia ma anche della storia della lingua italiana, così come in ambito letterario fanno parte integrante della storia della letteratura italiana le pagine in dialetto di Porta, Belli o Goldoni. Ora, è ovvio che il linguista scrutinerà i testi allo scopo di comprendere come fosse il sistema linguistico che in quei testi si manifesta. Ma questo – che per il linguista è lo scopo centrale – non può esulare dall’orizzonte dello storico della lingua: che fa anche altro, certamente (data la duplicità, sopra citata, nella formulazione di Stussi). Ma non può esimersi dall’essere anche linguista, almeno in teoria. In pratica, come s’illustrerà con esempi nel seguito, le cose vanno altrimenti. . Vàrvaro 1972-1973, p. 48. michele loporcaro II. Linguista e storico della lingua di fronte ai testi antichi Atteggiamento poco raccomandabile di fronte ai testi consiste nel dire: sbagliano, e ho ragione io. In quest’errore cadono a volte il filologo, a volte il linguista, sempre per difetto di integrazione delle informazioni dai diversi ambiti, come si mostrerà coi quattro esempi discussi ai §§II.1-4. II.1. Il genere grammaticale in romanesco antico «Dunque non c’è alcun motivo per intervenire sui croci rosc-i di XIII 294c», conclude Vittorio Formentin dopo aver esaminato questo tipo di correzioni al testo da parte dell’editore della Cronica di Anonimo romano. Questo il passo nell’ed. Porta: «De sopre aveano croci rosce de panno roscio» (mentre l’apparato riporta «rosci ω»). L’emendazione rispetto alla lezione d’archetipo rosci non tiene conto del fatto che il sistema del genere grammaticale in romanesco antico differisce da quello toscano, contemplando un regolare accordo maschile plurale con i sostantivi già femminili di III declinazione come croce. «È questo un caso tipico – così ancora Formentin – della difficoltà di distinguere tra variante formale e variante sostanziale; di più, dimostra la necessità (ideale) che il filologo abbia piena coscienza di tutte le implicazioni linguistiche del testo che pubblica». Implicazioni che, quanto al genere grammaticale del romanesco antico, sono state affrontate in un saggio recente. II.2. L’assimilazione di -nd - e -mb - nel Centro-Meridione Ricostruendo la vicenda dell’assimilazione di -nd- e -mb-, Alberto Vàrvaro criticava giustamente quanti avevano voluto vedere per principio, nelle scrizioni conservative del siciliano medievale, altrettanti latinismi grafici: spesso si è però insinuato che gli -nd- e -mb- antichi altro non siano che grafie latineggianti, e più tardi toscaneggianti, che coprono pronunce [nn], [mm]. Senza prove, però, non si vede perché si debba distinguere tra grafia e pronuncia. In nota sono citati Pagliaro e Folena, ma il rimando implicito è a Clemente Merlo, con un’omessa citazione al limite della damnatio memoriae: . Formentin 2012, p. 54. . Porta 1979, p. 115. . Formentin 2012, p. 53. . Formentin, Loporcaro 2012; vd. anche Maggiore 2013 per le analoghe condizioni del sistema del genere grammaticale in antico salentino. . Vàrvaro 1979, p. 191. . Della sua scarsa considerazione per Clemente Merlo, Alberto Vàrvaro col consueto brio fece parte a chi scrive, allora neolaureato pisano in glottologia, in occasione del nostro primo storia della lingua e linguistica In fondo, la più forte ragione per ritenere che -nn- e -mm- siano gli esiti indigeni di -nd- e -mb- in tutta l’Italia meridionale e la Sicilia è la convinzione che si tratti di fenomeni di sostrato e che dunque non possano essere che antichissimi. Questo è un caso tipico in cui la razionalizzazione della situazione documentaria, più e meno antica, in base ai dati convergenti forniti dai testi medievali così come dai prestiti siciliani in maltese, nonché da un’attenta ispezione della variazione dialettale tra Otto e Novecento, permette di scalzare un pregiudizio consolidato. II.3. Opposizioni di caso nel pronome personale Simili pregiudizi allignano spesso fra i linguisti, ogni qual volta essi tendano, inavvertitamente, a dar la precedenza ai dati di prova che spesso conoscono meglio in quanto accessibili all’osservazione diretta, quelli contemporanei. Il che può accadere non solo per una messa in non cale della documentazione antica, come nel caso ora citato di -nd- > -nn-, bensì anche laddove la si consideri adducendola anzi a sostegno della propria tesi. Basta che, così facendo, si dimentichino le cautele filologiche che invece lo specialista di testi antichi deve adottare. Molti esempi di una simile procedura offre la Grammatica del Rohlfs. Con tutto il rispetto che si deve a quel monumento dei nostri studi, è evidente la sproporzione di peso fra moderno e antico che ne caratterizza ogni pagina. Si prenda ad esempio la trattazione dei pronomi personali tonici di I e II persona in funzione non di soggetto: «nel Settentrione me, te sono stati sostituiti da mihi, tibi, cfr. l’antico lombardo a mi, envers ti». Quindi in nota 1: «Di ciò troviamo un esempio già nel “Codice diplomatico longobardo”, I, 88, 15 (anno 715): in ti firmamus; cfr. D. Norberg, “Beiträge zur spätlateinischen Syntax”, 1944, p. 62». Subito innanzi Rohlfs aveva osservato che mi ti prevalgono nei dialetti odierni. Ora, è vero che ci sono esempi, addirittura maggioritari, dai volgari antichi e che se ne registrano anche di basso-latini. Ma per un apprezzamento strutturale bisogna procedere altrimenti, come ha fatto, ad esempio, Vittorio incontro, a Picerno nel dicembre 1988, a pranzo durante il convegno in memoria di Gerhard Rohlfs su «Le parlate lucane e la dialettologia italiana». . Vàrvaro 1979, p. 203. In nota si cita Alessio 1938-1939, p. 156 per la dizione «l’assimilazione di sostrato», ma non Merlo 1925, pp. 15-16; 1927, pp. 104-5; 1933, p. 12, ecc. . E aggiungo, l’affetto (per il quale mi permetto di rinviare a Loporcaro 2011). È una vergogna – per inciso – indicativa dello stato miserando della cultura del Paese, che non si trovi oggi un editore disposto a investire per ripubblicare un tale monumento. . Rohlfs 1966-1969, vol. II, p. 137. michele loporcaro Formentin per l’antico bolognese, ricostruendo i tre stadi successivi schematizzati in (1a-c): (1) Bolognese dei secc. XIII-XIV a. Guido Fava b. Matteo dei Libri (prima metà del sec. XIII) (entro il sec. XIII) funz. sint. forma c. Vita di San Petronio (prima metà del sec. XIV) dat OI 6 OD/OBL 3 OI 12 OD/OBL 27 OI + OD/OBL + acc 2 11 1 4 _ _ Pur nell’esiguità dei dati, incrociando forme e funzioni – ovvero contando tutti gli esiti di mihi e di me che ricorrono nelle funzioni di OI, da un lato, e di OD/OBL, dall’altro – Formentin mette in luce una nitida evoluzione diacronica. Nella Vita di San Petronio primo-trecentesca edita da Corti (1962) non vi è variazione e la situazione è quella oggi prevalente: mi e ti dativali assolvono a tutte le funzioni sintattiche non soggettive. Risalendo nel tempo, nelle carte del notaio Matteo dei Libri (secondo Duecento (1b), ed. Vincenti 1974), quella che nel Trecento diverrà una distribuzione categorica è ancora solo una linea di tendenza: prevalgono, ormai largamente, le forme dativali per tutte le funzioni, ma quelle accusativali non sono ancora spente. Nel primo Duecento i Parlamenta et epistole di Guido Faba (1a) (ed. Castellani 1997) presentano anch’essi variazione, ma non ancora col generale sbilanciamento a favore di mi e ti poi instauratosi in (1b): vi perdurano invece i resti di una più antica opposizione funzionale ereditaria, con le forme dativali in funzione di OI e quelle accusativali per OD e OBL. Dato ciò che sappiamo circa la vicenda diacronica di lungo periodo il quadro è chiaro: a Formentin è riuscito di identificare per l’antico bolognese un residuo del sistema intermedio (2b), che resta ancor oggi (informano i manuali) in aree ai margini della Romània centro-orientale, in rumeno, friulano, romancio e sardo: (2) a. latino b. romanzo 1 c. romanzo 2 soggetto ego io OI mihi (a) mi OD me me (omessi genit. e ablat.) . Formentin 2010, p. 110. io mi o me storia della lingua e linguistica Più recentemente è stata inoltre individuata un’area alquanto estesa di resistenza della flessione tricasuale del pronome, con opposizione me ≠ mi, nel Meridione continentale (Nolè 2004-2005; Marotta 2005-2006; Loporcaro 2009). Formentin, nel saggio citato e, prima, nella Poesia italiana delle origini (a proposito del Ritmo su Sant’Alessio), ha mostrato che nel Duecento possono con certezza essere annessi a quest’area non solo l’antico bolognese ma anche l’antico marchigiano e l’antico aquilano, cui si aggiunge ora il veneziano «ancora alla fine del xiii secolo», ormai a ridosso del Friuli dove l’opposizione persiste a tutt’oggi. La convergenza fra dato dialettale odierno e analisi accurata della documentazione antica non lascia quindi dubbio alcuno: la conclusione del Rohlfs va rivista. Il citare una forma antica come esempio dell’innovazione, senza passare per la razionalizzazione del quadro complessivo, non basta. Una volta disegnato nella sua completezza tale quadro, la conclusione si impone. In base alla congruenza dei risultati in (1) con la vicenda diacronica di lungo periodo in (2), si può escludere che i dati in (1) possano doversi a oscillazioni puramente di scripta: L’intrinseca razionalità grammaticale di questi dati fa infatti pensare a una condizione dialettologicamente genuina più che al risultato grammaticalmente cieco di un processo d’ibridazione comunque originatosi [corsivi nell’originale]. Tale conclusione, a proposito specificamente del marchigiano antico, è stata però contestata: «Formentin (2007a, p. 110) considera “forma accusativale” anche l’“ad te” del v. 174 (“Volliote ’stu anellu dare, […] estu sudariu ad te lassare”); il che, manifestamente, non è». Poiché a chi – storico della lingua o linguista – ragioni di fatti di lingua con cognizione di causa quel «manifestamente» resta oscuro, Formentin esprime il legittimo dubbio che chi così si esprime non abbia ben chiara in mente la distinzione, fondamentale in linguistica, tra forma e funzione sintattica, e anche l’altra, altrettanto fondamentale, tra diacronia e sincronia, poiché nella sua argomentazione parrebbero confuse le due diverse etichette di ‘accusativale’ (concetto diacronico: l’it. me è derivato dall’accusativo lat. m ed è quindi una forma accusativale) e di ‘accusativo’ (concetto sincronico con cui s’intende il modo in cui si esprime la funzione sintattica dell’OD in un determinato stadio di una determinata lingua). In altre parole, il non vedere, nei fatti sintetizzati in (1), una determinazione strutturale può imputarsi solo all’oblio di strumenti basilari dell’analisi . Cfr. rispettivamente Formentin 2007, pp. 140-41 e 2014, p. 28 (donde la citazione). . Formentin 2010, p. 19. . Arcangeli 2009, p. 20, nota 1. . Formentin 2010, p. 33. michele loporcaro linguistica. Oblio che risalta anche nel seguente scambio, circa la sequenza pronominale in «e se ello averà raxo(n), la ge firà dà» (Verona, anno 1374). Così, al proposito, il sullodato storico della lingua esternista: È curioso come Bertoletti, nel discutere la successione dei pronomi atoni, dichiari come confermate le sequenze attese di dat. + acc. […] (p. 260), tacendo proprio su questo controsempio [sic] – citato per giunta due pagine prima […] – del tipo dat. + acc. (rappresentato da “né ge ’l consenta”, “no ge li descipe”, […]). Lo schema si ripete, perché anche quest’obiezione è mossa in base alla dimenticanza degli strumenti di base dell’analisi linguistica: «la sequenza la ge non è un esempio del tipo acc. + dat., in quanto la è il soggetto, non l’oggetto di firà dà» [che va dunque inteso ‘clit-sogg.3fsg gli sarà data’]. Tirando le somme di questa sezione sui sistemi pronominali in fase antica, da un lato abbiamo storici della lingua che pervengono a conclusioni manifestamente inappuntabili, grazie alla sinergia tra l’ispezione esauriente del dato documentario e un’analisi linguistica che impiega le categorie appropriate; dall’altro troviamo invece conclusioni dimostrabilmente errate, dovute ad un uso parziale della documentazione antica da parte del linguista, pur valentissimo, ovvero alla mancata applicazione dello strumentario di base dell’analisi linguistica da parte dello storico della lingua a vocazione esternista. II.4. Riduzione delle opposizioni nel vocalismo atono finale Torniamo, con l’ultimo esempio, alla fonetica, per considerare gli sviluppi del vocalismo atono finale nell’Italia centro-meridionale e quel che ce ne dicono le attestazioni antiche. Nei testi napoletani delle Origini può capitare di leggere locu truobe ‘là trovi’ (Bagni di Pozzuoli redazione R, entro il Duecento, v. 250). L’avverbio mostra ‹-u› finale da -o etimologica (< *illoco), mentre non ricorrono scrizioni come *loche con ‹-e› da -o. D’altro canto, è invece corrente la graficizzazione con ‹-e› (come in truobe ‘trovi’) di una /i/ proto-romanza. Nello studio sul quattrocentista De Rosa, che però considera come base osservativa l’intero corpus antico-napoletano, Formentin (1998) perviene alla conclusione che i fatti ora esemplificati si prestino ad una lettura strutturale: . Bertoletti 2005, n. 29.8. . Arcangeli 2008, p. 89, nota 1. . Bertoletti 2009, p. 69. . Pelaez 1928, p. 103. . Vero è che in questo caso la desinenza etimologica è -as, ma la presenza regolare di metafonia – non solo in napoletano ma ovunque nel Centro-meridione la metafonia si osservi – in tutte le II persone garantisce che si debba muovere ab antiquo da una -/i/ finale, comunque insorta (per sostituzione analogica o sviluppo fonetico regolare): per questo il commento linguistico di Formentin 1998, p. 111 (su cui vd. subito oltre a testo) registra al paragrafo sull’esito uo < dato -iˉ (s)/*-iˉ (s) non solo muore, duorme ma anche puorte, pruove. storia della lingua e linguistica l’antico napoletano, così come riflesso nei testi, possedeva tre vocali atone distinte in posizione finale (3c): (3) a. proto-romanzo alte i u medie e o basse a b. toscano i > o e a > c. antico napoletano d. agnonese o ǝ ǝ a > e. napoletano > ǝ a Come il toscano (3b), aveva già fuso -o ed -u etimologiche in un unico fonema -/o/ (graficizzato a volte come ‹-u›), ma conservava questa vocale come distinta tanto da -/a/ quanto da schwa, in cui erano invece confluite -i ed -e etimologiche (degli altri stadi rappresentati in (3) si dirà più oltre). Tale conclusione è fondata sul soppesamento dei dati di prova disponibili, mediati ovviamente dalla grafia. In fin dei conti, come nel caso considerato in (1) al §II.3, è la quantificazione a fornire la chiave interpretativa, laddove, qualitativamente, tutti i tipi di deviazione sono documentati: il napoletano del De Rosa (come già quello trecentesco) conosce senz’altro il fenomeno -i, -e del latino volgare > -ǝ, mentre i dati in nostro possesso non ci consentono di affermare che si sia verificato […] il passaggio -o, -u (e -a) > -ǝ. Precisando ulteriormente: la sistematica rappresentazione di -i per mezzo di -e […] dimostra che il passaggio -i > -ǝ si era fonologizzato; viceversa, le sporadiche attestazioni di una resa grafica di -/ǝ/ con -o (catalano ‘catalani’ […]), per le quali non è possibile escludere – per il loro stesso isolamento – l’ipotesi di meri errori di esecuzione, non permettono di concludere per un indebolimento fonologicamente rilevante delle vocali finali diverse da -i, -e in a. nap.: si può ipotizzare che un eventuale affievolimento, senz’altro possibile e perfino probabile, rimanesse comunque al livello di una caratteristica subfonematica. Il napoletano odierno, è noto, come la gran parte dell’Alto Meridione ha neutralizzato in schwa tutte le opposizioni tra vocali finali atone (3e), il che costituisce un naturale proseguimento – attraverso la fase intermedia (3d), su cui vd. oltre – del processo di neutralizzazione delle atone finali che nei testi antichi già compare in stadio meno avanzato. Non tutti sottoscrivono però questa ricostruzione. Avolio (2009, 2010, 2014) ritiene al contrario che la situazione moderna vigesse già sin dalle Origini, in ciò replicando la fattispecie vista sopra al §II.2, quella del dialettologo – benemerito, in questo caso, della dialettologia italiana centro-meridionale – che non presta fede ai testi antichi e svilisce il loro valore di testimonianza strutturale invocando, per i dati osservativi, presunte cause extralinguistiche: . Formentin 1998, pp. 187-8. Scrive ancora Formentin 1998, p. 180, circa il passaggio regolare di -iˉ ad ‹-e› (grafica, e dunque a [ə]) che la sua regolarità permette di concludere «che siamo di fronte a un fatto sistematico, che pertiene al livello della langue». michele loporcaro La disamina di un singolo testo, tuttavia (peraltro non del tutto rappresentativo della situazione antica, come mostra già il confronto con quello, anteriore, de I bagni di Pozzuoli), per quanto meticolosa, non è di per sé sufficiente per dire l’ultima parola su di un fatto fonetico complesso come la centralizzazione. I dialetti moderni, inoltre, contestano, almeno in parte, questa lettura, mostrando come lo sviluppo di vocali centralizzate, benché non facilmente databile, sia comunque un fenomeno piuttosto antico. Si noti, anzitutto, come Avolio presenti lo studio in questione come se fosse basato sul solo De Rosa, mentre così non è, suggerendo inoltre che fra la documentazione tre- e quattrocentesca intercorrano differenze cruciali. Questa la sua lettura alternativa dei dati dei Bagni: Per quanto riguarda -Ū, […], si hanno soprattutto significative oscillazioni tra ‹-u› ed ‹-o› […] già all’epoca, oltre ad essere rilevabili influssi grafici di segno diverso (sicilianeggianti per quanto riguarda ‹-u›, toscaneggianti per ‹-o›), non vi era più sicurezza, anche nello scritto, su quale dovesse essere la vocale originaria, così come accade ancor oggi in alcune località del Casertano, del Beneventano e del Cilento (in cui infatti si può avere tanto /-o/ quanto /-u/ […]). È bene, ovviamente, confrontare la situazione antica con quella odierna, ma se ne ricava un quadro diverso da ciò che sostiene Avolio, il quale del resto non fornisce alcuna valida dimostrazione di quanto enunciato circa il «fenomeno piuttosto antico». Sono infatti irricevibili argomenti generici come il seguente: «nei dialetti attuali la presenza di schwa è talmente vivace, da far pensare ad un processo di “indebolimento” considerevolmente antico» [virgolette nell’originale]. E ugualmente quelli sviluppati distesamente nel capitolo undecimo della citata monografia, il quale si apre enunciando la tesi secondo cui «la presenza di /ə/ […] potrebbe essere ascritta ad abitudini articolatorie proprie già delle popolazioni italiche orientali». Nel suo richiamo al sostrato osco, Avolio mette l’accento sull’ascoliana prova “corografica”, omettendo però di verificare la sua ipotesi tramite la prova “intrinseca”, che gli dà torto: è vero, infatti, che l’osco presenta cadute estese delle vocali atone di sillaba finale, come ad esempio in h ú r z < *hortos, nominativo singolare di tema in -o-, ma la cancellazione non si registra invece nell’accusativo corrispondente h ú r t ú m < *hortom, la cui conservazione della vocale breve di sillaba finale mostra che la caduta in h ú r z è soggetta a restrizioni di cui invano si cercherebbe traccia nell’intera storia linguistica delle varietà italoromanze alto-meridionali. In queste varietà neolatine, tra parentesi, la forma del nome rimonta all’accusativo, il quale in osco a) nei temi in -o- conservava . Avolio 2010, p. 223. . Avolio 2009, p. 92, nota 3. . Ivi, p. 92. storia della lingua e linguistica la vocale finale e b) la conservava, come da condizioni generali del vocalismo sabellico, con neutralizzazione ab antiquo tra ŭ ed o originarie (cfr. Lejeune 1975; Seidl 1994): se ne deduce che proprio per quest’aspetto i dialetti italiani centro-meridionali continuano fedelmente non l’osco ma il latino di Roma, poiché data una neutralizzazione antica di -ŭ ed -o non si spiegherebbero la distinzione di tali vocali nel sistema mediano (tuttora diffuso sull’area un tempo umbra ed esteso ben più a sud in antico, anche in area un tempo osca) e l’applicazione della metafonia in presenza di -ŭ ma non di -o etimologica (latina, appunto). Al contrario di quanto sostiene Avolio, nella variazione diatopica odierna si legge riflessa sul terreno la sequenza dei mutamenti diacronici – e dei sistemi che essi hanno generato – i quali hanno portato all’attuale sistema napoletano. Il sistema di transizione fra antico napoletano e napoletano odierno, (3d), che probabilmente caratterizzava il napoletano ancora nell’Ottocento, si riscontra a tutt’oggi ad esempio nel dialetto di Agnone (provincia di Isernia) e in diverse altre zone altomeridionali (perlopiù montane o in posizione marginale) in cui si mantiene un’opposizione fra -/a/ e -/ə/ risultato della confluenza di tutte le vocali non basse. Vi sono d’altro canto varietà campane in cui ancor oggi, come nel toscano, si distinguono quattro vocali atone finali (3b), come mostra ad esempio lo studio sperimentale di Cangemi et alii 2010 su alcuni dialetti del Vallo di Diano. Risalendo ulteriormente, si arriva al sistema proto-romanzo a cinque vocali atone finali (3a), anch’esso tuttora documentato, non però nell’Alto Meridione ma in area mediana (per ragioni di definizione, essendo il vocalismo (3a) l’isoglossa definitoria dell’area mediana stricto sensu). Consta che un simile sistema si estendesse un tempo anche in zone che oggi non sono linguisticamente mediane: nel Medioevo abbracciava a nord l’Urbinate e la Romagna, e a sud l’area Cassinese (Cassino ha oggi ['jwornə] ‘giorno/-i’ < di(ŭ)rnum/ -iˉ , ma aveva in antico ['jornu]) e l’intero Lazio meridionale, la Campania . R ingrazio Giancarlo Schirru per avermi suggerito l’argomento relativo all’asimmetria degli esiti delle vocali postoniche di sillaba finale entro il paradigma flessivo dell’osco. . Cfr. Merlo 1920, p. 236 e Vignuzzi, Avolio 1991, pp. 646-47, per una panoramica circa le varietà alto-meridionali odierne – sparse tra le Marche e la Lucania – che mostrano una tale opposizione binaria nel vocalismo atono finale: in Vignuzzi, Avolio 1991, p. 646, ne è escluso proprio «l’Alto Molise di Agnone», evidentemente sulla scorta di Ziccardi 1910, la cui descrizione però non corrisponde alle condizioni oggi osservabili (3d). . A Ravenna le vocali atone finali si opponevano sino al tardo Trecento (Sanfilippo 2007, p. 424), e i più antichi testi mostrano in particolare l’opposizione di -/o/ e -/u/ atone finali (Formentin 2007, pp. 146-53). Anche l’Urbinate era linguisticamente mediano sino al sec. XV (Vignuzzi 1988, p. 611). . Maccarrone 1915, p. 16. Per l’esito della tonica come da o si può pensare a influsso dell’ant. francese (meno probabilmente, del toscano: vd. Loporcaro 2002, p. 84, nota 63 per i riferimenti) ovvero ad una forma b. lat. da ricostruire come *di rnum. michele loporcaro settentrionale, le Marche meridionali (con la provincia di Ascoli), l’Abruzzo e la Capitanata. Ulteriore dimostrazione di questa maggiore estensione in fase medievale viene ora da un contributo recentissimo di Barbato (2015), che reca il sottotitolo eloquente Dell’importanza dei testi antichi. Le risultanze di tale lavoro consentono da un lato di collocare in questo quadro l’antico molisano, dall’altro – più in generale – di dimostrare come la razionalizzazione dei vocalismi finali dei volgari antichi sia possibile, a dispetto dei “debolismi” scriptologici, e converga a confermare oltre ogni dubbio la trafila diacronica in (3). Barbato analizza il rapporto che Nicola di Bojano (centro molisano in provincia di Campobasso), nel 1361, invia dal Peloponneso a Napoli alla regina Maria di Borbone. Il Molise si divide oggi fra aree con mantenimento di due vocali atone finali (il tipo rappresentato ad esempio dall’agnonese, visto in (3d), a ovest del fiume Biferno) e aree con schwa generalizzato (sistema (3e), in area campobassana). La lingua di Nicola di Bojano, tuttavia, non mostra né l’uno né l’altro sistema, e d’altro canto il suo vocalismo atono finale è anche ben distinto da quello dei testi napoletani coevi (3c): (4) Nicola di Bojano (CB), anno 1361: -Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -A -O -U Albanesi 8r2 accasone 1r31 abbatia 5r7 arreto 6v10 ac(r)osticu 3v23 Vi si distinguono generalmente cinque vocali atone finali, come oggi nell’area mediana, anche se non mancano le deviazioni illustrate ad esempio dalla frase sentenziosa Mello è pocu avere che perdere tucto 5r32. Se mello mantiene salda -o da -o (melior) e pocu conserva -u < -u, la stessa vocale etimologica in tucto passa invece ad -o. Non si tratta di deviazioni irrazionali, bensì dell’effetto di una condizione dissimilativa: l’abbassamento si ha dopo vocale tonica originariamente identica alla finale, e non si produce invece in presenza di una tonica identica a quello che sarebbe l’esito del mutamento (se applicato). L’applicazione selettiva del passaggio -u > -o ricorda in parte quanto succede in quei dialetti mediani del tipo descritto da Clemente Merlo per Cervara di Roma, dove si ha il mantenimento di -u < -u data vocale tonica non media (['fridːu], ['muːru], ['panːu]) di contro al suo abbassamento ad -o . Cfr. Vignuzzi 1994, p. 332. . Sulla maggiore estensione geografica in antico del vocalismo finale mediano vd. Barbato 2000, pp. 111-13; 2002, p. 39; 2008, p. 280. . Con due soli avamposti sulla sua sponda orientale, Busso e Santo Stefano, secondo Avolio 2009, p. 93. . Barbato 2015, p. 92. . Barbato 2015, p. 110. . Merlo 1906-1907, p. 442. storia della lingua e linguistica dopo vocale tonica media (['tempo], ['ɔsːo]). Benché differiscano in parte i segmenti vocalici interessati, tanto come contesto determinante quanto come bersaglio del processo: si tratta nei due casi di un regime di armonia vocalica parziale. È interessante notare come la più estesa delle quattro zone dell’area mediana presentanti una tale situazione nel vocalismo finale, quella che include Cervara di Roma (e, con essa, i dialetti compresi fra Roccagiovine a nordovest, Camerata Nuova a nord-est, Arcinazzo e Roiate a sud e Vallepietra a sud-est), si trovi al confine tra una zona a vocalismo finale stabilmente mediano (cinque vocali atone finali, (3a), in assenza di armonia vocalica) ed un’altra limitrofa presentante invece vocalismo atono toscano (3b): si tratta, rispettivamente, della Sabina a nord e, ad est, del corridoio che scende da Tagliacozzo, Magliano de’ Marsi e Massa d’Albe (nell’Aquilano) sino alla costa laziale – mai toccata, oggi, dall’opposizione -u ≠ -o – con Anzio, Nettuno e fino a Sabaudia (a sud-est della quale inizia oggi la neutralizzazione “napoletana” in schwa). Nuovamente, dunque, la posizione strutturalmente intermedia (fra (3a) e (3b)) si riflette in una interposizione anche geografica. Tirando le somme, il molisano antico così come riflesso nella competenza linguistica di Nicola di Bojano (rispecchiata, a sua volta, nei suoi scritti) a) presentava ancora vocalismo sotanzialmente mediano, b) avviato tuttavia a diventare toscano, c) attraverso uno stadio intermedio con parziale armonia vocalica. Bojano è oggi sul limitare dell’area campobassana con riduzione del vocalismo finale a schwa: in territorio del comune di Bojano nasce il Biferno, fiume che segna il confine attuale fra i due diversi vocalismi atoni (3d-e) in area molisana. E c’è un ovvio motivo storico e sociolinguistico dei cambiamenti intervenuti, qui come in tutta la zona, a partire dal Trecento, motivo che si inquadra nella più generale spiegazione della smedianizzazione dei territori a nord di Napoli: l’influsso del prestigio, linguistico e culturale, della capitale del Regno. Intese come documentazione fededegna, fino a prova contraria, della fonetica della varietà nativa dello scrivente, le grafie trecentesche in (4) permettono di inserire l’antico molisano nella dinamica geolinguistica in diacronia che vede la riduzione progressiva delle opposizioni nel vocalismo atono finale. Al . Merlo 1920, p. 234; 1922, p. 53. . Cfr. Merlo 1930, p. 52; Orlandi 2000, pp. 103-4. Le altre tre zone presentanti armonia vocalica si trovano rispettivamente nel Lazio meridionale (Minturno e Spigno Saturnia, in provincia di Latina, e Coreno Ausonio, nel Frusinate: cfr. Schirru 2012, pp. 167-68; Schirru 2014), nelle Marche centrali (il solo dialetto di San Severino, provincia di Macerata, cfr. Paciaroni, Loporcaro 2010, pp. 501-2; Biondi 2013, pp. 587-624) e in provincia dell’Aquila (coi due centri di Poggio di Roio e di Piànola, ma in via di scomparsa in quest’ultimo secondo Avolio 2009, pp. 111-12). . Cfr. Schanzer 1989, pp. 146-48. michele loporcaro contrario, chi volesse proporre di tali dati una spiegazione alternativa di tipo esterno, sulla scorta di quella che Avolio contrappone alla razionalizzazione del vocalismo antico napoletano di Formentin, incontrerebbe difficoltà insormontabili: Nicola di Bojano è un provinciale del regno di Napoli che indirizza missive in volgare alla corte, centro di prestigio linguistico. Qualora la sua scrittura subisse per questo aspetto influssi esterni, si adeguerebbe alla varietà del centro di prestigio, ossia al napoletano coevo. Dunque, se avesse ragione Avolio, il nostro scrivente dovrebbe, per adeguarsi al napoletano, confondere sistematicamente le vocali finali, o al massimo – data la ricostruzione di Formentin – mantenere distinti gli esiti di -o e -u, confondendo invece quelli di -e e -i. Nessun modello di prestigio è invece individuabile, tale da poterlo aver spinto a distinguere nitidamente cinque vocali finali: se lo fa, è segno inequivocabile (in mancanza di alternative ragionevoli) che in ciò rispecchia il proprio dialetto nativo. Questa la conclusione di metodo che dalla sua analisi trae Barbato: Il carattere artificiale della scripta non va ipostatizzato […]. Prima di attribuire un fenomeno di variazione a fattori esterni, occorre verificare preliminarmente se non si possa spiegare all’interno del sistema in questione. […] i testi antichi non sono refrattari per natura all’analisi strutturale. Non si potrebbe dire meglio; e la conclusione di questa discussione sul vocalismo meridionale antico ci porta ad avviarci alla conclusione dell’intero discorso. III. Conclusione Gli insiemi degli ambiti operativi e degli strumenti di metodo della storia della lingua e della linguistica sono diversi, con però una cospicua intersezione. Uno storico della lingua, certo, può fare molto altro, oltre ad occuparsi di «evoluzione della lingua […] iuxta propria principia» (secondo la formulazione sopra citata di Alfredo Stussi). Ma non può permettersi di trascurare questo Kerngebiet, che va integrato con tutto il resto. Non sarà un caso, tra parentesi, che gli studiosi che ho citato in positivo – insieme a Marcello Barbato, allievo di Alberto Vàrvaro – vengano proprio da quella scuola, cui si debbono non solo le analisi impeccabili qui ripercorse ma . Barbato 2015, p. 110. . Conclusione cui aggiungono poco le considerazioni di Avolio 2014, p. 217, che non fanno che reiterare un generico monito circa la «pericolosità di suggestive, ma troppo ardite vedute panoramiche “a volo d’uccello” dell’Italia linguistica del Medioevo» (il riferimento è alla razionalizzazione della situazione del vocalismo finale in base ai testi scritti cui si perviene nei saggi di Formentin e in precedenti lavori di Marcello Barbato). storia della lingua e linguistica anche – lo ricorda una recente rassegna di Paolo D’Achille – decisive nuove acquisizioni documentarie: per tutto il periodo medievale, grazie soprattutto ad Alfredo Stussi […] e alla sua scuola (Vittorio Formentin, Nello Bertoletti, Lorenzo Tomasin) l’esplorazione di archivi e biblioteche ha portato al reperimento di nuovi testi, di varia estensione e importanza, soprattutto in area veneta e laziale. Ancora altri nomi si potrebbero fare, ma si trattava qui non già di presentare un impossibile catalogo, bensì di esemplificare una tipologia: quella dello storico della lingua che domina l’intera filiera produttiva, dalla scoperta d’archivio alla analisi linguistica ben fatta, e così facendo porta nuova linfa alla storia linguistica d’Italia. Facendo anche altro (molto altro), certamente, ma senza cedere alla tentazione – ricorrente per la categoria – di svalutare o disconoscere l’importanza della razionalizzazione, iuxta propria principia, della lingua riflessa nei testi. Abbiamo letto al §I un manifesto recente che propugna invece tale svalutazione, invitando a lasciar da parte «l’esile specillo delle analisi minute e pedanti, aridamente elencatorie o limitantemente descrittive». Di fronte a questa testualità, stilisticamente cesellata e direi estetizzante, il pensiero va al primo titolo cui Ernesto Giacomo Parodi aveva pensato quando licenziò, nel 1920, il manoscritto del suo Il dare e l’avere fra i pedanti e i geniali, poi uscito postumo nel 1923. Il titolo doveva essere Estetizzanti e storicizzanti, poi trasformati, appunto, invertendo i termini, in pedanti e geniali, dove l’aggettivo pedante rimanda al punto di vista di Benedetto Croce e al suo attacco alla linguistica come disciplina autonoma. Croce per decenni ha proclamato instancabilmente che il linguista dovesse abdicare all’ambizione di dirsi “scienziato”, e ridefinirsi come “storico”: Il linguista o glottologo deve rinunciare all’ambizione, che lo gonfiò nel tempo del positivismo, di essere uno «scienziato» […], di somigliare a un botanico o a un zoologo o a un fisico. Come mai questa figura, comica per snobistica vanità, poté diventare per qualche tempo un ideale aristocratico? […] Il linguista […] deve rassegnarsi ad essere uno «storico». Ma che cosa Croce intendesse con “storico” era già chiaro dai suoi primi scritti in materia: un qualcosa di radicalmente opposto rispetto alla prospettiva e al metodo della “linguistica storica” come consolidatisi nell’Ottocento. Per il linguista il testo scritto è uno fra i tipi di dati, e la ricostruzione della . D’Achille 2014, p. 29. Va aggiunto nel frattempo il Piemonte, data la scoperta dell’alba duecentesca edita da Bertoletti 2014. . Né dà notizia Alfredo Schiaffini presentando il volume (cfr. Folena 1957, p. cxl). . Croce 1946, pp. 123-24. michele loporcaro preistoria linguistica è compito altrettanto legittimo quanto l’analisi delle fasi attestate. Croce invece, col pretesto di stroncare il monogenetismo di Alfredo Trombetti (cfr. Trombetti 1905), svalutava ogni ricostruzione in quanto nei suoi limiti di ricerca preistorica, essa [= la ricerca mirante alla ricostruzione di fasi linguistiche non attestate] ha ben modesto interesse, perché modesto è in genere l’interesse della preistoria, di questa scienza analfabeta (come il Mommsen scherzosamente la chiamava), la quale indaga le zone grige, l’indistinto, il rudimentale, il povero, laddove la storia ci pone di fronte ai grandi fatti dello svolgimento umano [corsivo nell’originale]. In molti fra i linguisti gli fecero eco, in primis Benvenuto Terracini: Se da un punto di vista descrittivo e ricostruttivo, quello dell’Ascoli insomma, il dialetto di Vigodarzere è tanto interessante, quanto quello di Venezia, dal punto di vista storico, che oggi va prevalendo, è chiaro che non è così; e l’Ascoli stesso ce lo dice, e vigorosamente, se anche l’indirizzo naturalistico del tempo suo lo inducesse a concepire su uno stesso piano il prodotto linguistico di ogni punto. L’analisi della lingua iuxta propria principia si fa per il passato e attraverso i testi e attraverso la ricostruzione, con pari dignità, mentre per il presente si fa, sempre con pari dignità, sulla lingua di cultura così come sui dialetti “analfabeti”. Ogni svalutazione di tale analisi, in una o nell’altra delle sue sfaccettature, anche nell’Italia del Duemila non è altro che la manifestazione odierna di un incredibilmente perdurante lascito crociano. Di qui l’altrettanto perdurante necessità di ribadire che è falso che per essere storici si debba reiterare l’aggressione crociana alla tecnica della scienza linguistica. E poiché spesso i fautori di questa posizione dal lascito crociano sono agiti in forma inconscia, non è inutile – parafrasando Saussure – mostrare allo storico della lingua (esternista) ciò ch’egli fa, ossia le consonanze oggettive della sua posizione con il crocianesimo, pur entro contesti argomentativi apparentemente con esso incompatibili: si pensi all’ipermaterialismo che traspare dalla lista . O vviamente, la testimonianza di queste ultime – se ben analizzate – ha la precedenza rispetto alla ricostruzione (interna o esterna): non può essere corretta una ricostruzione che giunga a risultati inconciliabili con l’analisi più economica delle attestazioni, laddove disponibili. Dove tuttavia queste manchino, la ricostruzione è l’unica via, sicché definirla a priori «di modesto […] interesse» è un’aggressione a un pilastro di metodo della linguistica diacronica. . Croce 1905, p. 194. Così intervenendo, in quell’occasione e a più riprese nei quattro decenni successivi (vd. ad esempio i passi commentati in Loporcaro 2012), Croce pretendeva di dettare ai linguisti l’agenda. Al giorno d’oggi, visto il folle discredito generalmente gravante sull’accademia e sulla cultura in età (post)berlusconiana, analoga pretesa di centralità sociale – astraendo da ogni confronto di merito e di livello – emerge nel presenzialismo on-line che porta chi la linguistica maneggia nel modo approssimativo di cui s’è dato sopra un saggio a presidiare la blogosfera (vd. ad esempio <http://linguista.blogautore.repubblica.it>) promettendo risposte all’uditorio cibernetico su di un sito web che usurpa il titolo de «Il linguista». . Terracini 1929, p. 667. storia della lingua e linguistica sopra riportata al §I, dove il denso elenco di fattori asseritamente ineludibili e troppo a lungo elusi dalla storia dell’italiano culmina con «l’organizzazione del sistema giudiziario e le forme di detenzione e di pena». Certamente questo, come tanto altro, sarebbe un “nice to have” per uno studioso di storia della cultura. Ma per uno storico della lingua appare di gran lunga preferibile, dovendo scegliere, ch’egli sappia analizzare non già l’organizzazione degli istituti di pena bensì forme e funzioni dei pronomi personali o gli sviluppi del sistema vocalico. Certamente, la storia della lingua non ha per oggetto solo sistemi vocalici o pronominali, bensì anche temi “esterni” quali le pratiche scrittorie femminili, o le Tracce (di cui Stussi 2001), o la lingua dei generi testuali e/o letterari (lingua della lirica, del teatro in versi, delle lettere familiari ecc.) trattati nella Storia dell’italiano scritto (SIS) o della storia linguistica di una comunità, nazionale o locale, che ne inquadri il repertorio linguistico nel suo complesso e nelle sue relazioni con l’intorno culturale. Molto vi è in altre parole, nella storia della lingua, che non si riduce a grammatica storica. Ma d’altro canto, non si potrà considerare un buono storico della lingua chi non sappia parlare competentemente della struttura della lingua di cui fa la storia, riducendo dunque la propria attività, per una serie di spostamenti metonimici, a puro esercizio “intorno” alla lingua, à propos de. Un tipo di atteggiamento che, come ho mostrato con esempi concreti, si accompagna non di rado ad una scarsa attenzione all’analisi strutturale della lingua, co. Opera di spessore e dal disegno intelligente. Proprio perciò se ne registrerà starei per dire con inquietudine la totale estromissione di ogni tematica linguistica (e metalinguistica), pur giustificata in sede introduttiva (vol. I, p. 13) con la scelta di «un’ottica non competitiva, ma complementare rispetto ad opere di sintesi dedicate alla stessa materia e prodotte negli ultimi decenni» (si pensi allo spazio dedicato a fatti linguistici in Serianni, Trifone 1993-1994). Di qui il silenzio sulla questione della lingua (nel capitolo sulla trattatistica si reperisce un’unica fugace menzione di Bembo e Castiglione; in tutta l’opera G.I. Ascoli colleziona due rimandi), sull’ortografia (che avrebbe portato a toccare aspetti linguistici strutturali), sulla lessicografia e grammaticografia, col che viene espunta ogni scrittura metalinguistica, mentre il volume III, Italiano dell’uso, contiene capitoli sul giornalismo, le scritture digitali e molto altro. In ciò l’opera è barometro dei tempi, registrando coerentemente il punto di arrivo di una progressiva riduzione degli spazi della componente linguistica nell’economia delle “scuole” accademiche degli storici della lingua italiana: paradigmatiche a questo riguardo successioni maestro-allievo quali ad esempio Migliorini – Folena – Mengaldo, o Castellani – Serianni – Motolese, tutti studiosi fra i massimi nel loro campo, campo che però – come non sfugge a chiunque degli studiosi citati conosca la produzione scientifica – si è venuto oggettivamente ridefinendo con restringimento progressivo appunto dell’attività sul fronte dell’analisi linguistica. Il che nelle università italiane avviene, paradossalmente, in un contesto istituzionale in cui tali studi, a vocazione sempre più fortemente storico-testuale se non francamente storico-letteraria, si svolgono (ricorda ad esempio D’Achille 2015) entro un settore scientifico-disciplinare (il settore L-FIL-LET/12) che non s’intitola alla «Storia della lingua» bensì alla «Linguistica Italiana». Così ad esempio, nell’Introduzione ora citata di un’opera da cui la linguistica è affatto espunta, si può leggere (con terminologia istituzionalmente inappuntabile): «Quest’opera è rivolta anche a un pubblico di studiosi esterni alla linguistica italiana» (vol. I, p. 15). michele loporcaro sicché le due componenti convergono in una propensione verso generici “studi culturali”, addirittura accompagnata a volte da un’avversione per l’analisi linguistica. L’antidoto sarebbe a portata di mano, solo a impugnare strumenti sanzionatori atti alla bisogna, donde la seguente, modesta proposta – e sarà il caso di specificare, per eventuali lettori non adusi all’ironia, che lo scrivente è ben conscio della sua ardua applicabilità – di una patente a punti per lo storico della lingua: nel migliore dei mondi (accademici) possibili, alla quinta sciocchezza grave, a stampa, che denoti inconsapevolezza od oblìo degli strumenti e dei metodi della linguistica storica, dovrebbe venir ritirata da chi di dovere (l’ASLI? Il Ministero? Il Consiglio Universitario Nazionale? l’ANVUR?) la patente di storico della lingua. Va da sé che, per equità, analoga sanzione andrebbe comminata – sempre a cura delle associazioni di categoria o delle Autorità competenti – al linguista o dialettologo che parlando di testi antichi vi proietti ut sic le condizioni odierne rinunciando ad applicare quella razionalizzazione dei dati documentari alla quale potrebbe addestrarlo una lettura attenta delle pagine di tanti bravi storici della lingua che sono al contempo valenti linguisti. Abbreviazioni bibliografiche Alessio 1938-1939 = Giovanni A., Nuovo contributo al problema della grecità dell’Italia meridionale, «Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», LXXII (1938-1939), pp. 109-72. Arcangeli 2008 = Massimo A., Piccoli e grandi drammi linguistici (e filologici). Su una recente edizione di testi veronesi due-trecenteschi, «Bollettino dell’Atlante lessicale degli antichi volgari italiani», I (2008), pp. 71-95. 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