Valerio Fantinel

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Valerio Fantinel
Valerio Fantinel
Luci d’agosto
in Sardegna
romanzo
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Valerio Fantinel
Luci d’agosto
in Sardegna
romanzo
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Filavano sulla cresta delle onde e il sole cuoceva già la pelle,
a tratti rinfrescata dagli spruzzi dell’acqua sollevati con violenza dalla corsa del gommone.
Erano usciti in mare aperto all’alba: Zoldo e Alicia si erano
lasciati dietro la casa di Marta, aggrappata a un piccolo promontorio roccioso, che scivolava dentro le acque del golfo: una
lingua di pietra calcarea qua e là fessurata e venata di lentischio.
Zoldo, occhialoni neri su un volto appena segnato dalla sofferenza degli anni, capigliatura corta, occhio aperto e scrutatore, in evidenza una maschera di pelo blandamente rossiccio sul
petto, era seduto a poppa e con la mano sinistra sulla barra governava il mezzo.
Alicia, a cavalcioni della prua, spronava il gommone. Poco
più che adolescente, coi suoi occhi verdi come menta peperita
alla luce del sole, ora ombrosi e irrequieti; la pelle dolce color
zucchero di canna e i grossi capezzoli sotto la stoffa, tesa e bagnata, del costume erano silenziosi richiami, e piccole tagliole
per incauti.
Sulla sinistra trascorreva lento un antico paesaggio dalle variegate incrostazioni orografiche. E, in lontananza, proprio davanti alla punta del gommone, che continuava ad aumentare la
velocità, staccato dalla costa, di un mezzo chilometro, spiccava
una specie di ciclopico pandizucchero; roccia viva dolomitica,
color argentone, smerlettata da bande trasversali rugginose incendiate dal sole, che veniva giù a strapiombo nelle acque
profonde.
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Erano scesi in spiaggia, lungo il sentiero, fra cespugli di lentischio, rosmarino e mirto; Zoldo dietro, calzoncini da bagno
neri e polo bianca, in mano un grosso serbatoio rosso, che conteneva la miscela per il motore del gommone. Alicia, davanti, in
minigonna di jeans, un mezzo remo in spalla e ficcato in testa
un berrettino da baseball, che faceva esplodere ai lati la sua crespa capigliatura ramata.
Li sospingeva alle spalle una calda brezza di scirocco.
“Ma perché quel coso non lo lasci giù nel casotto del pescatore?” aveva detto Alicia, fermandosi e voltandosi verso di lui,
con un sorrisetto bastardo negli occhi. “Ma non ti rompi i coglioni ogni volta con quel peso su e giù per questo sentiero di
capre?” E aveva ripreso a scendere, balzelloni, spazzando l’aria
dietro di se con il piccolo remo.
“Questo è un serbatoio e non un coso... Ser-ba-to-io, carina!... Puoi star certa che nel giro di qualche giorno lì me lo fottono, pescatore o non pescatore!” le aveva gridato dietro Zoldo, anche se in cuor suo sentiva che aveva ragione, quella capra
selvatica dalle natiche alte e tonde, che strambava giù per la ripida discesa.
“Sei in grana tu... lo aiuteresti a comprarsi un motorino nuovo e togliersi così dalle palle quel casino di lambretta da rottamare... ” aveva gridato continuando a saltellare a sinistra e a destra.
“E perché proprio io?”
“E perché no?” gridò ancora Alicia, mentre metteva piede
sulla sabbia leggermente fredda della spiaggia. Si volse verso
Zoldo: “Lui ti fa un favore a tenerti il coso nel casotto... e col
motorino nuovo potrebbe farti la spesa, giù al villaggio e comprarti il giornale e, anche, lo spazzolino da denti, quello che hai
fa proprio schifo...” le sembrò proprio una buona predica e
questa convinzione si trasformò in un lungo fischio alla caprara, come lei aveva visto fare dai pastori della zona.
Zoldo si fermò, scosse la testa, sconsolato, era proprio senza speranza. Poi riprese a scendere.
Il casotto di legno bianco-sporco del pescatore era aperto; il
tipo sulla soglia li stava osservando, con una faccia spenta come la cicca che gli spenzolava dalla bocca scura. Zoldo vide che
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Alicia lo salutava con la mano e lui, dopo aver risposto, si era
eclissato. Non era il pescatore che conosceva: forse un parente,
che gli aveva dato il cambio; per qualche motivo il vecchio proprietario si era dovuto assentare.
Il gommone era lì a due passi, sulla battigia, appena lambito
dalla risacca. Zoldo fu subito dietro Alicia, che ora aveva preso
un passo un po’ indolente: lui la placcò con una mano lungo il
morbido e caldo filo della schiena, fra le scapole, sospingendola verso il natante. Dolcemente, ma con decisione. Alicia percepì in quella pressione della mano sia il suo carattere perentorio che un tenero e appassionato gesto di vicinanza e di amicizia. Ma ne provò, a pelle, un certo fastidio, come un’invasione
indebita nella sua intimità. Si sottrasse alla mano, allungando il
passo.
“Scusa!” disse Zoldo, precedendola verso il gommone.
Zoldo depose il serbatoio all’interno dello scafo, sui paglioli
di legno, accanto all’ancorotto, assieme al remo che la ragazza
gli aveva passato. Afferrò un maniglione di corda che pendeva
lungo il fianco destro del natante e dissi ad Alicia:
“Spingi da poppa con tutte le forze, al mio via... Diamo una
scrollata alla Bestia e buttiamola in mare.”
Zoldo chiamava, senza molta fantasia, la Bestia, quel gommone, perché gli sembrava sempre di tenere alle briglie un cavallone
un po’ strambo, anche se ormai ultravecchio, qua e là vulcanizzato nelle ferite riportate strisciando su spunzoni di roccia affioranti lungo la costa.
“Pronti... viaaa!!!”
E ad Alicia sembrò che il gommone scivolasse dentro il mare come una grosso cetaceo color piombo. Lo seguirono; l’acqua arrivò d’impeto alle ginocchia. Fredda e pungente poi sulle cosce e le anche.
Sistemato il serbatoio a poppa, si arrampicarono dentro il
gommone che ondeggiava, prima Alicia e poi lui. Dopo aver
collegato il serbatoio al motore, Zoldo cominciò a pompare per
richiamare la miscela dal serbatoio. Quindi puntata la barra
sullo start, tirata con decisione la cordella dell’accensione, l’elica si era messa a vorticare, schiumando.
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Il suono era chiaro e continuo: garantiva sulla tenuta della
corsa in mare aperto.
Zoldo si tolse la polo e la buttò in un angolo, a portata di mano, comunque, ma si tenne gli occhialoni. L’aria sarebbe stata
ancora più frizzante in mezzo al mare e gli occhialoni gli avrebbero dato la sensazione di essere al riparo dagli spruzzi. Alicia
si strinse di più il pezzo di stoffa sui seni e cacciò il berretto nel
piccolo ripostiglio sotto la prua, fra cordami, recipienti di plastica, una vecchia tuta da sub, impiastricciata di calce, con accanto una bomboletta mezzo vuota di svitol superspray e un
ancorotto di piombo a tre punte.
La spiaggia scorreva veloce sul loro fianco; il motore non ancora al massimo dei giri. Zoldo si trattenne per qualche minuto prima di dar manetta; pensò che con quell’esigua zavorra a
prua si rischiava di planare e un’eventuale raffica di scirocco
improvvisa su una fiancata avrebbe catapultato in alto il gommone che, ricadendo, si sarebbe rovesciato. Il mare inoltre aveva delle improvvise marezzatura più inquiete. Ma alla fine si liberò di quel residuo di reticenza e diede tutta manetta, sfogando il motore che raddoppiò la velocità. Il gommone, come un
cavallo rampante, si erse di colpo a prua e volò via, lasciandosi
dietro un serpente di schiume vorticanti. Aveva puntato sul
pandizucchero, pieno di insenature e calette, che lui conosceva
molto bene per averlo spesso frequentato durante le vacanze
estive, e averci fatto delle battute di pesca subacquea con vecchi amici di Marta.
Alicia, con le gambe penzoloni sulle tonde fiancate, a prua,
affrancatasi con ambedue le mani al grosso anello di metallo,
che pendeva sul davanti, continuava a spronare il gommone e
gridava:
“Hop, hop, cavallino d’argento... corri, corri, cavallino d’argento... Vola, vola fino all’Africa del mio cuore... hop, hop, cavallino d’argento...”
Zoldo osservava la schiena leggermente arcuata in avanti di
Alicia, e pensava che era una schiena di donna matura ma con
la testa di una sfrontata adolescente, i cui cappelli, ora, le si increspavano ancora di più nella corsa. E così vide, all’altezza del5
la sua spalla sinistra, sulla pelle ambrata, quella piccola serpe o
vipera tatuata di color verde-oro, dardeggiante una sottile, lunga e bifida linguetta rossa. L’aveva già notata, prima in una casuale, segreta visione in casa, e si era chiesto quale fosse il vero
significato che lei attribuiva a quel simbolo. Se simbolo era.
“Ehei, bambina dai riccioli d’oro, di che tribù sei?” gridò
Zoldo.
“Dei fatti i cazzi tuoi” rispose lei controvento. Ma a lui arrivò una specie di mugolìo beffardo.
“Sei dello scorpione?” le gridò di rimando a casaccio.
“No, della vipera... e pianto il veleno come quella!” gridò rivolgendosi verso di lui.
“Hhhhuuu, che fantasia velenosa!” e Zoldo diede manetta
per aumentare ancora la velocità: quel gesto doveva farle capire che era lui il padrone della situazione. E che non c’era nulla
che potesse intimidirlo o imbarazzarlo. Tanto meno l’aggressività che c’era nelle sue parole. Ed era ancora lui a poter sfruttare qualsiasi opportunità si fosse presentata. Se lo mettesse bene in testa.
“È il mio antidoto, stupido!... Faccio parte degli intoccabili, delle caste inferiori e lo segnalo, così tutti mi stanno alla larga...” Continuava a gridare forte al vento, per nulla intimidita
di quell’aumento di velocità e del pericolo conseguente. Si
voltò verso di lui con un’occhiata cupa e lui le rispose con un
sorrisetto idiota e diede gas per l’ennesima volta.
Giunsero finalmente in vista del luogo su cui Zoldo aveva
puntato. Era un lembo appena accennato di sabbia fine e corallina, sotto l’alto bastione del pandizucchero. Ci potevano
stare cinque o sei corpi sdraiati in quel piccolo frantumo di
spiaggia con residui di trachite rossa e microscopici frammenti
di corallo. Zoldo vi si diresse riducendo i giri del motore e il
gommone si afflosciò nell’acqua, come una vescica che si sgonfia d’improvviso, spedendo piccole onde verso la riva. Smanettò in folle, due tre volte, piano. Sulla spinta il gommone caracollò ancora qualche metro. Zoldo guardò giù il fondale a
grandi lastroni di roccia basaltica e piccoli specchi di sabbia,
per controllare la profondità, che poteva essere di una decina
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di metri ed era verde e trasparente. Spense il motore e buttò
l’ancorotto, che scese a piombo a fissarsi con due punte sotto
un piccolo spuntone di roccia.
“Chi ti ha detto che il tatuaggio ti rende intoccabile?”
“Un amico…”
“Allora sai anche che il tatuaggio ha sempre avuto a che fare con il sacro… fin dai tempi antichissimi.”
“Se lo dici tu... è così importante?” disse rivolgendosi verso
di lui con una voce dal colore scuro e i peperiti occhi brillanti
per la corsa nel vento. Zoldo si rese conto che quello sguardo
andava ben oltre la sua età anagrafica.
“Voglio dire che il tatuaggio ha qualcosa a che vedere con il
mondo del sacro... un rapporto medianico con la terra... Non è
una cosa di oggi... È stato usato dagli uomini primitivi e dalle
religioni per denunciare che i corpi su cui erano impressi certi
segni erano corpi sacri, sotto la protezione delle divinità...”
“Questa l’ho già sentita...”
“Da quel tuo amico?…”
“Può darsi… Ma la mia vipera è per avvertire di starmi alla
larga; è una minaccia per i malintenzionati... Ti ripeto sono
un’intoccabile...” e si mise a ridere.
“Ma che razza di gioco è? Intoccabile... cosa intendi?...”
“Forse non sai o te lo sei già dimenticato che ho sangue nero nelle vene... sangue Yoruba, come dice mia madre, che conosce forse solo qualche racconto che i miei nonni materni le
hanno fatto a proposito di schiavi importati dall’Africa” e raddrizzatasi di colpo sulla prua si era tuffata goffamente, a gambe larghe: la Bestia aveva dondolato, strappando sull’ancorotto.
Zoldo guardò giù verso il fondale e scorse la silhouette lunga e silurante di Alicia, che si allontanava sott’acqua verso la
spiaggetta. Riemerse poco più in là con la testa e i capelli che le
si appiccicavano tutt’attorno al viso, formando una cuffia crespa di riccioli, e il profilo, fortemente accentuato e stagliato sullo specchio levigato dell’acqua, le dava le fattezze di un sculturina africana. E poi, testa sott’acqua, lei si mise a battere un
crawl filante.
“È stupenda!...” gridò poco dopo Alicia, uscendo dall’ac7
qua sulla spiaggia. “Ecco dove si vede la mano di un Dio ultrafico...” e il sole l’avvolse in una tunica di lustrini risplendenti.
Si sdraiò sulla sabbia; il corpo si fece subito nero sullo sfondo
di corallo. Era più nero di quando si era tuffata. L’acqua ne lucidava il colore e ne esaltava le forme, ingrandendole come se
Zoldo le stesse spiando con un binocolo. E allora credette di
capire la battuta ironica di Alicia, a proposito del suo sangue
nero e della sua intoccabilità. Lo aveva semplicemente messo in
guardia. Ma pur tuttavia quel nero, là, in lontananza si stava
trasformando sotto i suoi occhi in una potente esca, rafforzando in lui quella prima vaga ossessione della sua presenza, quel
demone che lo aveva afferrato qualche mattina prima, appena
arrivato in Sardegna. Un demone che aveva risvegliato forse
qualcosa di oscuro dentro di lui, qualcosa che sonnecchiava
sotto la pelle di quella sua stravolta vita da baraccone e che lo
metteva in allarme rosso. Fece un gesto con la mano, come per
scacciare una mosca dalla fronte (o piuttosto una strana idea
dalla mente). No, tutto sotto controllo, andiamo, ci mancherebbe altro! E sorrise dentro di sé, compiaciuto del suo autocontrollo. Si tolse gli occhialoni e il mondo circostante ritornò
coi suoi colori originali.
Zoldo, sedette sulla sponda del gommone con le gambe
penzoloni e si lasciò scivolare nell’acqua: sentì un freddo ago
ipodermico penetrargli nel cervello quando le piante dei piedi
ne toccarono la superficie. Nuotava in un silenzio estatico, rotto solo dai tonfi leggeri delle bracciate. Dentro e fuori, ritmicamente. Anche se era da molto che non andava più in piscina,
quando era a Milano, per mancanza di tempo e per pigrizia,
constatò, con un larvato orgoglio che la sua condizione fisica
era eccellente. Tutto il corpo rispondeva a dovere. La respirazione aveva ogni tanto qualche leggero inciampo, naturale d’altronde data l’età.
La pelle, avvolta dalla fresca massa liquida, veniva irrorata
dal sangue che vi affluiva veloce, mentre a lunghe bracciate si
allontanava dal gommone, distante una trentina di metri dalla
riva. E a ogni bracciata, alzando la testa Zoldo, vedeva a fior
d’acqua il corpo nero e immobile di Alicia, schienata, e i seni liberi leggermente più pallidi, prominenti e perfetti e vedeva le
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sue lunghe gambe, allargate, e le braccia aperte al sole che
piombava su di lei con l’aggressività di un falco in cerca di preda...
Rallentò le bracciate per godersi meglio lo spettacolo. Nulla faceva maggiormente parte del paesaggio di quel corpo, prodotto di un’altissima selezione naturale e che, però, ora non gli
sembrava più fatto di carne, sangue, ossa, muscoli, ma era diventato un tutt’uno con la natura circostante, in quella cartolina caleidoscopica dai formicolanti colori.
Si rovesciò sulla schiena, aumentò l’andatura con violenti e
rapidi colpi di braccia, alzandole e abbassandole come due potenti e larghe pagaie. Sentiva le spalle affondare nell’acqua e il
suo sapore amaro-salato, incontrollato, a ondate entrargli in
bocca. Sputò verso il cielo, e in quel momento vide alto un falchetto roteare attorno alla cima del roccione… lo fissò continuando nella stessa posizione. Ma a poco a poco un leggero
torpore gli sciolse le membra tese nello sforzo, e si sentì proiettato in avanti, verso l’alto, come sdoppiato. Una parte di sé prese a volare verso il falchetto e da lassù vide la scena sottostante
con quel corpo disteso sulla coltre sabbiosa e lui stesso, laggiù,
come un grande bioluminescente essere delle profondità marine, simile a un serpente di mare che si avvolgeva nelle sue spire e si scioglieva e serpeggiava per un attimo, imprigionando
nel suo occhio la preda molto prima dell’assalto mortale... Poi,
con un piccolo colpo di reni, arcuò la schiena e si immerse,
scendendo a piombo, gambe strettamente unite, muovendo il
corpo come un boa verso le profondità... Fece alcuni metri nel
silenzio totale del mondo sottomarino, stringendo i denti e trattenendo il respiro.
A occhio nudo, senza la maschera, la realtà tutt’attorno era
di una vischiosa sordità, verdastra con lunghe alghe dai contorni evanescenti che fluttuavano scure qua e là in un pulviscolo di plancton sospeso, filtrato dal sole... la pressione marina
sulle orecchie gli produceva un sottile ronzio di una qualche
sofferenza e nel frattempo osservava il ciclopico zoccolo del
pandizucchero sovrastante, ben saldo, radicato nella roccia...
da milioni d’anni... Poi prese a risalire per ossigenarsi; pinneggiava a piedi uniti, ondulando il corpo... e subito emerso
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mandò un grido gutturale, furioso, liberatorio, che rimbombò
nella concavità della spiaggia. La finzione del serpente marino,
che gli aveva messo addosso per alcuni secondi la fastidiosa e
terribile suggestione delle squame, lo aveva proiettato violentemente verso l’alto, verso la superficie e l’aria, per ritrovarsi nel
calore della luce solare e nella sua pelle umana!
Alicia, al grido, si era drizzata sulla schiena e, rivolta verso il
punto dove Zoldo era emerso con tanta furia, aveva urlato un
“heeeilàaaa” e la voce era risuonata altrettanto impetuosa, dura
e diritta.
“Ce la fai a portarmi le sigarette?” gli gridò in successione
Alicia.
“Ma lascia perdere...” disse Zoldo.
“Ne ho bisogno” gridò lei.
“Allora sta’ ferma là che ti voglio scattare qualche istantanea... Vado e torno” rispose Zoldo.
Nuotando verso il gommone, crebbe in Zoldo un ansioso interesse per quella specie di promettente safari fotografico. Aumentò l’andatura, ma la cosa gli affaticò il respiro e temette di
non farcela. Aveva avuto un improvviso aumento delle pulsazioni cardiache. Guarda tu, quando hai maggior bisogno di
mostrarti al meglio delle tue capacità, ecco che l’età ti fa cilecca. Si fermò un istante, fingendo di guardare qualcosa nel fondo e intanto aspirò lento una decina di volte. Si riprese e finalmente afferrò il maniglione di corda sulla fiancata e, spavaldamente, con un colpo d’anca, residuo di energia, uscì dall’acqua
e, tirandosi su a forza di muscoli, bene o male ruzzolò dentro la
Bestia, raschiando pancia e testicoli sulla ruvida corda del maniglione, e successivamente battendo la fronte sul legno del
fondo, fra le borse contenenti le chiavi inglesi e i giubbotti da
salvataggio. Si passò un mano sulla fronte: non era successo
nulla. Ma più in basso...
“Cazzo,” si lasciò sfuggire ad alta voce “ho rischiato di lasciarci le palle” e per fugare il sospetto, ma più per scaramanzia, si tastò scrupolosamente i suoi averi.
“Sei ancora tutto insieme, Zoldo?” gridò Alicia. “Cosa ti è
successo? Ehei, non ti vedo più!”
“Sta’ tranquilla e lasciami lavorare, ragazzina... Ho la situa10
zione saldamente in pugno...” e sghignazzò per la trita allusione.
“Lo immagino, brutto maialino...” commentò ridendo Alicia.
Zoldo si accovacciò sul fondo della Bestia, prese la sacca di
Alicia e rovesciò fuori il contenuto: una pioggia di spazzole,
pettini, lozioni per la pelle di ogni marca, una piccola fotocamera digitale in una custodia di plastica rigida, un mezzo pacchetto di sigarette e un accendino. Si raddrizzò, afferrò la gomena cui era attaccato l’ancorotto e lo tirò velocemente a bordo. Con uno strappo alla cordella avviò il motore. E, al minimo, si diresse verso l’approdo, che era di fronte, fra due spunzoni di scogli a pelo d’acqua. Smorzò e il natante caracollò
blandamente, andando a spiaggiarsi di fronte al corpo nero di
Alicia, in piedi, in tutta la sua magnificenza di capelli, spalle, seni, pube, cosce e gambe, piantate sulla sabbia, senza lasciar
stampata dietro di sé la minima ombra nel sole a picco.
“Ferma lì, bambina dai riccioli d’oro!” fece Zoldo. Raccolse la
piccola fotocamera digitale dal fondo del gommone. La liberò
dalla custodia e cominciò a puntarla.
“Per piacere, vuoi farle venire un infarto a quella poveraccia
di mia madre? Sua figlia fotografata senza uno straccio addosso... ” si schernì pudibonda Alicia; si era immediatamente accovacciata su se stessa, coprendosi i seni con le mani, il mento
sulle ginocchia, lasciando solo qualche centimetro della sua
pelle esposta allo scatto.
In piedi sulla Bestia, ormai ammansita sull’orlo della risacca, Zoldo scattava; dall’alto, dal basso, di fianco, seduto, sdraiato, ecc. Lavorava con la dettagliata professionalità di un entomologo nella descrizione visiva delle parti anatomiche di quella farfalla nera.
“Intanto vuoi buttarmi le sigarette, per favore” gridò Alicia.
Zoldo si chinò e raccolse il mezzo pacchetto di sigarette e
l’accendino e li lanciò in direzione del corpo di Alicia; lei si allungò in avanti e con un gesto veloce della destra afferrò gli oggetti, mentre lui continuava a scattare, sempre in bilico sui bordi del gommone. Alicia lo traguardava con aria indifferente. E
dopo essersi accesa una sigaretta, con quell’accendino, che doveva aver fregato a Marta, e che abbandonò sulla sabbia assie11
me al mezzo pacchetto, si alzò in piedi, e, come sciogliendosi
da quella goffa posizione, si stirò maliziosamente, alzando le
braccia in alto, accennando a un breve movimento di danza;
prese gli slip, che aveva buttato di fianco e lentamente, con la
sigaretta che le spenzolava da un angolo della bocca, se li infilò,
senza guardare il suo entomologo-fotografo se non di sbieco
con rapide occhiate di controllo. Ma non toccò il reggiseno.
Del reggiseno poteva farne a meno. Poi le coppe erano piene di
sabbia e sai che tormentone sui capezzoli! Molto di più che
avere la sabbia fra le cosce. E Zoldo continuava a scattare indiscreto, golosamente impudico.
Il sole intanto si era fatto di fuoco e un filo di sudore gli scese lungo le tempie a molestargli la vista.
“Sei proprio un maialino! Dovresti vergognarti” ironizzò
Alicia.
“Ah, sei tu che dovresti vergognarti a fregare gli accendini a
Marta!” disse Zoldo.
“Guarda che è stata lei a regalarmelo, prima che tu arrivassi da Milano!” rispose piccata Alicia e gli mostrò la lingua.
Andò a sedersi sul bordo del gommone, continuando a fumare
con aria strafottente
“Chissà perché devi sempre fumare. A tutte le ore del giorno te la vedo sempre in bocca quella merda. Alla tua età mio
padre mi avrebbe sfarinato il culo a calci, se mi fossi permesso
di fumare” fece Zoldo.
Poi si sedette sul bordo della Bestia, e la guardò di profilo,
studiando la possibilità di qualche altro scatto. Che maledetto
infingardo, aveva usato una battuta triviale, accennando al padre come a un educatore inflessibile! Quando mai! Una cosa ridicola. Il padre di Zoldo era scomparso che lui era ancora bambino. Quella non era altro che una banalità, per dimostrare
quanto fosse severa l’educazione di un tempo, scimmiottando
un atteggiamento falsamente paterno.
“Sì, mio padre... mio padre...” tirò una boccata, chiudendo
gli occhi. “Mio padre... chissà cosa avrebbe fatto, lui... forse
avrebbe fatto finta di non accorgersi, anche se puzzavo di fumo
come un vecchio camino... Perché avrebbe dovuto scoraggiare
la sua ragazza in questo piccolo vizio?... Gli poteva pur rende12
re qualcosa in cambio... Tutte le sere, dopo avermi regalato un
croccante al sesamo, mi diceva sempre tu sei il mio amore, la
mia vera ragazza. Mi guardava negli occhi, portandomi a letto
e mi recitava ‘amo la mia ragazza, non c’è altra ragazza all'infuori di te, amo la mia ragazza con tutti i suoi foruncoli’...”
“Avevi i foruncoli, da piccola?”
“Sei scemo per principio, allora! Per lui i foruncoli erano i
miei capezzoli!”
“Non so che dire... però, non mi sembra strano che un padre possa fare delle maliziose allusioni nei riguardi della propria figlia, senza altre intenzioni se non di manifestare una specie di orgoglio paterno... ” si affrettò a chiudere Zoldo, un po’
irritato, forse per interrompere una litania che poteva risultare
alla fine sgradevole, e, per distogliere anche lo sguardo dai suoi
capezzoli, cominciò a controllare il numero delle foto digitalizzate. “È stato senz’altro un buon padre e sono anche convinto
che abbia fatto il suo dovere fin che è stato vivo...”
“Tutti i padri fanno il loro dovere con le proprie figlie, ci
mancherebbe che non fosse così...” disse Alicia con un’ombra
di improvvisa tristezza negli occhi, poi continuò: “E sì che ne
devi aver sentito delle storie, tu… specialmente a teatro, con
tutte quelle manze di attrici fica vecchia che ti sgambettano davanti al cazzo...”
Zoldo smise di controllare il numero delle foto già scattate:
quell’ultima battuta, piena di sarcasmo e di veleno, aveva brillato nel suo cervello, come una mina. Ma cosa cazzo stava dicendo? Ma come si permetteva quelle battute da troietta invidiosa?
“Certo che mi sono trovato davanti a situazioni del genere...
Anche perché se ne sente parlare di continuo. Ma per fortuna
non sono mai caduto nella trappola... e guardati, vitellina da
latte, dall’insistere con insinuazioni del genere.” Cercò intanto
di fare ancora qualche scatto, ma la voglia gli era venuta meno.
Si sentiva amareggiato, messo all’angolo da una vitalità indomabile, che lo sovrastava. Rimise la fotocamera nella custodia e
la depose nelle mani di Alicia. “Certo, per il mio mestiere, ho
avuto alcune attrici che hanno subito quel fesso del loro padre
e me lo hanno raccontato... E se vuoi sapere la mia opinione,
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credo che la cosa abbia cominciato a esistere realmente, e a non
essere più allusiva, solo dopo Freud. Prima non si davano apertamente casi del genere... tutto moriva dentro i tinelli borghesi…”
“Alleluja, dottor Zoldo, per ogni fregnaccia tiri fuori quel
maniaco di Freud!… C’è sempre qualcun altro colpevole. Hai
una fantastica coda... di paglia, anche tu vecchio dinosauro.”
“Problemi con Freud? Parli come tutte le stronze della tua
età!”
“E dài, come se la mia età mi condannasse a essere una minorata, una zombi da film horror…”
“Ma cosa vuoi farmi credere... eddài! Anche tuo padre...?”
“Non ho mai detto questo...” chiarì Alicia che aveva sempre
gli occhi socchiusi e inghiottiva e sputava fumo. “Mio padre mi
portava a letto e mi raccomandava di restare vergine, perché
solo lui era il mio ragazzo... tutto qui, o vuoi saperne di più?”
“Sei veramente un romanzone a fumetti...”
“E con questo, sono come tante altre, se non ti dispiace e poi
fa parte della mia personalità, vittima predestinata sono, come
dite voi, bella gente di teatro…” un leggera coda ridanciana le
salì dall’angolo della bocca a illuminarle le pupille, e Zoldo si
guadagnò un ultimo riflesso beffardo, che voleva dire un sacco
di cose, probabilmente non tutte carine e gradevoli.
“Ne ho abbastanza di queste stronzate...” tagliò corto lui
con il garbo di un tagliatore di gole, alzandosi e ripulendo sui
calzoni il coltello sporco di sangue.
“Che diavolo di fretta ti è presa! Siamo fuori da tre ore appena…” si lamentò Alicia e, torcendosi sul busto, andò a infilare la piccola fotocamera nella sacca dentro il gommone.
“Basta e avanza per oggi” ribatté Zoldo. “Ho sabbia fin nella cambusa.” E corse a tuffarsi. Si allontanò quanto bastava; si
cavò gli slip, li scosse nell’acqua per ripulirli dalla sabbia. Andò
sotto e capovolgendosi se li rinfilo. Risalì in superficie e si diresse verso la spiaggia. Alicia, ripulito dalla sabbia quella specie di reggiseno, se lo stava adattando; Zoldo mise di nuovo
piede sulla battigia.
“Grazie per l’angolo meraviglioso! Dovremo tornarci anche
con le ziette” fece Alicia, guardandosi intorno.
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“Lascia perdere le ziette... È da un sacco di tempo che Marta conosce questo posto... e Gyppo non sopporta gli sgropponi della Bestia...”
“E così sensibile nelle parti basse?”
“Ha subito un’operazione alla spina dorsale da ragazza” disse Zoldo fingendo di non aver afferrato l’allusione maliziosa.
Alicia lo fissò intenzionalmente e scrollò le spalle in segno di
commiserazione. Dopo di che si misero a spingere fuori la Bestia, cavalcando la leggera onda della risacca. Ci saltò dentro
per primo Zoldo, poi tirò a sé Alicia, che gli porgeva una mano
per farsi aiutare. Percepì immediatamente l'irresistibile forza
gravitazionale che lei emanava; fu lui a essere marchiato da quel
corpo quando gli cadde addosso e fu come una strisciata bruciante di medusa sulla sua pelle; sentì imprimersi il segno dei
suoi giovani anni, ma il ricordo del padre di lei diede un’ampia
sforbiciata al serpeggiare sornione di un incipiente rilassamento dei suoi freni inibitori.
“Scusa” disse Alicia, abbassando gli occhi. E si istallò sulla
prua del gommone, come aveva fatto nell’andata.
Si allontanarono lentamente dal pandizucchero verso la casa sul promontorio, “la casa dell’ibisco”, come era chiamata
per lo splendido e mastodontico ibisco, cresciuto nel giardino
e visibile dal mare, e dove Marta e l’amica Gyppo erano rimaste a godersi lo smemorante dormiveglia, raggomitolate, ognuna nel proprio letto, come vecchie gatte fusaiole.
Il frusciare dell’acqua e il sordo pulsare del motore della Bestia dava il tono a quella corsa del rientro. Tutti e due in silenzio, ognuno coi propri pensieri... e Zoldo con un’abbondante
sudorazione che il vento della corsa stava prosciugando. Sulla
sinistra scorreva la lunga costa, punteggiata da ombrelloni multicolori. Gruppi di indigeni, piccole figure indistinte, qua e là
prendevano il sole nude. Cinque o sei bagnanti giocavano a riva con un grosso pallone arancione e un ragazzo governava con
destrezza il volo di un aquilone rosso-oro che pinneggiava nell’azzurro sopra le loro teste. E mentre controllava la rotta, con
la barra del timone puntata sul promontorio, Zoldo si mise a riregistrare il ricordo del primo giorno del suo arrivo...
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Fu proprio la mattina successiva all’arrivo di Zoldo in Sardegna che le cose presero una piega decisamente diversa dalle
sue aspettative di un periodo di totale bonaccia dello spirito e
dei sensi, fuori da ogni intrigo, dalle estenuanti giornate di prove e di ricerche drammaturgiche, che lo impegnavano dalle otto del mattino a notte inoltrata.
Arrivato con il volo notturno da Milano, aveva impiegato
un’ora e mezzo per raggiungere la casa di Marta, alla guida di
una macchina presa a noleggio sul posto (il suo amico pescatore dello stagno di S. Gilla, a causa di un contrattempo, non aveva potuto raggiungerlo per dargli uno strappo, come d’accordo, fino al villaggio che si distendeva in basso, a fianco del promontorio). Dopo aver parcheggiato vicino all’auto di Marta, e
aver riposto le chiavi dell’accensione nello sportelletto di destra, sotto il cruscotto, dove c’erano i documenti di viaggio dell’autonoleggio, Zoldo era sceso respirando a pieni polmoni l’umidità della notte.
Aveva tolto il borsone dal sedile posteriore, aveva chiuso
piano le portiere ed era entrato in casa senza che nessuno si fosse degnato di aspettarlo in piedi. L’ambiente era silenzioso come una cripta. Era salito nella sua stanza senza accendere la luce; la luna, entrando dalla finestrella di fianco alla scala, aveva
illuminato grossi gradini di legno di rovere che salivano fino al
piano della sua stanza.
Entrato in camera, aveva lasciato cadere il borsone e si era
buttato sul letto così come era, vestito scarpato e strafatto di fatica.
Non era mai stato facile per lui adattarsi subito all’intenso
clima della Sardegna, alle sue stagioni tagliate con nettezza in
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