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RASSEGNA STAMPA
giovedì 11 giugno 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
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LA REPUBBLICA
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da RaiNews 24 del 10/06/15
Carovana antimafie, la musica del Parto delle
Nuvole Pesanti
E' partita da Reggio Calabria la 21/ma edizione della Carovana internazionale antimafie,
organizzata da Libera Arci, Avviso pubblico e sindacati. Il viaggio durerà tre mesi, per poi
riprendere a settembre. Partner artistico della Carovana il gruppo musicale del Parto delle
Nuvole Pesanti che negli ultimi due anni ha attraversato con la sua musica il viaggio tra i
beni confiscati alla Mafia.
L'intervista di Fausto Pellegrini
Link al servizio http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Carovana-antimafie-la-musica-delParto-delle-Nuvole-Pesanti-5a490349-3cd8-4cb6-a76f-35a74f3d207f.html
Da Ansa del 10/06/15
Mafie: le 'periferie al centro', parte Carovana
antimafia
Il via da Reggio Calabria, toccherà tutte regioni e Paesi esteri
(ANSA) - REGGIO CALABRIA, 10 GIU - E' partita oggi da Reggio Calabria la 21/ma
edizione della Carovana internazionale antimafie, organizzata da Arci, Libera, Avviso
pubblico e sindacati Cgil, Cisl e Uil. "Le periferie al centro", il tema guida di quest'anno,
annunciato nella conferenza stampa di presentazione a Palazzo San Giorgio, sede del
Comune di Reggio.
"Dal '95, anno di avvio di questa esperienza - ha spiegato Alessandro Cobianchi,
coordinatore nazionale Arci per la Carovana - esplodevano le bombe nelle città. Nel tempo
le mafie si sono trasformate e si deve necessariamente modificare l'antimafia sociale. Su
questo aspetto le periferie, luoghi di degrado, emarginazione, ingiustizie ed illegalità,
rappresentano un luogo caratterizzante del nostro pensiero. Luoghi dove raccontare la
denunzia, ma anche le buone pratiche messe in atto in diverse località simbolo della
presenza criminale; raccontare quello che non funziona, ma anche quello che funziona".
Il viaggio della carovana, della durata di tre mesi, prevede tre tappe in Calabria: Reggio,
Cutro e Catanzaro. Seguiranno, Basilicata, Campania, Lazio, Umbria, Marche, Emilia
Romagna Toscana, ed il 30 giugno Bruxelles. Un cammino che riprenderà poi a settembre
nel resto d'Italia e le tappe internazionali, in Belgio, Spagna, Malta, Romania, Germania e
Francia.(ANSA).
Da Radio Articolo 1 del 09/06/15
La lunga marcia della legalità.
Interviene Alessandro Cobianchi, Carovana antimafie
See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/06/09/24529/la-lunga-marcia-dellalegalita-interviene-alessandro-cobianchi-carovana-antimafie#sthash.LBEw8of6.dpuf
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Da Corriere della Calabria del 10/06/15
Parte da Reggio la carovana antimafia
Presentata stamattina l'iniziativa promossa da Arci, Libera, Avviso
pubblico, Cgil, Cisl e Uil. Previsto lo sgombero collettivo dell'ex bowling
REGGIO CALABRIA Parte per la prima volta da Reggio Calabria la Carovana
internazionale antimafie, promossa da Arci, Libera, Avviso pubblico, Cgil, Cisl e Uil,
quest'anno intitolata "Le periferie al centro". Alla conferenza stampa nazionale di
presentazione, svoltasi nella cornice del Salone dei lampadari di Palazzo San Giorgio,
hanno preso parte fra gli altri, Davide Grilletto di Arci Calabria e il coordinatore della
manifestazione Alessandro Cobianchi. Quest'ultimo si è detto convinto che «l'antimafia
sociale abbia tante anime e che questo la renda forte. L'esperienza della carovana iniziata
nel 1994, ventuno anni fa, testimonia la ricchezza apportata da diversi attori che si
mettono in gioco».
Sono intervenuti anche Maurizio Bernava segretario confederale della Cisl nazionale,
Mauro Sasso della Uil nazionale, Raffaele Mammoliti, componente della segretaria della
Cgil Calabria, Rosy Perrone segretario generale della Cisl Calabria. Uniti i sindacati hanno
evidenziato l'impegno da sempre profuso sul fronte della legalità attraverso la difesa del
valore del lavoro, la lotta alle mafie e la valorizzazione del potenziale di riscatto presente in
Calabria.
«Il lavoro pulito, frutto di un rischio di impresa autentico e non viziato da riciclaggio
costituisce la base per una occupazione solida, strumento necessario per contrastare le
mafie», ha affermato il segretario della Cisl Bernava.
Maria Antonietta Sacco, assessore del comune di Carlopoli in provincia di Catanzaro e
coordinatrice regionale Avviso pubblico, richiamando le parole di monsignor Giancarlo
Bregantini, ha evidenziato come «la marginalità possa e debba essere interpretata come
opportunità». «Le persone al centro, le loro storie, i loro volti, come testimoniato da don
Italo Calabrò e da don Ciotti, questa è la strada maestra», ha ancora sottolineato Mimmo
Nasone di Libera Calabria.
Spazio anche alla musica, e all'impegno civile di cui diviene prezioso strumento, con
Salvatore De Siena de "Il parto delle nuvole pesanti" che ha illustrato il progetto musicale
e culturale "Terre di musica. Viaggio tra i beni confiscati alla mafia". Ha concluso i lavori il
sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, soffermatosi sulla sfida che vede
impegnata l'amministrazione comunale ossia quella di superare l'alone del primo
scioglimento per mafia di un comune capoluogo di provincia per attuare invece buone
pratiche.
«Siamo profondamente convinti che le periferie siano territori che necessitano di essere
abitati dalle istituzioni ma per questa, come per le altre sfide, ci vogliono risorse. A breve,
intanto, approveremo il regolamento sui beni confiscati e sui beni comuni. Puntiamo molto
sui beni collettivi che appartengono ai cittadini».
La prima tappa della carovana internazionale antimafie, presentata a Reggio, prevede per
la giornata odierna un ricco programma scandito dallo sgombero collettivo dell'ex bowling
(via Cuzzocrea) confiscato e assegnato all'Arci e dagli appuntamenti pomeridiani presso il
parco ludico tecnologico e ambientale di Ecolandia di Arghillà e alle ore 17.30 presso la
biblioteca dell'Itt "Panella-Vallauri" di Reggio, guidato da Anna Nucera, al quale
parteciperà anche il presidente del Tribunale di Reggio Calabria Luciano Gerardis. In
occasione dell'incontro nell'istituto scolastico sarà data voce anche a un'altra esperienza di
riutilizzazione dei beni confiscati quale quella della sartoria per la cooperativa "Sole
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insieme" presieduta da Giusi Nuri e alla città laboratorio Reaction City avviata dalla
docente universitaria Consuelo Nava.
Quella di Reggio Calabria sarà anche la prima tappa della regione cui seguiranno quella
catanzarese di domani 11 giugno nel quartiere Corvo, con attività sportive, teatrali e
musicali a partire dalle ore 17 presso il campetto attiguo al Palagallo, e quella crotonese di
venerdì 12 giugno presso la villa comunale di Cutro con un incontro seguito dal reading
musicale "Terre di musica" con inizio alle ore 18.30.
Il percorso della carovana internazionale antimafie divenuta ormai un laboratorio itinerante
per i diritti, la giustizia sociale, la legalità democratica, oggi parte da Reggio Calabria e, per
il mese di giugno, farà tappa ancora in Calabria e poi in Basilicata, Campania, Lazio,
Umbria, Marche, Emilia Romagna, Toscana, fino a Bruxelles dove il 30 giugno avrà luogo
un evento intermedio. Tra settembre e ottobre la carovana attraverserà poi le altre regioni
d'Italia e oltrepasserà il confine nazionale fino in Belgio, Spagna, Malta, Romania,
Germania, Francia.
http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/34719-parte-da-reggio-lacarovana-antimafia/34719-parte-da-reggio-la-carovana-antimafia
Da Strill.it del 10/06/15
Reggio – Dalla riva dello Stretto, parte oggi la
Carovana antimafie
di Grazia Candido
Parte oggi, da Reggio Calabria, la Carovana Internazionale Antimafie, promossa da Arci,
Libera, Avviso Pubblico, Cgil, Cisl e Uil. “Le periferie al centro” è il tema prescelto per il
viaggio di quest’anno perché, spiega subito Davide Grilletto dell’Arci Calabria “nelle
periferie sono forti le spinte all’illegalità e la Carovana vuole supportare le realtà positive
che in questi contesti fanno quotidianamente resistenza”. Le periferie del nostro paese
rappresentano infatti quei fili attraverso i quali si può riannodare la società “spezzata” e la
Carovana raccoglierà una serie di esperienze, nei quartieri più difficili d’Italia, con
l’obiettivo di conoscere meglio queste realtà e di acquisirne le buone pratiche ma anche i
disagi.
“Continua il viaggio per rafforzare il nostro impegno volto a costruire una società
alternativa alle mafie – afferma Alessandro Cobianchi, coordinatore Carovana Antimafie –
Da qui l’esigenza di partire dalle periferie, luoghi definiti “marginali”, lontani dal centro ma
che in realtà hanno un ruolo importante nello sviluppo della città. Carovana antimafie sin
dalla sua prima edizione, ha scelto di non separare il concetto di legalità da quello di
giustizia sociale poiché ogni forma di rispetto delle leggi richiede, in primis, la sostanza di
una concreta adesione di queste ai valori costituzionali. Negli anni abbiamo attraversato
città, paesi, piccoli borghi d’Italia e d’Europa, con la voglia di capire, di denunciare ma,
soprattutto, supportare tutti coloro che di fronte alla forte pressione della criminalità
necessitino di un supporto nell’azione di resistenza”.
Si delinea così una società che vuole davvero sconfiggere le mafie che non sono altro che
un agente di marginalità che sguazzano nel degrado e nei quartieri disagiati per il loro
illecito arricchimento, un arricchimento che ha come conseguenza l’impoverimento di tutti.
“Oggi è una giornata storica per Reggio Calabria perché la carovana nazionale antimafie
parte per la prima volta proprio da qui – afferma Grilletto – E’ un segnale di vicinanza e
attenzione da parte di tutte le organizzazioni nazionali oltre ad essere un motivo di
orgoglio per noi. Siamo partiti con una riappropriazione collettiva, lo sgombero di un bene
confiscato, l’ex Bowling, assegnato dal tribunale di Reggio Calabria all’associazione Arci in
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collaborazione con Libera e nel quale sarà realizzato un centro di aggregazione. Nel
pomeriggio poi, andremo ad Arghillà entrando così in una delle periferie più complesse
della città ma dove è stato realizzato il Parco Ludico Tecnologico Ambientale Ecolandia.
La Carovana di quest’anno offre un quadro diverso della nostra Italia: una cartolina del
Paese caratterizzata da tantissime tappe nazionali ed internazionali”.
Entusiasta il sindaco Giuseppe Falcomatà “per l’attenzione positiva rivolta alla nostra terra
e per la scelta, dal valore altamente simbolico, di far partire questo importante viaggio da
Reggio Calabria”. All’incontro hanno preso anche parte il segretario confederale Cisl
nazionale Maurizio Bernava, Rosy Perrone Segretario Generale Cisl Calabria, Mauro
Sasso Uil nazionale, Michele Gravano Segretario Generale Cgil Calabria, il referente
regionale Libera Mimmo Nasone, Maria Antonietta Sacco, coordinatrice regionale Avviso
Pubblico, Salvatore de Siena, leader del Parto delle Nuvole Pesanti per presentare “Terre
di Musica – viaggio tra i beni confiscati alla mafia”, un progetto musicale e culturale, con la
collaborazione di Libera e Arci. Il viaggio proseguirà per tutto il mese di giugno,
attraversando Calabria, Basilicata, Campania, Lazio, Umbria, Marche, Emilia Romagna,
Toscana, per concludere la prima parte a Bruxelles il 30 giugno e ripartire di nuovo a
settembre. Nei mesi di settembre e ottobre sarà nel resto d’Italia e poi in Belgio, Spagna,
Malta, Romania, Germania, Francia. Saranno coinvolti nelle varie tappe magistrati,
sindaci, operatori sociali, cittadine e cittadini.
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Dell’11/06/2015, pag. 7
Mobilitazione sociale in difesa di Atene
Jacopo Rosatelli
La data da segnare sul calendario è il 20 giugno: in tutta Europa si manifesterà per dire
che l’Ue deve cambiare. Sui due fronti più caldi e drammatici: i migranti e la Grecia. Questioni che rappresentano, pur nelle differenze, lo stesso paradigma: quello del rifiuto della
solidarietà, dell’indifferenza verso le vite concrete delle persone, che si tratti del profugo
siriano o del disoccupato ellenico.
Il dato politico di grande rilievo è che si scenderà in piazza non solo nella periferia del continente (in Italia l’appello alla mobilitazione ha come prima firmataria Luciana Castellina
e sta circolando nelle reti dell’Arci e di altri movimenti), ma anche nel centro, dove si prendono sul serio le decisioni che contano.
In Germania l’appuntamento si annuncia molto partecipato: si stanno scaldando i motori di
un’organizzazione che vede lavorare insieme i due partiti di opposizione, Linke e Verdi,
ma anche la corrente di sinistra della Spd.
E molte strutture sindacali, insieme ad organizzazioni non-governative e associazioni di
immigrati e della numerosa comunità di greci che vivono nella Repubblica federale.
I promotori sono nettissimi nel denunciare gli effetti disastrosi delle politiche di austerità,
ma anche l’odiosa propaganda anti-greca (e anti-meridionale in genere) di certi media
conservatori (come il diffusissimo quotidiano scandalistico Bild) che spesso trasuda vero
e proprio razzismo.
Atteggiamento che è del tutto esplicito nei partiti di estrema destra che stanno alimentando
la paura dell’invasione di migranti, mescolando vecchi pregiudizi e nuova islamofobia: il
voto per il sindaco di Dresda di domenica scorsa, con Pegida al 10%, mostra che la loro
propaganda può trovare ascolto. In particolare in quella Germania orientale dove più alti
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sono la disoccupazione e il disagio sociale, e i neonazisti della Npd sono dotati di strutture
e militanti. La mobilitazione per un’Europa sociale e accogliente si inserisce in una fase di
nuovo protagonismo anche del sindacato: gli anni della moderazione salariale sembrano
davvero alle spalle. Si allarga lo sciopero dei dipendenti delle poste, che ha come obiettivo
la reincorporazione di una serie di servizi che la dirigenza aveva affidato a società figlie
create allo scopo dichiarato di migliorare l’efficienza: in realtà, quello di pagare meno
i lavoratori. Entra invece nella fase di arbitrato – prevista esplicitamente dal diritto sindacale tedesco – la vertenza che vede protagonisti gli operatori comunali dei servizi per
l’infanzia, che chiedono investimenti nel settore e aumenti di stipendio pari al 10%.
Dell’11/06/2015, pag. 10 RM
I suoni di Villa Ada
Dal rock all’elettronica, dal jazz al folk, spaziando per il reggae e l’hip hop, sempre meno
etno e sempre più sfaccettata, la programmazione di Villa Ada 2015 come sempre sotto il
cappello dell’Arci Roma si annuncia come una delle più interessanti dell’estate. Accanto
alle corazzate - Auditorium, Rock in Roma a Capannelle - una selezione italiana e
internazionale con nomi da Nina Zilli a St Vincent, da Africa Unite a Teho Teardo e Elio
Germano, Giorgio Moroder, Marlene Kuntz, Roberto Gatto & Quintorigo. Grande cura
quest’anno per tutto quel che ruota attorno al Villaggio, aperto dal 18 giugno al 31 luglio al
laghetto di Villa Ada: isole green, kindergarten, smart camp con design, domotica e
artigianato, incontri e letture a colazione. E la musica al centro.
Apertura con C’Mon Tigre, collettivo di musicisti provenienti dal bacino del Mediterraneo,
canti mantrici e colori d’Africa. Il 19 uno degli artisti underground più innovativi, Ariel Pink
(rosa come il colore dei suoi capelli): uno stile che va da canzoni quasi demenziali a
momenti puramente pop, fino a sfuriate punk e esperimenti di dub psichedelico e
carnevalesco. Roberto Angelini il 20 a rappresentare una scena romana fortemente
caratterizzata e Urban Shaman il 23, orchestra di oltre dieci elementi da una trama
minimalista al mondo, sulle rotte delle musiche popolari del nord e del sud; Orchestra
Criminale in viaggio nell’immaginario cinematografico di Morricone, Micalizzi, Umiliani il
24. E avanti con il gruppo dub italiano Otto Ohm, il 25, James Senese & Napoli
Centrale in inusuale formazione con Maldestro vincitore del premio Ciampi e del premio
De André (il 26), José Gonzalez cantautore svedese di origini argentine disco di platino in
Inghilterra, Svezia e Irlanda il 17 giugno. Chiuderanno la programmazione di giugno
Cristiano De André interprete con Mauro Pagani del repertorio di Faber e le sorelle
Cocorosie, chitarre acustiche e virtuosismi vocali a disegnare l’indie newyorkese.
A luglio il suono si farà ancor più eclettico, dai fratelli e cantautori rock australiani Angus
& Julia Stone, disco di platino all’esordio nel 2007, con il terzo album prodotto dal
leggendario Rick Rubin (primo luglio), all’orchestra di piazza Vittorio il 3, a Nina Zilli (6) con
«Frasi e fumo» e tanto altro del suo originale repertorio. Il polistrumentista folk e one-man
band australiano Xavier Rudd il 7 accompagnato da The United nations e l’8 sarà
l’occasione per riascoltare a Roma St. Vincent: accostata a Kate Bush e David Bowie, un
talento multiforme che le è valso un disco con David Byrne e adesso un nuovo album
solista. Il quarto.
Le serate seguenti saranno per Paola Turci (il 9), Sud Sound System (10 luglio), «Roma
brucia» (11 e 12) vetrina delle band emergenti, l’accoppiata Roberto Gatto &
Quintorigo per un omaggio a Frank Zappa (il 13) e Baba Sissoko portavoce di un’Africa dal
cuore jazz (il 14). Con radici nella scena no wave neyorkese, la band Swans porterà il lato
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oscuro del gothic folk sul palco di Villa Ada (il 15), che si rivestirà poi del reggae di Africa
Unite (16), delle rime e dei tormenti del «Viaggio al termine della notte» di Céline con Teho
Teardo e Elio Germano (17), delle sperimentazioni dei tedeschi Notwist allergici a mode e
tendenze (21), dell’inedito progetto di Marta sui Tubi e Cristina Donà (22).
Chi non ricorda «I feel love» di Donna Summer: la firma era di Giorgio Moroder che ha
segnato uno spartiacque nella musica da discoteca e adesso torna con un nuovo album
solista, «74 is the new 24» (e il 24 si esibirà). Ancora pluri/esplorazioni: i belgi dEUS (il
25), Bandabardò (27), De La Soul pacifisti e raffinatamente rap e jazz il 28, Marlene Kuntz
rock ed eclettici il 29. Il 31 «Roma folk fest» riunirà sul palco la Gazebo band di Diego
«Zoro» Bianchi e nomi da Eugenio Finardi a Levante, da Benvegnù a Colapesce. Partner
della rassegna l’Istituto europeo di design. Info: 328.8128609.
Laura Martellini
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ESTERI
dell’11/06/15, pag. 1/2
Putin all’Expo, appello a Renzi
“Via le sanzioni, danneggiano l’Italia”
Il presidente russo dal premier e dal Papa per rompere l’assedio del G7
VINCENZO NIGRO
MILANO . Vladimir Putin a Milano fa quello che tutti si aspettavano facesse. Adopera la
diplomazia economica fino in fondo, canta una serenata al mondo dell’industria italiana
schierato davanti a lui in prima e seconda fila. Continua con altri mezzi la “guerra ibrida”
che ha messo in piedi in Ucraina, usando l’economia per provare a scardinare la politica.
Un grimaldello per aprire un varco fra Italia e gli altri membri del G7 che hanno appena
confermato le sanzioni contro Mosca per l’invasione di Crimea e Donbass. Matteo Renzi
gli risponde con abilità, sorrisi e corteggiamenti rivolti al grande paese «membro
permanente del Consiglio di Sicurezza, una Russia che è stata, è e sarà una grande
potenza». Ma con accortezza il premier italiano non lascia nessuno spazio, nessun dubbio
al fatto che l’Italia lavorerà per superare la crisi ucraina, ma rispetterà - pagando un prezzo
- le sanzioni anche se non le ama per nulla. Secondo Renzi per cancellare le sanzioni c’è
un solo percorso: «Andare avanti sulla strada dell’accordo di Minsk 2, rispettarlo fino in
fondo». Ed è un invito rivolto a Putin, ma anche al rissoso governo ucraino, che nei fatti
non ha ancora avviata nessuna delle riforme politiche che i russi del Donbass si aspettano
per sentirsi più garantiti.
La visita di ieri del presidente russo all’Expo di Milano è durata 4 ore: in ritardo come al
solito, l’uomo di Mosca è riuscito a presentarsi nel pomeriggio in ritardo anche agli incontri
di Roma con il presidente Mattarella e con papa Bergoglio, che gli ha chiesto «uno sforzo
sincero per raggiungere la pace in Ucraina», e poi ha sollecitato tutte le parti «a un
impegno per attuare gli accordi di Minsk».
All’ingresso, al padiglione russo e intorno al bellissimo Palazzo Italia gruppi di turisti e
funzionari russi inneggiano a Putin. Nell’auditorium della conferenza stampa il presidente
russo si trova di fronte l’industria italiana: l’ad di Generali Mario Greco, quello di
Finmeccanica Moretti, il primo costruttore italiano Pietro Salini, il capo di Pirelli Marco
Tronchetti Provera e via tutti gli altri. A loro si rivolge nel dettagliato, prolungato discorso
anti-san- zioni che legge da una nota preparata dal suo staff: «Le sanzioni contro Mosca ha detto Putin - hanno danneggiato la collaborazione tra noi e l’Italia e sono un ostacolo
oggettivo» alle vostre imprese. «L’Italia - ha proseguito - è un grandissimo partner
economico per la Russia, il terzo a livello di scambio commerciale, ma ultimamente questo
scambio ridotto del 10% e del 25% solo nell’ultimo trimestre, per i noti motivi. Questo non
ci soddisfa e sappiamo che anche gli imprenditori italiani non vogliono interrompere le
relazioni con la Russia, anche perché da noi operano 400 aziende italiane, 7 banche e noi
investiamo in Italia 2,3 miliardi» di euro. Più un milione di turisti russi che ogni anno
scelgono il Belpaese.
Renzi con calore gli spiega che un modo ci sarebbe per superare le sanzioni, ed è
appunto quello di rispettare Minsk 2. Ma poi il premier italiano passa poi velocemente a
parlare di tutti gli altri dossier che preoccupano l’Italia e su cui Roma vorrebbe una
collaborazione più forte della Russia: innanzitutto la Libia, con Mosca che ancora blocca
all’Onu la risoluzione per dovrebbe permettere un uso limitato della forza contro i trafficanti
di uomini.Poi il presidente del Consiglio allarga alla «volontà di trovare insieme una
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soluzione alla minaccia del terrorismo internazionale: la Russia deve essere in prima fila
contro le minacce globali », a partire dall’Is.
Putin parlando di Libia riesce a non ripetere che quanto avviene è la «conseguenza
dell’intervento militare nel 2011», l’intervento della Nato. E poi fa un riferimento al fatto che
lui parlerebbe con piacere delle altre crisi mondiali, ma la Russia è stata esclusa (sempre
per la guerra in Ucraina) dal G7: «Partecipavamo, proponevamo un punto di vista
alternativo, ma i nostri partner hanno deciso che non ne avevano bisogno». Per lui ormai il
G7 «è un gruppo di interessi, mentre noi continuiamo a lavorare col G20, nei BRICS, al
Gruppo di Shangai ». E allora Renzi fa finta di dimenticarsi del G7, «ci vediamo ad un
appuntamento importante, il G20 di novembre in Turchia ».
Dell’11/06/2015, pag. 3
L’esercito bombarda Donetsk, i politici di
Kiev vanno negli Usa dal Fmi a chiedere altri
soldi
Ucraina. Il gruppo di contatto di Minsk propone la riforma costituzionale
«Molte sono le cose terribili, ma nessuna è più terribile dell’uomo» verrebbe da dire con
l’Antigone sofoclea leggendo le esternazioni del premier ucraino Arsenij Jatsenjuk,
secondo cui il suo paese sta marciando attivamente sulla via democratica, ma Mosca fa di
tutto per mandarlo fuori strada, temendo che le «pericolose idee della libertà contagino
anche la Russia». Secondo Jatsenjuk — nei giorni scorsi negli Usa insieme al Ministro
delle finanze Natalja Jaresko, in cerca di ulteriori finanziamenti da Congresso e Fmi per
acquistare le armi con cui difendere «l’occidente dall’aggressione russa» e per continuare
l’assalto al Donbass — «il passato sovietico ha impedito lo sviluppo dell’Ucraina e solo da
quando Kiev si è orientata sui valori occidentali, può contare su un radioso sviluppo». Così
radioso che anche l’aumento fino a 5–6 volte delle tariffe su elettricità, gas, acqua, decretato dal FMI, secondo Jatsenjuk «agevola lo sviluppo democratico dell’Ucraina».
Nella due giorni statunitense, il duo Jatsenjuk-Jaresko aveva in programma anche un
incontro con il Comitato ebreo-americano. Non è ancora nota l’accoglienza riservata dal
Comitato al premier di un governo che si regge sui battaglioni neonazisti e innalza a feste
nazionali le date di nascita di Ostap Bandera e dell’Upa-Oun che collaborò con le Ss allo
sterminio di centinaia di migliaia di soldati sovietici, di cittadini ucraini, polacchi e ebrei.
Una cosa ci sembra fuori dubbio: posta l’astrattezza di ogni concetto aclassista e astorico
di democrazia, saranno proprio i golpisti ucraini a dare lezioni di democrazia (quale: ateniese, liberale, sovietica?) alla Russia odierna? Oppure saranno quegli europarlamentari
lituani che, a casa loro, ufficializzano le marce dei veterani SS e che ieri a Strasburgo
hanno invocato un intervento «urgente per contrastare la politica di aggressione della
Russia»? La democrazia e la libertà del trio Porošenko-Jatsenjuk-Turcinov le stanno sperimentando da oltre un anno i civili del Donbass: quasi 5.600 morti, secondo l’Onu; oltre
50.000 (cifra diffusa a inizio anno e mai smentita) secondo l’intelligence tedesca. Le
assaggiano gli abitanti di Donetsk, sottoposti a blocco economico, energetico e assistenziale; i cittadini di Lugansk, condannati al blocco dell’acqua dal rappresentante militare di
Kiev Ghennadij Moskal: «agiremo secondo il principio di Ostap Bandera: di sera la luce, al
mattino l’acqua». Le assaporano gli abitanti di Donetsk (ieri è stato colpito un asilo, mentre
da giorni i tiri governativi si sono nuovamente concentrati sull’aeroporto), di Gorlovka, Sla9
vjansk, Širokino, sottoposti ai tiri di razzi «Grad» e «Uragan», delle artiglierie da 122 mm
riposizionate a ridosso della linea di demarcazione (e fotografate dai satelliti USA), in
aperta violazione degli accordi di Minsk. I 7 Grandi «inutili capi del mondo»(Carlyle)
vogliono inasprire le sanzioni contro Mosca e cercano un pretesto per motivare la loro
scelta? Ecco che il 3 giugno, a ridosso del vertice bavarese, Kiev attacca il fianco ovest di
Donetsk e bombarda Marjnka e Krasnogorovka. E da Strasburgo si grida alla «partecipazione diretta e indiretta» della Russia nel conflitto ucraino.
E se i rappresentanti delle Repubbliche di Donetsk e di Lugansk in seno al Gruppo di contatto per gli accordi di Minsk propongono ora modifiche alla Costituzione ucraina (come
previsto a Minsk) che prevedano uno status speciale di autogoverno locale per le regioni
del Donbass, all’interno e quale parte integrante dell’Ucraina, non pare che Jatsenjuk
abbia corretto il suo approccio rispetto a quando diceva che Kiev dialogherà con quei rappresentanti «solo quando saranno dietro le sbarre». Niente stupore quindi che ieri quegli
stessi rappresentanti abbiano detto di considerare «la Crimea parte della Russia. Di più: le
nostre Repubbliche, idealmente, vorrebbero entrare a far parte della Federazione Russa».
Niente paura: Kiev sembra già pronta ad aprire un nuovo fronte, a occidente. Il leader
della Transnistria, Evghenij Ševcuk, ha espresso preoccupazione «per le dichiarazioni di
alcune personalità ufficiali ucraine, secondo cui esiste una minaccia di guerra da parte
della Transnistria». Secondo l’agenzia Novorossija, da inizio anno Kiev sta rafforzando
con fossati anticarro, posti di blocco e valli fortificati la parte di frontiera con la Moldavia
che passa per la Transnistria. Questione di tempo.
dell’11/06/15, pag,. 15
La Grecia
Ieri sera incontro tra il premier Tsipras, la cancelliera Merkel e il
presidente Hollande. S&P abbatte il rating
Bruxelles respinge la proposta di Atene
trattativa in alto mare Ossigeno da Draghi
ETTORE LIVINI
MILANO . Angela Merkel, Francois Hollande e Alexis Tsipras provano a riportare in
carreggiata i negoziati tra la Grecia e i creditori. Il premier ellenico, la Cancelliera e il
presidente francese si sono incontrati nella tarda serata di ieri a Bruxelles a margine del
summit Ue-America Latina, al termine di una giornata in cui il barometro delle trattative per
evitare il default è tornato all’improvviso sul brutto tempo. E con Standard & Poor’s che ha
tagliato il rating della Grecia a ‘CCC’ da ‘CCC+’. L’outlook è negativo e l’agenzia prevede,
in assenza di un accordo, il default entro 12 mesi. Le sette pagine di proposta di
compromesso spedite lunedì sera dal Partenone all’ex Troika sono state infatti rispedite al
mittente: «Non riflettono le ultime discussioni tra Tsipras, Juncker e Moscovici - ha detto
un portavoce della Commissione - . Per arrivare a un’intesa finale la palla è chiaramente
nel campo di Atene».
I piccoli passi avanti verso Ue, Bce e Fmi contenuti nella bozza - l’obiettivo di avanzo
primario alzato a 0,75% e un aumento a 1,4 miliardi (contro gli 1,8 RIchiesti) del gettito
garantito dalla riforma dell’Iva - non sono bastati a convincere Bruxelles. E l’Europa, irritata
dagli
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stop and go di Tsipras, ha irrigidito la sua posizione per non farsi trascinare in un
estenuante tiro alla fune fino al 30 giugno, data in cui scadrà il piano di aiuti. «L’obiettivo
rimane quello di tenere il Paese nell’Eurozona, se c’è buona volontà una soluzione si
trova», ha detto Angela Merkel. Ma vista la distanza tra le parti, la Grecia - dice l’agenzia
di stato nazionale - sarebbe pronta a sparigliare il tavolo proponendo l’allungamento di
nove mesi del piano di salvataggio. Una finestra temporale in cui la Ue garantirebbe nuovi
fondi per tenere in piedi l’economia, utilizzando il fondo salvastati per rilevare i crediti della
Bce mentre Atene adotterebbe in cambio gli obiettivi di bilancio richiesti dalla ex Troika.
Il presidente del Consiglio ellenico, comunque, ha qualche motivo per vedere la giornata di
ieri come un bicchiere mezzo pieno. A regalargli un sorriso è stato di nuovo (è capitato
spesso nelle ultime settimane) Mario Draghi. La Banca Centrale europea ha alzato da
80,7 a 83 miliardi le linee di emergenza per le banche elleniche. Eurotower, insomma, non
stacca la spina e regala un assist preziosissimo al credito domestico, fiaccato
dall’ennesima ondata di fuga di capitali. Altra nota positiva, il raffreddamento delle tensioni
con Jean Claude Juncker. Il presidente della Ue - che nei giorni scorsi si era negato al
telefono a Tsipras - lo ha invece incontrato informalmente ieri a margine del summit
comunitario e i due si rivedranno oggi.
L’agenzia di stampa Bloomberg, a una ventina di minuti dalla chiusura delle contrattazioni
di Borsa, ha scritto che la Germania sarebbe pronta a sbloccare l’ultima tranche di aiuti in
cambio di un segnale di buona volontà di Atene: nello specifico l’approvazione di almeno
una delle riforme chieste dai creditori. Le indiscrezioni hanno spinto in rialzo i mercati ma
in serata un portavoce di Berlino ha precisato che «proposte di questo genere le fanno
solo Ue, Bce e Fmi».
La palla, come dicono a Bruxelles, è a questo punto nel campo della Grecia. E Tsipras
dovrà stare attento a calibrare le prossime mosse trovando un equilibrio tra le richiese
dell’ex Troika e le sue promesse elettorali. Tra le fila di Syriza, come prevedibile,
serpeggia un po’ di malcontento. Qualche giorno l’ala più radicale del partito ha costretto il
premier a bloccare i pagamenti al Fondo Monetario. Ieri ventidue parlamentari gli hanno
scritto una lettera domandando di incardinare subito in Parlamento la legge per ripristinare
i contratti collettivi, una delle “linee rosse” inaccettabili per Ue, Bce e Fmi. Per ora devono
accontentarsi del varo in bozza di un documento che legalizza le unioni omosessuali.
Anche Merkel, va detto, ha le sue gatte da pelare. La “ Bild ”, mai tenera con Atene,
sostiene che oltre 100 deputati della sua maggioranza sono sul piede di guerra, pronti a
silurare in aula nuove concessioni ad Atene.
dell’11/06/15, pag. 14
Jihad, piegare l’Egitto colpendo il turismo
Sventato attacco al sito di Luxor, fra i più visitati del Paese fermati tre
terroristi, nel 1997 i morti furono 62 (58 stranieri)
di Roberta Zunini
Come già accaduto la scorsa settimana, un attentato contro i turisti, in visita ai centri più
noti dell’archeologia egiziana, è stato sventato dalla polizia. Le uniche vittime di questo
nuovo attacco all’interno della vasta area dove sorge il tempio di Karnak, nella valle di
Luxor, sono state gli stessi terroristi, a parte uno che è rimasto illeso ed è finito in carcere.
Con la rivoluzione di piazza Tahrir, alla fine del 2010, il turismo verso l’Egitto era crollato
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per poi riprendersi leggermente nel 2012-2013. Dopo la deposizione del presidente Morsi
due anni fa e gli scontri dei mesi successivi tra esercito, polizia e sostenitori della
Fratellanza musulmana, culminati nella strage del 15 agosto, la situazione però era
nuovamente peggiorata. Una lieve ripresa si era vista lo scorso anno. Con la comparsa
dell’Isis in Sinai e l’esplosione di bombe al Cairo l’estate scorsa, il turismo non si era
ancora ripreso. Questo attentato, seppur sventato, rischia di dargli il colpo di grazia.
Il bilancio fornito da una fonte del ministero dell’Interno all’agenzia Mena è di due terroristi
uccisi e uno ferito. Il ministero della Salute ha segnalato il ferimento di quattro persone,
mentre un altro dicastero ha escluso si tratti di turisti. Incrociando le informazioni di due
fonti presso il ministero dell’Interno, la ricostruzione parla di tre terroristi entrati nel
parcheggio del sito turistico dell’Alto Egitto dove uno è rimasto ucciso dall’esplosione di un
ordigno che stava cercando di piazzare. Gli altri due hanno ingaggiato uno scontro a fuoco
con la polizia: uno è rimasto ucciso e un altro ferito.
L’obiettivo, secondo fonti dell’agenzia Mena, era un bus turistico, ma nessun turista né
addetto al sito archeologico è rimasto ferito, come confermato anche dal ministro delle
Antichità, Mamdouh El Damaty. Il ministro ha precisato che la polizia è riuscita ad agire
“prima che i terroristi si avvicinassero al centro” turistico situato nei pressi del tempio. Il
Tempio di Karnak, o “Grande tempio di Amon”, è un grande complesso templare egiziano
situato sulla riva orientale del Nilo nell’antica Tebe. Luxor era già stata colpita da un
attacco terroristico con 62 turisti (di cui 58 stranieri) morti nel novembre 1997. Certo,
l’Egitto è da decenni nel mirino del terrorismo islamico, ma con la nascita e la diffusione
del jihadismo promosso dall’Isis, il livello di barbarie ha raggiunto l’apice e nel Sinai è in
corso una vera e propria guerra tra il Califfato e le forze dell’ordine egiziane. Anche nel
Sinai ci sono zone importanti per l ‘architettura storica come il santuario di Santa Caterina
e località marittime amate dagli italiani, specialmente Sharm e Urgada. Anche lì ormai è
sconsigliato avventurarsi. Solo una settimana fa due poliziotti erano stati uccisi nei pressi
delle piramidi di Giza. I due agenti avevano fermato una moto nella zona delle Piramidi
con a bordo alcuni uomini armati che sono riusciti a scappare dopo aver ferito a morte i
poliziotti. Nonostante il pugno di ferro del presidente al-Sisi ,ex comandante dell’esercito,
contro gli islamisti, e anche a causa del giro di vite voluto dall’ex capo delle forze armate
contro la Fratellanza musulmana, la stabilizzazione del Paese rimane una chimera .
Dell’11/06/2015, pag. 1-23
Vietnam-Iraq
Quel parallelo che agita gli Usa
Gianni Riotta
Nel maggio del 1961, il giovane presidente John F. Kennedy, da poco alla Casa Bianca,
invia in Vietnam 400 soldati delle Special Forces, i Berretti Verdi poi popolari nel film con
John Wayne, con il solo incarico di addestrare, come «consiglieri», le fiere tribù
filoamericane Montagnards alla guerriglia contro i Vietcong di Ho Chi Minh.
Otto anni dopo combattevano nelle risaie 549.500 soldati Usa. Ieri il presidente Barack
Obama ha approvato l’invio di 450 «consiglieri» in Iraq, per addestrare le riluttanti truppe
del governo iracheno a combattere, senza fuggire in massa come a Mosul, le milizie
islamiste Isis. Confrontare le regole di ingaggio che il Pentagono ha firmato per le truppe
speciali con le buone intenzioni di Kennedy, dà i brividi, perché sono identiche. Non si
deve «combattere sul terreno», ma organizzare le truppe locali, lo spirito guerriero dei
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soldati di Baghdad è più scarso di quello dei veterani di Saigon, portare a casa la ghirba
senza neppure sparare un colpo.
Obama, nei giorni in cui teme che la Corte Suprema dichiari incostituzionale la sua riforma
sanitaria, vede disfarsi le illusioni di inizio mandato, quando sperava che il ritiro da
Afghanistan e Iraq e una serie di discorsi nobili al mondo arabo, come quello 2009
all’Università del Cairo, bastassero a contenere l’offensiva del fondamentalismo islamico,
scambiando Isis «per una squadra di basket di dilettanti». Ora il presidente riconosce quel
che, con amarezza, il generale Daniel Bolger, reduce di Baghdad e Kabul, scrive nel libro
«Why we lost», perché abbiamo perso, con il doloroso incipit «Sono un generale
americano e ho perso la guerra al terrorismo».
I «consiglieri» saranno di stanza ad Habbaniya, e proveranno a dirigere il contrattacco su
Ramadi, da poco sotto il dominio delle nere bandiere Isis, sunniti che dicono ai residenti
sunniti «Meglio noi che gli americani o gli sciiti», raccogliendo consensi da chi non ne può
più del caos e fucilando i dissidenti, veri o presunti. La guerra in Vietnam finì, 40 anni or
sono, in sconfitta umiliante perché mancava una strategia politica contro i comunisti di
Hanoi, si voleva vincere senza offrire un governo locale non corrotto e capace di riforme
per i contadini poveri. Obama comprende, tardi, che la guerra al terrorismo può essere
stata combattuta con ogni errore da Bush figlio, ma precede, nella storica motivazione
radicale degli islamisti, l’invasione in Iraq 2003, e verrà combattuta più a lungo del
Vietnam, paese che – paradossalmente – oggi tiene manovre militari congiunte con gli
Usa, temendo la Cina. Al G7 confessa, malinconico, «non ho strategia».
Vero e deprimente. L’impotenza di Washington si riflette in Europa, dove l’emergenza Isis
è dimenticata dietro i titoli su Putin, Grecia, mal di pancia populisti. Si agisce sempre di
riflesso, dopo la caduta di Kobane curda nel 2014, dopo la presa di Ramadi 2015. Forse la
guerra al terrorismo non finirà come il Vietnam, ma di certo non la vinceranno i 450
«advisers», eredi dei Berretti Verdi di Kennedy. Siamo tutti occidentali e, come il generale
Bolger, stiamo tutti perdendo la guerra al terrorismo.
Dell’11/06/2015, pag. 15
Israele spiava i negoziati sul nucleare
iraniano
Gli 007 hanno preso il controllo di computer, telefoni, ascensori e
sistemi antincendio degli hotel dove si tenevano le riunioni
Francesco Semprini
Tutto sotto controllo nel negoziato sul dossier nucleare iraniano. Sotto controllo degli
israeliani che, preoccupati per gli sviluppi «pericolosi» di un accordo sulle attività atomiche
di Teheran, hanno affidato a «spy virus» la sorveglianza degli hotel dove si sono svolte le
trattative tra i 5+1 e Iran.
È quanto emerge da un dossier messo a punto da Kaspersky Lab, una società russa essa
stessa attaccata e spiata dall’«agente Duqu», un virus di «matrice israeliana» che era
stato già identificato nel 2011. Ebbene, Kaspersky ha capito di essere stata colpita da una
versione più evoluta del virus, «Duku 2.0» un anno fa, attraverso «allegati infettati». E ha
così deciso di condurre una vasta indagine per capire quali dei 270 mila clienti, di cui si fa
carico della sicurezza informatica era stato attaccato dal medesimo «spyware».
L’indagine
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Dai test sono state riscontrate infezioni in un limitato numero di clienti in Europa
occidentale, Asia e Medio Oriente, nessuno però negli Stati Uniti. Tra questi tre hotel,
ognuno dei quali ha ospitato una tranche dei colloqui di Usa, Russia, Gb, Francia, Cina e
Germania con l’Iran, secondo quanto emerso da successivi controlli incrociati. Ma anche
un sito di commemorazione per i 70 anni della liberazione di Auschwitz dai nazisti. Per
Kaspersky la matrice dell’attacco è senza dubbio israeliana sebbene il rapporto non lo
menzioni in maniera esplicita.
Il dossier
Le conclusioni di «The Duqu Bet», questo il nome del dossier messo a punto da
Kaspersky - Bet è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico -, sono condivisi anche
dall’intelligence Usa secondo cui la complessità del virus riconduce ad Israele. L’Fbi sta
analizzando il rapporto Kaspersky e, sebbene non abbia ancora confermato le indicazioni,
alcuni funzionari Usa non si dicono affatto sorpresi. «Stiamo prendendo in seria
considerazione quanto riportato», dice un membro di Capitol Hill al Wall Street Journal che
per primo ha riportato la notizia.
Sembra che «gli intrusi» siano riusciti a intercettare conversazioni e documenti elettronici
manipolando computer, telefoni, ascensori e sistemi antincendio degli alberghi. Su quali
siano gli hotel vittime dello spionaggio la società russa mantiene il riserbo. Tuttavia sono
sei gli alberghi che hanno ospitato le trattative: Beau-Rivage Palace di Losanna,
Intercontinental di Ginevra, Palais Coburg di Vienna, Hotel President Wilson di Ginevra,
Hotel Bayerischer Hof di Monaco e Royal Plaza Montreux di Montreux. Un’ex funzionario
americano dell’intelligence ha spiegato al Wall Street Journal che non è un fatto inusuale
per Israele spiare Paesi alleati su questioni che ritiene di grande importanza strategica.
destini. Basti ricordare il caso di Jay Pollard, l’analista della Us Navy che passava
informazioni al governo israeliano negli Anni 80. «Casi del genere sono già accaduti in
passato - prosegue l’ex 007 - la sola cosa inconsueta è che, questa volta, si è saputo».
Dell’11/06/2015, pag. 18
In Iraq la mini-escalation di Obama 450
militari in più contro l’Isis
I miliziani del Califfato starebbero lavorando alla «bomba sporca»
NEW YORK Più armi e altri 450 militari Usa mandati in Iraq, in aggiunta ai 3.100 che sono
già tornati nel Paese, per addestrare l’esercito di Bagdad che deve cercare di
riconquistare almeno Ramadi, la capitale della provincia di Anbar, a meno di 100
chilometri dalla capitale, persa un mese fa.
Quella annunciata ieri dalla Casa Bianca sembra più una «mini-escalation» che il
cambiamento di rotta promesso agli americani da Barack Obama che lunedì, alla
conferenza stampa conclusiva del G-7 in Germania, aveva ammesso che «gli Stati Uniti
non hanno ancora una strategia completa» per combattere l’espansione dello Stato
Islamico nel Paese del Golfo.
«Ci vuole un fermo impegno degli iracheni», aveva detto il presidente Usa, aggiungendo di
essere in attesa di un piano del Pentagono. Solo che nell’attesa del mitico piano che
dovrebbe consentire alle truppe di Bagdad di riconquistare Mosul, la seconda città
dell’Iraq, l’Isis si è presa anche Ramadi.
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È stata questa sconfitta, grave e inattesa, a convincere gli americani che non c’è altro
tempo da perdere: più istruttori mentre anche gli inglesi manderanno 125 soldati in più. E
poi c’è l’impegno dei militari italiani, chiamati ad addestrare soprattutto la polizia irachena.
In Iraq il morale delle truppe è basso e gli americani distribuiscono armi col contagocce,
nel timore che finiscano di nuovo nelle mani dei feroci combattenti del Califfo. La mossa di
Obama non basterà a placare i repubblicani che con il senatore John McCain avevano
chiesto l’invio di migliaia di uomini, ma rappresenta comunque una concessione al nuovo
primo ministro Al-Abadi che sta cercando di costruire un governo e un esercito realmente
multietnici (anche se sempre a maggioranza sciita).
Nelle scorse settimane c’erano state scintille tra il governo di Bagdad e il nuovo capo del
Pentagono, quando Ashton Carter aveva accusato il regime iracheno di non fare
abbastanza per garantire la fedeltà e l’impegno delle forze armate. Accuse respinte da AlAbadi che a sua volta giudica troppo tiepido il sostegno Usa.
Invitato a Elmau, il premier iracheno ha illustrato ai leader del G7 il suo sforzo per portare
il Paese fuori dalla logica settaria dominante finché è rimasto al potere Al-Maliki. Molti
analisti ritengono che l’Isis potrà essere fermato solo con il ritorno i campo delle truppe
Usa o con un impiego massiccio di Hezbollah e di altri gruppi sciiti inviati dall’Iran: Obama
esclude la prima soluzione e vorrebbe evitare anche la seconda. Prova quindi a rilanciare
con l’addestramento dell’esercito e delle tribù pronte a combattere contro l’Isis.
I soldati del nuovo contingente andranno soprattutto nella nuova base di Habbaniyah da
dove dovrebbe riprendere l’offensiva per strappare Ramadi all’Isis. Che intanto, secondo
un rapporto dei servizi segreti australiani ripreso ieri dalla stampa inglese, sta cercando in
tutti i modi di procurarsi il materiale per costruire una bomba «sporca»: non una vera arma
atomica (anche se secondo l’India c’è il rischio che i terroristi se ne procurino una
attraverso il Pakistan) ma un ordigno confezionato con materiale radioattivo recuperato
anche in ospedali. Sempre con l’obiettivo di terrorizzare le popolazioni civili.
Massimo Gaggi
Dell’11/06/2015, pag. 8
Il grande gioco dei Talebani
Afghanistan. Sauditi e qatarini tirano i remi in barca, i cinesi non pagano
e il fronte interno è spaccato. Il quadro che emerge a Kabul, raccontato
(anche) da Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso del movimento
degli studenti coranici
I cinesi non pagano più i Talebani. La prima notizia è questa. La seconda è che i pakistani
hanno capito che il doppio gioco può essere controproducente. La terza è che i sauditi e i
qatarini stanno tirando i remi in barca e dirottano denari e aiuti su investimenti più produttivi (vedi alla voce Stato islamico). La quarta è che gli iraniani stanno prendendo il posto
dei finanziatori arabi.
L’ultima riguarda il fronte interno: a dispetto delle spaccature interne, per la prima volta
i Talebani sono riusciti a coordinarsi militarmente, lanciando un’offensiva di primavera
straordinariamente efficace. È questo il quadro che emerge dalle discussioni avute
a Kabul con una serie di analisti e ricercatori, afghani e internazionali. Tra loro c’è Antonio
Giustozzi, il più autorevole studioso del movimento degli studenti coranici, con cui
abbiamo analizzato il significato degli incontri tra le delegazioni talebane ed alcuni esponenti del governo e della società afghana tenuti a Dubai, Oslo, Urumqi, Teheran.
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Dialoghi e combattimenti
Partiamo da un dato di fatto: la contraddizione tra le iniziative di dialogo e i duri combattimenti sul terreno «deriva dalla dialettica interna al movimento talebano», composto da tre
shure (consigli) principali, tutte e tre con sede in Pakistan: la shura di Quetta, quella di
Peshawar e la Miran Shah shura (o network Haqqani). Sul fronte del negoziato le tre shure
non parlano la stessa lingua. La shura di Quetta — vecchia guardia dei Talebani, include
molti esponenti dell’Emirato islamico rovesciato dagli americani nel 2001 — «è disponibile
al negoziato politico. O perlomeno lo era», spiega l’autore di Empires of Mud. War and
Warlords in Afghanistan.
«Ha fatto pervenire al presidente Ghani due condizioni precise: la condivisione del potere
in un futuro governo e la modifica della Costituzione. Sul primo punto Ghani ha risposto
che ci si poteva lavorare, mentre ha risposto negativamente sul secondo».
Da qui lo stallo, «perché anche i più pragmatici leader della shura di Quetta sanno che
senza concessioni significative non sono in grado di portarsi dietro gli altri Talebani, specie
i comandanti militari, più riluttanti al negoziato». Anche «la shura di Peshawar in linea di
principio non era contraria al negoziato, ma tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2015
ha dovuto fare i conti con una significativa riduzione dei finanziamenti, che si è tradotta nel
licenziamento di diversi comandanti».
Questo ha causato dei ripensamenti: «temono che il negoziato torni più utile alla shura di
Quetta, oggi più solida. Hanno deciso di far sentire il proprio peso militare sul campo, così
da posticipare i colloqui di pace e guadagnare terreno». A restare su posizioni intransigenti
sono i membri del network Haqqani (Miran Shah shura), «i duri e puri che sparano
e basta». Non si tratta soltanto di una questione ideologica, spiega Giustozzi, ma pragmatica. «I leader come Serajuddin Haqqani si chiedono cosa potrebbero ottenere dal negoziato. Di certo non un ministero, al massimo l’amnistia, ma non è gente pronta alla
pensione». A dispetto delle spaccature sul processo di pace, «per la prima volta c’è un
accordo di natura strategico-militare tra le tre shure», spiega Giustozzi: «è stato istituito un
Consiglio per il coordinamento militare, altra cosa rispetto alla tradizionale Commissione
militare centrale; il Consiglio dispone di un budget specifico, di strutture nei distretti e nelle
province, permette un vero e proprio coordinamento sul campo».
I risultati sono evidenti: «l’offensiva talebana di primavera è stata inaugurata in modo sincronizzato in 21 delle 34 province afghane, con una tendenza mai vista a concentrare le
forze». I Talebani cercano di ottenere un maggior peso negoziale dimostrando sul campo
la propria forza militare. Ma sanno che non c’è troppo tempo. «Molti pensano «o adesso
o mai più».
O adesso o mai più
L’anno scorso credevano che il governo Ghani avrebbe finito i soldi prima di loro. Ora si
teme il contrario». La vera svolta, da questo punto di vista, è quella cinese, aggiunge un
analista militare afghano che preferisce restare anonimo. «I cinesi erano, insieme ai pakistani, i principali finanziatori della shura di Peshawar. Lo scorso dicembre hanno cominciato a tagliare i fondi, a maggio c’è stato un taglio completo, che include equipaggiamenti
e forniture». Le ragioni sono due: «la prima è che gli americani stanno lasciando il paese.
Non ci sono più ragioni per finanziare un jihad contro di loro. L’altra è che ci sono dubbi
sulla lealtà dei Talebani: i cinesi hanno scoperto la presenza di quelli che considerano terroristi uighuri nella provincia del Kunar, tra i Talebani. Temono che giochino sporco». Da
qui, la chiusura dei rubinetti. La scelta cinese si somma alla più generale tendenza tra
i paesi del Golfo «a dirottare risorse verso lo Stato islamico del Califfo Al-Baghdadi, un
investimento considerato più produttivo», soprattutto in chiave anti-iraniana. «I sauditi
hanno tagliati i fondi al network Haqqani, ora li concedono solo ai gruppi che non hanno
rapporti con l’Iran. I qatarini hanno già avvertito che tra due anni non ci saranno più fondi».
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La Cina cambia rotta
Il cambio di rotta della Cina si traduce in una pressione maggiore sul Pakistan, affinché
convinca i Talebani a sedersi al tavolo negoziale. E la tensione crescente tra le autorità
pakistane e i Talebani dimostra che anche il Pakistan ha deciso di rivedere le proprie politiche, almeno in parte. «Uno degli obiettivi dell’offensiva talebana di primavera è occupare
posizioni difensive lungo la faglia est/nord-est, per portare armi dal Pakistan
all’Afghanistan. I Talebani non si fidano più dei pakistani», spiega Giustozzi. «Sono circa
tre mesi che, per la prima volta, i comandanti militari talebani si oppongono alle autorità
pakistane», continua Giustozzi. «I pakistani hanno arrestato l’ex comandante militare della
shura di Peshawar ma hanno dovuto rilasciarlo perché i comandanti delle tre shure, tutti
insieme, si sono opposti. Un fatto inedito». I comandanti militari si oppongono al processo
di pace. I leader politici talebani per ora non intervengono. Cercano di capire come portare
dalla loro parte, sul fronte negoziale, anche chi combatte sul terreno. E di interpretare le
intenzioni delle autorità pakistane: «il cambiamento di rotta è chiaro e reale. Meno chiaro
è quanto ne siano felici i membri dell’establishment militare», sostiene Giustozzi. Ma la
vera domanda è fino a che punto i pakistani possano influenzare i Talebani.
«Certo, potrebbero tagliare i fondi, ma se si spingessero troppo in là i Talebani rischierebbero di disintegrarsi e così verrebbe meno anche l’utilità del Pakistan; al contrario, se le
autorità pakistane facessero troppo poco il presidente afghano Ghani, che su questo ha
giocato molto, potrebbe reagire male».
L’Iran
Nella partita regionale, l’Iran sembra assumere un ruolo crescente: «la recente visita delle
delegazione talebana a Tehran, su cui molto si è scritto, non è niente di nuovo», spiega
Giustozzi. «I Talebani si recano spesso in Iran, a Tehran o Mashad, oppure al consolato
iraniano di Quetta, in Pakistan. Almeno una volta al mese». La novità vera è che la visita
sia stata resa pubblica: «gli iraniani vogliono mostrare che al tavolo negoziale dovranno
sedersi anche loro. Inoltre, se la minaccia dello Stato islamico dovesse accentuarsi, gli iraniani potrebbero ufficializzare il rapporto con i Talebani». Un rapporto solido: alle tre shure
tradizionali ormai se n’è aggiunta una quarta proprio a Mashad, nel nord-est dell’Iran. Un
analista afghano ci spiega che, «nata come ufficio politico della shura di Quetta, ora la
shura di Mashad si è resa autonoma». E rappresenta a tutti gli effetti il quarto centro di
potere talebano. Un potere che dipende dai finanziamenti esteri. Anche da quelli iraniani:
«tutti prendono soldi dall’Iran. Lo fanno gli Haqqani. Ha cominciato a farlo la shura di
Peshawar, per rimpiazzare i soldi dei sauditi. Mentre la shura di Quetta è divisa tra due
fazioni: quella del responsabile della Commissione militare centrale, Abul Qayyum Zakir,
che ha rapporti solidi con l’Iran, e quella di chi — avvertito dai sauditi — ha mollato gli iraniani». Per ora, sono proprio gli iraniani a frenare sui colloqui di pace: «all’Iran non piace
che il negoziato sia sponsorizzato principalmente dai sauditi, per questo si oppongono. Gli
iraniani vedono l’Afghanistan come un teatro sul quale esercitare pressioni versi gli americani; preferiscono prima risolvere la questione nucleare, stabilizzare le relazioni. Tra un
paio d’anni anche l’Iran potrebbe avere interesse in un processo di pace. Non ora». In
Afghanistan, l’entusiasmo è sempre prematuro.
Dell’11/06/2015, pag. 7
Nel campo profughi di Soruç, Kobane-Turchia
sola andata
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Siria/Turchia. Viaggio nel campo profughi di Soruç. Gli aiuti
internazionali restano fermi ad Ankara. Solo le municipalità dell’Hdp
forniscono soccorsi
Il conflitto in Siria ha cambiato il volto anche delle città turche. Spesso nei centri urbani
capita di sentire la gente parlare arabo più che turco o kurdo. I profughi siriani hanno ormai
trovato la loro seconda vita tra Istanbul, Izmir e Ankara. Una immigrazione forzata di
classe media che ha prodotto non poca vitalità culturale e creatività in Turchia. Tra artisti,
ingegneri e intellettuali i notabili di Aleppo, Damasco e Homs hanno ormai trovato il loro
posto nella borghesia urbana turca. Eppure i siriani in Turchia si rivolgono l’uno all’altro
con non poco scetticismo e sospetto. Hanno sempre in mente la guerra civile che va
avanti nel loro paese e l’immagine di al-Assad che continua ad avere il controlo di Damasco. Anche gli attori siriani hanno in massa lasciato il paese e ora appaiono sugli schermi
turchi ed egiziani.
I mille volti della diaspora siriana
Fuggono da uno dei conflitti più crudeli della regione, manipolato a distanza da Stati uniti,
Unione europea, Arabia saudita: un conflitto per procura che ha prodotto milioni di profughi. Divisa tra Turchia, Libano e Giordania, la diaspora siriana è composta sì dalla classe
media siriana anti-regime. Ma anche da tanti poveri che hanno trovato posto per le strade
turche e non hanno nessuna speranza per un futuro migliore nel loro nuovo paese. Sono
più di un milione e otto cento mila i profughi siriani in Turchia, per l’Agenzia dell’Onu per
i rifugiati (Unhcr). Il tema dell’immigrazione è stato usato dagli ultra-nazionalisti dell’Mhp in
campagna elettorale per accrescere il loro consenso. E ci sono riusciti ottenendo il 16%
dei seggi (rispetto al 12% del 2011). Sono diventati il partito a cui gli islamisti moderati del
presidente Recep Tayyip Erdogan (Akp) guardano prima degli altri per formare il nuovo
governo ad un passo dalle elezioni anticipate. Il flusso di profughi siriani al confine sudorientale di Soruç è andato aumentando come conseguenza dell’avanzata dello Stato islamico (Isis) nel cantone di Kobane. La guerriglia kurda siriana ha attirato i combattenti turchi del Pkk, gli iraniani del Pjak e in parte i peshmerga iracheni. Ma la popolazione locale
ha preferito figgire dal conflitto verso la Turchia in assenza di un corridoio umanitario e di
un chiaro sostegno del governo turco: una delle critiche più dure al governo Akp mosse in
campagna elettorale dalla sinistra filo-kurda (Hdp) di Salahettin Demirtas che ha poi superato lo sbarrato alle parlamentari del 7 giugno scorso. Nell’ottobre 2014, in pochi giorni,
sono arrivati a Soruç 100 mila siriani senza avere nessun aiuto internazionale. Nella sola
città di Gaziantep 400 mila siriani hanno trovato rifugio mescolandosi tra la popolazione
locale. «Passavano la notte sui marciapiedi di Soruç: era un dormitorio a cielo aperto», ci
spiega Mustafa Dogal, attivista del Partito democratico del popolo (Hdp). «Qui nessuno
oserebbe chiamarli rifugiati sebbene lo siano secondo il diritto internazionale. I profughi di
Kobane sono parenti o familiari dei cittadini di Soruç o almeno così vengono percepiti», ci
spiega Mustafa. Ai profughi siriani di Kobane non arrivano gli aiuti umanitari di Nazioni
unite e ong di mezzo mondo che restano nelle tasche del governo turco ad Istanbul. Il più
grande campo governativo che contiene 35 mila posti letto è stato costruito con una tale
lentezza, sei mesi dopo l’arrivo dei profughi, che la maggioranza dei rifugiati aveva già
lasciato Soruç quando le tende sono state consegnate. Ora nel campo vivono ancora
5 mila siriani. Soprattutto donne e bambini mentre i giovani cercano lavoro e fortuna in
Turchia.
Ci sono almeno altri cinque piccoli campi, gestiti dalla Municipalità di Soruç, controllata da
Hdp, intorno al centro urbano che conta 100 mila abitanti. Qui gli aiuti internazionali non
arrivano e sono sindaci, amministratori e operatori sociali che rispondono ai principi
dell’autonomia democratica teorizzata da Ocalan a portare sostegno diretto ai profughi.
Ma qui la paura della repressione regna sovrana. Il guardiano di uno dei campi non vuole
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rivelare il suo nome perché teme di perdere il suo lavoro in un ufficio governativo. Un
mese fa si è tenuto a Diyarbakir il Forum per la ricostruzione di Kobane. Erano presenti
organizzazioni filo-kurde del Forum mesopotamico (Kck) con l’aggiunta di alcune ong straniere ma poco è stato fatto per favorire il ritorno dei siriani a Kobane. Le 103 municipalità
kurde di Hdp hanno mandato nei campi di Soruç aiuti ogni settimana durante il conflitto
e continuano a farlo.
«Molti adesso raccolgono grano»
Abbiamo visitato il campo di Mesgin grazie all’impegno della municipalità di Soruç che ci
ha permesso di entrare. I campi di grano si interrompono per dar spazio ad un gruppo di
tende grige che raccolgono i canti e giochi di un’infinità di bambini. Poco lontano da qui un
altro campo ha raccolto per mesi le famiglie inconsolabili dei martiri dei combattenti kurdi
di Kobane. A Mesgin vivono nelle tende ormai da otto mesi 90 famiglie: almeno 380 persone tra cui moltissimi bambini piccoli. «Alcuni sono tornati a Kobane, altri cercano lavoro
a Soruç. Molti raccolgono grano in questa stagione», ci racconta Islam, anziano di un villaggio nei dintorni di Kobane che vive qui dall’inizio dei combattimenti. Quando il flusso di
profughi non accennava a diminuire è stata creata qui una scuola con insegnanti qualificati
inviati dalla municipalità. «Tutti i bambini venivano a studiare a Mesgin perché nei campi
governativi gli insegnamenti erano solo in arabo e in turco. Non in kurdo come da noi»,
aggiunge Mustafa l’operatore della municipalità che ci accompagna.
«Da settimane non riceviamo le visite di un medico», ci dice Asya, giovane madre di due
bambini. Quando i guerriglieri Ypg tornavano feriti dai combattimenti trovavano qui almeno
il sostegno di continui turni di fisioterapia. Ma la gara della solidarietà del Comune di Soruç
va avanti tanto che nei depositi del campo le provviste di ceci e pasta, raccolte in sacchi
neri, sono ancora copiose. I giovani del campo sono anche riusciti a scavare un pozzo da
dove attingere acqua ma le taniche di acqua potabile della municipalità sembrano da sole
sufficienti per i bisogni primari dei rifugiati. «Negli ultimi sei mesi non ci sono stati particolari problemi di elettricità. Il comune ci ha fornito un generatore», continua Islam.
La vita a Mesgin trascorre lentamente. Le tende di questo campo sono molto semplici.
All’interno hanno tutte una stufa (anche se è stato necessario rafforzare le centraline elettriche perché non ci fossero cali di tensione). Il cemento alla base le isola dal terreno
anche se il caldo di questi giorni rende la vita non facile ai rifugiati siriani.
I campi profughi siriani in Turchia testimoniano le gravi conseguenze del conflitto nel Kurdistan siriano e in tutto il paese. Ma anche l’irresponsabilità del governo turco nel non aver
impedito l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico. Questo ha influito non poco sulla
sconfitta elettorale di Erdogan, ha rafforzato le destre, e generato un clima incandescente
a Diyarbakir dove ieri ci sono stati altri scontri a fuoco tra sostenitori di associazioni kurde
di diverso orientamento politico. I combattenti di Isis continuano ora la loro battaglia antikurda anche in territorio turco. Mentre i profughi siriani scacciati anche dall’Egitto del golpista al-Sisi diventano carne da macello del business delle migrazioni dei contrabanddieri
libici fino a trovare morte certa nella traversata del Mediterraneo verso Lampedusa.
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INTERNI
dell’11/06/15, pag. 12
Verdini-Letta, asse per il sì alle riforme
I due in pressing su Berlusconi per lanciare un nuovo patto con Renzi:
“Opposizione repubblicana” Martedì un altro incontro, ma il Cerchio
magico vuole la rottura. Senza intesa sarà scissione
TOMMASO CIRIACO
ROMA . Un nuovo patto del Nazareno. Con un nome diverso, stavolta: “Opposizione
repubblicana”. Ci lavora da mesi Denis Verdini. E da ieri lo sostiene apertamente anche
Gianni Letta, alleato discreto ma tenace dell’ex coordinatore azzurro. I due si sono ritrovati
riservatamente, per oltre due ore. Un faccia a faccia utile ad analizzare il summit di
martedì notte con l’ex Cavaliere, ma anche a mettere nero su bianco la strategia in vista
del nuovo vertice fissato per martedì prossimo a Palazzo Grazioli. Nel frattempo,
naturalmente, il ras toscano continua a lavorare anche al piano B: la scissione. Non a
caso, ieri sera ha convocato i suoi senatori avvertendoli: «State pronti».
Da tempo Verdini e Letta sono i nemici giurati del cerchio magico. Ribattezzati “duo
tragico” dalla tesoriera Maria Rosaria Rossi, provano a convincere Berlusconi che non è
più tempo di restare isolati. Meglio varare un nuovo organigramma nel partito e siglare un
armistizio con il presidente del Consiglio. Non sono gli unici a tifare per un nuovo patto con
Palazzo Chigi, fra l’altro. Con loro c’è Fedele Confalonieri, in stretto contatto con Verdini. E
pure buona parte della galassia aziendale, con l’eccezione significativa di Marina. «Ho
ancora la speranza che Renzi riesca a cambiare ciò che va cambiato - ha detto ieri
Piersilvio Berlusconi - ma siamo vicini alla scadenza del tempo. Il governo deve darsi una
mossa». Le colombe non mancano neanche al Senato. Una è il capogruppo Paolo
Romani: «Invece di contare sulle uscite di alcuni dei nostri, Renzi dovrebbe parlare con la
gente giusta e con interlocutori credibili. Certo, ci sarebbe qualche modifica alla riforma
costituzionale, ma il testo passerebbe senza intoppi ».
Se gli eventi non dovessero precipitare prima – e il cerchio magico lavora invece,
alacremente, affinché precipitino – Berlusconi e Verdini torneranno a incontrarsi martedì
prossimo. Solo allora il capo di FI risponderà all’ultimatum di Denis. Nella giacca del big
toscano ci sarà anche un elenco di dieci senatori.
Se mancheranno risposte adeguate, sarà scissione. «Per Berlusconi – ragiona il
verdiniano Saverio Romano – è il momento di capire che non ha senso inseguire Salvini».
E però la resistenza è strenua, basta ascoltare un falchissimo come Renato Brunetta: «Un
nuovo patto con Renzi? Non esiste. Un’opposizione alla Verdini? Non esiste. Un disgelo?
Non esiste”. L’ultima parola, come sempre, a Silvio Berlusconi.
dell’11/06/15, pag. 21
G8,il caso del pm Zucca al Csm togati contro
il capo della polizia
LA POLEMICA /I MAGISTRATI CHIEDONO LA TUTELA DEL COLLEGA
MARCO PREVE
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GENOVA. È «abnorme» la richiesta dell’ apertura di un procedimento disciplinare nei
confronti del pm del processo sui fatti della Diaz Enrico Zucca. Lo sostiene Area, una
corrente delle toghe, che ieri ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela di Zucca. Gli
esponenti di Area sottolineano di riconoscersi nel magistrato genovese e in tutti i colleghi
«che svolgono il loro compito senza timore e nel rispetto delle regole e della
Costituzione». A sollecitare iniziative disciplinari è stato il capo della Polizia Alessandro
Pansa di intesa con il ministro dell’Interno, secondo cui le parole pronunciate dal pm in un
dibattito , domenica scorsa nel corso di Repubblica delle Idee, sui fatti accaduti durante il
G8 di Genova sarebbero «inutili, dannose e offensive dell’immagine della Polizia di Stato».
Per Area invece «dannose e offensive per l’immagine dell’Italia tutta» sono state altre
vicende, a cominciare dalla «negazione istituzionale», per 14 anni, di fatti che Amnesty ha
definito come «una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella
storia più recente». Hanno leso l’immagine del Paese anche «la mancata reazione
disciplinare interna, le reazioni politiche nei confronti dei magistrati che hanno indagato e
giudicato, la condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo per quei fatti».
Il Comitato di presidenza del Csm affronterà nella riunione di questa mattina il caso.
Una vicenda che sta suscitando molte reazioni. Come quella di Roberto Settembre, il
giudice, oggi in pensione, che scrisse le motivazioni del processo d’appello relativo alla
prigione lager di Bolzaneto, luogo di tortura nel G8 genovese del 2001. Un’esperienza che
lo ha spinto a scrivere un libro su quei fatti: “Gridavano e piangevano. La tortura in Italia:
ciò che ci insegna Bolzaneto”.
«Se dovesse essere coerente – dice Settembre - il capo della polizia dovrebbe invocare
provvedimenti disciplinari anche contro la Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo che
ha espresso giudizi così pesanti nei confronti della nostra polizia da macchiarsi delle
stesse colpe che vengono addebitate al pm del processo Diaz, Enrico Zucca».
Secondo Settembre i 14 anni trascorsi non hanno insegnato molto: «Nel 2001 accaddero
a Genova delle cose terrificanti. Esplose una malattia, un tumore che in questi anni non è
stato curato e le metastasi sono ancora in giro. Proprio come gli agenti e i funzionari che
picchiarono alla Diaz o falsificarono le prove, o come poliziotti e guardie penitenziarie di
Bolzaneto mai individuate che si macchiarono di tecniche di tortura create dalla Gestapo,
dal Kgb e affinate ad Abu Ghraib». Ma chi lo dice secondo Pansa offende l’onorabilità
della polizia.
«La decisione di Pansa è abnorme e assurda perché evidenzia la volontà di non
confrontarsi. I rimedi ci sono e non sono la caccia alle streghe: scuole di formazione e
totale adesione del personale di polizia ai valori e allo spirito dei principi costituzionali e
delle convenzioni internazionali».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
dell’11/06/15, pag. 6
“Arrestate Azzollini complice di bancarotta”
Un altro senatore Ncd mette nei guai il
governo
È il presidente della commissione Bilancio “Sono
serenissimo”.M5S:subito l’ok della Giunta
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
La procura di Trani chiede l’arresto del senatore dell’Ncd Antonio Azzollini per il crac della
casa di cura Divina Provvidenza. La notizia piomba sulla maggioranza in un’altra giornata
di affanno al Senato e a pochi giorni dall’avviso di garanzia ad un altro parlamentare di
Alfano, Giuseppe Castiglione. Oggi l’ufficio di presidenza della giunta per le immunità di
Palazzo Madama fisserà le scadenze relative al voto sull’autorizzazione. Azzolini intanto si
dice «serenissimo» e annuncia che si difenderà «davanti al giudice e nelle aule
parlamentari». A chi chiede se si dimetterà risponde: «La legge non lo prevede». Azzollini,
oltre che ex sindaco di Molfetta, detiene la delicata carica di presidente della commissione
Bilancio del Senato, in questi giorni impegnata nelle votazioni sulla riforma della scuola.
Dopo la richiesta di arresto il Movimento 5 Stelle e il leader di Sel Nichi Vendola hanno
chiesto le sue dimissioni da parlamentare. Nel pomeriggio i senatori dell’Ncd al termine di
una riunione d’urgenza hanno però espresso solidarietà al collega escludendo anche che
possa quantomeno lasciare la guida della commissione Bilancio. Per Cicchitto «alla luce di
quello che sta avvenendo in questi giorni c’è l’impressione che per rendere difficile la vita
al governo Renzi si concentri il fuoco sull’Ncd». Dal Pd ieri nessuno ha commentato la
vicenda o ha difeso Azzollini.
dell’11/06/15, pag. 6
Sì del Pd alla richiesta e la paura della crisi:
“Ma non si può far altro”
FRANCESCO BEI
ROMA. Il caso Azzollini deflagra in Senato su una maggioranza già sotto pressione.
Nell’assemblea del gruppo Ncd si decide di «blindare» il senatore e di difendere a ogni
costo la presidenza della commissione Bilancio, una postazione strategica perché tutte le
leggi passano da quel crocevia. Ma l’arroccamento intorno ad Azzollini cozza con la
decisione che dovrà prendere il Pd sulla richiesta d’arresto. Perché il voto dei democratici,
al di là dei toni diplomatici, del mantra sul «dobbiamo prima leggere le carte», in realtà è
scontato: sarà un sì. Matteo Renzi, consultato per telefono da alcuni senatori dem sul da
farsi, ha già fatto capire quale sarà la linea: «Noi siamo garantisti, non mandiamo a casa
nessuno per un avviso di garanzia. Ma qua parliamo di una richiesta d’arresto». Per un
caso simile relativo a uno dei loro, Francantonio Genovese, i democratici diedero via libera
alle manette, è il ritornello che rimbalza tra palazzo Chigi e palazzo Madama.
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Il problema, come sempre, è come si arriverà al voto. «Se salta l’Ncd - confida in un
corridoio del Senato il vice capogruppo Pd Giorgio Tonini- qua salta tutto. Quel gruppo è
già in tensione fra chi vuole uscire e chi vuole continuare a sostenere il governo, per cui
occorre procedere con tatto, cercando di non urtare sensibilità». Il minimo che il Pd
chiederà all’alleato è quello di convincere l’indagato a fare almeno un passo indietro dalla
presidenza della Bilancio. «L’ideale - aggiunge Tonini - sarebbe se si comportasse come
Lupi, senza bisogno di interventi sgradevoli». Ma da quell’orecchio Azzolini non ci sente.
Anzi, mentre ieri pomeriggio era in corso la riunione del gruppo Ncd dedicato al suo caso e
tutti misuravano la febbre della maggioranza, a un certo punto l’interessato ha salutato e
ha preso l’uscita serafico: «Scusate, vado a presiedere la commissione ». Al momento
l’ipotesi dell’autosospensione, caldeggiata dal Pd con una discreta moral suasion, sembra
dunque esclusa.
Di certo il Pd, che si è già scottato per l’affaire De Luca, non ha intenzione di immolarsi per
Azzollini. «Con il clima che c’è in giro, con Mafia Capitale che ogni giorno fa saltare
qualche testa - ammette il dem Francesco Verducci - la vedo difficile una difesa di
Azzollini. Vedremo le carte, approfondiremo, ma bisogna anche tener conto che tra di noi
si è diffusa una brutta sensazione di accerchiamento ». Se la decisione del Pd sulla
richiesta d’arresto appare dunque scontata, si tratta di capire quale sarà a quel punto
l’atteggiamento di Ncd. La posizione ufficiale è una difesa senza se e senza ma del
presidente della Bilancio. «Lo conosco da vent’anni - quasi urla Guido Viceconte- e metto
le mani sul fuoco sulla sua integrità morale». Se effettivamente dentro al gruppo dei
senatori Azzollini gode di molto sostegno, a sondare i piani alti di Ncd si coglie qualche
sfumatura che tiene conto anche delle difficoltà del Pd. «Se nelle carte - spiega uno dei
massimi dirigenti del partito - fosse evidente il fumus persecutionis dobbiamo chiedere
anche al Pd che Azzollini sia difeso, facendone una questione politica. Viceversa, se
emergessero fatti seri, non potremmo pretendere che si comportino diversamente da
come fecero con Genovese». Un atteggiamento realistico, che tiene conto dei fragili
equilibri del Senato e della difficile posizione del Pd, stretto tra la solidarietà all’alleato e la
pressione “giustizialista” dei 5stelle. L’ala più filogovernativa di Ncd offre anche un’altra
sponda al Pd per evitare che il “caso Azzollini” si trasformi in un “caso Renzi” eporti alla
caduta del governo. Un senatore l’ha ricordato ad Angelino Alfano che s’informava degli
umori dentro al gruppo: «Noi uscimmo dal Pdl perché pensavamo che il voto del Pd sulla
decadenza di Berlusconi non dovesse avere ripercussioni sul governo Letta. E ora
dovremmo far cadere il governo Renzi per un voto su Azzollini? ».
Intanto si punta ad allungare i tempi. Una sospensione che conviene sia al Pd che agli
alfaniani per abbassare la temperatura sulla vicenda. Si parla di almeno tre settimane
prima che la giunta si pronunci e poi la palla passerà all’Aula. Forse persino dopo l’estate.
Dell’11/06/2015, pag. 4
Il governo nelle mani della Provvidenza
Inchieste. La richiesta d’arresto di Azzolini, presidente della
commissione bilancio del senato, unita alla vicenda del Cara di Mineo, è
una bomba per l’Ncd. Ma se Renzi balla, è pronto il soccorso verdini
ano
La giornata nera di Angelino Alfano non potrebbe essere peggiore. Tanto è densa di nuvoloni gonfi che l’ombra arriva a palazzo Chigi, minaccia Renzi e l’intero governo. La bomba
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di cui tutti si accorgono esplode poco prima dell’ora di pranzo. Per il senatore Ncd Gaetano Azzolini, presidente della commissione Bilancio, è stata spiccata la richiesta di arresti
domiciliari per il crack delle case di cura Divina Provvidenza in Puglia. Reati pesanti: associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, più varie ed eventuali.
Il senatore dichiara subito che lui a dimettersi non ci pensa per niente: «Mi difenderò in tribunale». I senatori dell’Ncd si riuniscono con l’intero gruppo centrista di Area popolare,
scelgono di fare muro. «Renzi deve scegliere la linea garantista. Non può fare altrimenti»,
si allarga speranzoso un ufficiale. Significa che l’Ncd reclama dal Pd il voto contrario alla
richiesta di arresto, e per moltiplicare gli argomenti convincenti fa balenare i coltellacci. E’
stato per l’assenza dei senatori Ncd che martedì, in commissione Affari costituzionali, il
governo è stato battuto nel parere di costituzionalità sulla riforma della scuola. E la stessa
commissione Bilancio, di cui Azzolini resterà presidente sino al voto sulla richiesta
d’arresto, è una di quelle che devono vistare e vagliare il ddl scuola. Non sono sottili le
carte che il partito di Alfano può e vuole giocarsi.
Ma stavolta il Pd non potrà starci. Non dopo aver già salvato Azzolini, in dicembre, vietando l’uso di intercettazioni che lo riguardavano registrate dai telefoni di terze persone.
Non dopo aver votato per l’arresto di un deputato dem, Genovese. Non mentre monta il
caso del sottosegretario Castiglione, indagato per gli appalti del Cara di Mineo. E’ una
bomba meno vistosa quella legata al proconsole di Alfano in Sicilia, ma è più deflagrante.
Se il caso Azzolini è un ordigno ad alto potenziale esplosivo, la storiaccia di Mineo è un
missile nucleare: in discussione non c’è solo il sottosegretario ma il suo stesso capo, il
ministro degli Interni Alfano. In discussione, dunque, c’è la tenuta del governo.
Gli elementi raccolti dall’Huffington Post, coniugati con le intercettazioni dell’inchiesta
romana, non lasciano spazio a dubbi. Nella gestione degli appalti per il centro d’assistenza
immigrati più grande d’Europa, tutto era viziato da cima a fondo. Sul modello delle «10
domande a Berlusconi» rivolte da Repubblica ai tempi del Rubygate, l’Huffpost ne pone
8 a Alfano, e alcune adombrano una tale complicità di fatto che la mancata risposta basterebbe a far dimettere un ministro in qualsiasi Paese dove la trasparenza venisse presa sul
serio. Quelle risposte il titolare del viminale non le ha date e non le darà. Non dirà perché,
anche dopo la prima tranche di Mafia Capitale, anche dopo l’allarme di Cantone, non ha
mosso un dito per verificare cosa stesse succedendo nel Cara, né perché abbia consentito
che solo a Mineo si allestisse un sistema diverso da quello degli altri centri e che assegnava a Castiglione poteri di selezione assoluti.
Quegli interrogativi sono stati ripresi ieri da una quantità di esponenti politici: di Sel, come
i capigruppo De Petris e Scotto, dell’M5S, come Di Battista; da Civati e dal bersaniano
D’Attorre. La settimana prossima Alfano dovrà riferire in aula al Senato: non sarà una passeggiata. La Camera discuterà le due mozioni di sfiducia dei pentastellati e di Sel, anche
se sinora non c’è calendarizzazione. Per Renzi rischia di essere un calvario. Lui stesso se
ne rende conto. A caldo aveva optato per il soffice metodo Lupi: «Nessuno caccia il sottosegretario, ma se lui desse le dimissioni da solo sarebbe opportuno». Alfano si è opposto.
Toccare Castiglione è come toccare lui, e perché sente che il cerchio si sta stringendo, si
prepara alla battaglia finale.
Per l’Ncd il conto alla rovescia è iniziato: più prima che poi esploderà. Una parte resterà
col governo, un’altra scivolerà verso la casa madre azzurra. E a Renzi mancheranno i voti
al Senato. La rete di protezione su cui conta il premier è già pronta. Denis Verdini faceva
sapere ieri di avere a disposizione 13 senatori, più probabili ingressi dall’ala governista
dell’Ncd. Resta un particolare oscuro. Pochi giorni fa quei senatori erano tre. Come si sarà
data la loro moltiplicazione? Forse un miracolo. Forse, più prosaicamente, un leader che
tutto vuole tranne le elezioni anticipate ma che non può più appoggiare il governo,
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potrebbe aver con la dovuta discrezione ’prestato’ a Denis qualche testa. Un leader così in
Italia c’è: si chiama Silvio Berlusconi.
dell’11/06/15, pag. 10
La trincea del Pd e il piano B sul sindaco: “Se
esce altro si dimetterà”
Prima di decidere,i dem aspetteranno la relazione del prefetto Gabrielli
che arriverà entro fine luglio
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA . Ignazio Marino non si tocca, è blindato, il Pd su questo argomento non può e non
deve permettersi fratture e distinguo. La linea dunque non cambia, l’hanno decisa insieme
Matteo Renzi e Matteo Orfini, il commissario di Roma. «Il sindaco ha portato le carte in
Procura, ha aperto il Campidoglio alla Guardia di Finanza. La sua onestà è a prova di
bomba». Ma intorno a Marino l’inchiesta esplode e le schegge si avvicinano
pericolosamente alla giunta. Per questo, nelle ultime ore a Palazzo Chigi e Largo del
Nazareno si ragiona, in linea teorica, di un piano B. L’ipotesi di far scivolare la situazione
fino allo scioglimento per mafia va esclusa a priori. Sarebbe un danno d’immagine
planetario, per di più alla vigilia del Giubileo. Tendendo le orecchie verso la Procura e
verso la Prefettura, si anticiperà questo possibile catastrofico esito e solo a quel punto a
Marino verrà chiesto, o meglio imposto, il passo indietro.
Orfini garantisce che nessuna delle ipotesi peggiori si realizzerà. «Non avrei fatto lo scudo
umano se avessi avuto qualche dubbio». Le carte degli atti amministrativi che la
commissione consegnerà lunedì al prefetto di Roma Franco Gabrielli sono state lette e
spulciate da Orfini e da un pool di tecnici per verificare eventuali infiltrazioni. «Non ci sono,
anzi sono state respinte dall’attuale amministrazione », ripete il presidente del Pd. Ci mette
non la faccia ma la mano sul fuoco, più doloroso se dovesse sbagliarsi. Però tutto intorno
all’inappuntabile e incorruttibile Marino, brucia il Pd e brucia il sistema della Capitale.
Gabrielli ha fatto sapere che si prenderà tutti i 45 giorni che la legge gli assegna per
leggere il migliaio di pagine in arrivo lunedì. In tutto questo periodo gli occhi del Pd e del
governo saranno puntati sulla prefettura. Ma non basta. Cos’altro hanno in mano i sostituti
guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone? C’è il rischio che un avviso di garanzia per
416 bis (mafia) piombi dentro l’aula Giulio Cesare?
Il Pd ha deciso di resistere. Fare pulizia dentro di sè e quadrato intorno a Marino. Gianni
Cuperlo ieri mattina Omnibus ha adombrato la possibilità che il sindaco sia costretto a
dimettersi per poi ricandidarsi come uomo della discontinuità assoluta. Anche per non
aprire una crepa nel fronte delicatissimo di Mafia capitale, l’ex presidente del Pd invita a
risentire la registrazione: «Marino è la soluzione del problema non il problema. Se non ci
sono novità deve andare avanti». Orfini giura che le novità non potranno essere negli atti
amministrativi dell’attuale giunta. «Non esiste un solo passaggio che autorizzi a pensare di
un’infiltrazione mafiosa in Campidoglio negli ultimi due anni». Viene letta con un sospiro di
sollievo la dichiarazione del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Il capo
dell’Arma esclude «una contiguità del’organizzazione criminale con le cosche tradizionali
». Significa che al momento non si vedono elementi per lo scioglimento del Comune.
Il fenomeno è talmente vasto da rendere insufficienti anche i segnali positivi e sicuramente
le parole del comandante generale rientrano nella categoria buone notizie in mezzo a una
bufera di soli disastri. Orfini giura sulle delibere di Marino. Ma incombe il mare di
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intercettazioni ancora non rese pubbliche, quelle che giacciono nei cassetti di Piazzale
Clodio. Nessuno al Pd può garantire che non esca altro. Per il momento, la linea non
cambia. Pulizia totale nel Pd romano, strenua difesa di Marino da qualche gior- no però
associato alla figura di Nicola Zingaretti. Una mossa che a messo sul chi va là alcuni.
Perchè è chiaro che la regione e la giunta Zingaretti non sono lontanamente coinvolti al
pari del Campidoglio. Quindi l’”accoppiamento” serve a rafforzare la blindatura. Durante la
prima ondata di Mafia capitale non era successo. Largo del Nazareno stavolta ha sentito
la necessità di un di più. Usando il governatore del Lazio per fare da scudo al sindaco. E
per coinvolgere l’intero partito nella battaglia per contrastare la forza dell’inchiesta visto
che Zingaretti non è vicino a Renzi, anzi è considerato dalla minoranza l’unica vera
alternativa alla leadership del premier.
Dalla giunta arrivano segnali di tenuta. La figura di Alfonso Sabella, magistrato prestato
all’assessorato per la legalità, funziona sul piano pratico per i suoi atti anticorruzione e sul
piano politico per le insospettabili doti di resistenza. Il vicesindaco Luigi Nieri è finito nelle
intercettazioni, ma secondo Orfini gli atti amministrativi dimostreranno semmai che anche
lui ha respinto le infiltrazioni invece di agevolarle. Questo raccontano le delibere del
Campidoglio dall’ascesa di Marino in qua.
Cosa abbia in mano la procura, che pure ha stabilito un collegamento diretto con Marino,
rimane un mistero. Troppo grandi le ramificazioni, troppo profondo il marcio romano per
essere sicuri al 100 per cento che non servirà un piano B.
dell’11/06/15, pag. 10
Le intercettazioni Gli investimenti di un’azienda e la triangolazione
Comune-coop
E Buzzi trattava sui fondi sociali con la
segretaria di Marino
CARLO BONINI
MARIA ELENA VINCENZI
ROMA . Trasformato in appestato un minuto dopo essere stato arrestato, al punto da
affiorare con fatica nei ricordi di chi pure gli dava del tu, Salvatori Buzzi, in realtà,
dell’amministrazione capitolina è stato non un interlocutore, ma un ingranaggio cruciale.
Con la giunta Alemanno, prima. Con quella Marino, poi. E, del resto,con quale facilità
avesse accesso al gabinetto di Ignazio Marino, come ai vertici del partito a Roma, lo
documentano le intercettazioni del Ros un mese e mezzo prima del ciclone “Mafia
Capitale”.
“DIECI MILIONI”
In quei giorni, la Leroy Merlin, azienda francese della grande distribuzione specializzata in
prodotti per la casa, riprendendo il filo di un negoziato avviato con la precedente giunta di
centro-destra, manifesta all’amministrazione capitolina la disponibilità a realizzare un
grande punto vendita su terreni concessi dal Comune di Roma nella zona di Ciampino, a
ridosso del campo nomadi “La Barbuta” (villaggio “residenziale”, si fa per dire, ridotto a
discarica umana per il quale il tribunale di Roma ha condannato il Campidoglio per
«condotta discriminatoria»). E’ un investimento che promette indotto e occupazione, in
cambio del quale, l’azienda francese, oltre ai terreni, chiede una riqualificazione dell’area
per la quale è disposta a investire ulteriori 10 milioni di euro che il Comune deve vincolare
a investimenti nel sociale. E’ un piatto che eccita l’appetito di Buzzi. «10 milioni, hai
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capito? – dice a uno dei suoi soci, Sandro Coltellacci – 10 milioni sul sociale. Sui nomadi,
o sugli immigrati, o sugli asili nido o su quel cazzo che vuoi tu. Sono disposti a fare un
Associazione temporanea di imprese. Leroy Merlin, costruttori e noi, che gestiremmo la
quota dei 10 milioni». Buzzi prepara dunque un “progetto” che consegna al segretario del
Pd romano Lionello Cosentino, durante un incontro il 13 settembre. «Chi è l’assessore che
si deve muovere per primo?», chiede Cosentino. «Dovrebbe essere Masini (Paolo, con
delega alle periferie- ndr) insieme alla Cutini (Rita, Politiche sociali- ndr)», spiega Buzzi.
Cosentino: «Interesso Marino. Gli do un input e ti faccio sapere».
“LA SEGUE MARINO”
Il 22 settembre, alle 12.48, squilla il cellulare di Buzzi. Lo cerca Silvia Decina, capo della
segreteria di Ignazio Marino. I due si danno del “tu”.
Decina: «Ciao Salvatore, sono Silvia Decina, il capo della segreteria di Ignazio Marino».
Buzzi: «Buongiorno Silvia».
Decina: «Ti volevo dire che Lionello mi ha dato la documentazione per Ignazio sulla Leroy
Merlin. Adesso Ignazio l’ha vista e sta facendo convocare una riunione di staff».
Buzzi: «Gli è piaciuta al Sindaco? ».
Decina: «Moltissimo. Tanto, ma proprio tanto. Però ha chiesto che la seguissimo noi qui
direttamente dal Gabinetto, perché se inizia a passare per tutti gli assessorati non ne
usciamo vivi con questo».
Entusiasta, Buzzi informerà Massimo Carminati. Che gli suggerisce il “pacco” da rifilare a
Leroy Merlin e Comune una volta entrati nel progetto del centro commerciale: «Tu apri un
finto cantiere. Poi, una volta che te portano via tutto, gli dici: “Mo io qui che faccio? Non
posso lavora’. Quindi, dammi un altro posto”». Insomma, acquisire la licenza di costruire a
Ciampino, al ridosso del campo nomadi, per poi scegliersi il posto in cui realizzare davvero
le cubature previste dal progetto.
INTERROGATO VENAFRO
Anche la Regione era una tappa della scalata di Buzzi. La leva era Gramazio capo
dell’opposizione e l’anello su cui battere era stato individuato in Maurizio Venafro (capo di
Gabinetto di Zingaretti fino al 24 marzo, quando riceve un avviso di garanzia). Ieri Venafro
è stato interrogato dai pm sul perchè nominò Angelo Scozzafava (sodale di Buzzi) nella
commissione per il Cup. Verbale secretato. Il 19 marzo Venafro disse ai pm: «Scozzafava
me lo segnalò Gramazio. Volevamo assicurare trasparenza delle gare coinvolgendo le
opposizioni».
dell’11/06/15, pag. 5
Da Buzzi 5 mila euro alla fondazione Renzi e
15 mila ai democrat
Mafia Capitale 2, il capo della “29 Giugno” intercettato conferma
versamenti diretti alla Open di Carrai oltre che per le cene. Il tesoriere:
“Restituiti dopo l’arresto”
di Davide Vecchi
Per partecipare alla cena con Renzi “ho versato 15 mila euro al Pd e 5 mila alla Leopolda”.
Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nel Mondo di mezzo, fa il conto di quanto gli
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è costato sedersi a tavola a poca distanza dal premier. Lo dice lui stesso nel corso di una
telefonata intercettata due giorni dopo l’evento.
Dalle carte dell’inchiesta Mafia Capitale 2 emerge una nuova verità sulla presenza di Buzzi
alla serata di raccolta fondi del Partito democratico organizzata dal segretario Matteo
Renzi la sera del 7 novembre 2014 al Salone delle Tre Fontane di Roma: il ras della
cooperativa 29 Giugno non ha versato solamente 10 mila euro come era emerso lo scorso
dicembre dalla prima ondata di arresti nella Capitale. Non solo: oltre ai soldi al Pd spunta
un nuovo versamento da 5 mila euro effettuato alle casse della Fondazione Open, la
cassaforte personale del premier guidata dal fidato Marco Carrai e dall’avvocato Alberto
Bianchi nonché dal ministro delle Riforme e rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi
e da Luca Lotti, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con
delega all’editoria e segretario del comitato interministeriale per la programmazione
economica (Cipe).
Nel pomeriggio del 6 novembre Guarany telefona a Buzzi dicendogli di chiedere i dettagli
della serata a Lionello Cosentino, ultimo segretario del Pd di Roma, commissariato da
Matteo Orfini lo scorso dicembre. “Orario della cena e come ci sediamo?”. Buzzi esegue e
comunica anche i nomi dei presenti: “Io, Guarany, Nanni (l’allora direttore generale di
Ama, la municipalizzata romana per l’ambiente, Giovanni Fiscon, ndr)”. Tutti e tre ora sono
in carcere ma quella serata andò benissimo tanto che i tre continuarono a parlarne nei
giorni successivi. La mattina dell’8 novembre alle ore 11.14 Buzzi svela a Fiscon di aver
fatto due versamenti diversi per poter partecipare alla cena: 15 mila euro al partito e 5 mila
a Renzi per la Leopolda.
Oltre ai riscontri bancari dei versamenti gli inquirenti riportano il messaggio inviato a Buzzi
il pomeriggio prima della cena dall’onorevole Micaela Campana con gli estremi per il
pagamento al Partito democratico: “c/c intestato a Partito democratico presso: Banca
Intesa San Paolo Spa Iban IT 47T0306903390680300093335 Causale: Erogazione
liberale”. Messaggio che poi Buzzi gira al commercialista Paolo Di Ninno. Una volta
ricevuto il messaggio del buon esito dell’operazione il patron delle coop dava “conferma
del bonifico appena effettuato” alla stessa Campana.
Quando nel dicembre 2014 dalle carte dell’inchiesta Mafia Capitale emerse che Buzzi
aveva versato 10 mila euro al Pd, il tesoriere del partito Francesco Bonifazi si era
impegnato a rendere trasparenti i versamenti ricevuti alle due cene di raccolta fondi
organizzate a Milano e Roma. Dopo una settimana di insistenze da parte della stampa e di
richieste di informazioni, Bonifazi comunicò che la sera del 7 novembre con l’evento nella
Capitale il Pd aveva registrato 840 adesioni, 441 bonifici per un incasso complessivo di
770.300 euro per poi fare marcia indietro sull’annunciato elenco dei benefattori: “Ferma
restando l’intenzione del partito di dare massima trasparenza alla cena di finanziamento
esistono ostacoli oggettivi legati alla normativa sulla privacy e sulla divulgazione dei dati”.
Ora, a distanza di sei mesi e con altri 44 arresti che hanno coinvolto l’intero Pd capitolino e
fatto emergere persino una richiesta di soldi diretta a Buzzi per pagare gli stipendi del
partito da parte del tesoriere cittadino, Carlo Cotticelli, la necessità di trasparenza appare
ancora maggiore.
La legge sulla privacy a tutela di quanti finanziano movimenti e fondazioni politiche è
spesso usata come paravento per coprire i benefattori come ha detto lo stesso Renzi nelle
settimane successive allo scandalo promettendo un intervento legislativo per attuare una
reale trasparenza. Il premier, del resto, conosce bene la materia considerato che dal 2007
a oggi ha avuto due associazioni (Noi Link e Festina Lenta) e due fondazioni (Big Bang e
Open) attraverso le quali ha raccolto circa quattro milioni di euro e dei quali solamente si
conosce la provenienza di appena il 40%. Ma dei cinquemila euro versati da Buzzi alla
Open “ce ne siamo accorti”, afferma Alberto Bianchi, tesoriere della fondazione contattato
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ieri dal Fatto. “Mi sono insospettito per quel nome ‘coop 29’ indicato nella voce mittente del
bonifico, ma era incompleto”, spiega. “Dopo gli arresti di dicembre però non volevamo
lasciare nulla al caso, ovviamente il clamore era enorme e così ho deciso di proporre al
cda di restituire quel versamento: nel dubbio meglio agire radicalmente, così poi è stato
deciso con unanimità nel corso di un apposito cda”. Noi, aggiunge Bianchi, “siamo da
sempre più trasparenti possibile e spesso abbiamo per questo anche perso dei
finanziatori”.
Anche Buzzi se ne fa vanto. Lo dice ai pm. “Noi non abbiamo mai finanziato illegalmente
la politica, ma tutto legalmente: Rutelli, Veltroni, Alemanno, Marino, Zingaretti, Badaloni,
Marrazzo, tutti praticamente, anche Renzi: tutti contributi dichiarati in bilancio”.
dell’11/06/15, pag. VI
Ecco il sacco dell’Eur per Buzzi e Carminati
un affare da 16 milioni
I contatti di Mafia capitale da Mancini a Lo Presti Tra il 2007 e il 2013
sono 73 gli appalti conquistati
DANIELE AUTIERI
NEL quartiere delle incompiute, dalla mai realizzata manifestazione universale degli anni
’30 per cui fu costruito fino alla Nuvola di Fuksas, all’Acquario sotto al laghetto e alle torri
del ministero, i conti sono sempre in rosso ma le cose che interessano agli uomini di
Massimo Carminati vengono comunque portate a termine.
A partire dai ciclamini e da altri 73 appalti che tra il 2007 e il 2013 vengono affidati alle
coop di Salvatore Buzzi. Una lista infinita, passata al setaccio dai carabinieri del Ros e
contenuta nell’informativa che descrive il “sacco dell’Eur”, un assalto al fortino che porta
nelle casse della “29 Giugno” e delle sue figliastre quasi 16 milioni di euro.
GLI APPALTI
Che si parli di decorazioni natalizie o di pulizia del verde, il concime è sempre quello:
denari e commesse, strappati grazie ai favori dei pubblici ufficiali corrotti. L’informativa del
Ros spiega che il sodalizio criminale otteneva appalti e favori sui pagamenti grazie alla
mediazione di Carlo Pucci (dirigente e procuratore di Eur spa), Riccardo Mancini (ad di
Eur spa), Luigi Lausi (liquidatore della controllata Marco Polo spa), Franco Panzironi (ad di
Ama), e perfino di Gianluca Lo Presti, l’attuale ad non indagato. Erano loro i facilitatori, e
spesso erano sollecitati facendo leva sulla presa politica di Buzzi. Come nel marzo 2013
quando, al telefono con Carminati, l’uomo delle coop spiega di aver chiesto l’intervento di
Giordano Tredicine (allora consigliere di Forza Italia). «Ho incontrato Tredicine. E l’ho
messo sulla caccia de Borghini (presidente di Eur)».
«Ah, che è l’unico che c’arriva alla grande» commenta Carminati. E Buzzi: «L’ho messo
oggi in caccia e lui è partito, è già partito».
L’INTERVENTO DI CARMINATI
Il “cecato” è di casa all’Eur. Ma quello che un tempo era il Fungo, oggi è il bar Palombini, il
“pensatoio” della banda da cui partono le strategie di assalto alla controllata del ministero
dell’Economia e del Comune di Roma. E quando Eur non paga, ci pensa Carminati.
«Domani vado a farmi un giro dagli amici nostri – dice al telefono a Buzzi – per vedere se
possono accelerare quelle definizioni dei pagamenti ».«Io ho sentito l’amministratore
delegato – risponde l’altro – e gli ho detto: aho, te ricordi sti pagamenti?».«E mo lo famo
strillà come un’aquila sgozzata» minaccia Carminati.
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E in effetti di lì a poco i pagamenti vengono sbloccati.
GLI APPETITI DEL BANCHIERE
La banda sa che può tirare la corda perché Eur è una vacca da mungere generosa. Il 3
dicembre del 2012 è Filippo De Angelis, chiamato “il banchiere” perché presidente della
società sanmarinese Fidens Project Finance e depositario di un conto a San Marino
intestato a Fabrizio Franco Testa (altro arrestato), a parlare con lo stesso Testa della
Marco Polo. «E poi volevo fare un affaruccio con la Marco Polo. Non so se tu c’hai
notizie». «Non c’ho ancora notizie – spiega Testa – ma ho già avvertito Carlo (Pucci ndr) e
stanno lavorando su un pezzo di carta ... Abbiamo fatto una bella squadra. E questa cosa
ci porta veramente tanti… un business veramente molto serio e molto importante».
LO PRESTI, BUZZI E NIERI
Il tempo passa, le amministrazioni cambiano e con loro i referenti dentro le aziende. Ma il
dialogo tra Buzzi e i manager di Eur non si ferma. Neanche quando sulla poltrona di ad si
siede Gianluca Lo Presti. I due si parlano spesso, non solo di affari e di Eur. Il 13 dicembre
del 2013 Lo Presti si complimenta con Buzzi per aver assunto nella sua cooperativa
Andrea Bianchi, l’ex-braccio destro del vice sindaco Luigi Nieri costretto a dimettersi per
aver dichiarato una laurea in giurisprudenza che non ha mai preso. «Sono molto
contento» commenta Lo Presti. E Buzzi: «Anche noi, inizia dal primo gennaio». Un’altra
casella messa al posto giusto dal re delle cooperative.
dell’11/06/15, pag. 6
Altro che “niente mafia”: polli squartati per
intimidire
Minacce e violenza per le strade di Roma, come funzionava il mondo di
mezzo
Fabrizio D’Esposito
La mafia dei Corleone, nella trilogia del Padrino, lasciava nel letto una testa mozzata di
cavallo, a mo’ di minaccia o di offerta che non si poteva rifiutare. Quella vera di Carminati
invece appendeva polli squartati ai cancelli di una villa. A onta del circoletto
pseudogarantista che ritiene un’enormità la qualifica di Mafia Capitale al sistema criminale
del Rosso (Buzzi) e del Nero (Carminati, of course), quasi fosse uno sfregio agli uomini
d’onore in terra siciliana, ci sono centinaia di pagine che gli investigatori hanno assemblato
per dimostrare il metodo violento e la capacità d’intimidazione del cupolone bipartisan che
regnava sulla Città Eterna.
“Mia moglie e mio figlio in perdurante stato d’ansia”
Il dettaglio del pollo squartato fa parte della drammatica testimonianza di un imprenditore
pieno di debiti, 250 mila euro circa, con la banda che gravita attorno al famoso distributore
di benzina di corso Francia, a Roma Nord. L’uomo si chiama Riccardo Manattini e
racconta: “Successivamente, circa un mese dopo, alle ore 14.30 circa, la mia compagna
Tatiana Sourmatch, residente presso la mia stessa abitazione, rientrando da scuola con i
nostri figli notava la presenza di un pollo squartato ed appeso al cancello d’ingresso della
mia villa. Sottolineo il fatto che la mia compagna ed i miei figli, che all’epoca avevano
rispettivamente sei ed otto anni, si spaventano a tal punto da sviluppare un profondo e
perdurante stato d’ansia, io in quel momento mi trovavo a Firenze per lavoro e venivo
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immediatamente avvertito dalla mia compagna. Intuendo che l’episodio potesse essere
riconducibile alla mano di Matteo Calvio e Giovanni Lacopo, contattavo immediatamente
Roberto Lacopo chiedendogli spiegazioni. Lo stesso Roberto negava il coinvolgimento in
tale episodio del padre Giovanni e di Matteo Calvio benché io non avessi problemi con
nessun altro”.
Arancia Meccanica nel rione Prati
I nomi che fa Manattini sono quelli del giro di usurai che fa capo al distributore di benzina
di rifornimento. Poi l’imprenditore descrive il ruolo di Carminati, incaricato di recuperare il
credito con la promessa di un premio di 40 mila euro, e l’“invito” a prendere un aperitivo in
piazza Cola di Rienzo, nel quartiere Prati, che si trasforma in un agguato. L’uomo viene
pestato: “Io chiedevo all’interlocutore di cosa si trattasse, ma l’uomo mi ribadiva l’invito a
recarmi per l’aperitivo, riferendomi di dover parlare di argomenti che potevano
interessarmi. Nonostante io non conoscessi l’uomo, mi recavo ugualmente in via Cola di
Rienzo a bordo della mia moto. Al mio arrivo e dopo aver parcheggiato venivo
immediatamente aggredito da un uomo alto circa uno e novanta che mi colpiva
ripetutamente sul volto facendomi rovinare a terra e successivamente continuava a
colpirmi con dei calci al costato”.
“Vieni a fa’ il malavitoso da me, mi faccio ‘na pippa”
Ma i dettagli più forti sullo spessore mafioso della banda li racconta lo stesso Buzzi in una
conversazione che gli stessi magistrati riportano integralmente per “meglio apprezzarne i
contenuti”. L’intercettazione è ambientale e il democratico Buzzi, che si vanta di essere un
uomo di sinistra, fa l’apologia dei valori criminali di Carminati, nome in codice Samurai,
dall’omertà alla violenza. Sul valore della prima, Buzzi fa l’esempio di Riccardo Mancini,
uomo di Alemanno arrestato per le tangenti sui bus: “Questa ve la dico, quando volevano
arrestare Mancini, no? Allora tutti dicevano che Mancini (ride)… C’ha andato a parlare un
attimo lui mi sa… (ridono) Mancini non ha parlato… l’ha educato… adesso vediamo,
anche perché se parli con i giudici non guadagni un cazzo! Tanto esci, sei mesi massimo
puoi sta’ dentro..”. Di qui la massima, nel senso di aforisma, ammirata da Buzzi: “Meglio
uscì dopo sei mesi con gli amici, che uscì dopo tre mesi con i nemici”. Sempre in questa
conversazione, l’eminenza rossa delle coop descrive un altro incontro in cui Carminati
esprime la sua fama. “A un certo punto questo va nero… ‘lo sai che c’è? fate come cazzo
vi pare allora…’, così si alza e se ne va… non l’avesse mai fatto! Intanto l’incontro era in
aperta campagna perché, se andava male, lo sotterrava lì… Che te alzi e fai il malavitoso
con me? Dice: ‘Proprio con me vieni a fare il malavitoso?’… ‘scusa scusa scusa’… m’avrei
fatta ‘na pippa comu… (ridono)…”. Quando la violenza rischia di provocare un orgasmo.
dell’11/06/15, pag. 4
“Falsi minori per una finta emergenza”
Falsa emergenza Nordafrica e falsi minori, l’unica cosa vera erano i soldi. Un abbozzo
della questione lo ha dato pochi giorni fa ai pm Salvatore Buzzi, il presidente dalla
cooperativa 29 Giugno arrestato lo scorso dicembre per Mafia Capitale: “Si presentavano
ai commissariati di polizia o ai comandi dei vigili urbani, dicevano ‘no, io sono minore, io
sono minore’, i vigili dovevano chiamare il quinto dipartimento del Comune di Roma, e il
quinto dipartimento prenderli in carico: il sindaco firmava la tutela e doveva metterli nei
centri di accoglienza”.
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Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2013, Roma ha accolto oltre un migliaio di minori stranieri
non accompagnati. Per Viviana Valastro, responsabile dell’area Minori migranti di Save
the Children, “nella maggior parte dei casi non erano minori e non provenivano dal
Nordafrica”. La messa in scena coinvolgerebbe nella storia di Mafia capitale il Policlinico
Umberto I e la polizia municipale di Roma. A stabilire che i migranti scortati dai vigili
avevano “circa 17 anni” sono stati i medici del pronto soccorso dell’ospedale universitario.
A quel punto non restava che smistarli attraverso la Sala operativa sociale del Comune di
Roma. La parte maggiore è andata alla Domus Caritatis, di Tiziano Zuccolo e Francesco
Ferrara, arrestati la scorsa settimana sempre nell’ambito di Mafia capitale per presunte
“collusioni consistite in accordi preventivi intesi a eliminare ogni forma di competizione”.
Tra le altre cooperative che risultano aver accolto nei loro centri i minori, la Eriches 29
giugno di Buzzi e la cooperativa Un Sorriso di Gabriella Errico, indagata.
Per stabilire l’età del migrante, secondo la procedura standard, deve essere effettuata una
radiografia del polso. Nei certificati medici visionati dalla Onlus si legge che la visita delle
persone scortate dai vigili durava meno di dieci minuti. “Impossibile che siano stati fatti
controlli abbastanza approfonditi, anche perché i pazienti risultavano già alla vista molto
più adulti” spiega Valastro.
Era il 2012 quando Save the Children, allarmata per le condizioni dei migranti, decise di
verificare direttamente: il risultato è un report che venne consegnato alla Procura.
Nonostante per ogni presunto minore il Comune abbia riconosciuto una retta di 70 euro al
giorno, quasi il doppio che per un maggiorenne, l’organizzazione racconta come nei centri
siano state ammassate fino a 10 persone in stanze che ne avrebbero potute ospitare la
metà, distribuite lenzuola sporche e fatti vivere nella promiscuità bambini e adulti nella
totale carenza di controlli. Il valore dei servizi, secondo Valastro, era nettamente inferiore.
Il Comune di Roma ha destinato fuori bilancio ai minori non accompagnati circa 25 milioni
di euro. La somma è stata ripartita in due debiti distinti, il primo del periodo di Alemanno e
il secondo dell’epoca Marino. Nonostante – come si apprende dall’ultima ordinanza di
Mafia capitale – il ministero dell’Economia a inizio 2014 abbia cominciato a sollevare
alcuni sospetti sulle somme elargite con la firma dell’allora direttore del dipartimento delle
politiche sociali – Angelo Scozzafava, arrestato – la nuova giunta non mancò di
confermare la spesa. Questa volta la garante è la nuova direttrice del dipartimento,
Isabella Cozza, non indagata, ma più volte nominata da Buzzi come persona di fiducia.
Secondo i Pm il contributo decisivo alla firma della delibera si deve al presidente Pd del
consiglio comunale, Mirko Coratti, e al suo segretario Franco Figurelli, quello a cui Buzzi
disse: “La mucca deve mangiare…” sottintendendo “per essere munta”.
L’Emergenza Nord Africa, reale, prese il via nel febbraio 2011 e venne inizialmente
affrontata tramite l’istituzione di strutture ponte dislocate in tutta Italia: il ministero delle
Politiche sociali però, fa sapere Save the Children, non ne aveva individuata nessuna nel
Lazio. Il Lazio non doveva essere coinvolto, ma da Lampedusa cominciarono ad arrivare
dei migranti e la Regione prima e il Comune di Roma poi si trovarono così costretti a
individuare dei centri, con criteri poco chiari, visto che secondo Save the Children “tra
queste, alcune avevano una precedente esperienza nel sociale, mentre altre non avevano
alcuna esperienza nel settore”. Su questi affidamenti diretti la Procura ha già accertato la
“trama corruttiva”, bisogna vedere fin dove si estendeva.
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dell’11/06/15, pag. 13
L’Anticorruzione corregge la Severino
“Cambiare 25 punti”
Cantone: “La vicenda di De Luca non c’entra non chiediamo interventi
sull’abuso d’ufficio”
LIANA MILELLA
ROMA . Raffaele Cantone giura che “il caso De Luca non c’entra”. Ma non appena
dall’Authority anti-corruzione che l’ex pm presiede da un anno, escono 23 pagine, che
contengono anche possibili modifiche al decreto Severino, tutti si chiedono se possano
aiutare Vincenzo De Luca, il neo eletto governatore della Campania. Eletto sì, ma con a
spada di Damocle della sospensione.
Prima di leggere cosa c’è nella delibera destinata a governo e Parlamento ecco cosa dice
Cantone: “Chi legge il documento ha la riprova che non c’entra niente con De Luca, ma
riguarda solo una razionalizzazione normativa”. Le agenzie però già titolano su De Luca e
il presidente insiste ancora: “Chi legge capisce chiaramente che il caso De Luca non
c’entra”.
Un dossier di difficile digeribilità per la materia, il rapporto tra due decreti, quello dell’ex
ministro Patroni Griffi (39/2013) su corruzione e pubblica amministrazione, è quello dell’ex
Guardasigilli Severino (235/2012) sulla candidabilità dei politici. Alla Camera sta per
scadere il termine per gli emendamenti al decreto Madia sulla Pa, quindi Cantone vuole
sfruttare l’occasione per proporre 25 modifiche.
Scrive l’Anac che i due decreti “vogliono impedire l’accesso o la permanenza in cariche
politiche o in incarichi amministrativi di persone che non hanno i necessari requisiti di
moralità e di imparzialità”. Questo fa dire all’avvocato Gianluigi Pellegrino, che in
Cassazione ha vinto la battaglia sulla ricorribilità al Tar, che “l’Anac, ove ce ne fosse
bisogno, ribadisce che De Luca non può accedere alla carica di presidente”. L’Anac scrive
ancora che “in materia di conseguenze di condanne non definitive la disciplina applicabile
dalla Patroni Griffi e dalla Severino è divergente per due aspetti, il regime dei reati rilevanti
ai fini dell’applicazione delle conseguenze per condanne non definitive e per l’inclusione o
meno del l’ipotesi del reato tentato”.
Fin qui niente che avvantaggi De Luca. Segue la constatazione che l’articolo 3 del decreto
Patroni Griffi gradua le sospensioni a seconda della gravità dei reati, 5 anni per quelli
gravi, il doppio della pena inflitta per i meno gravi. Mentre la Severino sospende “senza
alcuna distinzione sulla gravità dei reati” . Sono ben noti i 18 mesi di sospensione per De
Luca. E siamo alla frase clou: “Vista la comune ratio delle due normative sarebbe
opportuno che il legislatore provvedesse a una loro armonizzazione. Per modificare il
decreto Severino sarebbe necessaria una specifica delega”.
Questa ipotesi aiuta De Luca? Secondo fonti dell’Anac l’ipotesi non può essere letta come
un invito a cambiare la Severino in favore di De Luca perché “non parliamo di abuso di
ufficio, né di una modifica della sospensione. Chiediamo di equiparare i termini delle
sospensioni per i dirigenti pubblici e per i politici, in più e non certo in meno. Inoltre di
fronte c’è una strada lunga, perché sarebbe necessaria una legge delega. Almeno un
anno di lavoro”. Insomma, se le modifiche dovessero passare per De Luca potrebbe
andare peggio di oggi.
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dell’11/06/15, pag. 13
L’Anticorruzione corregge la Severino
“Cambiare 25 punti”
Cantone: “La vicenda di De Luca non c’entra non chiediamo interventi
sull’abuso d’ufficio”
LIANA MILELLA
ROMA . Raffaele Cantone giura che “il caso De Luca non c’entra”. Ma non appena
dall’Authority anti-corruzione che l’ex pm presiede da un anno, escono 23 pagine, che
contengono anche possibili modifiche al decreto Severino, tutti si chiedono se possano
aiutare Vincenzo De Luca, il neo eletto governatore della Campania. Eletto sì, ma con a
spada di Damocle della sospensione.
Prima di leggere cosa c’è nella delibera destinata a governo e Parlamento ecco cosa dice
Cantone: “Chi legge il documento ha la riprova che non c’entra niente con De Luca, ma
riguarda solo una razionalizzazione normativa”. Le agenzie però già titolano su De Luca e
il presidente insiste ancora: “Chi legge capisce chiaramente che il caso De Luca non
c’entra”.
Un dossier di difficile digeribilità per la materia, il rapporto tra due decreti, quello dell’ex
ministro Patroni Griffi (39/2013) su corruzione e pubblica amministrazione, è quello dell’ex
Guardasigilli Severino (235/2012) sulla candidabilità dei politici. Alla Camera sta per
scadere il termine per gli emendamenti al decreto Madia sulla Pa, quindi Cantone vuole
sfruttare l’occasione per proporre 25 modifiche.
Scrive l’Anac che i due decreti “vogliono impedire l’accesso o la permanenza in cariche
politiche o in incarichi amministrativi di persone che non hanno i necessari requisiti di
moralità e di imparzialità”. Questo fa dire all’avvocato Gianluigi Pellegrino, che in
Cassazione ha vinto la battaglia sulla ricorribilità al Tar, che “l’Anac, ove ce ne fosse
bisogno, ribadisce che De Luca non può accedere alla carica di presidente”. L’Anac scrive
ancora che “in materia di conseguenze di condanne non definitive la disciplina applicabile
dalla Patroni Griffi e dalla Severino è divergente per due aspetti, il regime dei reati rilevanti
ai fini dell’applicazione delle conseguenze per condanne non definitive e per l’inclusione o
meno del l’ipotesi del reato tentato”.
Fin qui niente che avvantaggi De Luca. Segue la constatazione che l’articolo 3 del decreto
Patroni Griffi gradua le sospensioni a seconda della gravità dei reati, 5 anni per quelli
gravi, il doppio della pena inflitta per i meno gravi. Mentre la Severino sospende “senza
alcuna distinzione sulla gravità dei reati” . Sono ben noti i 18 mesi di sospensione per De
Luca. E siamo alla frase clou: “Vista la comune ratio delle due normative sarebbe
opportuno che il legislatore provvedesse a una loro armonizzazione. Per modificare il
decreto Severino sarebbe necessaria una specifica delega”.
Questa ipotesi aiuta De Luca? Secondo fonti dell’Anac l’ipotesi non può essere letta come
un invito a cambiare la Severino in favore di De Luca perché “non parliamo di abuso di
ufficio, né di una modifica della sospensione. Chiediamo di equiparare i termini delle
sospensioni per i dirigenti pubblici e per i politici, in più e non certo in meno. Inoltre di
fronte c’è una strada lunga, perché sarebbe necessaria una legge delega. Almeno un
anno di lavoro”. Insomma, se le modifiche dovessero passare per De Luca potrebbe
andare peggio di oggi.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
dell’11/06/15, pag. 17
Migranti, scontro tra i vertici Ue
La Commissione contro il Consiglio: no al rinvio delle quote. Gentiloni:
rimandare è una sconfitta Maroni: i pullman al Nord una ritorsione.
Treviso, lite sui profughi in caserma. A Milano allarme scabbia
VLADIMIRO POLCHI
ROMA . Marcia indietro sulla ridistribuzione dei rifugiati in Europa. Il naufragio del 18 aprile
scorso nel Canale di Sicilia pare già dimenticato. La proposta della Commissione Ue
rischia di slittare. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, accusa: «Sarebbe un’enorme
sconfitta politica per l’Europa». Continua intanto il duello tra governatori del Nord e
Viminale: i pullman carichi di rifugiati continuano a partire da Sicilia e Calabria, ma
all’orizzonte si fa sempre più vicina l’apertura delle caserme dismesse (il ministero
dell’Interno ha un elenco di 38 strutture già disponibili).
Il rischio è che il piano della Commissione europea di ricollocazione dei rifugiati resti
lettera morta o comunque rallenti il suo iter. La prossima settimana, il Consiglio dei ministri
degli Interni discuterà a Lussemburgo dell’agenda proposta dalla Commissione, ma
secondo la presidenza lettone, non verrà presa nessuna decisione sul trasferimento di
40mila richiedenti asilo da Italia e Grecia. «Il tentativo dei Paesi baltici e della Polonia –
raccontano dal Viminale – è quello di rendere solo volontaria la ricollocazione dei migranti.
Anche Francia e Spagna hanno una posizione ambigua. La vera partita si giocherà al
Consiglio europeo del 25 giugno, lì dovrà passare la linea dell’obbligatorietà della
ripartizione». Dalla Commissione fanno sapere che se il piano non passerà si rischia
«l’inizio della fine dell’integrazione europea». E ancora: pure sulla distruzione dei barconi
utilizzati dai trafficanti, c’è una frenata: «Non possiamo agire al di fuori di un accordo con
l’Europa – avverte il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti – se oggi li distruggessimo
in acque internazionali andremmo in infrazione comunitaria ». Sul fronte interno, il
Viminale prosegue le operazioni di trasferimento dei rifugiati, per alleggerire il peso che
grava sulle regioni del Sud. E mentre Beppe Grillo chiede di «sospendere Schengen
almeno per qualche mese», non si allenta lo scontro con i governatori di Lombardia,
Liguria e Veneto. Quest’ultimo si scaglia contro l’utilizzo dell’ex caserma “Tommaso
Salsa”, aperta dalla prefettura di Treviso per poter ospitare i profughi: «Non è agibile –
dichiara Luca Zaia – e chi la tiene aperta si assume tutte le responsabilità. Il sindaco di
Treviso faccia un’ordinanza di sgombero». Intanto a Milano scatta un “allarme scabbia”. La
regione Lombardia ha dato via libera a un presidio sanitario nella stazione Centrale per
assistere gli immigrati. «In questi giorni – afferma l’assessore alla Salute, Mario Mantovani
– sono stati riscontrati numerosi casi di scabbia nei centri di accoglienza e, benché trattasi
di patologia non grave, vogliamo alzare il livello d’attenzione ».
Dell’11/06/2015, pag. 4
Migranti, l’appello alla Libia
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“Fermate la guerra interna”
A Berlino l’Italia con l’Onu e l’Ue: un governo unitario argina i profughi
Guido Ruotolo
È un giorno da archiviare presto. Commentando l’orientamento dei paesi europei di far
slittare la proposta della Commissione sulle quote di migranti condivise tra i paesi della
Comunità, per la prima volta il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, parla di «enorme
sconfitta politica per l’Europa».
Nelle stesse ore, a Berlino, la Ue, l’Onu e l’Italia hanno sottoscritto un (disperato) appello
ai leader libici perché trovino «un accordo politico che definisca un cessate il fuoco che
porti alla creazione di un governo unitario». Un appello che è un timbro notarile del
fallimento di nove mesi di negoziati condotti dal delegato speciale delle Nazioni Unite,
Bernardino Leon. Sconfortato, il premier Matteo Renzi si tira fuori dal «derby ideologico» in
corso tra quelli che sostengono «mandiamoli a casa» (riferendosi ai migranti). E gli altri
che sembrano dire «venghino c’è posto per tutti». Commenta Renzi: «Sono due estremi
inaccettabili».Sembra davvero una disputa da bar (o da stadio) il drammatico ed epocale
problema della accoglienza e del governo dei flussi migratori. Con il governatore della
Lombardia, Roberto Maroni, che accusa il governo di trasferire i migranti al Nord come
«atto di ritorsione». Milioni di esseri umani che scappano dalle guerre e dalla miseria sono
diventati protagonisti di dispute puerili. Come se non ci fosse nella scelta di trasferire nelle
regioni del nord quote di migranti una necessità di svuotare quelle regioni del sud che ne
stanno ospitando decine di migliaia.
Angelino Alfano, ministro dell’Interno, spiega appunto che si tratta di dover «colmare gli
squilibri della distribuzione di quote di profughi tra le diverse regioni».
Annebbiati dalle polemiche elettorali e ideologiche, dalle chiusure europee (Alfano è sulla
stessa lunghezza d’onda di Gentiloni quando dice «L’Europa o è solidale o non esiste»),
abbiamo fatto finta di non capire quello che stava accadendo in Libia, la causa della nostra
instabilità. Da mesi i temi all’attenzione dell’opinione pubblica sono diventati gli sbarchi, la
paura del terrorismo, l’insofferenza e la preoccupazione di dover convivere con «una
nuova Somalia a quattrocento chilometri da noi», per dirla con Marco Minniti, Autorità
nazionale per la sicurezza della Repubblica.
La Libia è per noi un problema di politica esterna e di sicurezza nazionale, se è vero che
nel mondo moderno anche i flussi migratori vengono vissuti e trattati come problema di
sicurezza nazionale. E in questi mesi dall’equidistanza nei fatti tra le parti, tra gli islamisti
di Tripoli e i lealisti di Tobruk, con la chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, anche noi
abbiamo guardato con più attenzione al mondo di Tobruk e a quelle realtà più moderate
dei due schieramenti. L’Italia non è stata colta alla sprovvista dall’epilogo del dialogo di
Bernardino Leon. Tre settimane fa, gli islamisti dell’Assemblea nazionale avevano
bocciato la bozza (la terza) Leon. L’ultima propone una «coabitazione» tra i lealisti e gli
islamisti che rischia di paralizzare la Libia, mentre i tagliagola dell’Isis continuano a
conquistare pezzi di territorio. Con il Ramadan dovrebbero uscire allo scoperto quelle
realtà della Libia che credono nel dialogo, nel superamento dei contrasti. Con le città di
Misurata e Zintan in testa, le milizie, le tribù. E l’Italia guarda a queste realtà.
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Dell’11/06/2015, pag. 1-23
Milano, la stazione ora sembra un campo
profughi
Denutriti, stanchi, malati, tanto da far temere epidemie. Troppi. I profughi che si rifugiano
nella Stazione Centrale di Milano sognano l’Europa del Nord. Si sistemano dove riescono,
anche una grata tra due colonne, nella storica Sala delle Carrozze, va bene. La polizia ne
ha svegliati 126 tutti in un mezzanino.
L’ultimo angolo trasformato in dormitorio è una «gabbia». Una grata davanti, una dietro, a
chiudere uno spazio tra le colonne di quella che ancora si chiama Galleria delle Carrozze:
l’ingresso alla stazione Centrale a Milano. Restano una mutanda da uomo rossa infilata tra
le «sbarre», una traccia di cartoni a terra, una lattina di coca-cola, una chiazza di liquido
indefinibile, un sacchetto annodato di plastica azzurra, pieno.
«Ne ho contati 88 che dormivano qui fuori — racconta Giorgio Ciconali —, poi la polizia è
passata a svegliarli. In 126 erano stesi nel mezzanino», che già da giorni era stipato di
uomini soprattutto, ma anche donne, e persino bambini. «Altri ancora vagolavano tra l’atrio
e il primo piano». Erano le otto del mattino, la stazione cominciava ad affollarsi di
pendolari, il direttore del Servizio igiene della Asl, Ciconali, era venuto a fare un
sopralluogo. Per trovare conferma a quello che aveva già intuito: son troppi, denutriti,
stanchi e a volte anche malati. Hanno bisogno di cura.
«Che fame!», esclama una volontaria, distribuendo biscotti. Due bimbette li masticano
mogie, in mezzo a tante giovani donne e altrettanti ragazzi. Un gruppetto di adolescenti
alle tre del pomeriggio tenta ancora di dormire sulle panchine, in un via vai di operatori
sociali, agenti della polfer, fotografi, passeggeri comuni, che sbucano dalle scale mobili coi
trolley sul piano ammezzato, guardandosi attorno stupiti. Da un lato e dall’altro,
vagamente separata dalle transenne, c’è una folla di siriani, qualche famiglia di recente
fuggita da Homs, ma soprattutto di eritrei, la grande maggioranza, che s’arrangiano tra la
Centrale e Porta Venezia, in attesa di ripartire. Su una parete qualcuno ha appeso
l’immagine di una madonna ortodossa.
Ferrovie e Grandi stazioni ormai non nascondono il disagio e fanno sapere di aver
proposto soluzioni, di avere dei «tavoli» aperti con il Comune e la prefettura. L’assessore
regionale alla Sanità, Mario Mantovani, vice del governatore Roberto Maroni che ha
minacciato di «tagliare i fondi» ai Comuni che accolgono profughi, arriva in stazione nel
pomeriggio con tutt’altro tono annunciando, «da subito, un presidio sanitario permanente»,
che finora mancava: «Siamo in una situazione che non riusciamo più né a controllare né a
sostenere». Il caldo, il sovraffollamento, le condizioni precarie, si scopre che dal primo
giugno si sono contati 108 casi di scabbia. «Stamattina abbiamo riscontrato anche casi di
malaria», continua Mantovani. E quello che non dice è che si è avuto il timore che fosse
ebola. Il presidente della Fondazione Progetto Arca, Alberto Sinigallia, che si è accollato
l’ingrato compito di gestire questi spazi, racconta che l’altra notte, all’una, un ragazzo ha
avuto una crisi epilettica; la notte prima ancora è stata una bambina ad aver avuto bisogno
dell’ambulanza. Nei suoi calcoli il numero dei migranti che hanno dormito qui, tra martedì e
ieri, è addirittura 350. Una cifra enorme, da campo profughi, non da stazione ferroviaria.
«Milano da sola non ce la fa — si sfoga l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco
Majorino — devono partecipare a questo sforzo anche altre città». E per l’ennesima volta
cerca di spiegare che queste persone qui tra i marmi della Centrale vogliono andare più a
Nord. «Ne abbiamo accolti 64 mila da ottobre del 2013 — calcola —, 10 mila dall’inizio
dell’anno. Ogni notte mettiamo a disposizione 800 posti letto. È una crisi che riguarda
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Bruxelles, ma siamo anche in un Paese che non ha un piano nazionale adeguato di
gestione dell’accoglienza. Soprattutto per queste persone in transito».
«Milano è la strada per andare in Europa», dichiara nitidamente un ragazzo eritreo. È da
tempo in viaggio dal Corno d’Africa, «sono rimasto un mese bloccato in Libia, mi hanno
picchiato e derubato». Finché è riuscito a imbarcarsi: soccorso dagli italiani, s’è ritrovato a
Taranto. Da lì, «ho preso il pullman». Lui, come gli altri, non è stato inviato qui dal
Viminale, non rientra nelle «quote» smistate al Nord. È arrivato da solo. Uno delle migliaia
di «spontanei» di cui parla Majorino, che sono solo di passaggio in Italia, fanno il possibile
per sfuggire al fotosegnalamento (per non essere rimandati indietro in base al
regolamento di Dublino) e cercano in stazione di riorganizzare il viaggio. «Sto aspettando i
soldi — continua — voglio andare in Olanda, ho dei parenti che sono già lì».
Alessandra Coppola
dell’11/06/15, pag. 7
Altro che emergenza, il piano migranti slitta
dopo l’estate
Solo nell’ultimo fine settimana accolti nei porti del Sud 6000 disperati
ma il consiglio europeo fa spallucce alla faccia del ministro Gentiloni
di Giampiero Gramaglia
Spalleggiata dalla Commissione europea, l’Italia cerca di mettere un argine al rinvio delle
decisioni dei 28 per una politica dell’immigrazione comune. Mentre circolano i dettagli delle
nuove proposte dell’Esecutivo comunitario, che vengono in soccorso di Italia, Grecia ed
eventualmente Malta, l’onda del rinvio rischia di rivelarsi inarrestabile. Nel palese calcolo
che – passata la bella stagione – le condizioni meteorologiche avverse attenuino da sole
l’emergenza, incoraggiando ulteriori rinvii. Eppure questi numeri dovrebbero far paura:
6mila arrivi di migranti solo nel fine settimana, 54mila da inizio anno in Italia. Da Bruxelles,
il ministro degli Esteri Gentiloni avverte che procrastinare la decisione del Consiglio dell’Ue
sulla politica dell’immigrazione “non sarebbe solo un problema per l’Italia, ma sarebbe
un’enorme sconfitta per l’Europa”. L’esecutivo di Bruxelles è sulla stessa linea:
l’emergenza “è ora” e l’azione europea non può essere rinviata. Eppure non sembra che
l’Italia, dal ministro Gentiloni al premier Renzi, abbiano il peso politico o trovato la chiave
giusta per far capire che l’emergenza è adesso.
A fronte delle migliaia di salvataggi di migranti nel Mediterraneo e di arrivi lungo le coste di
Italia e Grecia, “gli Stati devono assumersi le loro responsabilità”, fa dire il commissario
Avramopoulos, che lunedì era a Roma.
La prossima settimana, il Consiglio dei Ministri dell’Interno dei 28 discuterà a
Lussemburgo l’Agenda della Commissione rivista in base alle indicazioni dei capi di Stato
o di governo. Secondo la presidenza di turno lettone, però, non ci sarà decisione sulla
redistribuzione di 40 mila richiedenti asilo da Italia e Grecia agli altri Paesi. Èil punto più
controverso del pacchetto di proposte, che vede contrari o perplessi almeno una dozzina
di Paesi.
Pare dunque inevitabile che la questione finisca sui tavolo dei leader dei 28 al Vertice
europeo di fine giugno, il 25 e 26. Sul piano operativo, la Commissione propone di attivare
per la prima volta un meccanismo, previsto dal Trattato di Lisbona, “di risposta
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emergenziale”, in caso “di afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi” – proprio quanto
accade -. Se ci sarà l’ok dei Governi dei 28 e del Parlamento europeo, nei prossimi due
anni 40 mila cittadini eritrei e siriani bisognosi di protezione internazionale ed arrivati dopo
il 15 aprile 2015 verranno trasferiti dall’Italia (24mila) e dalla Grecia (16mila) in altri Paesi
Ue, ad eccezione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca, che possono chiamarsene fuori
disponendo della clausola dell’ ‘opting out’.
Il numero di richiedenti asilo trasferiti corrisponde al 40% delle domande d’asilo presentate
in Italia e in Grecia nel 2014. Le quote di distribuzione, invece, tengono cono del Pil, della
popolazione e del numero di disoccupati e di richiedenti asilo in ciascuno Stato. Se il
meccanismo sarà approvato, la Germania accoglierà il maggior numero di richiedenti asilo
redistribuiti (quasi 8800), la Francia ne prenderà quasi 6700 e la Spagna quasi 3300.
Verranno trasferiti per primi i soggetti vulnerabili e la solidarietà verrà in qualche misura
‘retribuita’: 6000 euro per ogni richiedente asilo accolto.
Italia e Grecia dovranno migliorare i sistemi d’asilo, d’accoglienza e di rimpatrio. Se non lo
faranno, il meccanismo di redistribuzione potrà essere sospeso. Il ‘resettlement’ dovrebbe
pure riguardare 20 mila assistiti dall’UnHcr, 2mila dei quali dovrebbero arrivare in Italia.
Questa parte del programma europeo, dotata di 50 milioni di euro, non sarebbe però
vincolante. L’Agenda della Commissione prevede, ancora, un rafforzamento di Triton,
nove milioni di euro ogni mese, lo spiegamento di 10 mezzi navali, 33 mezzi terrestri, 8
velivoli e 121 uomini, e l’estensione del limite territoriale che coinciderà con quello che
aveva Mare Nostrum. Le proposte sono integrate da un piano d’azione contro il traffico di
persone. Un pacchetto impegnativo, che, se anche fosse integralmente adottato e
immediatamente attuato, non basterebbe a risolvere la questione.
Il vice ministro agli Esteri Pistelli constata il ritardo dell’Unione nel comprendere il
problema e osserva: “Possiamo fare di tutto per affrontare l’emergenza, ma la dimensione
demografica del fenomeno è ineludibile: ci sono 232 milioni di migranti nel Mondo e noi in
Europa vediamo solo la coda dell’elefante”.
dell’11/06/15, pag. 17
Sulla nave che salva i profughi “Noi finanzieri
come in una guerra”
IL REPORTAGE
FRANCESCO VIVIANO
«Sirio 1 a Squalo 14, individuato target a 130 miglia a sud est di Lampedusa, non
sappiamo ancora se è un gommone o un barcone, dovrebbero esserci a bordo 100
persone, sono in difficoltà, potrebbero affondare». «Squalo 14 a Sirio 1, ricevuto, ci
dirigiamo sul bersaglio». In pochi minuti, poco dopo le 7 di ieri, Squalo 14, il nome in
codice del pattugliatore Puleo della Guardia di Finanza, molla gli ormeggi dal molo di
Lampedusa e si dirige di gran lena verso quel punto sperduto nel Canale di Sicilia a 30
miglia dalle coste libiche. Il comandante dell’unità navale, il maresciallo capo Enzo
Damiata, 52 anni, la faccia segnata dalle rughe di chi è in mare da oltre 30 anni, non ha
bisogno di dare ordini. I suoi dodici uomini sono già ai loro posti, alla radio, al timone, in
sala macchine, in plancia con i binocoli, diretti verso il target segnalato dalla sala operativa
della Guardia Costiera di Roma che continua a smistare altri sos ricevuti dai trafficanti di
esseri umani a tutte le altre imbarcazioni, militari e civili, italiane e straniere.
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Il mare sembra il teatro di una grande battaglia navale, ma non sono navi nemiche da
affondare che si cercano: sono gommoni, barconi stracolmi all’inverosimile di donne
incinte, neonati, bambini. Gommoni e barconi da agganciare per non farli affondare, vite
da salvare, migliaia di esseri umani fuggiti dalla Siria, dal Centro Africa e poi dalle prigioni
libiche gestite dai trafficanti di esseri umani che sperano di arrivare, vivi, in Italia. E mano a
mano che il Puleo guadagna miglia su miglia, in mare s’incrocia di tutto: delfini che
giocano sulle onde provocate dal pattugliatore, tartarughe giganti, rimorchiatori, navi
mercantili e militari, pattugliatori inglesi, irlandesi, tedeschi che cercano di agganciare
gommoni e barconi per non farli affondare. Incrociamo anche gommoni degli Incursori
della nostra Marina. Si viaggia a una media di 27 miglia all’ ora, il mare per fortuna è
calmo, poco meno di forza 2, e dopo 4 ore di navigazione dal ponte del pattugliatore Puleo
il vice brigadiere Giuseppe Casuccio, promosso per aver partecipato nel 2011 a un
naufragio salvando centinaia di persone, segnala al comandante due imbarcazioni. Sono
pescherecci tunisini ma si decide di passargli accanto per controllare se sono “puliti”, poi si
prosegue verso quel barcone che sta per affondare.
Alle 14.15 s’intravedono le fiamme che spuntano dai fumaioli di due piattaforme
petrolifere, a poche miglia di distanza un grande rimorchiatore d’appoggio alle piattaforme
stesse che, come una chioccia, protegge dalle onde del mare quel pulcino che è un
barcone di circa 15 metri di colore bianco e blu. Il pulcino galleggia a pelo d’acqua
stracarico di donne, bambini, uomini che cominciano a gridare, ad agitarsi alla vista del
pattugliatore. È quello il momento più difficile della missione. Via radio, Squalo 14 chiede
alla centrale se può cominciare l’abbordaggio. Passano minuti infiniti, dal barcone fanno
segno che a bordo ci sono donne incinte e bambini sfiniti dal freddo della notte e dal sole
cocente del giorno. A bordo sono tutti pronti, tutti quei marinai della Finanza ai loro posti, ci
avviciniamo lentamente verso il barcone che comincia a ondeggiare. «Sit down», gridano i
marinai, ma sul barcone c’è molta agitazione. Qualcuno che indossa un salvagente
minaccia di buttarsi in mare, donne e bambini piangono e urlano. Dopo qualche minuto
due grosse cime vengono buttate verso il barcone che viene agganciato. Sembrano in
cento. Ma non è così. Dalle stive cominciano a uscire come topi in gabbia decine e decine
di uomini. Si spogliano, non hanno neanche la forza di chiedere aiuto. Si scoprirà alla fine
che erano in 282. Tutti vogliono salire per primi, ma il comandante Enzo Damiata è
inflessibile. «Prima le donne incinte e i bambini, poi tutti gli altri ». I finanzieri gridano per
farli stare calmi, ma non è facile, poi improvvisamente qualcuno sul barcone innesta
accidentalmente la marcia in avanti. Le cime stanno per strapparsi, il barcone sta per
capovolgersi, si teme che finiscano tutti in mare, un giovane di colore si lancia verso la
scaletta del Puleo e miracolosamente riesce ad aggrapparsi rischiando di essere
schiacciato tra le due imbarcazioni o macinato dalle eliche. I soccorritori recuperano il
barcone, un finanziere sale a bordo e inizia a trasbordare uno dopo l’altro bambini che
cominciano a piangere e donne incinte. Minuti terribili che sembrano non finire mai.
A bordo non c’è posto per tutti e il Puleo aspetta che arrivino altri pattugliatori:
spunteranno dopo qualche ora, sono motovedette della Guardia Costiera e un altro
pattugliatore della Finanza. Sono tutti sani e salvi e in piena notte si ritorna a Lampedusa
mentre gli incursori dalla Marina affondano il barcone per non farlo riutilizzare ai trafficanti
avvoltoi che si aggirano da queste parti.
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Dell’11/06/2015, pag. 9
Sindaci renziani si allineano a Salvini,
«Abbiamo già dato»
L’ultima «ondata» di 630 profughi ha rotto gli argini. Anche i sindaci Pd si allineano al
governatore Luca Zaia che pretende dal prefetto Domenico Cuttaia un vertice urgente «in
relazione allo straordinario afflusso di cittadini stranieri».
Sintonizzati con il leghista sulle barricate due «renziani Doc». Achille Variati, sindaco di
Vicenza, sbotta come sempre: «Siamo disposti a dare una mano, ma non a queste condizioni. È il metodo che contesto. Di questi stranieri non sappiamo nulla. Dei 46 inviati nel
2011, solo dieci hanno ottenuto lo status di profughi. Gli altri che fine hanno fatto? Molti
finiscono nel giro dello spaccio». E il boy scout Giovanni Manildo resta a Treviso disertando il summit dei prefetti: «Nessuna polemica, ma la politica dell’accoglienza va ripensata. I Comuni da soli non possono farcela». Intanto Felice Casson, candidato sindaco
che domenica va al ballottaggio, boccia il ministro Alfano: «Il Comune di Venezia ha già
dato, e molto. Metà dei richiedenti asilo e rifugiati della provincia è domiciliato qui».
Del resto, già il 17 aprile il sindaco Pd di Vigodarzere (Padova) Francesco Vezzaro aveva
annunciato le dimissioni per protesta nei confronti del prefetto Patrizia Impresa che voleva
la caserma dismessa come centro d’accoglienza. E in piena campagna elettorale Alessandra Moretti aveva suggerito ai pensionati veneti di «adottare» un profugo che fa incassare
35 euro al giorno.
In Veneto si soffia sul fuoco nell’inerzia gestionale che rischia di alimentare la polveriera
xenofoba. Nel cuore del parco naturale dei Colli Euganei nel Padovano, lunedì «caccia
notturna» ad una dozzina di eritrei da parte di carabinieri, coop Ecofficina e «volontari» di
Fratelli d’Italia. Scesi dal bus, invece di entrare nell’alloggio messo a disposizione da un
imprenditore a Torreglia Alta, i migranti hanno cercato di raggiungere la stazione ferroviaria di Terme Euganee. E ci hanno provato di nuovo, perché puntano alla Germania (via
Milano Centrale). A Montebelluna (Treviso) il gruppo di 27 nigeriani arrivati da Crotone ha
trascorso l’intera giornata nel piazzale di via Risorgimento. La protezione civile si è preoccupata dell’acqua e dei panini, ma ormai nell’intera provincia i centri di accoglienza sono
più che colmi. Di qui il «blitz» del prefetto Maria Augusta Marrosu che ha requisito l’ex
caserma Salsa dove gli ospiti sono «protetti» dal cancello rosso chiuso con catena e lucchetto. Immediata mobilitazione dei leghisti: «Alzeremo le barricate». E Zaia fa scattare
l’ispezione dell’Usl: «L’ex caserma non rispetta gli standard regionali di accoglienza».
Per fortuna, c’è anche chi reagisce con umanità. Antonio Silvio Calò, professore di filosofia
al liceo classico di Treviso e direttore dell’associazione Maritain, ha semplicemente aperto
le porte di casa e della famiglia a sei ragazzi di Nigeria e Gambia. «Ci stringiamo un po’
e diamo una mano. Sembra un paradosso: questo è un bellissimo innesto per l’Europa. La
paura è un segnale bruttissimo. Serve prima di tutto buon senso e unire le forze» spiega
tranquillo e sereno. Incassa una raffica di insulti in rete e anche la stima ben oltre il mondo
cattolico. Ma ogni giorno rischia di avere una fiammata d’emergenza. Sono annunciati altri
arrivi: 380 migranti in partenza da Siracusa, Catania, Vibo Valentia e Messina.
In Veneto la partita dell’accoglienza nel 2015 prevede 31 milioni 523 mila euro (al netto
dell’Iva) per gli attesi 4.123 richiedenti asilo. Sono le statistiche dei bandi delle prefetture: il
primo, a Padova, risale al 2 marzo; Venezia prevede una spesa di 6,7 milioni per 783 profughi; ieri scadeva il bando di Rovigo (1,6 milioni per 300 migranti stimati). Così nelle altre
province: Belluno conta di ospitare 175 richiedenti asilo (1,3 milioni); Vicenza 795 (6,8
milioni); Treviso 740 (5 milioni); Verona 1.080 (8 milioni).
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dell’11/06/15, pag. 14
Altolà di Cameron ai lavoratori stranieri
Meno visti e più tasse
Il premier in Parlamento spiega la battaglia con la Ue Il salario minimo
conveniente solo con i britannici
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. . Non ci sono soltanto gli idraulici polacchi nel mirino di David Cameron. Anzi, ci
sono soprattutto gli altri: gli immigrati extra-comunitari. Nel suo discorso settimanale di ieri
in Parlamento, il primo ministro britannico ha annunciato infatti nuove misure per ridurre il
flusso di lavoratori stranieri che emigrano nel Regno Unito da paesi al di fuori dell’Unione
Europea. Come è noto, Cameron conduce da anni una battaglia per limitare
l’immigrazione dalla Ue, di cui l’idraulico polacco è diventato una figura simbolo, ma si è
reso conto di non poter fare molto perché le leggi dell’Unione garantiscano libertà di
movimento all’interno di tutti i 28 paesi membri, dunque ognuno può risiedere e lavorare
dove vuole.
Perciò ultimamente il premier conservatore ha modificato il suo approccio, concentrandosi
su limitazioni da porre ai benefici assistenziali degli immigrati Ue, per esempio
concedendoli in determinate circostanze solo dopo che un lavoratore è impiegato da
quattro anni in Gran Bretagna, anziché tentare di imporre un tetto numerico agli ingressi di
immigrati europei che andrebbe contro tutte le norme comunitarie. Dunque sembra che
sarà sui benefici, e non su una “quota” ristretta di immigrati, la battaglia che Cameron
condurrà con le autorità di Bruxelles (il primo round sarà al Consiglio europeo di fine
mese) e con le altre capitali dell’Unione in vista del referendum sull’appartenenza della
Gran Bretagna alla Ue che ha promesso di fare entro il 2017.
Ma con gli immigrati extra- Ue il leader britannico avrebbe in teoria più libertà di azione.
Così, parlando ieri alla camera dei Comuni, Cameron ha detto che intende ridurre
“significativamente” l’immigrazione dal di fuori dell’Unione Europea. «In passato è stato
francamente troppo facile per certe aziende britanniche importare lavoratori dall’estero, da
fuori dell’Europa», ha affermato il primo ministro. «Abbiamo bisogno di cambiare le cose
su questo punto». Così ha annunciato che il ministro degli Interni ha chiesto a un comitato
consulente sull’immigrazione di studiare misure per ridurre l’immigrazione extracomunitaria. Fra le possibili proposte da considerare, ha aggiunto, potrebbe esserci quella
di restringere i visti soltanto a lavoratori altamente qualificati e in settori dell’economia
dove ci sia una carenza di lavoratori. Il governo intenderebbe inoltre valutare la possibilità
di una tassa alle aziende che assumono lavoratori extra-Ue, così come imporre alle
aziende di aumentare il salario minimo per assumere lavoratori stranieri, in modo che
risulti meno conveniente rispetto all’assunzione di lavoratori britannici.
L’Institute for Directors, una lobby al servizio delle imprese, commenta che simili
provvedimenti costituirebbero una sorta di “imposta sui lavoratori stranieri” e ha
sottolineato che l’economia britannica dipende largamente dalla presenza di una mano
d’opera qualificata proveniente dall’estero. Downing street replica chel’immigrazione,
comunitaria ed extracomunitaria, supera le 300 mila persone l’anno e avanti di questo
passo fra vent’anni la Gran Bretagna avrà più abitanti della Germania.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Dell’11/06/2015, pag. 13
Unioni gay: sì al testo pd. Maggioranza divisa
Al voto contrario di Ap si aggiungono alcuni cattolici dem. La mozione
impegna il governo su una legge Bocciata la richiesta di cancellare la
circolare anti-matrimoni di Alfano. Vendola e M5S: «Medioevo»
ROMA Il giorno dopo il riconoscimento delle famiglie gay da parte del Parlamento
europeo, qualcosa si muove anche in Italia. La Camera, infatti, approva la mozione del
Partito democratico che impegna il governo a intervenire «per favorire l’approvazione di
una legge sulle unioni civili, con particolare riguardo alla condizione delle persone dello
stesso sesso». Legge che, peraltro, ha già avviato il suo iter al Senato. La mozione passa
con 204 voti favorevoli, 83 contrari e 98 astenuti. Tra i sì del Pd ne mancano un paio di
esponenti cattolici. Il sì spacca la maggioranza, visto che il Nuovo centrodestra vota
contro, ma gli equilibri sulla materia si troveranno anche fuori dalla maggioranza di
governo. La mozione del Pd è l’unica approvata, tra le tante presentate. Sel puntava
all’abolizione totale della circolare del ministro dell’Interno Angelino Alfano, con la quale si
impedisce la trascrizione delle nozze gay celebrate all’estero nei registri dello Stato civile
dei Comuni. Sul fronte opposto, la Lega Nord, che sosteneva la non ricevibilità per gli uffici
dell’anagrafe italiana dei matrimoni contratti all’estero. Bocciate entrambe le mozioni, così
come le altre. Il testo del Pd parte dalla consapevolezza che in Italia sia «necessaria
l’approvazione di una disciplina legislativa organica delle unioni civili, che sia in grado di
superare l’attuale fase di incertezza e di penalizzazione in cui versano rispettivamente le
coppie omosessuali che chiedono la registrazione in Italia del matrimonio che hanno
contratto all’estero e quelle che non hanno i mezzi per fruire di questa possibilità». Da qui,
la richiesta di un impegno a un trattamento «omogeneo» per quanto riguarda la
trascrizione nelle anagrafi dei comuni italiani delle nozze gay celebrate all’estero. E la
richiesta, da parte del Pd al governo, di un impegno più chiaro sulle unioni civili. Sul testo
unificato è in corso un confronto in Senato e il Pd cerca il consenso anche di Forza Italia,
che ieri ha ritirato all’ultimo momento la sua mozione.
Quella dei democratici viene attaccata da fronti contrapposti. Da chi la considera un
inaccettabile cedimento sulla strada del riconoscimento dei diritti civili e da chi la considera
un’apertura troppo cauta. Tra i primi, oltre ai leghisti, c’è Eugenia Roccella, parlamentare
di Area popolare: «La mozione del Pd è una forzatura». Paola Binetti, deputata di Area
popolare, annuncia che il 20 sarà in piazza «per una grande manifestazione in difesa delle
famiglie». Ma qualche malumore si registra anche all’interno del Pd. La stragrande
maggioranza del gruppo vota a favore, ma non manca qualche dissenso. Come quello di
Franco Monaco: «Ho votato no perché il gruppo non ne ha discusso. E poi la Cassazione
ha stabilito che la materia va disciplinata per legge e i Comuni non hanno titolo per
iscrivere i matrimoni contratti all’estero». La dem Micaela Campana, relatrice, sostiene il
provvedimento: «La mozione invita a colmare un vuoto normativo e a raccogliere il
segnale simbolico dei sindaci. Il punto è non fare un passo indietro, proprio ora che ne
stiamo facendo uno in avanti al Senato». Ettore Rosato commenta positivamente il voto
dei democratici: «Ho visto solo un paio di no tra i nostri. Ma è materia che riguarda la
libertà di coscienza. E viste le divisioni alle quali siamo abituati c’è da essere più che
soddisfatti del comportamento del gruppo».
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In sintonia tra loro i commenti del Movimento 5 Stelle e di Sinistra e Libertà. La bocciatura
delle altre mozioni, per il gruppo grillino alla Camera, «serve a difendere l’indifendibile
Alfano». Nichi Vendola conferma la tesi: «Il Pd, per mantenere intatta l’alleanza con
Alfano, che è il rappresentante politico delle sentinelle dell’area più oscurantista e neo
clericale della società italiana, non tutela i sindaci».
Alessandro Trocino
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Dell’11/06/2015, pag. 1-15
Lo scandalo costituzionale, quattro anni di
acqua negata
Riccardo Petrella
Gentile Signor Presidente On. Sergio Mattarella, il 12 e13 giugno del 2011, 27 milioni di
cittadini hanno detto chiaramente e con immenso entusiasmo (la democrazia può essere
felice), «no al profitto con l’acqua potabile», abrogando la norma che stabiliva la
determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, contro la remunerazione del capitale investito dal gestore.Gli italiani hanno coerentemente escluso che l’accesso al diritto
umano all’acqua potabile e per l’igiene, riconosciuto come tale dalla risoluzione del 28
luglio 2010 dell’Assemblea Generale dell’Onu, fosse fonte di lucro. E’ vero che i gruppi
sociali dominanti del mondo del business e della politica sono riusciti a ridurre l’acqua per
la vita ad una merce, ma gli italiani hanno rotto la tendenza e sono sempre più numerose
le città in tutto il mondo che ripubblicizzano i servizi idrici o resistono alla mercificazione
della vita.E milioni di cittadini hanno detto «sì all’acqua pubblica», abrogando la norma che
consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a soggetti scelti consentendo la gestione “in house” solo ove ricorrevano situazioni del tutto
eccezionali, che non permettevano un efficace ed utile ricorso al mercato.Gli italiani
hanno, invece, affermato il diritto all’esistenza della gestione pubblica dei servizi pubblici
locali (non solo, quindi dell’acqua) e non a titolo eccezionale. Nel contesto del referendum
e del dibattito pluridecennale sull’acqua, l’opzione per la molteplicità delle forme di
gestione è stata una chiara e possente affermazione della scelta degli italiani in favore
della gestione pubblica. Ebbene, sono passati quattro anni interi, e gli esiti dei due referendum sono rimasti totalmente disattesi da parte delle istituzioni pubbliche dello Stato,
governo e parlamento compresi, e di tutta la classe politica, economica e sociale al potere.
Non solo essi sono stati ignorati ma i poteri dirigenti non hanno fatto altro nel corso di questi quattro anni che cercare di adottare misure miranti a svuotare di senso e annullare de
facto i risultati dei referendum. A nulla sono valse le proteste, le manifestazioni, le petizioni
degli italiani, le pressioni sul parlamento allo scopo di mettere fine allo scandalo
dell’illegittimità costituzionale nella quale si trovano le istituzioni pubbliche dello Stato
a causa del loro rifiuto di rispettare i risultati dei referendum. Anche il Suo predecessore,
garante della Costituzione, non ha mai pronunciato una parola, non dico di sdegno, ma di
semplice monito rivolto alle istituzioni dello Stato affinché rispettassero e facessero rispettare le regole fissate dalla Costituzione.
Gentile Signor Presidente,
oggi il compito di far rispettare la Costituzione incombe alla Sua persona. Tocca a Lei
essere il garante della Costituzione italiana, considerata come una delle più belle costituzioni al mondo, ma sempre di più stracciata, violata, rottamata. La prego, non lasci impunito ancora altri giorni, settimane e mesi il furto della nostra Costituzione rappresentato dal
non rispetto della volontà di 27 milioni di Italiani. Non lasci rafforzarsi nell’animo degli italiani la disillusione democratica e la sfiducia nelle istituzioni dello Stato: a che serve la
democrazia se poi quando votiamo lo Stato ed i dirigenti stessi non rispettano la volontà
dei cittadini? Non lasci svanire la bella e ricca coscienza di 27 milioni di persone che
hanno espresso con forza che il diritto umano alla vita prevale sulle presunte esigenze
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tecnico-finanziarie. Non lasci riaffermare che il dominio del denaro e gli interessi dei gruppi
privati e/o dei poteri pubblici corrotti sia legge nel nostro Paese. Il 12 e 13 giugno 2011 27
milioni di Italiani hanno votato per il diritto della ed alla vita. Hanno creduto che l’acqua
è UN BENE COMUNE essenziale ed insostituibile per la vita, hanno creduto nella responsabilità pubblica collettiva per garantire l’eguaglianza degli esseri umani rispetto al diritto
alla vita. Hanno creduto nell’acqua come una delle fonti più belle e ricche del vivere
insieme, hanno creduto di più nella gioia del vivere che nell’arricchimento da profitto,
hanno dimostrato fiducia nei Comuni e nelle istituzioni pubbliche, hanno creduto in un
futuro per tutti. I referendum sull’acqua sono stati la primavera italiana. Un Suo intervento
ridarebbe luce e speranza alla “primavera”.
Un grande grazie, con grande rispetto e fiducia.
PS. Ho osato scriverLe da solo, apertamente. Mi perdoni per l’audacia. Essendo da più di
venti anni impegnato attivamente in Italia ed altrove per l’acqua bene comune, l’acqua
pubblica, il diritto universale all’acqua e la partecipazione dei cittadini al governo dei servizi
pubblici locali, ho la pretesa di pensare che quanto esposto sia condiviso.
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INFORMAZIONE
dell’11/06/15, pag. 33
Media. Il ceo Pier Silvio Berlusconi lancia la sfida a Murdoch: «È il
nemico da battere»
Mediaset, scontro con Sky No alla fusione
con Premium
«Con Vivendi buoni rapporti ma non cediamo la pay tv»
portofino (ge)
Al bando il fair play. Quello che una volta al massimo era “il principale concorrente sulla tv
satellitare”, nella splendida cornice dell’Abbazia della Cervara, fra Santa Margherita Ligure
e Portofino, assume nome e cognome pronunciati a ogni piè sospinto. Durante la
presentazione della nuova offerta di Mediaset Premium , i vertici del gruppo di Cologno, a
partire dal vicepresidente e ad Pier Silvio Berlusconi, hanno identificato in Sky «il nemico
da battere» e al quale sottrarre abbonati facendo leva su contenuti in esclusiva - a partire
dalla Champions League per le prossime tre stagioni - e su nuove tecnologie (si veda altro
articolo a pagina 19).
Niente possibile integrazione o fusione quindi. «A oggi è una questione che non esiste.
Con Sky non c’è nessuna trattativa aperta», precisa il secondogenito dell’ex premier
sgomberando il campo anche dall’idea di una possibile rivalità soft dopo i recenti incontri di
Arcore: «Con Sky, ahimè, non c’è mai stata una tregua armata, ma una concorrenza
spietata». Strizzatina d’occhio invece, ma con precisazione, a Vivendi: «Ci siamo incontrati
più volte per parlare di possibili collaborazioni. Ma su Premium vale lo stesso che per Sky:
se non siamo venditori con Sky non lo siamo neanche con Vivendi».
Lo scontro con Sky è stato comunque il comune denominatore della serata di
presentazione della nuova offerta di Mediaset Premium. Un’offerta che dal 2016 potrebbe
arrivare anche sul satellite visto che Mediaset, ha spiegato il vicepresidente e
amministratore delegato Pier Silvio Berlusconi, sta lavorando a un nuovo decoder che
«potrà ricevere digitale terrestre, banda larga e satellite. E sarà pronto nel 2016».
Al di là di questo però, c’è una domanda alla quale è difficile sfuggire: è possibile in un
contesto come quello attuale prevedere l’esistenza di due operatori di pay tv? «Se il
mercato tornerà a crescere, lo spazio per due operatori si può trovare. Il mercato italiano è
piccolo, noi oggi sentiamo che dobbiamo combattere». E sfidarsi a singolar tenzone, per
Mediaset significa nessuna trattativa con Sky, neanche su quella Champions League
costata poco meno di 700 milioni di euro per i tre anni, ma considerata la vera chiave di
volta. Anche su questo punto Pier Silvio Berlusconi non gira attorno alle parole: «Non
abbiamo mai minimamente pensato di cedere i diritti. Del resto, la guerra sui contenuti
pregiati è all’ultimo sangue: quando vai in guerra, devi combattere».
In questo quadro, chiusa la porta Sky e pur non vedendo «Netflix come un nostro diretto
concorrente visto che il nostro core business è la tv free» occorrerà capire se il gruppo di
Cologno sarà veramente intenzionato a proseguire su una strada stand-alone quando
dall’altra parte la convergenza fra tv e tlc sta creando grandi opportunità. «Pensiamo chee
rimanere indipendenti sia una buona strada perché siamo convinti della forza dei nostri
contenuti. Detto questo le compagnie telefoniche continuano a cercarci. Quindi non
escludo che a breve possano esserci degli accordi commerciali».
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L’attenzione si sposta così sull’altro versante, che da Vivendi potrebbe portare a Telecom,
di cui Vivendi diventerà primo azionista dopo metà giugno. «Gli ambiti di possibile
collaborazione con Vivendi - spiega l’ad del gruppo di Cologno - sono vari». Vivendi,
aggiunge, «si trova ad avere un business maturo e tantissima cassa: ha necessità di
trovare nuove strade di sviluppo puntando sui contenuti. E noi sui contenuti abbiamo una
certa forza». La strada comunque resta «l’apertura a partner di tipo industriale», da
affiancare a Telefonica (socia all’11,1% in Premium). Per quanto riguarda Telecom invece,
Pier Silvio Berlusconi non ha dubbi: «Mediaset-Telecom poteva essere una grande
opportunità, ma il momento è passato».
Il titolo intanto ieri è salito (+2,24%), spinto anche dalle valutazioni sul mercato
pubblicitario. «Maggio si è chiuso con un segno più e giugno avrà un più importante», ha
spiegato l’amministratore delegato di Publitalia Stefano Sala aggiungendo che «il secondo
trimestre sarà migliore del primo». Intanto i dati Nielsen (-3,3% ad aprile e -2,3% nel primo
quatrimestre per il mercato degli investimenti pubblicitari in Italia) per Mediaset hanno
segnalato un quadrimestre in calo del 2,7% a 703,7 milioni. Nel solo mese d’aprile il calo
annuo è stato del 5,8 per cento. Per Sky -4% il quadrimestre e stabile nel solo aprile; per
la Rai -4,1% il quadrimestre e +0,1% ad aprile.
Andrea Biondi
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Dell’11/06/2015, pag. 6
Giannini: sulla scuola, avanti a tutti i costi
Ddl Scuola. La rediviva ministra dell’Istruzione esclude mediazioni e
rilancia il ricatto sui precari. Il movimento contro la riforma di Renzi e
del Pd tiene duro: anche ieri l’adesione allo sciopero degli scrutini è
stata massiccia in tutto il paese
Roberto Ciccarelli
I pompieri sono entrati in azione dopo il passo falso del Ddl scuola in commissione Affari
Costituzionali in Senato. Una rediviva ministra dell’Istruzione Stefania Giannini ha interpretato il comune sentire dei renziani, categoria alla quale va ascritta dopo essere confluita
nel Pd grazie ad una scissione dalla moribonda scelta civica montiana. Il voto determinante di Mario Mauro (Gal) sull’«incostituzionalità» della «Buona Scuola» è «stata una
distrazione, assolutamente innocente da parte dei colleghi senatori». Dopo un’assenza
dalla pubblica scena di qualche giorno, Giannini ha ribadito un solo concetto: la riforma va
avanti ad ogni costo. Sorvolando sui «15 giorni» di consultazione nel Pd sulla scuola promessi da Renzi ha affermato «che i tempi devono essere strettissimi» e «l’approvazione
sarà sicuramente rapida» perché devono essere assunti 100.701 precari. Torna a farsi
sentire il ricatto posto all’inizio della brancaleonesca impresa sulla scuola: se il parlamento
non vota la riforma sarà responsabile del precariato dei docenti. Tesi confermata dal sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi (Ncd): «Per chiudere in tempo occorre fare
le corse». A rassicurare un governo disorientato per la mancanza di numeri al Senato,
è giunta la rassicurazione di «Area popolare» (Ncd+Udc) che ha escluso l’esistenza di
«fronde» sul Ddl Scuola. Dunque, si va avanti, anche se la riforma al Senato è slittata
ancora. Dopo due rinvii il parere della commissione Bilancio dovrebbe arrivare oggi, mentre lunedì prossimo si dovrebbe iniziare a votare in commissione Istruzione dove la maggioranza è in bilico per il ruolo dei centristi di Gal e il dissenso dei Dem critici Mineo
e Tocci. Si va avanti a tentoni, e con il pallottoliere. Sotto silenzio è passata, al momento,
la proposta delle minoranze Pd su un referendum tra gli iscritti al partito sulla riforma della
Scuola. Un’ipotesi che potrebbe riempire di contenuti politici i 15 giorni di riflessione
annunciati da Renzi, ma che presenta alcuni limiti. Non è affatto detto che Renzi l’appoggi,
potrebbe trovarsi in casa un esito sorprendente. E non è detto che piaccia al possente
movimento di opposizione cresciuto tra i sindacati e i docenti che eccede largamente il
perimetro asfittico del Pd. Un doppio limite politico che cerca di conciliare l’estraneità di
Renzi rispetto alla società in movimento e i sindacati e la necessità delle minoranze di
riconquistare un ruolo dentro il partito, parlando all’esterno. La dichiarazione della ministra
Giannini andrebbe intesa come una liquidazione di questa ipotesi.
Nei fatti è stata liquidata anche quella dello stralcio delle assunzioni dei precari dal Ddl,
altra richiesta della minoranza Pd che chiede di «esaminare con più calma, ma comunque
entro l’estate, il resto della legge». «Affinchè non sembri — ha detto Corradino Mineo —
che la stabilizzazione dei precari sia moneta di scambio o strumento di pressione». Invece
lo è, eccome. Quanto alla richiesta di allargare la platea dei docenti assunti, è stata
esclusa da Francesca Puglisi (Pd): le risorse stanno scritte nella legge di stabilità che non
si può o cambiare. Si farà finta di avere cambiato la contestata norma sul «preside manager» introducendo l’incarico a tempo: dopo sei anni dovrà cambiare scuola. Singolare la
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spiegazione per mantenere i poteri di chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi. Per
Puglisi servono per migliorare «i livelli di apprendimento e combattere la dispersione scolastica». Oltre al potere manageriale, gli viene dunque attribuito anche quello di pastore
delle anime. Sul fronte dello sciopero degli scrutini. L’adesione si conferma massiccia
anche in Puglia, Sicilia e trentino, sostiene l’Anief. L’Usb scuola segnala che a Palermo
sono stati bloccati gli scrutini nell’80% delle scuole. «Promuoveremo un referendum abrogativo se il testo del Ddl non cambierà — sostiene Rino Di Meglio (Gilda) –e ci rivolgeremo
alla Corte Costituzionale». La paradossale indecisione frettolosa del governo in estate porterà il conflitto nelle scuole in autunno.
dell’11/06/15, pag. 7
Scuola-lavoro, a 15 anni in azienda
Si allenta la stretta sulle collaborazioni - Mansioni più flessibili,
semplificata la somministrazione
ROMA
Dal 1° gennaio 2016 si applicherà la disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di
collaborazione che si concretizzano in prestazioni «esclusivamente personali»,
«continuative» e «organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di
lavoro». Si ampliano le eccezioni (in particolare se ci sono accordi collettivi o il lavoratore è
iscritto ad un albo professionale), e si alza uno “scudo” anche se il rapporto di
collaborazione viene “certificato” nelle sedi previste per legge. Si conferma il limite del
20% di utilizzo del contratto a termine, ma se l’azienda “sfora” questo tetto non scatterà
mai la conversione del rapporto a tempo indeterminato (l’impresa dovrà però pagare una
maxi-multa pari al 50% della retribuzione mensile, e l’importo della sanzione finirà in tasca
al lavoratore).
Novità anche sul fronte apprendistato, con la nascita di una nuova tipologia “scolastica”:
l’apprendistato «per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione
secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore». Qui si amplia la
precedente sperimentazione Carrozza: questo “nuovo” apprendistato duale potrà
interessare gli studenti delle superiori (licei inclusi) a partire dai 15 anni (finora 17 anni), e
potrà durare al massimo quattro anni (oggi tre anni). Si modifica nuovamente lo Statuto dei
lavoratori, dopo l’articolo 18, solo per i neo-assunti, si riscrive ora la disciplina delle
mansioni, per tutti, aprendo alla possibilità unilaterale di ri-mansionare in pejus al livello di
inquadramento inferiore il dipendente «in caso di modifica degli assetti organizzativi
aziendali» che incide sulla sua posizione lavorativa.
È salito a 57 articoli il Dlgs sul riordino dei contratti che oggi arriva sul tavolo del Consiglio
dei ministri per l’ok definitivo assieme al Dlgs su conciliazione vita-lavoro. Il governo
dovrebbe esaminare, in prima lettura, anche i quattro restanti Dlgs attuativi del Jobs act (si
veda altro servizio in pagina), considerando che le deleghe vanno esercitate entro il 15
giugno. Nel Dlgs di riordino dei contratti l’esecutivo mantiene gli impegni modificando la
clausola di salvaguardia: in caso di boom di trasformazioni di cococo in rapporti stabili
(incentivati fino a dicembre), non scatteranno più gli aumenti dei contributi a imprese e
lavoratori autonomi. L’eventuale surplus di spesa viene garantito, ora, con una cauzione
sulle risorse del Fondo occupazione (ci sarà un attento monitoraggio).
Il provvedimento conferma la fine delle collaborazioni a progetto (si salvano quelle in
corso, fino a esaurimento). Si semplifica il lavoro in somministrazione: la principale novità
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è l’eliminazione delle “causali” che consentono la stipula della somministrazione a tempo
indeterminato, che vengono sostituite dall’introduzione del limite alle percentuali di utilizzo
del 20%, salvo diversa previsione dei contratti collettivi. Sul part-time si specificano i casi
in cui il datore può chiedere al lavoratore di prestare lavoro supplementare e si delineano i
limiti di clausole flessibili ed elastiche (ma il punto è delicato, ed era ancora oggetto di
approfondimento ieri in serata). Nascerà poi un nuovo contratto di apprendistato
scolastico, sul modello duale tedesco: «Vogliamo potenziare non solo la formazione ma
anche l’intelligenza al lavoro e nel lavoro», spiega il responsabile economico del Pd,
Filippo Taddei. Si dovrà sottoscrivere un protocollo con l’istituzione educativa, l’azienda
non pagherà le ore di formazione in aula, e quelle on the jobs saranno spesate al 10%.
Resta il braccio di ferro sull’apprendistato, senza limiti d’età, per chi fruisce di un
trattamento di disoccupazione: il governo ci crede, ma la Ragioneria è contraria (il nodo
verrà sciolto forse oggi). Altra novità è la possibilità di ri-mansionare il lavoratore in caso di
riorganizzazione aziendale, più o meno estesa, e anche in ulteriori ipotesi previste anche
dai contratti aziendali. «Questo mutamento di mansioni deve essere comunicato per
iscritto, a pena di nullità - spiega Riccardo Del Punta, ordinario di diritto del Lavoro
all’università di Firenze, consulente del ministero guidato da Giuliano Poletti -. La lettera
non deve essere per forza motivata, con l’indicazione della riorganizzazione che ha
determinato il mutamento, ma è consigliabile motivarla, visto che comunque il datore può
essere chiamato a dare la prova di tale riorganizzazione dinanzi a un giudice».
L’impostazione complessiva del Dlgs «è molto positiva - commenta Arturo Maresca,
ordinario di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma -. Il governo punta sul contratto a
tempo indeterminato, incentivato e flessibilizzando le mansioni, e fa una manutenzione
straordinaria delle altre tipologie negoziali, che rimangono e vengono precisate».
Giorgio Pogliotti
Claudio Tucci
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CULTURA E SPETTACOLO
dell’11/06/15, pag. 48
La scrittrice in cinquina alle spalle di Nicola Lagioia e Mauro Covacich
Passano anche Genovesi e Santagata Restano fuori gli outsider
Zerocalcare e Vinicio Capossela
Premio Strega la Ferrante entra in finale
RAFFAELLA DE SANTIS
Una bella notizia: Elena Ferrante è tra i finalisti della sessantanovesima edizione dello
Strega. Una bella notizia perché il libro merita, per il premio e perché è uno tra i libri più
internazionali che abbiamo. Forse stavolta un piccolo editore può giocarsi la finale. Grazie
a una rimonta, Storia della bambina perduta (E/O) ce l’ha fatta, arrivando terza con 140
voti. Guida la cinquina Nicola Lagioia con 182 voti (La ferocia, Einaudi). Secondo Mauro
Covacich con 157 voti (La sposa, Bompiani) .
Non c’è stato dunque bisogno del ripescaggio, previsto dal nuovo regolamento. L’attuale
sistema di voto con tre preferenze ha assicurato alla Ferrante l’ingresso in prima battuta
tra i finalisti. Quarta posizione per Fabio Genovesi con 123 preferenze ( Chi manda le
onde, Mondadori) e quinto Marco Santagata con 119 voti ( Come donna innamorata ,
Guanda).
Lo spoglio dei voti degli Amici della Domenica e dei lettori forti delle librerie indipendenti (in
tutto 1209 preferenze) è avvenuto come di consueto nella sede romana della Fondazione
Bellonci, condotto da Francesco Piccolo. Prima degli esclusi Clara Sereni con 104 voti.
Fuori anche Vinicio Capossela (59 voti) e Zerocalcare (70 voti), che non ha avuto la
fortuna di Gipi Sono stati i lettori comuni a premiare la Ferrante, che ha collezionato dieci
voti collettivi su sedici. Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci commenta:
«I lettori amano Elena Ferrante. L’autrice ha ricevuto anche un gran numero di voti della
giuria dei sessanta lettori forti». Il che vuol dire che, insieme a Nicola Lagioia, il più votato
dai giurati delle librerie indipendenti, Ferrante ha incassato molte delle preferenze di chi
non è legato a doppio nodo al mondo dell’editoria. Tra i giurati rimane però la diffidenza
per una scrittrice pop percepita come estranea al loro ambiente. La marziana Ferrante, la
scrittrice senza volto, trascinata da Roberto Saviano a sparigliare le carte di un gioco dai
meccanismi paludati, continua dunque la sua corsa verso il Ninfeo di Villa Giulia (la finale
sarà il 2 luglio).
Equidistante il commento di Tullio De Mauro, presidente della Fondazione: «Il significato
dell’entrata tra i finalisti della Ferrante? È lo stesso dell’entrata di un qualsiasi altro libro in
concorso». Anche i superfavoriti non si sbilanciano. Covacich: «Provo sentimenti positivi,
siamo un gruppo di persone civili ». Lagioia: «Rispetto tutti i miei avversari, non solo la
Ferrante ». E a una domanda sulla scrittrice, l’autore de La ferocia prende a recitare in
inglese l’incipit del Macbeth , che guarda caso ha a che fare con le streghe. Tradotto:
«Quando noi tre ci rivedremo ancora? Con tuono, lampo o pioggia? Quando, allora?».
Tra gli editori, Elisabetta Sgarbi mostra fair play : «Ero sicura che non ci sarebbe stata, per
il bene del Premio, una finale senza Ferrante, al di là dei timori dell’autrice e dell’ottimo
editore. Con o senza la Ferrante, dal punto di vista letterario, è questione non diversa da
“con o senza” Marasco, o Mizzau o Covacich o Lagioia. Ma è innegabile che la gara,
senza la Ferrante, perderebbe un po’ di effetti speciali e un po’ di code polemiche,
componenti essenziali dello Strega».
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Ora però la strada è in salita. Il nuovo regolamento ha aiutato a garantire il posto a un
piccolo- medio editore, ma le votazioni della finale continueranno a funzionare come
sempre e ognuno dei 460 membri del corpo elettorale avrà diritto a un solo voto. Sandra
Ozzola, editrice E/O, non nasconde alcune perplessità: «Siamo molto contenti.
Consapevoli però che al Ninfeo di Villa Giulia si rimetterà in moto il solito meccanismo
dello Strega. Rimarrà difficile per un grande autore pubblicato da un editore indipendente,
si tratti della Ferrante o di chiunque altro, vincere la competizione ». Il meccanismo è
quello noto, quello che ha portato il Premio ad essere colonizzato dai grandi gruppi
editoriali. Col risultato che assistiamo da anni all’alternanza sul podio tra Mondadori e Rcs.
E in caso di fusione tra i gruppi si passerà al monopolio. «Non credo che lo Strega
morirebbe in caso di fusione Mondadori-Rcs», dice il ministro Dario Franceschini arrivando
a casa Bellonci, «ma sicura- mente diventerebbe ancora più difficile per chi è fuori dai
grandi gruppi avere una chance ».
È evidente che allo Strega non è in ballo solo l’onore ma interessi concreti e vendite
moltiplicate in caso di vittoria. In questi giorni sono tornate in auge in chiave anti-Ferrante
vecchie categorie: la distinzione tra letteratura alta e bassa, lo stereotipo della scrittura
femminile, il feuilleton. Luoghi comuni tutti italiani indagati in un recente articolo sulla
“febbre Ferrante” negli States apparso su Public Books a firma di Rebecca Falcon.
Storia della bambina perduta arriva al Ninfeo con 64 mila copie vendute (dati forniti
dall’editore). Arriva insieme a un nuovo giallo sull’identità della scrittrice, segnalato ieri su
Facebook da Petrocchi. Nel carteggio con Maria Zambrano ( A presto, dunque, e a
sempre , Archinto), si legge che Elena Croce usò in alcuni articoli lo pseudonimo Elena
Ferrante. Cosa non strana, per la figlia di Don Ferrante, nom de plume di Benedetto
Croce. I piccoli editori approdati in finale allo Strega non hanno mai superato il quarto
posto. Chissà se quest’anno assisteremo a una sfida a tre Lagioia, Covacich e Ferrante.
«Quando noi tre ci rivedremo ancora?», chiede una strega del Macbeth . L’altra risponde:
«Quando sarà finito il parapiglia, e sarà vinta o persa la battaglia». Clara Sereni, prima
degli esclusi, dice: «Mi dispiace un po’ ma stanotte dormo serena ».
dell’11/06/15, pag. 49
Umberto Eco attacca il web “È il mondo delle
bufale”
Lo studioso ha ricevuto la laurea honoris causa all’Università di Torino
dove discusse la tesi nel 1954. “Twitter? Dà diritto di parola agli
imbecilli”
MAURIZIO CROSETTI
TORINO
In toga e tocco, jeans e calzini arcobaleno, Umberto Eco è tornato all’Università di Torino
per prendersi una seconda laurea, 61 anni dopo la prima. «È la mia madeleine proustiana,
va bìn, adesso fatemi salutare i vecchi compagni di scuola». E non erano mica pochi,
capelli bianchi e sorrisi adolescenti, venuti ad abbracciare l’amico, il compagnone, il più
importante intellettuale italiano. «Umberto era un genio già allora», dice uno di loro,
emozionatissimo. E negli occhi del professore brillano scintille. Ovvio che la laurea honoris
causa (la quarantunesima della serie) sia in “Comunicazione e culture dei media”,
disciplina che non solo Eco ha sezionato e divulgato, ma proprio inventato. «Veramente,
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per una volta avrei preferito laurearmi in fisica nucleare oppure in nanotecnologie, però si
prende quel che passa il convento ». Ha voglia di giocare, il professore, anche quando
parla di linguaggio. «Per sua natura cambia nel tempo, era così anche prima di Internet.
Oggi, semmai, si dicono più parolacce in politica, non so se sia un declino della politica o
delle parolacce ». Addirittura sulfureo nella sua lectio magistralis, “Conclusioni sul
complotto da Popper a Dan Brown”, con relativa demolizione delle «panzane sul Priorato
di Sion, sul matrimonio tra Gesù Cristo e la Maddalena e sugli introvabili riferimenti
geografici », il professore ha poi espresso la sua idea sulla Rete e Twitter. Chiara.
Chiarissima. «Internet è l’humus delle bufale. La scuola dovrebbe insegnare a distinguerle,
oppure a copiare usando almeno dieci siti. Wikipedia? Ma quella va ancora bene… Ed
anche i giornali, minacciati dalla rete, dovrebbero migliorare i filtraggi e dedicare qualche
pagina all’analisi critica del web, senza prendere tutto come oro colato e farsi così
cannibalizzare. Quando si moltiplicano le balle, alla fine non si crede più neppure alle cose
vere». E Twitter? «Il fatto che io lì dentro non ci sia, può forse già essere considerata una
risposta, anche se i miei fake pullulano. Credo che Twitter permetta un contatto con la
propria natura onanistica; e ho sempre pensato che oltre le cinquanta persone tutte
insieme, parlino solo i matti. Di positivo c’è una forza virale anche politica, vedi
l’opposizione in Cina o a Erdogan: qualcuno arriva a sostenere che Auschwitz non
sarebbe stato possibile con Internet, che l’avrebbe immediatamente diffuso e
smascherato. Però Twitter dà diritto di parola a tanti imbecilli che prima si limitavano ai
bar, e come faccio a essere sicuro di star seguendo proprio Rita Hayworth e non un
maresciallo dei carabinieri in pensione che si finge Rita Hayworth?».
Pergamena, medaglia d’oro, abbraccio accademico e standing ovation. Ma anche un
regalo speciale dell’università: il recupero di tutti i documenti, attestati, libretto universitario
(con le firme di professori che si chiamavano Getto, Bobbio, Pareyson, Abbagnano) e tesi
del laureando Umberto Eco, datata 9 dicembre 1954: “Il problema estetico in San
Tommaso d’Aquino”, tutto esposto all’Archivio Storico. I vecchi compagni di scuola e il
professor Umberto guardavano commossi, assistendo in fondo a una lezione filosofica sul
tempo (61 anni, o dell’eternità) come neanche da ragazzi sui quei banchi di legno.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Dell’11/06/2015, pag. 15
Sì Unions, tra società e politica la distanza si
stringe
Coalizione sociale. Una campagna referendaria per cancellare le
controriforme del governo, una forza politica per farne rispettare i
risultati. E un passo indietro esplicito, comune dei vecchi leader
A.G.
Non si sa se ridere o piangere quando si legge sulla stampa “maggiore” che l’unico interesse rivolto alla Assemblea della coalizione sociale di sabato e domenica a Roma
è ancora incentrato sulla presenza silente tra il folto pubblico di Oreste Scalzone e Franco
Piperno. Quella assemblea ha tutta la possibilità e il diritto di essere valutata su ben altri
criteri. Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non
era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta
prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea
ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si
è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della
mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento
specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi
e modalità. Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei
report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri
incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella
distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto
assottigliata nel proseguio della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di
analisi e di proposte. Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di
una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando
entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non
va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del
sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati
e portati avanti. La lotta al job act — per fare solo un esempio — va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui
il punto dolente — trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare;
potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta
riflettendo – ad un referendum abrogativo. Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto
una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia — pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata
-; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire
un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se
possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo
è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione. In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere poli55
tico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben
al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.
Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la
privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti
sociali che per quelli politici.
Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione
sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo
Renzi — pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una
maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto”
(definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad
una articolazione delle élites europee) di quanto lo era poche settimane fa — non ha per
ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.
Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla
legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo
scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere
concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo — quindi
ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate — una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in
causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare
nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non
si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.
So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd
farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là — e sarebbe un bel passaggio di testimone — all’avvio
concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa,
quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia.
Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande
assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di
chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione
sociale.
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ECONOMIA E LAVORO
Dell’11/06/2015, pag. 6
Jobs Act, la svolta di Renzi: poco lavoro fisso
e bassi salari
Inps. Da gennaio ad aprile 2015 l’aumento del lavoro a tempo indeterminato è stato
trainato dalle conversioni dei contratti e non da nuove assunzioni nette. Le
retribuzioni mensili dei neoassunti, con e senza tutele crescenti, diminuiscono
rispetto all'anno scorso
L’Inps ha pubblicato ieri il bollettino dell’Osservatorio sul precariato in cui vengono registrate le attivazioni e cessazioni di rapporti di lavoro subordinati, ad esclusione del pubblico impiego, dell’agricoltura e dei parasubordinati. Questa è la differenza rispetto alle
Comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro di lunedì scorso.
Il saldo netto dei posti a tempo indeterminato e determinato tra gennaio e aprile 2015,
rispetto allo stesso periodo del 2014, è pari a 268.667 unità. Ad aprile la quota di nuovi
rapporti stabili ha raggiunto la misura del 45%. Nei quattro mesi del 2015, al netto delle
cessazioni, il numero dei rapporti a tempo indeterminato è di 137.471 unità. A questi
vanno affiancate le trasformazioni dei contratti da tempo determinato e apprendistato in
tempo indeterminato, pari a 221.251. Questo conferma che l’aumento del tempo indeterminato è trainato dalle conversioni e non da nuove assunzioni nette: il 62% del totale tra
gennaio ed aprile mentre, se guardiamo anche solo marzo e aprile, la quota di trasformazioni supera comunque la metà dei contratti ed è pari al 57%. Dati che stridono con quanto
dichiara il responsabile economico del Pd Filippo Taddei il quale, oltre a gonfiare i numeri,
ritiene che «queste nuove assunzioni non sono solo il risultato degli incentivi fiscali» ma
anche del Jobs Act. Taddei ha provato ad ancorare le proprie esternazioni guardando alla
quota di contratti che hanno beneficiato degli sgravi, cioè il 61,3% ad aprile, contro il
33,7% di gennaio considerando sia le nuove assunzioni che le trasformazioni. Quindi, proprio per i mesi in cui il contratto a tutele crescenti doveva trainare l’aumento dei rapporti di
lavoro, scopriamo che gli sgravi aumentano in termini percentuali rispetto ai primi due
mesi del 2015. In termini assoluti, ad aprile e marzo con le tutele crescenti in vigore ed
escluse le trasformazioni, il numero di contratti che hanno beneficiato degli sgravi è pari
a 184.787, a fronte di 86.602 contratti netti. Delle due l’una: o le imprese hanno già licenziato qualche neoassunto a tutele crescenti dopo aver richiesto gli sgravi, oppure hanno
licenziato lavoratori stabili per sostituirli con nuovi lavoratori a tutele crescenti usufruendo
degli sgravi. Meno probabile è che le imprese abbiano prima licenziato e poi riassunto gli
stessi lavoratori. In sintesi, sembra che gli effetti degli sgravi del governo stiano premiando
le imprese lasciandole libere di sostituire il lavoro stabile con quello meno stabile (le tutele
crescenti). E i benefici per i lavoratori? Difficile dare un giudizio complessivo oggi, ma quel
che però è certo, come emerge dai dati Inps, è che le retribuzioni mensili dei neoassunti
(1849 euro) con e senza tutele crescenti diminuiscono mediamente dello 0.3% rispetto ai
colleghi assunti un anno fa. I lavoratori interessati da trasformazione di un contratto a termine in uno a tempo indeterminato guadagnano il 2.9% in meno, 1779 euro. La volta
buona di Renzi pare manifestarsi attraverso l’effettiva svalutazione del mercato del lavoro,
operata attraverso l’abbattimento delle tutele e la compressione dei salari, senza però
dimenticare un po’ di regali alle imprese. Non pago della propaganda del proprio entourage, Renzi ha scritto su twitter che quando «I dati Inps dicono che cresce il lavoro come
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non succedeva da anni. Le riforme servono, avanti tutta». I dati restituiscono invece
un’economia in piena stagnazione con una produzione industriale che stenta a ripartire
come gli investimenti privati (+0.3% entrambi), i consumi delle famiglie che diminuiscono
rispetto allo stesso periodo del 2014.
Dell’11/06/2015, pag. 6
Produzione industriale a picco Ma
Confindustria vede rosa
Dati e Previsioni. L'Istat torna a fare il gufo. Ma 5 ore dopo è coperta dal
centro studi di Squinzi
Dopo l’Inps, anche Confindustria corre a soccorso del governo nella battaglia per dare
forza ad una ripresa che ancora non si vede. Sono passate infatti solo cinque ore fra la
divulgazione dell’Istat sui dati della produzione industriale di aprile (assai negativi) e la previsione del Centro studi confindustria su quelli di maggio (positivi).
La doccia fredda per il governo Renzi è arrivata puntuale alle 10 di mattina quando
l’istituto di statistica ha certificato un pesante meno 0,3 per cento rispetto a marzo. Dopo
i risultati positivi di febbraio e marzo, ci sono diminuzioni marcate per le industrie tessili, di
abbigliamento, pelli e accessori (-6,2%), la metallurgia e fabbricazione di prodotti in
metallo, esclusi macchine e impianti (-5,1%) e le industrie alimentari, bevande e tabacco (2,8%). «Corretto per gli effetti di calendario, in aprile 2015 l’indice è aumentato in termini
tendenziali dello 0,1% (i giorni lavorativi sono stati 21 contro i 20 di aprile 2014). Nella
media dei primi quattro mesi dell’anno la produzione è diminuita dello 0,1% rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente», sottolinea la nota dell’Istat.
Il dato conferma come la ripresa, specie in campo industriale, sia lontanissima. Se Fca
e poche altre amiche del governo stanno assumendo, la gran parte delle grandi e piccole
imprese sono ancora alle prese con la crisi. E il mito del «secondo paese manufatturiero in
Europa dietro la Germania» viene corroso dalla lenta desertificazione industriale e dalla
cronica mancanza di una politica industriale degna di questo nome. Al ministero dello Sviluppo invece vanno avanti i tavoli di crisi (Whirlpool martedì, ieri Firema, società pubblica
che produce carrozze che il 15 giugno rischia seriamente il fallimento) senza che sia
ancora stato sostituito Claudio De Vincenti, il prof specializzato in industria chiamato da
Renzi come sottosegretario a palazzo Chigi. Ma, come detto, in soccorso del governo
è arrivata puntuale Confidustria. Alle 15 e 10 le agenzie davano grande risalto (forse perfino maggiore rispetto al dato Istat del mattino) alla previsione del Centro studi su maggio:
«Un incremento della produzione industriale dello 0,1 per cento a maggio su aprile».
Secondo Csc inoltre «la variazione acquisita nel secondo trimestre del 2015 è di +0,3 per
cento», aggiungendo che «gli indicatori qualitativi anticipatori segnalano un ulteriore recupero nei prossimi mesi». A spiegare la dicotomia fra dati qualitativi (di Confindustria)
e quantitativi di Istat arriva il centro studi Nomisma: «C’è probabilmente grande eterogeneità nell’evoluzione attuale delle imprese che non viene colta dagli indici qualitativi»,
spiega il capo economista Sergio De Nardis.
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dell’11/06/15, pag.. 28
Ribaltone in Cdp il governo preme dalle
Fondazioni ultima resistenza
L’Acri rinnova la fiducia a Bassanini Guzzetti va a trattare con Padoan
GIOVANNI PONS
MILANO . Il ribaltone in casa Cassa Depositi e Prestiti, avviato dal governo Renzi nei
giorni scorsi, non sarà così veloce come si pensava. Qualche ostacolo è stato disseminato
sul campo dal vertice che dovrebbe essere sostituito con un anno di anticipo, il presidente
Franco Bassanini e l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini. Il primo ha
subordinato le sue dimissioni a una richiesta da parte delle Fondazioni azioniste, a cui per
statuto spetta la sua nomina. E da ciò è discesa la riunione dell’Acri di ieri con tanto di
comunicato non molto conciliante. Le 64 Fondazioni di origine bancaria, oltre a confermare
la loro fiducia a Bassanini, «hanno dato mandato al presidente dell’Acri, Giuseppe
Guzzetti, di rappresentarle nei confronti del governo per conoscere con chiarezza e
precisione le sue intenzioni riguardo il futuro della Cassa». In pratica, i fondatori
vorrebbero sapere se il ribaltone è legato a un cambio di missione della Cdp, che negli
ultimi anni della gestione Bassanini- Gorno ha puntato molto sul rilancio dell’economia ma
facendo molta attenzione a non trasformarla in uno strumento di salvataggio delle grandi
imprese in crisi. «Riteniamo necessario che si valuti opportunamente l’impatto degli
eventuali cambiamenti sulla sana e prudente gestione di Cdp, soprattutto in termini di
modifica del profilo di rischio che ne potrebbe derivare», scrive l’Acri nel suo comunicato.
Insomma, le Fondazioni sono anche preoccupate di non poter più attingere a un dividendo
sicuro e sostanzioso da quel 18,4% posseduto nella Cassa. E a questo punto serve un
chiarimento con il governo che dovrà comunque avvenire in tempi brevi. Probabilmente
già oggi. Faccia a faccia che servirà anche a mettere sul tavolo altri temi che sono cari ai
fondatori, come quello della tassazione degli enti giudicata eccessiva.
Il secondo ostacolo che si è palesato nelle ultime ore riguarda i nomi e la procedura con
cui si vorrebbe procedere al ribaltone. Il contratto dell’ad Gorno Tempini prevede un anno
di buonuscita a fronte di una risoluzione anticipata del contratto. Inoltre, il suo potenziale
sostituto, Fabio Gallia, è stato recentemente raggiunto da un rinvio a giudizio e secondo
l’articolo 4d dello statuto della Cdp non può essere nominato. Per insistere su Gallia
occorrerebbe cambiare lo statuto ma per farlo occorre una maggioranza dell’85% e
dunque il consenso delle Fondazioni che controllano il 18,4%. Lo stesso discorso vale se il
ministero dell’Economia volesse cambiare l’articolo 2, cioè quello che prevede che la Cdp
non può investire in società che non siano in utile da almeno due anni. Dunque, dal punto
di vista giuridico, Guzzetti ha molto dalla sua parte e si può permettere di difendere
Bassanini con i denti, mentre la nomina di un nuovo ad è nelle prerogative del Mef. Detto
questo sarà oggettivamente difficile vedere le Fondazioni che vanno allo scontro frontale
con Renzi, per cui la mediazione è la soluzione più probabile. Restano da capire con
precisione le motivazioni che hanno spinto il governo a prendere adesso in mano le redini
della Cdp. Alcuni sostengono che un mandato triennale a nuovi vertici assicurerebbe a
Renzi le leve della politica industriale fino alle elezioni del 2018. Altri sostengono che il
caso Ilva ha fatto emergere alcune tensioni sull’intervento della Cdp che ha richiesto un
esercizio di ingegneria finanziaria per aggirare il problema degli aiuti di Stato in sede Ue.
Così come ha inciso il mancato accordo tra Cdp e Telecom per sviluppare insieme il Piano
banda larga. Tutti dossier che potrebbero essere risolti con un controllo più diretto della
Cassa.
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dell’11/06/15, pag. 9
Bassanini si aggrappa alle Fondazioni ma
Renzi ha deciso
Gli enti azionisti della Cassa Depositi e Prestiti rivendicano di poter
scegliere il presidente. Il premier punta sul banchiere che deve risolvere
il nodo Telecom
La sostituzione anticipata dei vertici di Cassa Depositi e Prestiti sembrava questione di
ore. Ma queste operazioni non sono mai facili, anche quando le cura il presidente del
Consiglio in prima persona. Le Fondazioni di origine bancaria, che hanno il 18,4 per cento
del capitale della Cdp (il resto è il Tesoro) si sono riunite e in un comunicato ribadiscono
“la fiducia e l’apprezzamento per l’operato dell’attuale presidente”, cioè Franco Bassanini,
che all’improvviso Matteo Renzi ha deciso di sostituire. Le Fondazioni guidate da
Giuseppe Guzzetti sottolineano che, da statuto, spetta a loro indicare il nome del
presidente, non al Tesoro e che, in ogni caso, chiedono al governo di chiarire cosa intende
fare.
Secondo indiscrezioni raccolte dal Fatto, durante il confronto di ieri i rappresentanti delle
64 fondazioni azioniste della Cassa hanno espresso la posizione di non avere alcuna
voglia di cedere il proprio slot al governo, men che meno di silurare Bassanini prima della
scadenza naturale fissata nel 2016 e dopo i risultati ottenuti soprattutto in termini di
dividendi incassati nell’ultimo quinquennio (per lo scorso esercizio Cdp ha distribuito ai
soci 853 milioni di euro di cedole). Inoltre, prendere – o addirittura subire – decisioni
affrettate prima del congresso annuale dell’Acri che si terrà il 18 giugno a Lucca a molti
pare inaccettabile. Non solo. Un’eventuale modifica di oggetto sociale della Cassa con
l’apertura a investimenti più rischiosi, porterebbe alcune Fondazioni azioniste a
riconsiderare l’investimento nella spa di via Goito.
Resta da capire quali saranno le mosse del governo che all’ordine del giorno del Consiglio
dei ministri di oggi, salvo sorprese, dovrebbe avere la discussione sui nomi del nuovo cda
della Cassa. Ma per il momento i candidati a occupare la poltrona rispettivamente di
presidente e amministratore delegato (espressione del Tesoro), ovvero Claudio
Costamagna e Fabio Gallia, restano sull’uscio con la valigia in mano. Il banchiere ex
Goldman Sachs, in passato indicato come vicino all’ex premier Romano Prodi, ha il
gradimento di Renzi e del suo consigliere Andrea Guerra, considerato il principale regista
del ribaltone che sta interessando la Cassa.
Sulla strada di Gallia – attuale ad di Bnl e aspirante successore di Giovanni Gorno
Tempini – si è mossa intanto la Procura di Trani. Il banchiere è stato raggiunto nei giorni
scorsi da un rinvio a giudizio nell’ambito di una inchiesta sui derivati venduti da funzionari
dell’istituto romano a imprenditori locali. La vicenda potrebbe creare più di un imbarazzo al
Tesoro e alla stessa Cdp che a fine 2014 ha dovuto riunire i soci per deliberare la
permanenza nella carica dell’amministratore delegato Gorno Tempini. L’assemblea era
stata convocata ai sensi dell’articolo 15 comma 4 ter dello Statuto della Cassa (la
cosiddetta “clausola etica”) in seguito alle comunicazioni da parte della Procura di Trani
relative alla citazione in giudizio del manager (al tempo ricopriva la carica di
amministratore delegato della controllata di Intesa, Caboto) per concorso in truffa
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nell’ambito di un’indagine su alcuni strumenti finanziari messi sul mercato. A Gorno è stata
poi confermata la fiducia, prima dal cda e poi appunto dai soci all’unanimità.
Ma anche sul nome di Costamagna ci sono riserve. Secondo l’interpretazione che circola
negli ambienti renziani, la vera ragione della fretta di Renzi sulla Cassa depositi e prestiti
riguarda il destino di Telecom Italia. Il mandato di Costamagna sarebbe di sciogliere il
nodo del rapporto con Telecom e degli investimenti sulla rete in banda larga da costruire.
Bassanini ha tentato di piegare il gruppo guidato da Giuseppe Recchi a un’alleanza con
Metroweb, società della galassia Cdp. Una mossa che avrebbe portato – per via indiretta –
lo Stato ad avere una forte influenza sull’azienda. Non ha funzionato.
Ma Costamagna, che già si occupò di banda larga ai tempi dell’altrettanto fallimentare
piano Rovati nel 2006, avrebbe il compito di chiudere la questione, se necessario anche
portando lo Stato tramite Cdp direttamente nell’azionariato. Secondo le interpretazioni che
circolano in questi giorni, il premier sarebbe molto influenzato dalla visione di consiglieri
come Marco Carrai: il giovane imprenditore fiorentino è quello più sensibile, nel giro stretto
renziano, alle esigenze geopolitiche. E, forte dei suoi contatti tra Stati Uniti e Israele,
avrebbe convinto Renzi che la partita su Telecom è soprattutto una questione di sicurezza
nazionale. Bisogna evitare che la rete finisca in mano ai tanti pretendenti internazionali –
da Naguib Sawiris a gruppi cinesi – che si aggirano attorno all’azienda telefonica.
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