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Virgola / 76
Virgola / 75
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La serie «Canzoni» delle Virgole
è ideata e coordinata da Dario Salvatori
Volumi già pubblicati
Paquito Del Bosco
’O sole mio.
Storia della canzone più famosa del mondo
Paolo Prato
White Christmas.
L’America e la reinvenzione del Natale
Dario Salvatori
Rock Around the Clock.
La rivoluzione della musica
Carlo Bixio, Franco Bixio, Sabina Ambrogi
Mamma.
Alle origini di uno stereotipo italiano
Maria Cristina Zoppa
Nel blu, dipinto di blu.
Modugno, 1958. «Volare» e il sogno possibile
Alfredo Saitto
Yesterday.
1965. La canzone perfetta
Fabio Canessa
Azzurro.
Conte, Celentano, un pomeriggio…
Lorenza Fruci
Mala femmena.
La canzone di Totò
Paola De Simone
Odio l’estate.
Bruno Martino e il più famoso standard jazz italiano
Melisanda Massei Autunnali
CARUSO
Lucio Dalla e Sorrento,
il rock e i tenori
DONZELLI EDITORE
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© 2011 Donzelli editore, Roma
Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL [email protected]
ISBN 978-88-6036-563-7
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CARUSO
Indice
I.
p.
II.
La creazione
1. Un viaggio nel passato
2. Ti ricordi, Paolina, com’era bella quella stanza?
3. L’arte è popolare
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III.
Arriva Caruso
1. Il solito Dalla?
2. Lucio Dalla e la canzone napoletana
3. Lucio Dalla e l’opera
4. Una miscela pericolosa
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IV.
Caruso sbarca nell’anno 1986
1. La musica imperante
2. Il pubblico
3. Nel bel mezzo di un anno caotico
4. Un trionfo inaspettato
5. In fuga dai media: il tour
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V.
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Dall’America… Caruso
1. Le radici di un successo
2. Live in America
3. Un inedito particolare
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Con Pavarotti alla conquista del mondo
1. Alla ricerca del pubblico internazionale
2. Una questione di incontri
3. Un’amicizia
4. L’America come destino
5. Pavarotti & Friends
6. Il cerchio si chiude
V
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Massei Autunnali, Caruso
VI.
VII.
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Autocover e cover
1. Caruso per Dalla
2. Caruso per gli altri
3. Come si diventa un classico
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Dalla dopo Caruso
1. Primi approcci
2. Tosca e le altre
Appendice
Italian Tenors
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1. Enrico Caruso
2. Campanini, Gigli e gli altri
3. Luciano Pavarotti
4. Andrea Bocelli
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Incisioni di Caruso
151
Cantanti o gruppi nei titoli di canzoni
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145
Elenco delle illustrazioni
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VI
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Caruso
Alla mia famiglia
«Quando torni, porta un grammofono».
«Porta buoni dischi d’opera».
«Porta Caruso».
«Non portare Caruso. Abbaia».
«Di’ la verità che ti piacerebbe abbaiare come lui».
(E. Hemingway, Addio alle armi)
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Le interviste presenti nel volume sono state realizzate dall’autrice: Adriano Aragozzini (14 gennaio 2011), Gianfranco Baldazzi (29 novembre 2010), Angela Baraldi (12 novembre 2010), Roberto Costa (10 dicembre 2010), Beppe D’Onghia (12
gennaio 2011), Michele Mondella (12 gennaio 2011), Michele Torpedine (20 gennaio 2011).
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CARUSO
I.
Dall’America… Caruso
1. Le radici di un successo.
«La canzone italiana che più mi piace cantare? Caruso, di Lucio
Dalla. Ogni volta mi commuove»1. Le parole, appassionate e sincere, sono di Julio Iglesias, ma potrebbero essere state pronunciate da
centinaia di cantanti: sono tanti infatti gli artisti che in tutto il mondo, almeno in un’occasione, in un disco o in un concerto, da soli o
in duetto, hanno avuto la possibilità di interpretare la canzone che
il grande cantautore bolognese scrisse durante l’estate del 1986.
Per la maggior parte sono stranieri: indice di uno straordinario
successo planetario che, almeno nel periodo compreso dalla sua nascita a oggi, ne fa la canzone italiana più eseguita al mondo e insieme la più popolare. Molti interpreti, del resto, sono autentiche celebrità. Oltre a Iglesias, Lara Fabian, Mercedes Sosa e Josh Groban
sono solo alcuni degli artisti che l’hanno inserita nel proprio repertorio discografico. Al di fuori dei dischi, brillano le performance di
Ute Lemper, Teresa Salgueiro e, soprattutto, Celine Dion.
Anche gli italiani fanno sul serio, specie se guardiamo ai numeri:
qualsiasi artista, giovane o meno, esordiente o meno, che voglia
mettersi alla prova o esibire le proprie qualità vocali davanti a un
pubblico, deve passare attraverso quelle strofe in continuo smorzando e crescendo, e soprattutto deve avventurarsi sulle celeberrime note del ritornello che improvvisamente si alzano e poi di colpo si abbassano, sollecitando al massimo anche le ugole più attrezzate. Un inevitabile banco di prova, che per di più chiama ciascun
nuovo interprete a fare i conti con le versioni di Andrea Bocelli e
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Julio Iglesias in E. Franceschini, L’incontro, in «la Repubblica», 28 gennaio 2007.
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Massei Autunnali, Caruso
Luciano Pavarotti, principali artefici della fama di Caruso nei quattro angoli del pianeta.
La questione, però, non è solo tecnica: avere una buona estensione, infatti, non basta. Le difficoltà sono anche puramente interpretative: Caruso è una canzone che costringe il cantante a uscire
allo scoperto, a mettere a nudo il proprio animo. Il tema, d’altronde, non è uno scherzo, anzi: sulla scena ci sono gli ultimi giorni
della vita di un uomo, Enrico Caruso, il tenore più famoso di tutti i
tempi, innamorato e condannato a morte da una malattia ormai alle
ultime battute. Un test emotivo devastante, che impone di dare
sfogo a un profondo struggimento, a patto però che esso sia reale:
il pubblico sa smascherare bene le finzioni. Caruso o si canta fino
alla commozione, come fa Iglesias, o è meglio evitare.
Eppure, nonostante gli scogli che presenta, questa canzone costituisce una tentazione fortissima, a cui pochi hanno saputo resistere. Le versioni discografiche esistenti sono talmente tante che le
copie vendute hanno raggiunto la cifra astronomica di trentotto
milioni; di cui nove si riferiscono alla sola versione di Luciano Pavarotti; Bocelli ha contribuito a venderne circa venticinque milioni.
Per quanto riguarda gli album che contengono versioni di Caruso,
tre milioni di copie ha raggiunto «Crazy» di Iglesias, e altri numeri
importanti arrivano da «Closer» di Josh Groban (secondo nella
classifica Canadian Albums stilata da «Billboard», con una permanenza in hit parade di venticinque settimane), da «Second Nature»
del mezzosoprano inglese Katherine Jenkins (primo tra i Classical
Albums delle classifiche inglesi) e da «Siempre» del gruppo Il Divo,
primo nelle chart di molti paesi europei. Lo stesso Lucio Dalla,
inoltre, tra l’album di origine «DallAmeriCaruso» e le varie riproposizioni e compilation, ha venduto più di un milione di copie. Per
rendersi conto del successo della canzone, è sufficiente d’altronde
un veloce passaggio in internet, verificando le migliaia di video presenti su YouTube.
Ma da dove nasce un successo del genere? Caruso è stata scritta
ufficialmente nel 1986, come si è detto, ma in realtà è nata parecchi
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Dall’America… Caruso
anni prima, inscritta com’è nella tradizione della grande canzone
italiana; è uno di quei brani straordinari concepiti – come Nel blu,
dipinto di blu, Un amore così grande – affinché l’interprete, nell’inciso, liberi tutta la forza della propria vocalità ed estenda il proprio
sentimento incontenibile fino alla platea. Caruso è la nostra storia:
l’eredità della romanza, dell’aria dell’opera, ma anche della canzone
napoletana, che non di rado proprio alla lirica e ai suoi principali
esponenti ha dovuto appoggiarsi per superare le frontiere e diventare famosa in tutto il mondo.
Concepita come brano inedito – registrato in studio – del primo
album live della carriera di Lucio Dalla (il primo, cioè, non in condominio con altri), ha finito col diventare un ponte importante tra
l’opera e la musica leggera. «Se canto il pop è colpa di Caruso»2, ha
dichiarato una volta Luciano Pavarotti. Se Pavarotti non l’avesse
cantata e non si fosse quindi definitivamente «contaminato» con la
musica leggera, difficilmente sarebbe nato l’operatic pop, il nuovo
genere musicale destinato ad avere fortuna pochi anni dopo. Il successo planetario di Andrea Bocelli, perciò, è un’altra conseguenza
più o meno diretta di Caruso. Ed è accaduto anche l’inverso: se
Dalla si è potuto permettere di fare ufficialmente capolino nella lirica e scrivere un rifacimento della Tosca pucciniana, la «colpa», in
qualche modo, è anche di Caruso. Il grande successo della canzone
si spiega quindi con il fatto che il pezzo ha dato alla platea mondiale esattamente quello che la platea mondiale si aspettava dall’Italia.
La quale, che lo si voglia o no, resta sempre la patria del bel canto e
– in seconda istanza – la patria di un cantante leggendario che aveva nome Enrico Caruso.
Un successo incredibile, dunque, e in base al quale nessuno
ormai può dire di non sapere cosa accadde sulla vecchia terrazza,
davanti al golfo di Sorrento, lì dove il mare luccica, e dove, soprattutto, un uomo stringe fra le braccia una ragazza, «dopo che
aveva pianto».
Luciano Pavarotti in Big Luciano al Moulin Rouge, in «la Repubblica», 1° ottobre 2003.
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Massei Autunnali, Caruso
2. Live in America.
Il 13 marzo 1986 un lussuoso aereo intercontinentale partiva
dall’aeroporto milanese della Malpensa alla volta di Toronto. Della
spedizione facevano parte il noto cantautore Lucio Dalla, i cinque
membri della sua storica band di supporto, gli Stadio, che per l’occasione tornavano a suonare con lui, il suo fonico Roberto Costa e
la giovane cantante Angela Baraldi, poco più che ventenne, scritturata come corista. In più, il loro produttore Renzo Cremonini, il
tour manager Ivano Amati, il grande fotografo Luigi Ghirri e qualche giornalista. Il primo concerto dell’attesissima tournée si tenne
il 16 marzo, presso la Convocation Hall. Il secondo, il 18 marzo, al
Club Spectrum di Montreal. Il giorno dopo il gruppo si spostò negli Stati Uniti. Prima tappa, Boston, dove Dalla e i suoi si esibirono
al Berklee Performing Arts Center. A ospitare i concerti non furono mai luoghi tradizionalmente riservati a un pubblico italiano o
italoamericano, ma sempre spazi destinati generalmente alla musica
americana. Il Berklee Performing Arts Center, ad esempio, è il teatro del Berklee College: qui Dalla, nonostante la fortissima componente italiana della popolazione di Boston, si era esibito davanti a
un pubblico costituito in gran parte, oltre che da giovani emigrati
di quarta e quinta generazione (e quindi americani a tutti gli effetti), dagli studenti del college.
L’indomani, infine, Dalla e il suo gruppo raggiunsero New York,
dove la sera del 23 era fissato l’appuntamento al Village Gate, storico tempio del jazz mondiale. Quando l’aereo avvistò lo skyline della Big Apple con l’Empire State Building e il World Trade Center, la
radio stava suonando un pezzo di Jimi Hendrix. L’emozione paralizzò i respiri e illuminò gli sguardi: se già il primo volto che l’America mostrava era così seducente, le premesse c’erano tutte per fare
di quel viaggio un viaggio indimenticabile. Così fu.
Così come era nelle speranze, quello del Village Gate fu il concerto più importante della tournée: metà italiani e metà americani
erano gli spettatori dei due show che Dalla e la sua band tennero in
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Dall’America… Caruso
una sola sera, il primo alle sette, il secondo alle dieci e mezzo. Nella piccola sala stracolma il pubblico di casa tese le orecchie e poi
sgranò gli occhi. Molti di loro non sapevano chi fosse Lucio Dalla,
quanti dischi avesse fatto e soprattutto perché non ne avessero mai
sentito parlare. «But… is good, really good!»3, commentarono, e a
piccoli gruppi iniziarono a battere le mani e a muovere a tempo i
piedi. Il cantante era raggiante, e tenne altissimo il ritmo del concerto fino alla fine, spalleggiato sia dal suo innato senso dello spettacolo sia dalla grinta e dall’appeal della band.
Qualche settimana più tardi, negli studi Fonoprint di Bologna,
Roberto Costa affidava alla precisione dei suoi apparecchi le preziose registrazioni effettuate (in digitale) quella sera. Tutto era perfetto come neanche nei sogni più arditi avrebbe potuto esserlo. Se
Dalla desiderava regalare alla propria carriera il primo album live,
quella era l’occasione da cogliere al volo.
In verità di questo disco dal vivo si era parlato molto già prima
della partenza per l’America: forse si farà, aveva detto Dalla scherzando con i giornali, forse sarà digitale, forse sarà anche doppio,
ma non potremo dire niente di sicuro finché non capiremo cosa
eventualmente metterci dentro e qual è il livello del materiale. Le
tracce incise al Village Gate toglievano ogni dubbio: il livello era
altissimo, delle esecuzioni così come del suono. Inoltre – particolare da non trascurare –, l’atmosfera di quella storica serata era
pienamente percepibile, palpabili l’entusiasmo del pubblico e l’energia dello spettacolo.
Quali fossero, tuttavia, le decisioni prese a tavolino, restava il fatto che Lucio Dalla meritava quel live. Alla sua partenza per l’America aveva compiuto da una decina di giorni quarantatre anni, quasi
trenta dei quali trascorsi sui palchi, da quelli piccoli di provincia fino a quelli grandi degli stadi o a quelli chic dei teatri più prestigiosi.
La sua carriera era all’apice. Da sette anni, cioè da quando aveva inciso «Lucio Dalla», era uno degli artisti italiani più apprezzati e
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G. Castaldo, A New York Dalla «is good, really», in «la Repubblica», 26 marzo
1986.
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Massei Autunnali, Caruso
commercializzati; da nove, da «Come è profondo il mare», uno dei
pupilli della critica; da cinque il comandante-capo di una casa di
produzione, la Pressing, con cui aveva rinnovato il talento di Ron e
lanciato giovani esordienti, gli Stadio e Luca Carboni, e che dal
1984 era anche la sua etichetta. Ogni suo disco era stato un trionfo,
e anche se da qualche anno non sembrava più in grado di toccare le
vette del milione di copie che gli aveva assicurato l’album «Dalla»,
uscito nel 1980, era comunque riuscito a piazzare in sequenza molte
canzoni di successo. Alcune si ritrovano nelle registrazioni del Village Gate: Washington, il pezzo che nel 1984 aveva segnato l’incontro con la dance, Tutta la vita (ancora del 1984), che qualche anno
dopo sarebbe stata reincisa con un certo riscontro da Olivia Newton John, e Se io fossi un angelo, che faceva parte di un long playing
uscito all’inizio dell’anno. Quello che più incuriosiva, in ogni caso,
era il personaggio Dalla: serio, comico, misterioso e al tempo stesso
tanto popolare da farsi fratello di tutti, da anni non cessava di suscitare interrogativi tra i giornalisti e gli esperti del settore sulla radice
profonda di quel magnetismo irresistibile che riusciva a farlo piacere a tutti. «Irsuto, forse brutto, certamente buffo per come si presenta da quindici anni, continua a trascinare e commuovere un
grande pubblico di tutte le età – scriveva Paola Fallaci, sorella di
Oriana, in un lungo articolo redatto per «Nomi di Oggi» del luglio
del 1986 –. Un po’ ribelle, un po’ romantico, piace ai ragazzi e anche ai genitori. Eppure nessuno può ancora dire di conoscerlo».
Possiede una dote rara, aggiungeva nello stesso pezzo Mario Luzzatto Fegiz, «il carisma. Esso deriva a nostro avviso dall’intrinseca
coerenza fra ciò che Dalla canta e ciò che Dalla è. Al pessimismo
che scaturisce dalla osservazione del mondo esterno Dalla sa contrapporre il folle ottimismo dell’uomo. […] Inarrestabile vulcano di
idee, che annega nell’iperattività un’autentica angoscia esistenziale
che ha mille origini, tra cui la puntigliosa curiosità, la voglia di un
amore realmente universale, l’ansia di cogliere in un unico abbraccio miracoloso i misteri del mondo e dell’Assoluto, Dalla si stacca
nettamente da tutti gli altri artisti. […] Da un momento all’altro
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Dall’America… Caruso
può uscire dalle scene per entrare nella storia della musica leggera».
La chiosa finale era un riconoscimento non da poco, seppure Dalla,
probabilmente, l’idea di un prematuro ritiro non dovesse neanche
lontanamente concepirla. E neppure l’idea di autocelebrarsi: con
tutta probabilità era questo il motivo per cui, nonostante tanti consensi, non aveva prodotto fino a quel momento nessuna opera che,
dal vivo o in studio, riassumesse la sua carriera per farne, anche solo
simbolicamente, un nuovo punto di partenza. Il suo curriculum, di
conseguenza, non contava neanche un best of, eccetto una raccolta
che un anno prima la Rca Italiana aveva pubblicato, mettendo insieme materiali a proprio piacimento, mentre le uniche pubblicazioni
live erano in condominio con Antonello Venditti, Francesco De
Gregori e Maria Monti («Dal vivo: Bologna 2 settembre 1974»), e
ancora con De Gregori, al termine di una riuscitissima tournée in
coppia («Banana Republic», del 1979). Da solo, niente. Il disco registrato a New York, di conseguenza, avrebbe avuto se non altro il
merito di porre rimedio a entrambe le mancanze.
Il mixaggio ebbe inizio e fine al principio dell’estate. L’album fu
assemblato rapidamente e senza difficoltà. Il concerto del Village
Gate era durato circa un’ora e mezza: a riprova del livello di perfezione delle incisioni, il disco raggiunse gli ottanta minuti, trasformandosi, naturalmente, nel disco doppio intuito alla partenza. Per
come aveva preso forma l’album, vi trovavano posto quattordici
delle più note canzoni di Dalla, da 4/3/1943 a L’anno che verrà,
passando per Futura, Washington e Balla balla ballerino, a cui era
affidata la dirompente apertura. Grande figlio di puttana, che pure
si trovava in scaletta, è invece una canzone degli Stadio. È a quel
punto che al fotografo Luigi Ghirri, considerando che il disco era
nato da una tournée in America e che apparteneva a un artista con
un cognome particolare come «Dalla», venne in mente l’idea del titolo: «Che ne direste di chiamarlo “DallAmerica”, proprio come
avevamo ribattezzato il tour?». Si trattava di un titolo vincente,
giustamente evocativo e al tempo stesso birichino, almeno quanto il
cantante. In più, aveva il dono dell’originalità e sufficiente capacità
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Massei Autunnali, Caruso
di impatto. In breve l’idea di Ghirri circolò tra i collaboratori del
cantante e i suoi discografici. Nessuno – che se ne sappia – sembrò
avere nulla in contrario.
3. Un inedito particolare.
Tutto, dunque, era pronto per l’uscita. In linea con le esigenze
discografiche dell’epoca mancava solo un inedito, unico tassello
per consentire al disco di raggiungere i negozi. Fu allora che Dalla
prese tempo. Vagliò alcune proposte, senza trovare niente che lo
convincesse del tutto. Infine, quando ancora mancava la firma della
sua autorizzazione presso la Rca, sparì, correndo ai ripari a bordo
della barca che da qualche anno gli permetteva di soddisfare la sua
passione per il mare, solcando da un punto all’altro il Mediterraneo. Quando fece ritorno a Bologna era la fine di agosto, e con lui
c’era una nuova canzone, che in pochissimi avevano avuto occasione di ascoltare. Durata: cinque minuti. Struttura: classica (strofa, ritornello, due strofe, ritornello, due strofe, ritornello). Arrangiamento: essenziale (voce e pianoforte). Genere: melodico, molto
melodico, quasi operistico, con un inciso da brividi e la citazione di
un’antica canzone napoletana, «te vojo bene assaje,/ ma tanto tanto
bene sai/ è una catena ormai/ che scioglie il sangue dint’e vene sai».
Tema: drammatiche riflessioni del tenore Enrico Caruso a pochi
giorni dalla sua scomparsa. Titolo: Caruso.
«Quando l’ho sentita per la prima volta – racconta Roberto Costa – sono quasi stramazzato e mi sono detto: “cavolo: qui siamo veramente di fronte a un fatto grosso”». Costa era sì il fonico del live
americano: soprattutto, però, era il produttore artistico di «Bugie», il
più recente album di Dalla, del quale aveva firmato la musica di Se io
fossi un angelo, sicuramente la canzone più famosa dell’lp. Inoltre,
dal 1984, cioè da quando il cantante aveva allentato la collaborazione
con gli Stadio, era diventato il suo bassista in studio e dal vivo, all’occorrenza anche corista e tastierista. «In realtà – prosegue Costa – pur
sapendo che lo era, non avevo bene la percezione di quanto questa
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Dall’America… Caruso
cosa potesse essere grande. Però è vero che c’era un mio pezzo candidato a diventare la canzone inedita dell’album. Un pezzo anche
“carino”. Ma davanti a cotanta arte sono stato io il primo a dire:
“Non si discute nemmeno!”. Lucio, probabilmente, era già persuaso
di fare questa scelta nei confronti di Caruso. Io, però, personalmente, non posso negare di essere rimasto davvero a bocca aperta».
Assieme a Roberto Costa, Dalla entrò subito in sala di registrazione per preparare la versione definitiva del pezzo. Con loro c’era
il chitarrista Bruno Mariani, anche lui entrato nel gruppo dei collaboratori appena due anni prima. Il punto di partenza era l’incastro
di pianoforte e voce sul quale il cantante aveva costruito il brano.
Nello spazio di un pomeriggio il pezzo fu pronto. Dalla sedette
nuovamente al piano, Costa al mixer: suonata e cantata in diretta, la
base fu pronta con un unico «take». Subito dopo Costa e Mariani
prepararono alcuni dettagli da aggiungere in sovraincisione: gli archi (riprodotti elettronicamente alle tastiere) per il ritornello, qualche nota di basso, qualcun’altra di chitarra. «Siccome si trattava di
un take in diretta – spiega Costa – uno dei discografici della Rca fece qualche storia: secondo lui nella prima parte del pezzo la voce
non era perfettissima. Lucio però aveva messo una grande anima in
quella registrazione: se una nota era leggermente imperfetta, pazienza, altre erano le cose che contavano. Del resto era veramente
sicuro di questa canzone, ma soprattutto era sicuro che fosse una
cosa estrema: o facciamo un botto incredibile, mi ricordo che diceva, oppure non ci fila nessuno. Il senso era questo». La seconda
eventualità, che il pezzo restasse inascoltato, quasi sicuramente era
frutto più di scaramanzia che non di reale persuasione. Della bontà
del pezzo Dalla era realmente convinto: ma se anche un minimo
dubbio gli avesse attraversato la mente, dalla sua parte aveva gli
amici, i musicisti del gruppo, i collaboratori e tutti coloro che,
ascoltata la canzone, non avevano avuto per lui che parole di incoraggiamento ed entusiasmo. Non era importante, quindi, se qualche discografico aveva storto il naso, giudicando Caruso «strana» e
difficilmente piazzabile sul mercato. L’importante, alla fine, era che
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Massei Autunnali, Caruso
la canzone avesse trovato la giusta collocazione nella tracklist, e
che dunque il disco non si chiamasse più «DallAmerica», ma – con
nuova, felice, intuizione – «DallAmeriCaruso». Tutto il resto, perplessità e dubbi inclusi, era meno interessante.
«Questo dei discografici fu un discorso che Lucio fece anche a
me, qualche giorno prima che il disco uscisse», commenta Gianfranco Baldazzi, l’amico di infanzia di Dalla con cui il cantautore
aveva condiviso la stesura di alcune tra le prime canzoni, come
Piazza Grande e Occhi di ragazza. Critico e giornalista, proprio in
quei mesi Baldazzi era diventato l’agente stampa della Pressing su
Roma, chiamato a questo ruolo direttamente dal suo fondatore e responsabile: «In quei giorni incontrai Dalla a Bologna – aggiunge –.
Non mi ricordo esattamente per quale motivo fossi lì, forse per intervistare Carboni, credo, con cui Dalla stava lavorando in studio,
probabilmente per il suo nuovo lp. Fatto sta che, per caso, mi fece
ascoltare Caruso. Aveva in tasca un piccolo registratore. “Senti questa canzone – mi suggerì –. Cosa ne dici?”. Io pensavo di trovarmi
di fronte il nuovo brano di Carboni, oppure di Ron. E invece vado
a sentirti ’sto pezzo. “Porca miseria, ma è bellissimo!”, commentai.
Anzi, gli dissi proprio che si trattava di un “capolavoro”, e non so
neanche come l’abbia presa. Io ero anche uno di quegli ascoltatori
di Dalla che si innamorava delle cose più folli, più strane, ma penso
che anche gli altri gli abbiano dato la stessa risposta». Dalla, sottolinea Baldazzi, possiede «antenne» particolari ed è capace di intuire
se un pezzo avrà successo o no: forse Caruso l’aveva scritta «per la
sua mania di fare sempre cose diverse» e forse senza neanche sapere
come l’avrebbe utilizzata, ma comunque con la certezza che qualche risultato sarebbe arrivato, malgrado le esitazioni dei discografici, o forse proprio per questo motivo, forse proprio per la loro reazione infastidita di fronte a una canzone che non solo gli era piombata all’ultimo minuto, ma che era soprattutto molto, molto particolare. «Alla fine sembrava quasi che l’avessero inserita nel disco
per fargli un piacere. Tanto quello era un live, mica un disco di inediti… mica doveva vendere un milione di copie!».
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