Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità
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Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità
Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 1 Il rapporto tra Scuola e Comunità L’Autonomia scolastica, sancita dal nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione, dà istituzionalmente il via ad un vero e proprio sistema delle autonomie, a sua volta autonomo rispetto all’organizzazione statale del settore e a quello delle Regioni e degli Enti locali. La scuola dell'autonomia, insomma, è chiamata a superare il proprio carattere di autoreferenzialità (Morzenti Pellegrini, 2007). Infatti, il nuovo contesto richiede ad ogni istituto di assumersi la responsabilità di dotarsi di un proprio “curricolo di scuola” ed implica, perciò, il superamento di rigidi e minuziosi programmi nazionali in favore di quadri culturali più sintetici e di indirizzi di riferimento (il cosiddetto “curricolo nazionale”). All’interno di questa nuova cornice, ogni scuola potrà esplicare la propria identità progettuale e culturale, con la determinazione di un proprio Piano dell’Offerta Formativa. Nonostante il nuovo quadro costituzionale sia ancora soggetto a punti di vista interpretativi diversi, sulla configurazione giuridica della scuola dell'autonomia non ci sono discussioni. Da quanto detto emerge che, oggi più che mai, la scuola non solo si configura in quanto istituzione, ma è anche una comunità, ossia una formazione sociale composta da docenti, allievi, genitori, in cui si svolge la personalità addirittura di ogni cittadino, in rapporto costante con le altre Comunità sociali, culturali, produttive, del contesto territoriale di riferimento. La tesi della scuola come Comunità è stata proposta a partire dalla prima metà degli anni '70 del secolo scorso, con l'introduzione della cosiddetta gestione collegiale. Questa prospettiva ha contribuito a valorizzare il ruolo della scuola come Comunità intermedia interconnessa alla società, al contesto territoriale di riferimento ed alle finalità educative. Oltre a configurarsi come comunità, la scuola deve necessariamente essere in costante relazione con la comunità circostante: la centralità dell'Istituzione scolastica, infatti, deve essere affiancata da una crescita in parallelo della comunità territoriale a cui appartiene, ossia dell’insieme delle altre istituzioni autonome presenti sul territorio e delle risorse informali. La scuola autonoma deve essere, perciò, capace di uscire dallo spazio della propria scuola e di diventare luogo di produzione di attività culturali da porre al servizio del proprio contesto territoriale. Per fare questo, la scuola deve essere aperta al territorio, deve entrare in rete con altre 1 scuole, con le famiglie, con le atre istituzioni, al fine di offrire ai propri allievi tutte le opportunità formative di cui il territorio dispone. All'interno del nuovo sistema di istruzione e formazione, le scuole – così come tutti gli altri attori sociali – per svolgere le proprie funzioni con competenza, «devono: ◊ possedere cultura, professionalità e risorse (finanziarie, strumentali, umane); ◊ essere capaci, nel rispetto dei propri ambiti di competenza e delle funzioni specifiche, di individuare campi di azione che richiedono lavoro comune, condividendone obiettivi, scelte, decisioni nell'interesse della comunità scolastica e territoriale» (Morzenti Pellegrini, 2007). Onde evitare che le scuole rimangano isolate, è necessario iniziare a condividere informazioni che riguardano le strategie comunitarie e formare la comunità scuola a specifiche metodologie e strumenti utili ad entrare in rete ed a proporsi con competenza. Per tale ragione, nel presente modulo verranno affrontati temi come lo sviluppo di comunità, l’analisi di comunità, il lavoro di rete, la progettazione, la partecipazione e la ricerca-azione, l’empowerment, il disagio, la famiglia e le relazioni tra i suoi membri, la formazione e le metodologie attive, il cooperative learning. Etimologico e caratteristiche della comunità Il termine “comunità” è sempre stato caratterizzato da indeterminatezza; esso si carica di significati diversi in relazione ai diversi contesti, cui fa riferimento. La comunità, se da un lato richiama l’idea del confine, che è difesa e appartenenza, dall’altro, in quanto luogo di incontro, fa riferimento alla partecipazione, a una dimensione aperta al confronto e al conflitto. L’etimologia latina stessa rimanda a diversi concetti. Il termine, come verbo – communio – vuol dire “fortificare, difendere” e come sostantivo – communio, onis – può essere tradotto con “comunanza, partecipazione”. Esso contiene la particella cum, che indica compagnia, partecipazione, e in alcuni casi anche una condizione limitativa. Il termine può essere fatto derivare dall’unione di questa preposizione con il sostantivo moenia (cum moenia, fortificazioni comuni, mura), che indica protezione, o con il neutro munus (cum munia, doveri comuni), che si riferisce ad obblighi e doveri, ma anche a doni e servizi. Da un lato, dunque, il termine evoca difesa, dall’altro condivisione e appartenenza. Il prefisso cum, comunque sia, sottolinea l’aspetto relazionale, la presenza di un sistema di interazioni. La dimensione della relazione interpersonale è stata sempre centrale nelle riflessioni sulla comunità, proprio perché implicita in essa. Data la varietà di sfumature e significati che il termine assume, può essere utile vederne brevemente l’evoluzione. 2 L’aspetto di relazione è centrale nelle riflessioni del sociologo tedesco Tönnies (1887), il quale identificò nei termini Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società) due categorie sociologiche fondamentali e contrastanti. Considerò la società come una rete di rapporti fra individui, basata prevalentemente sul reciproco interesse economico; la comunità si fonderebbe, invece, sulla “volontà naturale” e sarebbe caratterizzata soprattutto da relazioni affettive, da legami veri tra le persone e da un sentire comune. Sempre in ambito sociologico, Weber (1922) delinea un concetto di comunità più realistico e fondato sul senso dell’azione sociale. Afferma, infatti, che si può parlare di comunità quando l’orientamento all’azione poggia su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), dei soggetti che ad essa partecipano (op. cit.). In questo clima culturale prende forma il Pragmatismo, che conosce in Dewey e James due dei protagonisti più autorevoli. Si guarda alla società come un “Noi” dal carattere interpersonale, come un tessuto di relazioni essenziali alla formazione del Sé. Le scienze psicologico-sociali affondano le loro radici in questo clima culturale, contesto in cui prende forma anche la Scuola di Chicago e la conseguente concretizzazione del concetto di comunità nel localismo territoriale. La comunità, infatti, è considerata il più piccolo gruppo sociale in cui l’individuo può soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere le sue funzioni. A tale proposito la comunità necessita di un territorio quale contenitore, di una base geografica definita (Zimmermann, 1938). Accanto all’aspetto relazionale, quindi, emerge un altro elemento : l’appartenenza territoriale. Come sintesi di quanto detto finora, Martini e Sequi (1996) sottolineano due elementi della comunità, tra tutti: l’elemento psicologico, che esprime l’insieme dei rapporti di interdipendenza che sorgono e si sviluppano in una pluralità di individui legati da una certa unità di aspirazione. Questi rapporti sono caratterizzati da sentimenti di solidarietà, di identificazione e anche di competizione e conflitto necessari per il cambiamento e il progresso. l’elemento spaziale, che identifica lo spazio, l’intorno fisico naturale e l’ambiente costruito dall’uomo; Tuttavia, oltre alle comunità geografiche, abbiamo anche le comunità aspaziali, che non implicano il fattore dell’appartenenza territoriale (pensiamo alle comunità virtuali sul web). Per tale ragione si preferisce oggi definire la comunità come: LA COMUNITÀ: LUOGO FISICO E MENTALE DI APPARTENENZA SISTEMA SOCIALE COMPLESSO 3 Alla luce di quanto detto, la scuola si configura come comunità nella comunità. Diventa centrale, così, il concetto di mission istituzionale: per contribuire alla formazione di una comunità competente e per realizzare progetti efficaci ed efficienti, ogni scuola deve conoscere la propria mission istituzionale, cioè ogni scuola e chi vi appartiene devono chiedersi: Chi sono? Quali sono le mie finalità? Quali i campi di interesse e di intervento? Quali le risorse (umane, materiali, spaziali, finanziarie, ecc.)? La consapevolezza della propria mission non può avvenire in maniera isolata, ma deve costantemente guardare alle reti sociali con cui la scuola interagisce costantemente e al territorio nella sua interezza, in modo da far dialogare la propria realtà organizzativa con i bisogni e le risorse della comunità di appartenenza. Questi risultano essere presupposti fondamentali per le strategie comunitarie di sviluppo. 4 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 2 La scuola: punto nodale della rete sociale Un errore spesso diffuso all’interno delle organizzazioni, in generale, ed anche dell’organizzazione scolastica, è quello di “pensarsi” come un mondo a se stante, con i propri problemi, con le proprie modalità di funzionamento, con i propri obiettivi, lontani o solo in parte confinanti con la realtà territoriale. La scuola, in realtà, non è un punto isolato nel contesto: è il punto di una rete sociale complessa, che include i legami con la famiglia, con gli Enti locali, con i servizi sociali e con molti altri attori della comunità. Affinché la scuola possa funzionare bene e possa davvero promuovere competenze e benessere nei suoi utenti, è necessaria la presenza di reti sociali che funzionano, che dialogano costruttivamente tra loro, che si propongono obiettivi comuni e condivisi e che, per questo, lavorano in sinergia per raggiungerli. Sembrano affermazioni utopiche, se consideriamo la reale condizione delle nostre reti sociali: confuse, spesso inefficaci ed inefficienti perché i diversi nodi (attori sociali) non si parlano, perché non si riescono a condividere obiettivi comuni, perché non tutti partecipano attivamente e perché ognuno non si assume la responsabilità delle cose. Per tale ragione bisognerebbe formare al lavoro di rete tutti gli attori sociali di un territorio. Fatta questa premessa, in questa lezione discuteremo di rete sociale e, successivamente, di lavoro di rete. Il termine “rete”, utilizzato in diversi ambiti disciplinari, indica un insieme di punti legati tra loro da linee. In ambito sociale, esso si riferisce all’insieme delle relazioni esistenti tra persone o soggetti sociali; i nodi della rete (le persone o i soggetti sociali) non sono necessariamente interdipendenti, ma comunicano tra loro. «Quindi la rete rimanda alla dinamica delle relazioni con le persone, i gruppi e i soggetti collettivi con cui il soggetto è in contatto. Una prima distinzione da fare è tra rete primaria, ovvero l’insieme delle persone molto vicine alla persona (parenti, amici, vicini di casa), e rete secondaria, che può essere formale (istituzioni e organizzazioni che forniscono servizi, con cui i rapporti sono di tipo asimmetrico) e informale (associazioni e organizzazioni di volontariato o di privato sociale)» (Varveri, 2007). Si chiama Social Networking il metodo per leggere la configurazione della rete (Maguire, 1983): la rete verrebbe ad avere una morfologia definita da punti e linee che li connettono, dove i punti 5 rappresentano gli attori della rete (individui o gruppi o organizzazioni) e le linee i legami tra loro esistenti. Ancora, per descrivere una rete sociale, bisogna fare riferimento ad aspetti strutturali (che descrivono la forma del reticolo) e interazionali (che riguardano il funzionamento della rete e i legami tra i suoi componenti). Un altro aspetto relativo alla struttura della rete è quello di “dimensione”, che indica il numero di soggetti in rete e “cluster”, cioè le connessioni reciproche all’interno di una rete. Per definire gli aspetti interazionali, invece, sono utili i concetti di “plessità” (area di contenuto della relazione), “reciprocità” (natura bidirezionale, reciproca della relazione) e “nexus” (che indica le relazioni continuative). La Social Networking ha l’obiettivo di analizzare le relazioni come effetto del sistema di rete. Caratteristiche della rete Struttura: variabili morfologiche (ampiezza, densità, posizione) Interazione: relazione tra gli attori (reciproca, simmetrica, molteplice) Qualità: qualità affettiva dei legami (amicizia, intimità) Funzione: funzione svolta dai membri della rete (feedback, sostegno, formazione, ecc.) La rete è, in sostanza, un insieme di legami, la cui forza è data dal loro senso, tipo e qualità. In genere, si parla di legami forti quando ci si riferisce a quelli che sono fonte di sostegno, di aiuto, di riconoscimento sociale e, a livello della comunità, depongono per la coesione e per la soluzione dei conflitti. Secondo Granovetter (1974), la forza di un legame è data dalla combinazione di quattro fattori: tempo, intensità, emozioni e scambio di servizi. Le reti forti sono, allora, quelle in cui c’è uno scambio bilaterale di relazioni che dura nel tempo ed in cui i punti sono in contatto tra loro e condividono gli stessi valori. Esse coincidono con i gruppi di appartenenza e sono pronte, nei momenti di difficoltà, ad offrire sostegno. Se da un lato, risultano chiuse e dogmatiche, dall’altro, consentono una risoluzione veloce di problemi tipici. Le reti deboli, al contrario, sono sì aperte al nuovo, ma anche frastagliate e velocemente mutabili; esse rispondono lentamente alle situazioni di difficoltà, ma sono adatte per risolvere una vasta gamma di problemi. Da quanto detto, emerge una funzione fondamentale della rete sociale: il sostegno, assicurato sottoforma di aiuto emotivo, strumentale (per la soluzione di problemi concreti) e informativo (che consiste nel fornire informazioni o trasmettere competenze pratiche). La rete è anche uno strumento di intervento su quei problemi, che presentano aspetti individuali e sociali: la presa in carico riguarda non solo il soggetto che soffre, ma anche il contesto in cui esso è inserito. Per tale ragione, risulta spesso indispensabile promuovere la formazione di nuove reti sociali o intervenire su reti sociali preesistenti ma non efficienti, nonché formare al lavoro di rete. 6 Tipologie di rete La Network Analysis ha permesso di identificare tre tipologie di reti con una struttura propria, che caratterizza il tipo di legame fra gli individui (gruppi o sottogruppi) che vi appartengono (cfr. Amerio, 2000). La Rete densa ed omogenea Si tratta di un unico gruppo indifferenziato; Tutti hanno relazioni con tutti; C’è una forte condivisione dei valori, delle norme; C’è anche una forte resistenza al cambiamento. La Rete frammentata È costituita da piccoli sottogruppi; Si caratterizza per i contatti sporadici; C’è una rilevante apertura ai rapporti sociali; C’è forte flessibilità ed apertura al cambiamento; Il rischio è di confusione per gli individui. La Rete dispersa Ha una morfologia irregolare; I contatti all’interno di essa sono scarsi; Le relazioni non sono durature e reciproche; Va incontro a cambiamenti destabilizzanti; Il rischio è di passività per i membri che vi appartengono. Alla luce della tipologia di rete si interviene per: rinforzare i legami esistenti riorganizzare i legami allentare i legami (se non scioglierli) costruire una rete ex novo. Stiamo parlando di “lavoro di rete”. 7 Il lavoro di rete Il lavoro di rete è un modo tecnico di operare volto a creare sinergia tra attori diversi. Si fonda sul presupposto imprescindibile di sviluppare e qualificare i diversi punti della rete a partire dal riconoscimento della propria mission, fino a promuovere competenze finalizzate all’integrazione sociale. L’integrazione fra diversi attori sociali include, infatti, un lavoro di rete che può essere definito come «azione di raccordo, uno sforzo diretto a facilitare i sincronismi, le sinergie tra i molteplici poli formali/informali coinvolti concretamente nell’aiuto ad una singola persona o a una categoria di persone con problemi» (Sanicola, 1995, p.83). Affinché possa esserci un buon lavoro di rete tra attori sociali risultano indispensabili una serie di azioni: - acquisire conoscenze più approfondite sul contesto e sul ruolo dei diversi attori sociali; - potenziare la conoscenza degli strumenti necessari per la costruzione di una rete (informazione, documentazione, azione sociale, profilo di comunità); - elaborare strumenti per il funzionamento di una rete (news, verbali, attività di formazione); - potenziare le competenze relative alla costruzione e alla valutazione di interventi sociali; - elaborare proposte progettuale: progettare un lavoro di rete a partire dal ruolo e dalle funzioni dei diversi attori sociali per arrivare alla dimensione operativa e alla valutazione; - programmare le attività della rete e loro ricadute all’interno delle istituzioni coinvolte in ambito formativo e progettuale. Un esempio di il lavoro di rete è quello che deve essere realizzato nella disabilità. Il primo passo da compiere, per migliorare le condizioni di vita dei disabili e la qualità di vita di coloro che stanno loro vicino, è costituire reti sociali che funzionano e che generano benessere, il che implica un lavoro di formazione rivolto ai vari punti della rete e di gestione delle relazioni. Risulta necessario pensare a percorsi formativi per i genitori di figli disabili, per la scuola, per i servizi, affinché vengano promosse le competenze al lavoro di rete (Varveri, 2007). E bisogna, ovviamente, intervenire sul sistema di reti di relazione a partire da una lettura delle stesse. 8 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 3 Il Profilo di comunità come strumento di analisi del territorio Lavorare in maniera efficace ed efficiente, al fine di produrre competenza, vuol dire per la scuola non solo una conoscenza approfondita della propria mission istituzionale (cfr. Lezione1) e l’attivazione di un buon lavoro di rete, ma anche una conoscenza del territorio circostante a cui la scuola appartiene ed in cui la scuola si trova ad operare (presupposto imprescindibile per agire e per farlo in sinergia ad altri attori sociali). Per quest’ultimo obiettivo è necessaria, innanzitutto, la lettura del contesto a partire dai suoi aspetti strutturali – ossia i dati oggettivi ed immediatamente osservabili – fino ai suoi aspetti meno strutturali, più dinamici e qualitativi – spesso non immediatamente osservabili – che fanno della comunità un campo di forze ed un sistema altamente complesso. Leggere un contesto, infatti, significa comprenderne gli aspetti più strettamente oggettivi, strutturali e quelli, al contrario, prettamente dinamici, soggettivi, che solo se messi in relazione possono assumere una configurazione differente dall’analisi isolata degli stessi. La metodologia, che permette di fare una mappatura della comunità e dei suoi bisogni è il Profilo di comunità; con l’utilizzo di questo metodo ci si prefigge due obiettivi: la conoscenza del contesto in tutta la sua complessità la trasformazione di alcune variabili del contesto mediante l’intervento mirato Il profilo di comunità e l’analisi dei bisogni rientrano nell’ambito dei metodi di ricerca attiva, poiché oltre ad essere strumenti di lettura sono anche strumenti di cambiamento. L’analisi dei bisogni, pertanto, non si riduce alla loro individuazione, ma si lega anche alla possibilità pratica ed operativa di aumentare la consapevolezza nei membri della comunità, così da progettare in modo partecipato il cambiamento. In questa prospettiva, l’analisi dei bisogni va al di là della ricerca diagnostica. 9 Allo stesso modo, il profilo di comunità consente in primo luogo di mappare la comunità di riferimento, ma nel fare questo si affondano le basi operative per individuare le aree del cambiamento, per progettarlo e realizzarlo. Il profilo di comunità è una metodologia che permette di fare una mappatura della comunità e dei suoi bisogni, ma anche di stimolare la partecipazione dei cittadini a programmi locali e creare o rafforzare reti che integrino servizi, istituzioni, associazioni. Per trasformare alcune variabili del contesto mediante un intervento mirato, infatti, è necessaria la conoscenza del contesto in tutta la sua complessità. Per comprendere meglio questa metodologia e coglierne gli aspetti teorico-operativi, proponiamo di seguito il modello elaborato da Martini e da Sequi (1988; 1995): si tratta di un profilo di comunità suddiviso in sette diversi profili di comunità, che consentono di avere uno sguardo complesso sugli aspetti su cui bisogna lavorare per pianificare una lettura dei bisogni ed il cambiamento auspicato. Ai sette profili – territoriale, demografico, economico, istituzionale, dei servizi, psicologico (o psicosociale) e antropologico – ne è stato aggiunto un ottavo, il profilo del futuro, relativo alla raccolta di dati e informazioni su come la comunità stessa si immagina nel futuro (cfr. Lavanco, Novara, 2006). I sette profili di comunità (modello adattato da Martini, Sequi, 1988) Variabili osservate Fonti informative Strumenti di indagine Profilo territoriale Dati strutturali: confini geografici, Ufficio Forestale Cartografia del territorio superficie, idrografia, orografia, clima, Ufficio della Protezione Guide turistiche risorse naturali. Civile Interviste a interlocutori Dati semistrutturali: rete comunicativa e Uffici Comunali chiave idrica, ferrovie, aeroporti porti Interviste ad abitanti Fognature, degrado ambientale ed edilizio 10 Profilo demografico Numero degli abitanti per complessivo, incremento kmq e Ufficio Anagrafe Metodo annuale, Ufficio Statistiche degli indicatori degli indicatori sociali ripartizione per sesso, età, scolarità, ecc., Ufficio Immigrazione fenomeni migratori, mobilità. Densità e affollamento Profilo economico Reddito pro-capite e della popolazione, Ufficio Collocamento Metodo settori di attività primaria, secondaria e Agenzie per l’impiego sociali terziaria, Interviste occupati, disoccupati, non Camera di Commercio occupati, pensionati, pendolari, lavoro in Patronati Incontri nero e minorile chiave Sindacati Associaz. del con interlocutori privato sociale Questura Profilo dei servizi socio-educativi (scuole di ogni ordine e Distretti scolastici Interviste grado), Questionari Provveditorati socio-sanitari (ospedali, consultori, Osservatori dispersione Incontri con interlocutori ambulatori, centri diurni, case di riposo, scolastica chiave ecc.), Osservazione partecipata ricreativo-culturali (luoghi di ASL ritrovo, centri sportivi, circoli, disco-pub, Assistenti sociali ecc.) Griglie di osservazione Assessorati di competenza Profilo istituzionale Organi comunali, provinciali e regionali Sedi del Comune, della Analisi dei programmi e del con relativa composizione numerica e di Provincia, della Regione, materiale informativo degli carica. Uffici giudiziari, forze armate, di partito (dati elettorali) organi istituzionali. riformatori, polizia, parrocchie Interviste e questionari Incontri con interlocutori chiave Profilo psicologico Senso di comunità, sostegno sociale, relazioni, reti di Tutti caratteristiche i della Focus groups dei comunità (gruppi formali e Interviste gruppi, pluriappartenenze conflitti, area informali, dei bisogni e delle aspettative, ecc. membri secondari) primari e Questionari Griglie di osservazione Video-registrazioni Ricerche-intervento 11 Profilo antropologico Cultura di riferimento, credenze, arte, Tutte quelle sopracitate, costume, storia, tecnologie, valori figure Interviste individuali e di istituzionali gruppo rappresentative, Questionari pubblicazioni locali Incontri chiave Profilo del futuro Quale è l’immaginario futuro? I residenti sul territorio in Focus group e incontri di quanto conoscitori naturali gruppo del territorio con metodi di animazione Per il reperimento dei dati oggettivo-strutturali, può essere utile il metodo degli indicatori sociali – ricavati da fonti statistiche ufficiali – finalizzato a fare una rilevazione sistematica di misure di benessere/malessere in funzione dei diversi gruppi sociali. Per l’analisi dei bisogni e degli aspetti più qualitativi e dinamici – pensiamo all’identificazione dei problemi prioritari e alla percezione soggettiva di questi problemi e delle risorse – si utilizzano strumenti tipicamente psicologici come i questionari, le scale di atteggiamento, la ricerca d’archivio, le interviste, i self-report, i focus groups (discussioni tematiche in gruppo). Si aggiungono, inoltre, strumentazioni tecnologiche per l’osservazione e gli incontri con interlocutori privilegiati, individuati in relazione al sistema che è oggetto di interesse e di studio. Preme mettere in evidenza che per quanto questi strumenti siano discutibili dal punto di vista della loro validità scientifica, essi non escludono misure quantitative di alcuni fenomeni. Infine, è bene dire che per la rilevazione delle informazioni fondamentali sono le interviste rivolte ad informatori-chiave come parroci, sindaco, assessori, dirigenti, imprenditori, artigiani, ecc. In sintesi, il Profilo di comunità consente una riflessione approfondita sulla comunità di appartenenza, sui suoi bisogni, sulle sue risorse e i suoi limiti, sui suoi attori sociali e sulle possibili relazioni da attivare o da cambiare. La mappatura della comunità consente di mettere in luce i vincoli e le possibilità dai quali partire per organizzare un programma di intervento che coinvolga i diversi partner della rete, oltre che naturalmente i destinatari dell’intervento, in modo da fare attenzione ai processi dinamici già in atto in quello specifico contesto. In questo “panorama comunitario”, la scuola è spesso il punto della rete che bisogna coinvolgere nei programmi di intervento sulla comunità, in quanto istituzione che riveste una posizione strategica tra le persone e la comunità, e in quanto attore sociale di cambiamento e oggetto stesso di cambiamento. 12 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 4 Leggere il disagio e prevenirlo Abbiamo provato a sottolineare nelle precedenti lezioni la necessità di promuovere un’attenta analisi del territorio in cui si lavora e favorire un lavoro di rete per assicurare la qualità degli interventi della scuola e, in generale, degli interventi sociali. Spesso, infatti, la scuola è chiamata ad occuparsi di problematiche che riguardano tutti, ma la cui responsabilità si tende a scaricare su altri. Un esempio di quanto stiamo dicendo è rappresentato dai cosiddetti “casi difficili”, dalle situazioni di disagio, rispetto alle quali, di certo, la scuola può fare molto ma sempre e solo in sinergia con gli altri attori sociali interessati. Le situazioni critiche e di disagio sono, in un’ottica comunitaria, manifestazioni del rapporto dell’uomo con l’ambiente; per conoscerle risulta molto utile la compartecipazione e la collaborazione delle persone che vi sono coinvolte. Le situazioni critiche, infatti, possono essere di diversi tipi, ma sono sempre il risultato dell’interazione tra la persona e l’ambiente, delle relazioni sociali vissute durante la propria esistenza. Situazioni critiche PERSONA CONTESTO Intervento relazioni sociali Il significato del termine disagio è tutt’altro che univoco: viene, infatti, usato per descrivere un’ampia gamma di fenomeni di tipo sociale o individuale, che vanno dalle difficoltà fisiologiche di crescita delle attuali generazioni di preadolescenti e adolescenti fino ai casi di minori “a rischio” e a quelli in cui si può parlare di devianza esplicita vera e propria. Il concetto di disagio, che nelle scienze psicologiche stava ad indicare genericamente uno stato soggettivo di sofferenza psichica, ha conosciuto, nell’ultimo decennio, una crescente diffusione 13 come categoria descrittiva della condizione giovanile. Risulta ancora oggi difficile trovare una definizione teorica sufficientemente approfondita e univoca nella letteratura scientifica. “Disagio” viene, spesso, utilizzato come semplice sinonimo di altri due concetti di più tradizionale impiego, “disadattamento” e “devianza”, o ancora come categoria generale che comprende in sé, le altre due. Alcuni autori, invece, pongono i tre concetti in progressione, come tappe di un possibile iter che, a partire da situazioni di malessere diffuso, porterebbe a una condizione di aperto conflitto con la società (cfr. Vico, 1988). In generale possiamo affermare che il disagio, esplorato soprattutto dalla pedagogia e dalla psicologia, è una condizione legata a percezioni soggettive di malessere (il disagio si “sente”, ma non necessariamente “si vede”); il disadattamento si esprime, oggettivamente, come relazione disturbata con uno specifico ambiente (si parla, infatti, di disadattamento scolastico, sociale ecc.), mentre la devianza si manifesta come un comportamento che infrange visibilmente una norma (giuridica o culturale) e determina lo stigma sociale. Il termine disagio, quindi, comprende in sé una vasta gamma di condizioni, che possono essere raccolte in tre categorie, poste su tre diversi livelli: DISAGIO EVOLUTIVO ENDOGENO, legato alla crisi di transizione dell’età adolescenziale. Riguarda la totalità dei giovani e fa parte del naturale processo di crescita della persona; DISAGIO SOCIO-CULTURALE ESOGENO, legato ai condizionamenti della società complessa. Riguarda i giovani che vivono in sistemi sociali come il nostro, ed è una condizione diffusa, condivisa dagli stessi adulti; DISAGIO CRONICIZZANTE, legato all’interazione di fattori-rischio individuali e locali con le precedenti forme di disagio. Riguarda una minoranza di giovani e specifiche aree ambientali, caratterizzate da povertà materialistiche e post-materialistiche. È questa la forma di disagio più grave, che preannuncia il disadattamento vero e proprio. Il disagio è la risultante dell’incrocio di più fattori di rischio: individuali, familiari, sociali e culturali. La vulnerabilità individuale e familiare del giovane è legata alla sua storia personale, al suo stile di vita individuale e familiare, ai fattori di disgregazione familiare che hanno sovvertito i tempi 14 della famiglia, dove il cibo e il tempo libero non sono più occasioni per stare insieme, ma momenti vissuti autonomamente da ciascuno, in modo del tutto individuale. La scuola, nello stesso tempo, rappresenta un luogo che può generare o incrementare uno stato di disagio preesistente; è spesso il luogo dello stress e della competizione in cui eccellere (specie per le ragazze) oppure il luogo dell’insuccesso e del fallimento da cui fuggire (specie per i ragazzi). Essa costituisce, in entrambi i casi, un altro fattore di rischio e non protettivo. Il modello culturale estetico ed edonistico diffuso dai mass-media, che mette al centro i valori individuali del corpo, del successo, del divertimento, del consumo ricreazionale come soli valori positivi, contribuisce a costruire e a spingere il giovane verso le vie di fuga “pericolose”. Un’azione che intenda affrontare tali fenomeni (soprattutto come azione di prevenzione) e dare risposte adeguate a bisogni, problemi ed esigenze così diversi, deve perciò presentarsi in maniera articolata, saper leggere e analizzare i differenti gradi di disagio, deve essere in grado di declinarsi in interventi rivolti al singolo o al gruppo (Centri di Aggregazione Giovanile, Educativa di Strada, Educativa Domiciliare, ecc.). La complessità dei fattori in gioco e la loro dimensione sovralocale e sovranazionale rende estremamente difficile la programmazione di piani per la salute in questo campo, se non attraverso un grande sforzo delle comunità locali di promuovere la salute giovanile attraverso il sostegno diretto o indiretto ai luoghi alternativi di aggregazione giovanile o attraverso interventi innovativi presso i luoghi di aggregazione spontanea giovanile. Questi interventi possono essere di natura psicologica, incentrati sia sulla soggettività che sulle relazioni sociali, o di natura non psicologica, cioè materiali, funzionali al problema in atto. Comunque sia, il benessere come obiettivo generale deve puntare alla valorizzazione delle competenze e delle risorse nella comunità e della comunità, al fine di formare comunità competenti. Con questo termine facciamo riferimento a quella comunità «che sviluppa una capacità d lettura critica su se stessa tale da riconoscere i propri bisogni e mobilitare le risorse umane, economiche, politiche per soddisfarli. Ciò comporta sia l’offerta di servizi sia l’impiego e l’investimento fiducioso sui membri della comunità, portatori di bisogni e di soluzioni ai bisogni» (Lavanco, Novara, 2002: p. 30). Da quanto detto emerge l’enfasi sulla prevenzione. Essa, infatti, rappresenta un importante ponte tra una psicologia focalizzata sul disagio e sull’individuo e una psicologia più incentrata sul macrosistema e sul collettivo (Orford, 1992; trad. it. 1995). Il concetto di “prevenzione” rimanda ad interventi, sull’uomo o sull’ambiente, diretti ad evitare l’insorgenza di malattie o almeno la loro progressione (Amerio, 2000). Le pratiche preventive possono essere condotte a tre livelli: primario, che comprende gli interventi effettuati prima che la malattia insorga per «ridurre l’incidenza di un 15 disturbo attraverso la prevenzione dello sviluppo di nuovi casi» (Orford, 1992; trad. it.: p. 208); secondario, dirigendosi a persone che mostrano segni di disturbo, quindi cercando di individuare precocemente i disturbi incipienti e di fornire trattamenti efficaci già ad un primo stadio di sviluppo della malattia, al fine di ridurre la durata del disagio; terziario, attuate quando la malattia è in atto, per limitarne gli effetti, prevenendo cioè danni che possono associarsi ai disturbi. La prevenzione è dunque orientata al futuro, allo scopo di prevenire qualcosa che può o sta per accadere. Essa può rivolgersi alla comunità allargata (cioè a tutti i membri di una comunità indipendentemente dalle loro condizioni momentanee e dal rischio di sviluppare un particolare disturbo), a gruppi di persone che stanno affrontando una stessa particolare fase della vita, caratterizzata da momenti che rappresentano dei potenziali fattori di rischio, e infine, a soggetti ad alto rischio (quindi focalizzata su individui ritenuti vulnerabili). 16 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 5 Il concetto di empowerment Il discorso, finora avviato sul lavoro di rete e sulla prevenzione delle forme di disagio, ha sullo sfondo una metodologia finalizzata a promuovere empowerment sociale. Promuovere empowerment sociale vuol dire potenziare le risorse locali, in un assetto di comunità attiva, di sviluppo cooperativo e partecipativo, che prevede l’unione a rete degli attori sociali e delle attività. Inoltre, empowerment sociale è presupposto fondamentale di self-empowerment e viceversa. Abbiamo visto, cioè, come non possa esserci sviluppo a livello individuale se non c’è anche un’azione e un cambiamento a livello collettivo. In questa lezione verrà chiarito il concetto di empowerment e si discuterà delle caratteristiche degli interventi di empowerment a scuola e nella comunità. Letteralmente empowerment si riferisce ad un processo di “acquisizione di potere”, inteso come capacità di intervenire attivamente nella propria vita. Il termine empowerment, infatti, contiene la parola “potere”; concetto che, in questo contesto, è declinato nei suoi aspetti positivi, definito in termini relazionali e considerato un’esperienza interpersonale universale: “potere con” più che “potere su” (Amerio, 2000: p. 306). L’attenzione è sulle forme di collaborazione e di partecipazione e il potere è letto nei termini di capacità di azione, nella misura in cui consente all’individuo di intervenire, di attivare le sue energie creative per costruire senso e consenso. La comunità ha tra i suoi fini quello di promuovere e sviluppare empowerment: concretamente ciò significa attivare risorse e competenze, accrescere nei soggetti individuali e collettivi la capacità di utilizzare le loro potenzialità e quanto il contesto offre, a livello materiale e simbolico, per agire sulle situazioni e modificarle (p. 296). L’empowerment si può intendere come prodotto, esito di un processo evolutivo in cui una persona ha evitato l’apprendimento di una condizione di impotenza, conquistandone una caratterizzata da fiducia in sé, e come processo, cioè come percorso attraverso cui una persona disempowered riconquista il suo potere personale. Di fronte ad uno stato di disempowerment, risultato di uno scarso accesso alle risorse, il lavoro consiste nel realizzare un intervento, che promuova l’acquisizione e la conquista permanente del controllo attivo della propria vita. Attraverso 17 l’empowerment, da una condizione di alienazione, i singoli o i gruppi possono raggiungere una condizione di fiducia nelle proprie potenzialità. L’empowerment mette in causa le competenze attive del soggetto, che gli consentono un maggiore controllo su eventi e situazioni, di affrontare e produrre condizioni di cambiamento. Perché queste competenze siano messe in atto è necessaria la presenza di risorse oggettivamente disponibili – materiali e non – e di risorse psicologiche. Esso si centra, quindi, su individuo e comunità insieme, perché i sentimenti di autoefficacia si attualizzano articolandosi in un mondo di relazioni, strumenti, di parole, insomma con il mondo delle risorse oggettivamente intese. L’empowerment prevede una continuità di azioni volte ad ampliare le proprie possibilità attraverso un migliore uso delle proprie risorse, a sviluppare la capacità di relazionarsi al proprio ambiente per produrne una conoscenza critica, la conoscenza dei processi di attivazione, costruzione e utilizzo delle risorse, il proprio senso di responsabilità e la propria capacità decisionale. Si distinguono due tipologie di empowerment: empowerment individuale (self empowerment), ossia il potenziamento della persona per utilizzare al meglio le proprie competenze, risorse, energie, potenzialità; significa sentirsi protagonisti della propria vita; significa saper essere innovativi e generativi, anche in presenza di contraddizioni personali e di ambiente; significa saper mobilitare il meglio di sé verso i bisogni, i desideri, gli obiettivi che ci proponiamo. empowerment sociale, vale a dire quel processo intenzionale, continuo, centrato sulla comunità locale, che comporta rispetto reciproco, riflessione critica, attività di cura (caring) e partecipazione di gruppo, mediante il quale le persone prive di una giusta quota di risorse valide possono raggiungere più facilmente l’accesso a tali risorse e accrescere il loro controllo su di esse (Arcidiacono, Gelli, Putton, 1999). Questo orientamento tiene conto delle capacità dell'individuo, delle sue potenzialità; fa riferimento ad un uomo che sente e che pensa ma anche che agisce in un contesto significativo, in situazioni specifiche, un individuo che vive in uno spazio-tempo definito (Piccardo, 1995). Scuola e interventi di empowerment Anna Putton (1999) parla di una cultura dell’empowerment, intesa appunto come cultura che promuove l’accrescimento personale tramite l’apprendimento consapevole di nuove capacità che si sommano e si integrano a quelle già possedute dalla persona; cultura che si contrappone a quella attuale, diffusa in famiglia, a scuola e nella comunità, che è caratterizzata da relazioni interpersonali inadeguate e da comportamenti viziati. Per tale ragione, l’autrice evidenzia come la scuola abbia la possibilità di potenziare i propri ragazzi attraverso una serie di interventi finalizzati ad aiutare le persone a diventare consapevoli di sé, dei 18 propri bisogni, delle proprie capacità ma soprattutto di mostrare che ci sono diverse alternative tra cui scegliere. Tuttavia, per fare questo, la stessa scuola deve essere empowered; «[…] una scuola potenziata è una scuola potenziante dove i ragazzi imparano a conoscersi e a conoscere gli altri, a comunicare, a valorizzare la diversità, a riconoscere/risolvere problemi e conflitti oltre che, ovviamente, ad apprendere le indispensabili competenze culturali» (Putton, 1999). Nello specifico, Putton indica tre tipi di obiettivi per la realizzazione di interventi di empowerment nella scuola: 1. promuovere autostima; 2. fornire strumenti per aumentare le competenze; 3. sviluppare creatività per produrre cambiamenti. Per raggiungere tali obiettivi, l’insegnante per primo deve diventare un insegnante empowered, cioè un insegnante consapevole innanzitutto dei propri bisogni, dei propri obiettivi e delle proprie potenzialità, attento al benessere psicofisico dei ragazzi ed alle strategie per promuovere empowerment. Rimandiamo alla lezione sulle metodologie attive come strategie di empowerment dei ragazzi e, in questa sede, ci limitiamo ad illustrarne una: la tecnica del tempo del cerchio o circle time. Si tratta di uno spazio-tempo ben definito, all’interno del quale i ragazzi escono dal loro ruolo di studenti e l’insegnante da quello di “esperto”, per diventare rispettivamente partecipanti e facilitatore di un gruppo di discussione; ci si riunisce, infatti, per affrontare un tema o un problema proposto da uno o più alunni o dall’insegnante. Cambia, quindi, il setting: non più banchi a schiera, ma sedie in cerchio; cambia la comunicazione: il facilitatore dovrebbe renderla circolante; cambia il clima: non di valutazione come di solito è il clima scolastico, ma un clima di classe favorevole alla relazione, allo sviluppo della creatività, alla collaborazione e all’assunzione di responsabilità, fondato sull’ascolto attivo e sull’astensione dal giudizio. La finalità generale del circle time è quella di favorire la conoscenza reciproca e la trasmissione di valori basati sull’ascolto dell’altro, sull’espressione di sé, sul rispetto e l’equità. Obiettivi specifici a cui mira l’utilizzo di tale tecnica, sono: - promuovere la capacità di discutere in gruppo, accogliendo e rispettando le diverse opinioni e sentendosi liberi di esprimere le proprie idee; - promuovere la capacità ed il valore di rispettare i tempi e le modalità di esposizione di tutti; - favorire una maggiore integrazione tra i gruppi e dei soggetti con difficoltà relazionali; - promuovere la capacità di risoluzione dei conflitti, attraverso la ricerca comune di soluzioni. 19 È sottinteso che l’impiego del circle time nei contesti scolastici, così come l’utilizzo delle altre metodologie didattiche attive, implica il possesso di specifiche competenze da parte dell’insegnante che le utilizza: la gestione dei tempi e degli spazi, la conoscenza e la gestione delle dinamiche di gruppo, la capacità di facilitare la comunicazione in gruppo, la competenza nella restituzione come chiusura dell’attività. 20 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – I Unità Didattica – Lezione 6 La ricerca-azione: definizione Nella logica che ha guidato questa prima unità didattica, non resta che dedicare spazio ai progetti di ricerca-azione, come indagine riflessiva che parte da un problema scolastico e cerca di capirne la natura per poi, allo stesso tempo, modificarlo attraverso la partecipazione di tutti. Si tratta di una ricerca condotta dagli stessi insegnanti nel contesto scolastico di lavoro e fornisce gli strumenti per l’autovalutazione e per la crescita professionale. Come modello didattico valorizza i processi di cambiamento interni alla classe, nonché le situazioni di apprendimento nuove rispetto a quelle routinarie e più ampiamente condivise; inoltre, è orientata soprattutto alla valutazione dei processi, intesi come incremento dei dinamismi di interesse, di coinvolgimento e di condivisione da parte degli alunni in attività per loro significative. I concetti di soggetto attivo, sociale come prodotto umano, e cambiamento come fenomeno che può essere guidato dall’agire umano, ci portano a considerare un elemento che dovrebbe essere modello didattico per eccellenza: la ricerca-azione. Con la ricerca-azione, Lewin (1951) propone un metodo per produrre un cambiamento controllato nei contesti di vita reale e su gruppi naturali e per affrontare problemi pratici. Due sono i capisaldi della ricerca-azione: o o il coinvolgimento attivo dei partecipanti la cooperazione basata sulla condivisione delle finalità. L’intervento risulta così fondato sulla partecipazione e la collaborazione degli utenti, che diventano protagonisti del cambiamento. Il processo di ricerca-azione così delineato si configura come una spirale di cicli, ognuno dei quali si articola in momenti successivi (Lavanco, Novara, 2006). Dall’analisi del problema alla pianificazione – che, partendo da un’idea generale, mira al raggiungimento di un obiettivo – si passa alla realizzazione operativa del piano di azione elaborato nella fase precedente e, infine, alla valutazione del/i percorso/i per valutare l’azione e la 21 corrispondenza o meno con il piano: l’osservazione e il monitoraggio consentiranno eventualmente di intervenire per modificarlo e, comunque, di raccogliere nuove informazioni utili come base per i cicli successivi, che si avvicenderanno fino alla risoluzione del problema. La ricerca-azione, quindi, è radicata nella prassi ed è sistematica e rigorosa: il risultato è un processo continuo di riprogettazione e riformulazione del/i problema/i. Fare ricerca-azione in classe Per iniziare un progetto di ricerca-azione, è necessario che l’insegnante si ponga delle domande riguardo ad un problema da investigare. Porsi delle domande aiuta a scoprire se c’è un divario fra le proprie intenzioni e ideali e la propria pratica. Per esempio: c’è qualcosa che mi rende perplesso in rapporto al mio insegnamento o l’apprendimento dei miei allievi? ci sono delle idee nuove che vorrei sperimentare nella mia classe? c’è differenza tra quello che credo di fare e quello che veramente faccio? Questo costituisce un problema? Se sì, c’è qualcosa che posso o dovrei fare per risolverlo? cosa mi piacerebbe imparare di me come insegnante? Come lo potrei scoprire? cosa fanno in classe i miei allievi? Cosa stanno imparando? Risponde alle mie aspettative? ci sono problemi nella mia classe? Se sì, c’è qualcosa che posso fare per risolverli? Dopo la definizione dell’obiettivo della ricerca-azione, è importante la messa a punto del piano generale e delle fasi d’azione, non senza essersi posti altre domande: ritengo di avere le competenze necessarie per portare avanti questo progetto? quali strumenti? Perché? Come, in quale ordine e con quali tempi? come saranno analizzati i dati raccolti? quali permessi avere? Chi informare? Come renderlo pubblico (esempio: collegio docenti, annunci in bacheca, ecc.)? quanto durerà complessivamente la ricerca? 22 Il progetto non è rigidamente predefinito. La ricerca azione si svolge come un processo ciclico in cui ogni nuovo elemento di evidenza empirica raccolto può servire da base per costruire nuove ipotesi. I momenti del processo di ricerca-azione sono: identificare una situazione-problema; formare il gruppo di ricerca; pianificare un intervento in risposta alla situazione-problema, basandolo su obiettivi realistici e raggiungibili, definiti nel modo più preciso possibile; agire per mettere in atto gli obiettivi; rilevare gli effetti dell’intervento stesso; riflettere su di essi per capire se l’intervento ha sortito gli effetti sperati oppure no, quali sono stati gli effetti indesiderati, e come utilizzare questa conoscenza per pianificare un nuovo intervento (cfr. Gramigna, 2006). L’ottica è quindi quella di una continua verifica, valutazione e controllo dei risultati conseguiti, attraverso il monitoraggio dell’attività, che consente opportuni aggiustamenti degli interventi È bene dirsi che il cambiamento non può essere totale e immediato ma condotto a piccoli passi, che nell’insieme diventeranno, però, significativi anche se non immediatamente avvertibili. È, infatti, indispensabile fare progetti su scala ridotta, che abbiano in sé possibilità di verifica immediata e che possano essere facilmente rivisti e ripianificati. Inoltre, la ricerca-azione esclude forme di separazione tra chi lavora (es. l’insegnante) e il ricercatore: ricercatori sono tutti i soggetti in azione (tutti gli alunni), poiché ognuno elabora un sapere proprio e partecipa all’elaborazione del sapere degli altri. Tra gli strumenti di raccolta dati ricordiamo i seguenti: diario, schede/griglie di osservazione/rilevazione, questionari, interviste, audio registrazioni, video registrazioni, test, field notes (profili, cronache, schede anedottiche, verbal report, portfolio), portfolio (di documenti vari, didattici e non). Inoltre, per rendere pubblico il proprio lavoro di ricerca-azione si può ricorrere ai seguenti strumenti: seminari o conferenze, mostra fotografica, manifesti di documenti scritti e fotografie, relazione scritta, ecc.. Come indicano Henry e Kemmis (1985), la ricerca-azione non deve essere confusa con il lavoro che ogni insegnante competente fa ogni giorno con la sua classe (preparazione di piani di lezioni, programmazione, azioni in classe, ecc.) né può essere confusa con le idee che l’insegnante ha della classe, dei problemi dell’apprendimento dei suoi allievi, perché in questo caso si tratta di impressioni intuitive, soggettive e opinabili, dato che non nascono da osservazioni sistematiche. 23 In altre parole, perché si possa parlare davvero di ricerca-azione, l’insegnante dovrà impostare un percorso di lavoro – per quanto piccolo – articolato nelle fasi che abbiamo illustrato, con tempi precisi ed obiettivi specifici da raggiungere. Conclusioni L’autonomia scolastica attribuisce alle scuole un ruolo di interfaccia con il territorio. Progettare interventi adeguati ai bisogni del territorio, in termini di offerta formativa integrata, impone, in via preliminare, di fornire risposte ad alcuni quesiti: 1. A quali soggetti sono rivolte le proposte formative della scuola? 2. Con quali strumenti le scuole sono in grado di rilevare la domanda formativa dei territori in cui operano? 3. Con quali risorse le scuole organizzano le risposte al territorio? Riguardo il primo quesito, le proposte formative delle scuole sono rivolte a: alunni, genitori, adulti del quartiere, altre istituzioni del quartiere/territorio, comunità di appartenenza dei migranti, sistema produttivo del territorio, interlocutori culturali, tirocinanti e docenti in formazione, docenti neo entrati nei ruoli della scuola, operatori sociali e sanitari, docenti di altre scuole, amministratori. Gli strumenti a disposizione della scuola sono: 4. iniziative di orientamento, proposte culturali aperte al territorio, rassegne culturali, convegni con la finalità di far crescere la cultura locale e di porsi come attore principale di animazione culturale per ampliare il consenso e definire meglio il proprio ruolo; 5. raccolta di richieste che vengono dal territorio (gruppi, associazioni, istituzioni locali, ecc.) per migliorare la propria prestazione e meglio adeguarla ai bisogni; 6. censimenti sulla dispersione scolastica, abbandoni, deprivazione culturale, ecc. insieme all’EL o al MPI o a reti di scuole, o ad altri soggetti, per progettare interventi di rete; 7. stabilire relazioni col mondo produttivo, allo scopo di progettare interventi sul versante del rapporto scuola/lavoro, sulla base delle vocazioni economiche del territorio. L’apertura al territorio, in termini di informazioni raccolte e di dialogo costante con altre realtà locali, dovrà consentire al Collegio dei Docenti di articolare l’offerta del POF in relazione alle richieste, nel rispetto dei vincoli delle risorse disponibili. Il POF e il Piano Annuale sono le risorse attraverso cui le scuole organizzano le risposte al territorio; sono gli strumenti fondamentali per caratterizzare le capacità di ciascuna scuola di individuare problemi e bisogni formativi e organizzare risposte concrete, nell’ambito di una organizzazione flessibile delle risorse (Cianfarani, 2008). 24 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Amerio, P. (2000). Psicologia di comunità Bologna: Il Mulino. Arcidiacono, C., Gelli, B.R., Putton, A. (a cura di) (1999). Empowerment sociale. Il futuro della solidarietà: modelli di psicologia di comunità. Milano: Franco Angeli. Cianfarani, G. (2008). Il rapporto tra Enti territoriali e Scuola dell’autonomia. In www. rivistadidattica.com/programmazione/programmazione_63.htm Gramigna, A. (2006). Pedagogia solidale. La formazione nell’emarginazione. Milano: Unicopli. Granovetter, M. (1974). Trovare lavoro. Trad. it. in F. Piselli (2001), Reti. Roma: Donzelli. Henry, C., Kemmis, S. (1985). A Point-by-Point Guide to Action Research for Teachers. Australian Administrator, vol. l6, n.4. Geelong, Vic. Deakin University. Lavanco, G., Novara, C. (2012). Elementi di psicologia di comunità. Approcci teorici, aree di intervento, metodologie e strumenti. 3ª ed. Milano: McGraw-Hill. Lewin, K. (1951). Teoria e sperimentazione in psicologia sociale. Trad. it. Bologna: Il Mulino, 1972. Maguire, L. (1983). Il lavoro sociale di rete. Trad. it. Trento: Erikson, 1987. Martini, E.R., Sequi, S. (1996). Il lavoro nella comunità. Roma: NIS. Morzenti Pellegrini, R. (2007). Il percorso di attuazione dell'autonomia delle istituzioni scolastiche. Milano: Giuffrè. Piccardo, C. (1995). Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona. Milano: Raffaello Cortina. Predebon, V. (2006). Ipotesi di un percorso di sostegno alla famiglia con un figlio diversamente abile. Un caso: il figlio adottivo con handicap. In P. Causin, S. De Pieri, Disabili e rete sociale, Milano: Franco Angeli. Putton, A. (1999). Empowerment e scuola. Metodologie di formazione nell’organizzazione educativa. Roma: Carrocci. Sanicola, L. (1995). Orientamenti al lavoro di rete. Quaderni di Animazione e Formazione: L’intervento di rete. Torino: EGA, n. VI, 41-56. Tönnies, F. (1887). Comunità e società (trad. it. Milano: Comunità, 1963). Varveri, L. (2007). Disabilità e rete sociale: la comunità e il lavoro di rete per il benessere del disabile. In S. Di uovo (a cura di). L’integrazione possibile. Una ricerca sull’inserimento dei disabili nel territorio siciliano. Catania: IRRE SICILIA (www.irresicilia.it). 25 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 1 Autonomia scolastica, progettazione e territorio L’Autonomia scolastica “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire il successo formativo coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (Regolamento sull’Autonomia Scolastica, comma 2, art.1, D.M.22.02.99). La trasformazione della scuola e la discontinuità con il passato non consiste, quindi, soltanto in un’innovazione di struttura, ma nell’approccio che si riferisce a tutti i provvedimenti: al centro del processo non c’è più l’offerta, ma una persona vera che apprende (Novara, 2004). La scuola dell’autonomia è la scuola del progetto, poiché pone al centro dell’attenzione l’utente o meglio il bisogno dell’individuo. La progettazione è l’attività intellettuale e operativa di trasformazione di situazioni date in situazioni desiderate (Simon, 1983), e proprio la capacità di progettare diviene una conditio sine qua non di una scuola non più intesa come luogo di applicazione di “programmi” rigidi, predefiniti, universali e uniformi, ma di una scuola a cui è chiesto di analizzare i bisogni dei propri utenti, i loro limiti e le loro risorse, al fine di risolvere i problemi individuati e, al contempo, di sviluppare le potenzialità presenti. Se la scuola, come abbiamo detto, è oggi chiamata non più ad applicare un’offerta formativa standard, ma a progettare tale offerta in funzione dei bisogni della persona a cui sono diretti, occorre riflettere e chiarire cosa esattamente si intende per persona. Alla base del concetto di Autonomia scolastica e, quindi, di progettazione, è presente l’idea di un individuo-nel-contesto. La persona che apprende è cioè inserita in uno specifico territorio, che è quello in cui sviluppa i suoi affetti, le sue relazioni, la sua cultura e dal quale non è separabile ma continuamente integrata e parte integrante (Novara, 2004). Riprendendo quanto teorizzato da Bronfenbrenner (1979), il contesto può essere definito come un sistema di strutture sovrapposte; esso, cioè, è costituito da più livelli: 26 - Il microsistema che è un modello di attività, di ruoli e di relazioni interpersonali di cui fa esperienza la persona che sta sviluppandosi, in una determinata situazione faccia a faccia. Tale situazione comprende sia caratteristiche materiali e fisiche, sia altre persone, con temperamenti, personalità e sistemi di convinzioni differenti. La casa, la scuola e il gruppo dei coetanei sono, per esempio, microsistemi importanti per lo studente. - Il mesosistema che comprende i collegamenti e i processi che hanno luogo tra due o più situazioni, che contengono la persona che si sta sviluppando. Un mesostistema è un sistema composto di microsistemi. Un esempio è il rapporto tra famiglia e scuola. - L’esosistema che comprende i collegamenti e i processi che hanno luogo tra due o più situazioni, di cui almeno una non comprende solitamente la persona che sta sviluppandosi. Gli eventi in questo sistema influenzano i processi all’interno della situazione che contiene immediatamente la persona. Un esempio è la relazione tra la casa e il lavoro dei genitori. Questo livello include, quindi, le principali istituzioni della società, come il sistema economico, quello dei trasporti, il governo locale ecc. - Il macrosistema che consiste in un modello comprende i micro-, i meso- e gli ecosistemi, ed è caratteristico di una data cultura, sottocultura o di un altro e più ampio contesto sociale. Di particolare importanza sono i sistemi di opinione, le risorse, i rischi tipici, gli stili di vita e la strutturazione delle opportunità. Proprio il territorio diviene il luogo in cui ripensare e ri-modulare l’offerta formativa. Ogni contesto è, infatti, caratterizzato da limiti, vincoli, possibilità e potenzialità peculiari. È il territorio a dire “che cosa” è necessario promuovere, ma anche il “come”, vale a dire a definire tanto gli obiettivi da raggiungere, quanto il modo in cui farlo. È quindi dall’analisi del contesto che nasce e matura un’idea progettuale. Abbiamo visto nella lezione 3 della UD 1, che uno strumento utile a tale scopo è rappresentato dal Profilo di comunità, in quanto consente di analizzare i diversi livelli o aspetti che compongono una località. I profili di comunità non solo consentono di cogliere i diversi aspetti che compongono un contesto e di valutarne le loro possibili interazioni, ma permettono anche di individuare possibili partnership e di fare rete con altre organizzazioni (associazioni di categoria, associazioni di volontariato, servizi socio-sanitari ecc.), al fine di soddisfare bisogni comuni (Francescano, Mebane, Tomai, 2003). Il contesto, infatti, con cui oggi l’offerta formativa deve necessariamente essere contrattata, non va inteso soltanto in termini di richieste e come contenitore di problemi, ma anche come luogo di opportunità e risorse. A questo aspetto innovativo della progettazione e dell’Autonomia scolastica dedichiamo un ulteriore spazio. 27 Progettazione e lavoro di rete La progettazione non può prescindere da una collaborazione e sinergia con gli altri attori sociali. La scuola, infatti, è titolare di un’azione che, per avere risultati positivi, necessita della partecipazione della famiglia e degli enti pubblici e privati presenti nel territorio, nonché degli stessi utenti (Celi, Scuderi, 2004); detto in altre parole, necessita di una strategia di intervento che prende il nome di lavoro di rete (cfr. UD1). Lavorare in rete, come abbiamo visto, significa lavorare per creare e rafforzare dei legami, creare integrazione o opportunità strutturali di comunicazione e scambio tra entità distinte, ma che possono convergere verso una azione o tensione condivisa. Quali valori nel lavoro di rete? Cooperazione Solidarietà Aiuto reciproco Responsabilità personale e collettiva Mobilitazione intorno ad un progetto comune Dall’individuale al collettivo Dall’aiuto all’auto aiuto Dall’intramuros all’extramuros Affinché un lavoro di rete venga attivato, è necessario che qualcuno percepisca una situazione come problematica o che si renda conto della presenza di bisogni rimasti insoddisfatti, magari anche a livello personale (pensiamo, per riprendere l’esempio riportato nella UD1, ai genitori di un ragazzo disabile). Si parte, quindi, dalla domanda portata avanti da un soggetto sociale individuale (nel nostro esempio i genitori), gruppale (associazioni di famiglie di disabili) o da un’organizzazione (come può essere la scuola), per tradurre il problema in una logica comunitaria. Progettare in un’ottica di rete significa, in termini operativi, chiedersi quali attori sociali (associazioni, istituzioni, aziende pubbliche e private), i cosiddetti stakeholders, possono avere interesse o responsabilità rispetto ad un certo bisogno o problema; significa riconoscere le ragioni e 28 i livelli di interesse nei confronti della soluzione del problema, capire le disponibilità ad investire, i punti di accordo e le diversità. Dall’individuazione degli interessi si passa poi alla negoziazione, per governare le differenze e farne risorsa al progetto (D’Andrea, 2003). Infatti, senza consensi di significati, ruoli e obiettivi, un progetto è destinato ad essere continuamente disturbato. La difficoltà sta proprio in questo: non tanto nell’individuare i potenziali partners o mettere intorno ad un tavolo gli attori istituzionali, ma appunto nel rendere esplicite le differenze (di motivazioni, di aspettative, ecc.), non al fine di annullarle, ma per costruire una base comune di lavoro (ivi). 29 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 2 Le fasi della progettazione Nella precedente lezione abbiamo discusso di progettazione in riferimento al territorio e alla rete sociale nella quale si opera. In questa lezione iniziamo a scendere nel cuore della progettazione, illustrando le fasi che la caratterizzano e soffermandoci sulla stesura di un progetto. Innanzitutto, il termine progettazione (dal tardo latino proiectare, letteralmente gettare avanti) assume il significato di proiettare sulla realtà complessa una trama intenzionale di ipotesi di azioni, tale da costringerla a modificarsi (Tortorici, 2003). La progettazione, quindi, può essere definita come una transizione dal desiderio all’idea e dall’idea all’azione intenzionale (Leone, Prezza, 1999) o anche come un’azione cognitiva, che attiene alla trasformazione di materiali e/o condizioni al fine di ottenere un cambiamento (Lavanco, Novara, 2012). Queste due definizioni si completano a vicenda, in quanto mettono l’accento su due aspetti indispensabili all’azione progettuale: l’aspetto creativo e quello razionale. La progettazione, infatti, non è né un mero esercizio creativo né un’attività meccanica e sterile, bensì un processo, che segue un metodo pratico per generare cambiamento. Di seguito, le fasi entro cui si struttura. La progettazione può essere schematizzata in 5 fasi, che rappresentano le operazioni logiche di un progetto, ma anche le precondizioni per una sua stesura quanto più chiara possibile. 1. IDEA ZIONE 2. A TTIVA ZIONE 3. PROGE TTA ZIONE 4. REA LIZZA ZIONE 5. VALUTA ZIONE 30 1. L’ideazione è la fase in cui nasce l’idea di un progetto. L’idea può avere origine da un’attenta analisi dei bisogni, dalla mappatura di un territorio, da emergenze o da problemi irrisolti, o ancora da situazioni ritenute a rischio, sulle quali si pensa di intervenire per promuovere una condizione di maggiore benessere. Oggi, l’ideazione è spesso messa in moto da possibili finanziamenti (pensiamo ai fondi della Comunità Europea), ma anche in questo caso essa non può mai essere avulsa dal contesto. Un’idea progettuale deve sempre risultare rilevante, utile, realizzabile e finanziabile. 2. L’attivazione è la fase che mira ad acquisire conoscenze approfondite sul problema e su interventi simili realizzati. Questa è anche la fase in cui è necessario attivare le risorse e sviluppare le possibili alleanze, quindi lavorare al fine di raggiungere una costruzione condivisa del problema con i diversi attori sociali (Leone, Prezza, 1999). Nello specifico, la fase di attivazione dovrebbe: consolidare e allargare la domanda di progettazione; individuare e attrarre le risorse umane, organizzative e finanziarie; definire ipotesi comuni di interpretazione del problema; individuare le finalità e le strategie di base (Lavanco, Novara, 2012). 3. La progettazione si riferisce alla stesura scritta del progetto, di cui parleremo dettagliatamente nel paragrafo successivo. È importante sottolineare che la stesura del progetto è condizione indispensabile per presentarlo agli organi competenti di approvazione e rappresenta anche un’importante guida all’azione nel corso di realizzazione. 4. La realizzazione segna il passaggio dalla stesura cartacea al fare effettivamente le cose che il progetto descrive. È forse il momento più difficile a causa dei vincoli che si possono incontrare nei contesti di vita reale, per cui una stima dei vincoli andrebbe fatta preventivamente (Lavanco, Novara, 2012). 5. La valutazione è la fase in cui si valuta l’efficacia (capacità di raggiungere gli obiettivi) e l’efficienza (rapporto costi/benefici) di un progetto. La valutazione non è realmente la fase finale, bensì un’esigenza che deve accompagnare tutte le fasi progettuali; per questo è indispensabile definire, prima dell’avvio del progetto, le azioni, gli strumenti e le modalità di verifica. La valutazione va intesa come uno strumento che consente di controllare: il se, il come, il quando e il cosa le azioni realizzate hanno prodotto. La valutazione è, quindi, intesa principalmente come valutazione di processo; essa ingloba l’attività di monitoraggio, che consiste nell’andare a rilevare periodicamente informazioni (attraverso questionari o riunioni periodiche di equipe) che documentino 31 l’effettiva tensione delle attività verso gli obiettivi individuati, al fine di apportare eventuali modificazioni in itinere. Oltre alla valutazione in itinere (cioè quello che abbiamo definito monitoraggio), la valutazione di processo richiede una analisi delle condizioni iniziali del processo (valutazione ex ante) e una verifica degli esiti (valutazione ex post). Nel mondo della scuola, secondo i formulari predefiniti dal Programma Operativo Nazionale e di quello Regionale, oltre alla valutazione di processo, vengono effettuate altre due forme di verifica: la valutazione degli apprendimenti, che consiste nella valutazione delle conoscenze e competenze acquisite dai partecipanti al progetto, attraverso l’elaborazione di strumenti di verifica e valutazione, differenziati rispetto alle fasi di somministrazione; la valutazione finale che ha l’obiettivo di documentare in modo dettagliato le caratteristiche del percorso, al fine di permettere una certificazione (Novara, Baccarella, Fiore, 2004). La stesura di un progetto La stesura di un progetto rappresenta l’occasione per riordinare, sistematizzare e chiarire le idee progettuali. Le voci che compongono un progetto sono: La premessa o analisi del problema. Si specifica perché è importante intervenire in quel particolare contesto e su quel particolare problema. È utile esplicitare su quale problema si interverrà, come è definito e come si manifesta, la sua entità (incidenza e diffusione), se è in espansione e se genera altri problemi; vanno, inoltre, inserite le cause individuate, per chi e perché è rilevante e, soprattutto, se le persone coinvolte desiderano il cambiamento che si vuole produrre. Questo, ovviamente, richiede una certa conoscenza del fenomeno che può essere il frutto dell’esperienza diretta, dell’esame della letteratura specialistica, della ricerca di dati e statiche sull’argomento o ancora di ricerche e analisi realizzate nel contesto specifico in cui si intende intervenire. Finalità generale e obiettivi. Si esplicita, coerentemente all’analisi effettuata, cosa si desidera cambiare, in chi e in quale misura. La finalità va espressa in modo chiaro e comprensibile. Se essa è troppo ampia, è necessario riportare i sotto-obiettivi o obiettivi specifici, che indichino i singoli cambiamenti attesi nella direzione della finalità generale (un accorgimento utile è quello di adoperare verbi forti: aumentare, diminuire ecc.). Gli obiettivi 32 devono essere rilevanti rispetto al problema, ragionevolmente raggiungibili, considerati i vincoli del progetto. Beneficiari o popolazione target. Devono essere descritti i destinatari dell’intervento, specificando il loro numero e di chi si tratta. Bisogna riportarne le caratteristiche sociodemografiche, ma anche i valori e le abitudini (collegati alla problematica affrontata) che li contraddistinguono. Può essere utile esplicitare anche le modalità di contatto e di selezione dei destinatari, e se essi desiderano o meno il cambiamento cui mira l’intervento. Solitamente in un progetto si distinguono due tipi di destinatari: diretti e indiretti, dove questi ultimi coincidono con le persone non direttamente coinvolte nell’intervento, ma sulle quali esso comunque va ad incidere (per esempio nel caso di un progetto destinato ai genitori degli alunni, i primi saranno i destinatari diretti, i figli quelli indiretti). Modello d’intervento e attività. La prima si riferisce a come perseguire gli obiettivi, dunque alla metodologia, mentre le attività riguardano cosa il progetto si propone di fare per raggiungere tali obiettivi. Si tratta, quindi, di aspetti interconnessi tra loro. Nel mondo della scuola, e più in generale nella progettazione sociale, il modello di intervento è di tipo processuale: non esiste cioè una relazione di causa ed effetto tra attività e risultati, ma le azione promosse vanno a stimolare e ad attivare processi che in modo indiretto, influenzano i risultati. Tempi di realizzazione. È opportuno definire in quale arco di tempo si dispiega l’intervento. Si dovrà indicare tanto la durata complessiva, quanto il tempo riservato al raggiungimento dei singoli sotto-obiettivi o alle singole fasi. Mezzi, risorse e budget. In questa voce rientrano tutte le risorse (umane, strumentali, gestionali) indispensabili per realizzare le diverse attività, che vanno poi tradotte in risorse finanziarie. La valutazione. Come riportato nel paragrafo precedente, già nella stesura del progetto vanno previste e descritte le tipologie e le modalità di verifica del progetto. Rimandiamo alla lezione 3 di questa Unità Didattica per approfondire il tema della valutazione. 33 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 3 La valutazione dei progetti In questa terza lezione della UD 2, verrà discussa la fase di valutazione del progetto, riflettendo sulla sua importanza e sulla sua complessità. La valutazione va sempre inclusa in un progetto e risponde alle seguenti domande: - con quali obiettivi - in che tempi va fatta - con quali strumenti. Un buon piano di valutazione dovrebbe prevedere: - la valutazione del contesto (economico, sociale, politico) all'interno del quale è inserito il programma, per scoprirne le risorse e i bisogni ed accertare la rilevanza del problema che si vuole affrontare; - la valutazione di processo (cioè la valutazione della pianificazione, dell’attivazione, dell’implementazione e dello svolgimento delle diverse azioni del programma, insieme ad un’accurata documentazione dello sviluppo dello stesso); - la valutazione dei risultati (a breve e a lungo termine) intesi come i cambiamenti ottenuti dal programma. In sintesi, il processo di valutazione può essere scandito in: 1. valutazione ex ante (valutazione del contesto, analisi critica del disegno concettuale, effettuata ancor prima della realizzazione vera e propria); 2. valutazione di processo (l'analisi dell'adeguatezza delle modalità di intervento, delle caratteristiche del programma, dei destinatari e delle condizioni di attuazione. Si articola in: 1) adeguatezza delle risorse rispetto agli obiettivi prioritari; 2) adeguatezza dell'organizzazione e delle risorse; 3) coerenza dei metodi di lavoro adottati in relazione agli obiettivi; 4) adeguatezza dei metodi di lavoro adottati); ha lo scopo, insomma, di offrire e scambiarsi informazioni tempestive sulle modalità con cui gli allievi sviluppano 34 il loro processo di apprendimento, in modo da predisporre con puntualità gli interventi didattici necessari; 3. valutazione di risultato (l'analisi dell'efficacia, dell'efficienza e dell'impatto del programma svolto nel raggiungere gli obiettivi prestabiliti. Si articola in: 1) analisi della corrispondenza tra risultati e obiettivi; 3) verifica del cambiamento in seguito all'intervento; 4) verifica delle ipotesi di partenza). Si colloca alla fine di un percorso formativo ed assume caratteristiche specifiche, anche in presenza di frequenti momenti di valutazione intermedia. Offre, quindi, gli elementi per esprimere un giudizio complessivo e sintetico sui livelli di apprendimento raggiunti e tende a saggiare la competenza dell’allievo di riorganizzare le conoscenze/competenze acquisite in quadri concettualmente significativi. Per la valutazione dei progetti esistono specifici strumenti, la cui scelta deve avvenire in funzione degli indicatori che vogliamo andare a misurare. Ogni strumento scelto deve riuscire a misurare effettivamente quell’indicatore. Per esempio, nella progettazione scolastica è importante l’utilizzo sia di strumenti per la misurazione delle abilità e delle conoscenze (in entrata, in itinere e in uscita) del target cui è rivolto il progetto, sia di strumenti per l’osservazione dei comportamenti e degli atteggiamenti. Fra i metodi qualitativi, utili per la raccolta di informazioni, l’osservazione è quello che consente un approccio più globale ad un contesto naturale per periodi di tempo anche estesi. Gli strumenti quantitativi, ancora, possono riguardare verifiche intermedie e verifiche finali per la misurazione delle conoscenze e delle abilità, che si vanno acquisendo grazie al progetto; valutazioni relative al gradimento dei partecipanti, ecc. Riportiamo in seguito alcuni esempi di schede e di questionari. 35 La valutazione dei progetti di prevenzione* Esempio di verifica di processo Date Obiettivi Gen. 03 Costituzione del gruppo di Numero coordinamento Indicatori Criterio di successo di Risultati Valutazione istituzioni Coinvolgimento di almeno 5 Coinvolte coinvolte istituzioni 3 scuole e 2 consultori Feb. 03 Pianificazione del progetto 'Lista di obiettivi e Identificazione di 4 obiettivi 2 obiettivi identificazione delle strategie multilivello operative e relative individuali e relative strategie operative strategie operative Mar. 02 Reclutare i volontari Apr. 02 Realizzare il materiale per il Predisposizione versione del Consenso programma Mag. 03 N. di volontari reclutati fascicolo Almeno 12 volontari del gruppo 15 volontari di Consenso coordinamento Sviluppo degli strumenti di Prima versione Fase pilota conclusa raggiunto con qualche Q proposta , di miglioria valutazione Versione finale Giù. 03 Formazione volontari Formazione di Consenso del gruppo di lavoro tutti volontari i Partecipazione del 90% dei volontari agli incontri Lug. 03 Definizione planning attività Stesura del planning Planning rispettato Set. 03 Partecipazione alle attività Numero utenti 40 utenti del programma * Gli allegati di questa sezione sono tratti da: Valutare gli interventi psicosociali di L. Dallago, M. Santinello, A Vieno. Carocci, Roma (2004). 36 Esempi di obiettivi misurabili e non misurabili Obiettivo generale Obiettivo specifico Indicatore Obiettivo corretto Prevenire errato i Diminuire il numero di Numero comportamenti liti a scuola aggressivi Diminuire Aumentare la capacità Scala l'uso di tabacco di resistere pressione dei pari specifico Indicatore di liti scuola a Sensibilizzare i giovani ??? sui sulle Non comportamenti adeguato: aggressivi abilità Organizzare alla pressione dei pari pressione dei pari c'è sulla adeguato: relativo ottenibile indicatore obiettivo vago incontri ??? Non alla percepite di resistenza informativi 37 c'è indicatore obiettivo al troppo non cambiamento Esempi di item per questionario Valutazione di processo Di gradimento 1. In generale come considera il programma svolto? dei partecipanti • Eccellente, molto buono, soddisfacente,scarso, negativo 2. Come giudica le attività? • Molto utili, in parte utili, per niente utili 3. Ha risposto alle sue aspettative? • Molto, in parte, per niente 4. Cosa farebbe per migliorare in futuro l'attività? ………………………………………………………………………………… Per gli operatori: 1. Quante persone erano presenti all’incontro? ……………………………………………………………………………… 2. L’attività è stata svolta con l’ordine previsto? Nei tempi previsti? ……………………………………………………………………………….. 3. Come giudica l’interesse dei partecipanti? • Eccellente, molto buono, soddisfacente, scarso, negativo. 4. Ha avuto qualche difficoltà nella messa in atto dell’attività ……………………………………………………………………………… VA Valutazione di efficacia Conoscenze 1. Le anfetamine sono: • Stimolanti, depressivi, narcotici, nessuna delle opzioni indicate 2.L'LSD può essere riconosciuto da: • Il suo odore, il gusto, il colore 3. Un effetto non causato dalla marijuana è: • Diminuzione di appetito, dispercezione, cattiva coordinazione, umore euforico 4. Quali sono gli effetti della cocaina? ……………………………………………………………………………………………. Atteggiamenti e opinion 1. La droga è un mezzo innaturale • Assolutamente d'accordo, d'accordo, nessuna opinione, in disaccordo, assolutamente in disaccordo 2. Gli insegnanti dovrebbero incoraggiare i loro studenti a sperimentare droghe. • Assolutamente d'accordo, d'accordo, nessuna opinione, in disaccordo, assolutamente in disaccordo 3. Le leggi contro gli spacciatori dovrebbero essere più severe. • Assolutamente d'accordo, d'accordo, nessuna opinione, in disaccordo, assolutamente in disaccordo Fonte: Linney, Wandersman (1991). 38 per trovare divertimento Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 4 Definire la partecipazione È emerso già con forza – anche se approfondiremo la questione nelle lezioni successive – come lavorare per progetti significa lavorare con altri e per altri; significa avere la capacità di partecipare, ma anche la competenza per promuovere la presenza attiva di altri attori, che nella realtà scolastica si identificano con i colleghi insegnanti, enti, professionisti esterni e con gli utenti destinatari dei variegati progetti di intervento. Ma cosa si intende per partecipazione? Con il termine partecipazione si definisce quel processo in cui i soggetti, interessati ad affrontare o conoscere situazioni più o meno problematiche, definiscono insieme gli obiettivi, i metodi e le azioni che intendono sostenere. Da quanto detto emerge chiaramente la differenza con il processo di coinvolgimento; spesso, erroneamente, si utilizza quest’ultimo termine come sinonimo di partecipazione. In realtà, nel coinvolgimento i soggetti si attivano in un progetto pensato, scelto e deciso da qualcun altro; se coinvolgere significa far entrare, far aderire qualcuno in qualcosa di predeterminato e confezionato, partecipare vuol dire pensare e fare insieme. Si può, quindi, parlare di partecipazione quando i membri di un gruppo, entrando in relazione, in qualche misura definiscono e ridefiniscono i problemi, analizzano i bisogni, negoziano e condividono le decisioni (Mannarini, 2009). Attivare un processo di partecipazione, di conseguenza, non è soltanto prendere parte alla vita, al momento, bensì creare presupposti affinché gli individui possano agire come soggetti e non come oggetti. Per diventare tali, cioè attivi, gli individui devono avere sia la “volontà” sia la “possibilità”, di farlo. Partecipare trae origine dalla radice del verbo latino “parere”, che significa “produrre”; l’etimologia della parola, dunque, reca in sé un chiaro riferimento all’azione. Partecipare vuol dire essere parte attiva nel processo di formazione delle scelte che riguardano il gruppo e la comunità nella quale si vive; vuol dire esercitare potere sulla propria vita e sul proprio ambiente, consapevoli delle risorse individuali e collettive. Si partecipa, perciò, perché si fa parte. Si partecipa, inoltre, perché si è parte; la parola stessa, dice Cotta (1979), ha due significati semantici: partecipare come prendere parte ad un’azione e come essere parte di un gruppo, di una 39 comunità, di un sistema. Partecipare è, dunque, con-partecipare e con-sentire, cioè condividere con altri non solo un’azione ma anche un sentimento che diviene comune. Perché ci sia partecipazione in un gruppo-classe, i componenti devono sentirsi innanzitutto appartenenti a tale gruppo. Componenti fondamentali per lo sviluppo dell’appartenenza sono: - la possibilità di sperimentare sicurezza fisica ed emotiva dentro il gruppo; - la condivisione di un sistema di simboli comuni (compresa la propria storia); - l’impegno personale e l’investimento che si è disposti a sobbarcarsi. Parlare di partecipazione significa, ancora, parlare di motivazione. La motivazione sta, infatti, alla base dell’agire umano; essa è la spinta che fa tendere un comportamento verso un fine, è, in sintesi, il principio attivo organizzatore del comportamento. È importante sottolineare come tale stimolazione del comportamento risponda sia ad alcuni movimenti esterni, sia ad altri interni, che rispettivamente sono definiti come: motivazione estrinseca e motivazione intrinseca (Montesarchio, 2000). Per motivazione estrinseca si intendono le situazioni in cui la spinta dell’agire verso l’obiettivo è voluta dall’esterno; ad esempio si prende parte ad un intervento perché suggerito dal genitore o perché richiesto dall’insegnante. Per motivazione intrinseca, invece, si intendono le situazioni in cui la spinta ad agire viene direttamente ed internamente dall’individuo; per esempio si partecipa ad un intervento perché permette un miglioramento personale o perché si vuole colmare un bisogno o risolvere un problema che riguarda se stessi, il proprio gruppo o ancora la propria realtà locale. Le motivazioni intrinseche, le pressioni interne, sono le più potenti (Gray, 1997); queste, infatti, permettono un maggiore investimento, una maggiore voglia di fare, che implica una maggiore propensione a mettersi in gioco, quindi a partecipare. Dove la motivazione non è un “atteggiamento che si ha o non si ha”, ma una qualità da costruire attraverso esperienze gratificanti e significative. L’altra componente fondamentale della partecipazione è la possibilità, cioè il potere di partecipare. Come in un “circolo virtuoso”, partecipazione e potere si ritrovano accanto, perché l’una spiega l’altro e viceversa. Quando parliamo di potere ci riferiamo più propriamente a quello che viene definito empowerment. Il potere che ognuno di noi si attribuisce, il senso di autoefficacia, la percezione di controllare o, viceversa, subire gli eventi, sembrano essere fattori influenzanti la scelta di partecipare attivamente o di assumere un atteggiamento di delega delle responsabilità. La partecipazione è, dunque, il risultato complesso di un insieme di variabili che interagiscono tra loro: si tratta di variabili strutturali e di contesto, ossia variabili oggettive (le risorse disponibili, la 40 struttura economica, le influenze sociali, la tecnologia, la modernizzazione, la classe, ecc.), di variabili soggettive e personali (in termini di motivazione, preferenze individuali, possibilità di accesso alle opportunità di azione, ecc.), e di variabili organizzative ed istituzionali (capaci di garantire i diritti di cittadinanza attiva e di definire le regole del gioco democratico) che insieme concorrono nel definire la partecipazione ed i suoi risultati. Fattori strutturali Macro processi Motivazioni, Preferenze individuali VARIABILE INDIPENDENTE Vincoli, Struttura delle opportunità di azione Scelte individuali VARIABILE INDIPENDENTE Comportamenti osservabili Output aggregati VARIABILE DIPENDENTE Tratto da Raniolo, 2002. Le variabili soggettive hanno a che fare con la motivazione, con l’impegno, con la predisposizione a reggere i costi degli atti partecipativi; a questo aggiungiamo anche il possesso delle cosiddette “competenze civiche” (civic skills), cioè l’insieme di “capacità comunicative ed organizzative” (Verba, Schlozman, 1995; cit. in Raniolo, 2002) essenziali per la partecipazione sociale. Pertanto, la partecipazione implica sia dei presupposti oggettivi quali l’informazione, la disponibilità delle risorse, ecc. sia presupposti soggettivi come la coscienza partecipativa, la disponibilità al dialogo e al confronto, la capacità di farsi carico di responsabilità, la capacità di superare la visione rigida dei ruoli, ecc. Guardando nello specifico ai destinatari dei progetti di intervento, promuovendo la partecipazione si hanno diversi vantaggi: la sostenibilità del progetto migliora, se i beneficiari sentono di esserne "proprietari" e si fanno carico della manutenzione e del funzionamento delle realizzazioni del progetto dopo la sua conclusione, nel lungo periodo; l'autoresponsabilità e la fiducia in sé stessi vengono promosse contribuendo a sconfiggere la mentalità della dipendenza e inducendo gli individui a prendere l'iniziativa e ad individuare soluzioni per i propri problemi. La partecipazione è, quindi, un ottimo rimedio contro i molti rischi sociali; è un modo per evitare che le incertezze delle nuove generazioni vengano dirottate verso manifestazioni problematiche o devianti o, ancora, 41 per evitare che le loro risorse, le loro energie e le loro motivazioni vengano perdute nelle trame della disaffezione, dell’apatia, dell’emarginazione. Naturalmente, l’insegnante è chiamato ad assicurare un contesto di apertura alla partecipazione, caratterizzato dall’assenza di atteggiamenti giudicanti e distruttivi; ed ha il ruolo di fornire adeguati strumenti di orientamento alla partecipazione, altrimenti c'è il rischio di perdersi. Partecipazione non significa necessariamente che tutti gli studenti sono tenuti a partecipare nello stesso modo, o nella stessa quantità. Piuttosto, l'obiettivo è quello di fare in modo che gli studenti siano in grado di partecipare in classe in modi che li aiuteranno a raggiungere gli obiettivi di apprendimento. 42 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 5 Progettazione e partecipazione Lavorare in una logica progettuale significa, innanzitutto, lavorare per promuovere la partecipazione. La difficoltà di lavorare per progetti è proprio legata alla difficoltà di far partecipare: condividere e negoziare idee e decisioni, avere fiducia e dare spazio ai punti di vista altrui e, soprattutto, rinunciare a quote di potere per conferirle ad altri. Chi promuove e realizza interventi deve sempre chiedersi se il cambiamento è desiderato e sentito dai destinatari; inoltre, la facile affermazione “non partecipano!” deve essere sostituita o per lo meno seguita da alcuni interrogativi: “sto cercando di motivare alla partecipazione?”; “do realmente spazio e potere di partecipare?”. Risulta utile, a tale proposito, citare le elaborazioni di Hart (1992) sulla partecipazione e i concetti di assimilazione e accomodamento definiti da Piaget (1972). Hart utilizza il termine partecipazione per indicare il processo di assunzione di decisioni inerenti la vita di un individuo e quella della comunità nella quale egli vive. Il termine processo sta ad indicare che si diventa sicuri e competenti nel partecipare solo gradualmente e attraverso la pratica; perché questo si realizzi i destinatari dell’intervento devono essere coinvolti in progetti per loro significativi. La tesi sostenuta è, dunque, quella secondo cui attraverso la pratica di partecipazione ai progetti, si induca indirettamente partecipazione rispetto al proprio progetto di vita. Per dirla con Piaget, determinati schemi interpretativi e di interazione, acquisiti (assimilati) in un determinato ambito della vita, possono essere trasferiti e adattati (accomodamento) ad altri ambiti della propria vita: dalla scuola alla famiglia, al gruppo dei pari. Alla luce dell’analisi del concetto di partecipazione e di quanto detto finora, risulta piuttosto chiaro perché è tanto necessario attivare processi partecipativi, ma anche il perché sia tanto difficile. Sotto viene riportata la Scala della partecipazione (Hart, 1992) (Tabella 1 e Grafico 1), uno strumento tratto da uno studio commissionato dall’UNICEF come parte di una ricerca sui bambini di strada e sui bambini lavoratori. Il suo utilizzo aiuta la riflessione in merito alla partecipazione dei ragazzi nei progetti. 43 Tabella 1. La scala della partecipazione LIVELLI PARTECIPATIVI 8. Progetti pensati e gestiti dai giovani nei quali I ragazzi definiscono gli obiettivi del progetto e vengono coinvolti gli adulti le decisioni operative vengono prese e messe in atto con gli adulti 7. Progettazione in proprio da parte dei bambini/ Progetti concepiti e realizzati dai bambini ragazzi quando giocano liberamente 6. Progetti degli adulti ma decisioni condivise Progetti iniziati dagli adulti in cui le decisioni con i ragazzi sono prese con la condivisione dei bambini 5. Consultati ed informati I giovani diventano consulenti nei progetti elaborati e gestiti dagli adulti 4. Investiti di un ruolo e informati Bambini intenzioni e ragazzi del sono progetto e informati si sulle impegnano volontariamente dopo averlo conosciuto e capito 3. Partecipazione di facciata e simbolica Bambini coinvolti nelle conferenze senza spiegare i criteri in base ai quali è avvenuta la selezione tra i compagni di scuola 2. Ragazzi con un ruolo decorativo Bambini che cantano e ballano con T-shirt illustrative di una causa senza sapere cosa sta accadendo e senza avere diritto di parola nell’organizzazione dell’evento 1. Manipolazione e inganno Bambini che partecipano ad un concorso di disegno senza conoscere i criteri di selezione dei giudici 44 Grafico 1. La scala della partecipazione Gradino 8: progetti pensati e gestiti dai bambini/giovani nei quali vengono coinvolti gli adulti Gradino 7: progettato e diretto dai bambini/giovani Gradino 6: iniziative degli adulti, decisioni condivise Gradino 5: consultati ed informati Gradino 4: informati ed investiti di un ruolo Gradino 3: partecipazione simbolica/di facciata Gradino 2: decorazione Gradino 1: manipolazione Cfr. Hart, 1992 La Scala, come possiamo vedere, si sviluppa su otto gradini, di cui i primi tre (partendo dal basso) rappresentano i modelli di falsa partecipazione, mentre gli altri cinque identificano i vari livelli di partecipazione autentica, che può essere attuata nei progetti per bambini e adolescenti e di cui parleremo meglio nella prossima lezione. La Scala della partecipazione può essere utilizzata per valutare la qualità dei progetti che coinvolgono bambini e adolescenti, ricordando che la Scala non deve assumere caratteristiche rigide di semplicistica unità di misura, in quanto molti elementi entrano in gioco rispetto al grado di partecipazione, al di là di quanto stabilito a priori dai progetti (l’età dei ragazzi, la volontà degli stessi, le condizioni ambientali oggettive ecc.). Secondo Hart, non è necessario che i ragazzi operino sempre ai più alti gradini della scala; infatti, in tempi differenti, i ragazzi stessi potrebbero voler prendere parte con un grado variabile di coinvolgimento e di responsabilità. Il principio importante, allora, è quello della scelta: i progetti posso essere definiti ottimizzando le opportunità per ciascun ragazzo/bambino di scegliere di partecipare al più alto livello delle sue abilità. 45 Modelli di falsa partecipazione 1. Manipolazione. È il nome del gradino più basso della scala. La manipolazione discende spesso dalla credenza che il fine giustifichi i messi o dalla scarsa opinione che gli adulti hanno delle competenze dei bambini. C’è manipolazione, se i bambini/ragazzi non conoscono il problema e non capiscono il significato delle loro azioni. Un esempio è quando bambini, che addirittura non vanno a scuola, sfilano con cartelloni di protesta contro gli effetti negativi delle politiche sociali sull'infanzia. Un altro modello di manipolazione è quando i bambini/ragazzi sono consultati, ma poi non c’è nessun riscontro al parere da loro espresso. Il più immediato esempio è quello dei bambini chiamati a disegnare il loro spazio di giochi ideale. Gli adulti raccolgono i disegni, compiono una sintesi delle idee emerse che definiscono “idee dei bambini per uno spazio di giochi”. Il processo di analisi non è condiviso con i bambini e addirittura non è neanche reso comprensibile ad altri adulti. I bambini non hanno idea di come le loro idee siano state usate. Questo metodo si può migliorare con un semplice accorgimento: si tratterebbe di compiere una analisi di contenuto o tematica dei disegni con i bambini stessi e, da lì, arrivare ad alcuni principi per il progetto di uno spazio giochi, o di qualunque altro oggetto si tratti. Questo piccolo accorgimento permetterebbe al progetto di salire tre gradini della scala di partecipazione e di divenire così realmente partecipativo. 2. Decorazione. Il secondo gradino della scala si riferisce a situazioni che sono piuttosto frequenti, di cui un chiaro esempio è quando ai bambini vengono date delle t-shirts illustrative di una causa e poi viene loro chiesto di cantare e ballare in una certa situazione, ma loro hanno scarsissima conoscenza di ciò che avviene e nessun diritto di parola nell'organizzazione dell'evento. La ragione per cui questo livello di non-partecipazione viene distinto dal primo è che gli adulti non pretendono, in questo caso, che la causa abbia in qualche modo a che fare con i bambini e sia da loro sostenuta. Gli adulti semplicemente usano i bambini (o i ragazzi) per perorare una loro causa in modo indiretto. 3. Partecipazione simbolica o di facciata. Un esempio sono le modalità con cui i bambini/ragazzi sono “usati” spesso nelle conferenze. Gli adulti scelgono con cura dei bei bambini/ragazzi, che si presentano bene, li fanno sedere al tavolo dei relatori senza alcuna sostanziale preparazione sull'argomento e senza che ci sia alcuna preventiva consultazione dei loro pari, che si suppone essi rappresentino. Se non si dà alcuna spiegazione ai soggetti 46 dei criteri in base ai quali è avvenuta la selezione e non è chiaro di chi essi rappresentino il punto di vista, l'intero progetto non è certamente un esempio di vera partecipazione. Questo non significa che i bambini/ragazzi non possano essere seriamente e genuinamente coinvolti in una conferenza. 47 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – II Unità Didattica – Lezione 6 Modelli di autentica partecipazione Continuiamo a descrivere la Scala sulla partecipazione (cfr. L4), soffermandoci sui Modelli di autentica partecipazione. 4. Informati ed investiti di un ruolo. È la prima categoria di vera partecipazione. In questo caso i bambini e i ragazzi sono informati sulle intenzioni del progetto e si impegnano volontariamente dopo averlo conosciuto e capito. 5. Consultati ed informati. Descrive quelle situazioni nelle quali i giovani diventano i consulenti degli adulti in un modo che è molto dignitoso. Il progetto è elaborato e gestito dagli adulti, ma i bambini/ragazzi capiscono il processo e le loro opinioni vengono considerate molto seriamente. Un esempio può essere quello delle campagne radiotelevisive, a dimostrazione che i veri processi partecipativi possono essere utili a tutti i bambini in tutti i contesti. La compagnia televisiva, Nickelodeon con sede a New York, definisce i nuovi programmi dopo aver consultato un gruppo di bambini. Si producono a basso costo delle versioni iniziali del programma proposto dagli stessi bambini, i quali le guardano e ne fanno la critica. I programmi vengono poi ripensati e mostrati ancora allo stesso gruppo di esperti bambini. 6. Iniziativa degli adulti, decisioni condivise. Questo sesto livello indica una vera forma di partecipazione perché, sebbene i progetti siano ancora avviati dagli adulti, le decisioni sono prese con la condivisione dei bambini/ragazzi. 7. Progettato e diretto dai bambini/giovani. Si tratta dei progetti concepiti e realizzati dai ragazzi quando giocano liberamente. Quando le condizioni lo permettono, i ragazzi, anche i bambini molto piccoli, possono lavorare in grandi gruppi e in modo cooperativo. È più difficile, comunque, trovare esempi di simili attività libere dei bambini al servizio di altri; la partecipazione di bambini a progetti di comunità di solito è una risposta a progetti pensati da adulti. Una prima ragione di questo è che gli adulti non sono attenti a rispondere 48 alle iniziative proprie dei giovani e assai raramente si pongono il problema di incoraggiare simili iniziative. Un esempio è quando gli adulti lasciano i bambini o i giovani completamente soli a disegnare o dipingere un murale o la loro camera della ricreazione o una struttura. Persino in questo caso è molto difficile che gli adulti non giochino un ruolo direttivo. 8. Progetti pensati e gestiti dai bambini/giovani nei quali vengono coinvolti gli adulti. Si tratta di progetti in cui i ragazzi definiscono gli obiettivi, mentre le decisioni operative vengono prese e messe in atto con gli adulti. Di solito esempi del livello più alto di partecipazione si trovano con i ragazzi più grandi. La Commissione Nazionale sulle Risorse per la Gioventù nel 1974 ha documentato gli sforzi del Gruppo Studentesco per l'Educazione Sessuale a New York. Un gruppo di studenti delle Scuole Superiori costituì una coalizione per chiedere all'Ufficio Educazione un serio programma di educazione sessuale; si erano verificati troppi casi di ragazze che avevano dovuto lasciare la scuola perché incinte. Il risultato fu che nelle scuole vennero assunti dei consiglieri, che fornivano sevizi ed informazioni sui problemi della gravidanza e delle malattie veneree. Sfortunatamente, progetti di questo tipo, che si collocano sul gradino più elevato della scala di partecipazione sono rari a causa dell’assenza di adulti attenti, che abbiano familiarità con i particolari interessi dei ragazzi: stiamo parlando di motivazioni e competenze che sostengano l’ascolto, l’osservazione e il dialogo. Conclusioni In sintesi vogliamo ricordare che il potere (in quanto verbo, dunque empowerment) e la partecipazione (sociale e politica) sono gli elementi su cui si fonda la formazione di ogni possibile competenza che, a propria volta, possa determinarli. L’empowerment è un processo, come tale è – in opposizione al concetto di trasformazione – il percorso che porta al mutamento sociale. Esso, in quanto tale, necessita di una continua acquisizione di competenze e nuove conoscenze, le quali non possono che derivare dalla partecipazione. Partecipazione e competenza sono dunque i fondamenti su cui si erige una nuova e diversa concezione della scuola, della comunità e del concetto di leadership. 49 Partecipazione e competenza costituiscono il motore del cambiamento e da questo sono a loro volta alimentate; esse si generano a vicenda ed insieme generano il cambiamento sociale. La sensibilizzazione all’attività sociale ed il coinvolgimento alla vita della scuola e della comunità rappresentano il cuore di ogni possibilità di cambiamento della società. Partecipazione e competenza si generano l’un l’altra, così come disimpegno ed ignoranza (indifferenza), elementi avversi al bene comune, figli di una società nella quale l’assenza, troppo spesso, si maschera del proprio opposto, in cui le cose, troppo spesso, vengono prima delle persone (Varveri, Lavanco, 2008). Risulta fondamentale, dunque, «sensibilizzare e formare i giovani, la scuola, come agenzia di socializzazione e formazione, e la comunità, come oggetto collettivo, alla cultura della partecipazione» (Romano, Prefazione a Lavanco, 2001: p. 7). «Lo scopo è quello di rendere tutti consapevoli delle numerose opportunità che la loro partecipazione attiva […] può offrire» (ibidem). 50 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Amerio, P. (1996). Alcune considerazioni sulla nozione di azione in psicologia sociale. In C. Regalia, G. Scaratti (a cura). Conoscenza e azione nel lavoro sociale. Roma: Armando. Amerio, P. (2000). Impegno sociale, volontariato, e azione formativa. In F. Di Maria, G. Lavanco (a cura di). Psicologia, Gruppi e Formazione. Milano: Franco Angeli. Bronfenbrenner, U. (1979). The ecology of Human Development. Cambridge Mass: Harvrd University Press. Castellani, P. (1997). Psicologia Politica. Bologna: Il Mulino. Celi, S.M., Scuderi, R.A., La genitorialità e la scuola. In C. 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Roma: Carocci. 52 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 1 La scuola come agenzia “formativa” Nello scenario che abbiamo delineato nella UD precedente, la scuola è chiamata a promuovere non solo “apprendimenti”, ma vere e proprie “competenze”, erigendosi così a fondamentale agenzia formativa all’interno della comunità. Analizzeremo, in primo luogo, tre termini che richiamano un apprendimento di tipo lineare, per poi soffermarci sul significato della formazione. Iniziamo dal verbo “insegnare”, che deriva da in signare, segnare dentro, ovvero imprimere dei segni nella mente. Allo stesso modo, l’etimologia del termine “istruire” (da in struere che significa disporre, inserire, equipaggiare) rimanda ad una sorta di organizzazione degli strumenti mentali/intellettuali, un trasmettere informazioni utili e decisive per il soggetto. Infine, “educare” significa nutrire, allevare, ma deriva anche da ex ducere che vuol dire far uscire, condurre fuori, quindi, assume il significato di far emergere le potenzialità presenti per raggiungere un ideale innalzamento di livello. Mentre questi tre termini, come dicevamo, suggeriscono un’idea di apprendimento come processo lineare, che consiste unicamente nel mettere dentro o, viceversa, nel tirare fuori qualcosa di già presente e definito, “formare” rimanda a processi circolari e più complessi. Formare, etimologicamente, si collega alla parola latina forma (erede di quella greca "morphé"), ma sostanzialmente si rifà alle idee di paidéia (greca), informatio (latino-medievale), Bildung (moderna). La Bildung ne rappresenta il referente più vicino: essa indica (Berti, 1982) un processo di sviluppo interiore di tutte le capacità umane nell'integrabilità culturale. Formare evoca, quindi, un'azione mirante ad un profondo cambiamento nella persona, una modificazione globale (Goguelin, 1973): una tras-formazione. L’esperienza ha, infatti, dimostrato che l’apprendimento non ha a che fare semplicemente con il trasferimento di informazioni, e che non vi è nell’apprendimento solo informativo la possibilità di approfondire tutto ciò che riguarda la dimensione ed il vissuto relazionale. in sostanza, i modelli pedagogico/direttivi si sono dimostrati insufficienti rispetto alla finalità di formare la competenza di affrontare le questioni connesse alla soggettività (individuale, relazionale e organizzativa) ed alla progettualità del fare concreto (Di Maria, 2000). Trasferire informazioni ha certamente un suo valore nell’apprendimento di concetti e operatività “semplici” e ripetitivi, ma non in quelli che richiedono autonomia decisionale, gestione di gruppi, 53 attuazione di comportamenti “complessi”, capacità di relazione e di ricerca, di progettazione e, non ultimo, capacità di scambiare, organizzare e trasmettere conoscenze e informazioni e di interconnettere, da soli e insieme con gli altri, fatti mentali ed esperienze (ivi). Parlare di trasformazione, invece, ci rimanda ad una formazione alla complessità: si tratta di un processo ampio che include l’acquisizione di saperi, ma anche la formazione più ampia dell’identità della persona, in continuo cambiamento. Formazione alla complessità è acquisizione di competenze e si declina in: formazione esplicativa (ex-plico), che riguarda la conoscenza, l’informazione conoscitiva ricca e articolata; formazione implicativa (in-plico), cioè esposizione personale e capacità di analisi; formazione applicativa (ad-plico), cioè acquisizione di capacità critiche. Formazione alla complessità significa, anche, formazione e applicazione: cioè il passaggio dall’acquisizione di saperi e competenze in modo acritico, attraverso l’ascolto e l’imitazione, all’interpretazione e ricostruzione di quanto appreso, inteso come traduzione personale e creativa. Promuovere formazione vuol dire, allora, come afferma Avallone (1989), attivare un processo finalizzato a rendere individui e gruppi soggetti attivi di cambiamento, sia a livello individuale che contestuale, non attraverso l’adesione ad un modello precostituito ed esterno a sé, ma mediante l’elaborazione autonoma, e nel confronto con altri, di una propria strategia di intervento, alimentata da un arricchimento del proprio patrimonio cognitivo, dall’analisi della dinamica emotiva e motivazionale, e dalla consapevolezza della propria identità. Gli obiettivi del processo formativo Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, gli obiettivi del processo formativo devono mirare non solo all’apprendimento di nozioni, ma anche dei processi relazionali e comunicativi e delle dinamiche di gruppo, alla consapevolezza della percezione di sé e degli altri, all’aumento della comprensione della reciprocità e della circolarità dei rapporti interpersonali e di quelli individuo/contesto, all’apprendimento di una gestione positiva dei rapporti e dei conflitti interpersonali, all’aumento delle capacità di tollerare l’ansia e la frustrazione, al miglioramento delle competenze di lavoro in gruppo e delle capacità di analisi dei processi organizzativi ed istituzionali. 54 La finalità generale di un intervento formativo è, infatti, quella di promuovere lo sviluppo di competenze (cfr. grafico 1), intendendo con tale termine, l’insieme integrato di conoscenze, abilità, atteggiamenti e identità. Grafico 1. Il concetto di competenze ABILITÀ CONOSCENZE ATTEGGIAMENTI E VALORI IMMAGINE DI SÉ Il modello quadridimensionale delle competenze, propone la competenza come l’esito di conoscenze, abilità, valori/atteggiamenti ed immagine di sé. In questo panorama di obiettivi, fondamentale diviene l’utilizzo di un dispositivo metodologico centrato sull’azione, sul fare e soprattutto sul “fare assieme”. Il ruolo del formatore Il docente ha, quindi, un compito difficile da svolgere: egli non può limitarsi a “dire cose”, a fornire nozioni, ma deve acquisire e applicare competenze relazionali, comunicative e di metodo complesse. Imparare è un processo complesso, fortemente legato alla motivazione, alla partecipazione attiva, alla possibilità di fare esperienza, cioè di sperimentare e di sperimentarsi, e alle qualità, come descritto in questo capitolo, delle relazioni affettive. Inoltre, apprendere significa imparare non solo conoscenze, ma anche imparare a fare ed imparare ad essere. 55 Il docente deve avere la capacità di osservare e comprendere le dinamiche esistenti all’interno del gruppo classe, di cogliere i bisogni dei formandi, di utilizzare tecniche in grado di stimolare la motivazione e la partecipazione, così come la socializzazione e la coesione degli alunni. Il gruppo e la metodologia adottati diventano i nodi cruciali di questo complesso processo; a questi argomenti dedicheremo le lezioni successive. Parlare di formazione significa, infatti, parlare di formazione di gruppo e, più esattamente, di gruppo di formazione e di metodologie attive. Essi vanno intesi non come semplici scenari dell’azione formativa, ma come strumenti fondanti il lavoro, in quanto consentono il coinvolgimento attivo e il mettersi in gioco dei partecipanti, e guardano all’apprendimento come apprendimento dall’esperienza, vale a dire come comprensione, elaborazione e metabolizzazione dell’esperienza vissuta. La formazione che lavora “su” e “attraverso” i processi di gruppo (i gruppi, non le aule; i gruppi, non la compresenza di persone) non mira ad una forma definita e statica, ma a generare la capacità di stare in forme provvisorie, per imparare a trasformare e ad essere costantemente trasformati dal contesto di appartenenza (Montesarchio, Marzella, 2004). L’attuale scenario del mondo del lavoro impone, infatti, un continuo cambiamento, una costante flessibilità che, chi si occupa di formazione, non può non tenere in considerazione. 56 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 2 Il gruppo come strumento All’importanza che il gruppo riveste ai fini dell’apprendimento, dedichiamo questa lezione. In particolare, il gruppo-classe, oltre ad essere lo spazio che unisce ed integra l’individuale e il collettivo, aggiunge a tale dimensione anche quella formativa: è lo spazio in cui poter formare e formarsi alla competenza. Gli studi sui diversi stili cognitivi, sull'intelligenza emotiva e sulle dinamiche di gruppo, hanno messo in evidenza, in questi ultimi anni, l’importanza del contesto sociale, dell'interazione interpersonale e dei fattori emotivi ed affettivi rispetto all’apprendimento: la forma delle relazioni è un organizzatore del cognitivo (Salvatore, 2001). Quanto detto ci fa comprendere come l’apprendimento sia fortemente legato alla qualità della dimensione socio-affettiva vissuta all’interno dell’esperienza scolastica. Lo sviluppo della dimensione cognitiva dipende, infatti, da quanto uno studente si sente accolto e incoraggiato dagli insegnanti, integrato e valorizzato dal proprio gruppo classe, e in grado di affrontare con fiducia e possibilità di successo i compiti di apprendimento che gli vengono proposti. Il formatore deve concepire e, quindi, utilizzare il gruppo non solo come scenario del lavoro didattico, ma come soggetto e come strumento. Fare dell’aula non solo la parte che per contratto identifica i fruitori del processo formativo, ma il vertice forte del rapporto, su cui l’esperienza formativa prenderà forma e sostanza. Per far questo è necessario che egli abbia chiaro cos’è un gruppo e quali sono le dinamiche che lo contraddistinguono. Per esempio, ogni classe ha una propria fisionomia ed una configurazione non statica, ma continuamente in divenire. Inizialmente gli studenti sono solo un “aggregato”, non un gruppo. Il gruppo classe non è, perciò, un punto di partenza, e non è, in realtà, neppure una tappa naturale, costituisce invece un obiettivo che deve essere intenzionalmente perseguito. Il passaggio dalla classe alla formazione del “gruppo-classe” è un processo che si verifica lentamente e a cui concorrono molti elementi interdipendenti, di cui il formatore deve avere molta cura. Il prossimo paragrafo verrà dedicato, per questa ragione, alle dinamiche di gruppo. 57 Le dinamiche di gruppo Il gruppo rappresenta la dimensione ideale per il processo formativo: è, infatti, lo spazio-tempo tra l’individuo e la comunità. Si tratta al tempo stesso di una realtà soggettiva ed oggettiva, può costituirsi come catalizzatore di una nuova cultura psicologica, dove viene permesso «l’uso di uno schema interpretativo multiplo, la tolleranza e l’accettazione della presenza contemporanea di più piani del discorso, l’intersecarsi continuo di reale sociale e reale soggettivo, e dove le varie dimensioni possono essere spiegate ed accettate senza dover monisticamente esorcizzare ora l’una ora l’altra delle polarità» (Di Maria, 2000: p. 25). Dal punto di vista etimologico, il termine gruppo si fa derivare dal germanico occidentale “kruppa” tradotto come matassa arrotolata, mentre il significato italiano più vicino è quello di “groppo” di origine toscana, ossia di nodo (Anzieu, Martin, 1968). L’etimologia rimanda subito ad alcuni aspetti che caratterizzano il gruppo come realtà dinamica: esso è un fitto intreccio di legami, che ne testimoniano la dimensione multipersonale (matassa arrotolata), e fa esplicito riferimento alla coesione che stringe insieme i membri che ne prendono parte (nodo). Inoltre, ne mette in luce la dimensione ambivalente: da una parte il gruppo è un contenitore di aspettative e di speranze, di desideri e di bisogni (la condivisione come risorsa, la molteplicità come opportunità), dall’altra è però anche un concentrato di minacce, richieste, pressioni, qualcosa che soffoca, che lega e che imprigiona (l’essere insieme come limite della propria individualità) (Lavanco, Novara, 2012). Dunque, il gruppo è una totalità, non qualcosa di più, ma qualcosa di diverso dalla pura sommatoria degli individui che ne fanno parte. Lavorare con un gruppo significa, per questo, avere la capacità di cogliere non tanto i comportamenti dei singoli, ma le dinamiche che nel gruppo si realizzano. Vedremo ora quali sono le condizioni proprie della dinamica di gruppo che consentono, agendo contestualmente sul piano di un processo evolutivo, il raggiungimento da parte del gruppo di un più alto livello di funzionamento (cfr. Di Maria, Lavanco, 2002). - La coesione. Si tratta della totalità delle forze aventi come effetto di mantenere insieme i membri di un gruppo e di porre resistenza alle forze di disgregazione (Festinger, Schachter, Back, 1950), quindi, indica il legame esistente tra gli individui di un gruppo. La coesione si sviluppa attraverso fattori “estrinseci”, cioè precedenti o contingenti la formazione del gruppo, “intrinseci”, ovvero propri del gruppo in questione, fattori socio-affettivi, come la presenza di uno scopo comune e la soddisfazione di bisogni individuali, e fattori socio-operativi, quali la distribuzione dei ruoli, la modalità della leadership e della conduzione del gruppo. La coesione può essere osservata nei 58 comportamenti collettivi, per esempio nel conformismo, nella tendenza a stare insieme, ma anche nella rottura e nell’innovazione delle norme e nei comportamenti oppositivi rispetto al formatore. - L’interazione. Si tratta dell’unità di azione più semplice che si dispiega tra gli attori della relazione. Il tipo di interazione varia in funzione dei soggetti e del contesto; si possono avere, quindi, interazioni amicali, intime, conflittuali ecc. L’analisi delle interazioni non è un processo facile, perché va al di là del contenuto della relazione, o della mera quantificazione delle interazioni presenti. La tipologia delle interazioni dipende molto dalla struttura dei ruoli che gli individui ricoprono. - I ruoli. Il ruolo è l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta da chi occupa una determinata posizione all’interno del gruppo. Indica le parti assegnate a ciascuno. Alcuni ruoli sono espliciti, manifesti, ostensibili (“io sono tuo padre”; “io sono il tuo insegnante”, …), altri sono impliciti, non ufficiali ma non meno pregnanti (il professore “severo”, quello “comprensivo”, l’alunno “diligente”, quello “fannullone”). - Leadership. La parola leader deriva dalla lingua inglese (to lead: condurre, guidare, ed anche, convincere, persuadere) e letteralmente significa comandante, capo, guida. La leadership è la capacità di produrre una qualche influenza sociale: è l’espressione del potere di influenzamento che una persona svolge all’interno di un gruppo e di un’organizzazione. In altre parole, all’interno del contesto di apprendimento, il docente è colui che funge da organizzatore, che scandisce il ritmo e le modalità del discorso, che lo finalizza al raggiungimento degli obiettivi prefissati (leadership organizzativa). Leader può anche essere considerato colui che funge da collante per il gruppo, una figura di riferimento efficace nel far crescere e a mantenere la coesione sociale e/o il senso di appartenenza ad un’organizzazione (leadership emozionale). L’insegnante è un leader; ad egli compete ad esempio: la definizione degli obiettivi generali di esplorazione e apprendimento; l’istituzione dei vincoli di setting e degli aspetti metodologici generali. - L’obiettivo. È l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro, coerente con i risultati attesi dall’organizzazione. Deve essere: 1. Definito in termini di risultato; 2. Costruito sulla base delle risorse disponibili; 3. Chiarito e articolato in compiti; 59 5. Perseguibile; 6. Valutabile e valutato - Il clima. È l’insieme di opinioni, sentimenti, percezioni dei membri che colgono la qualità dell’ambiente del gruppo, la sua “atmosfera”. Determina la “temperatura” e la distanza delle relazioni, il rapporto con il compito, l’accettazione e il rifiuto del leader. - Il metodo. Riguarda i processi di discussione e di decisione all’interno del gruppo e rappresenta: da un lato i PRINCIPI E LE REGOLE che orientano, informano, guidano l’attività del gruppo; dall’altro le MODALITÀ DI FUNZIONAMENTO che strutturano, organizzano, articolano l’attività stessa. - La comunicazione. La gestione dei ruoli e della leadership, la costruzione di un clima emotivo e relazionale costruttivo e funzionale al raggiungimento degli obiettivi, il rispetto delle strategie e la loro condivisione da parte dei membri di un gruppo, è in gran parte legata alla capacità dei suoi membri di comunicare efficacemente. - Il cambiamento. È fortemente legato alla dinamica dei ruoli, la quale si pone come un formidabile strumento di conservazione o di cambiamento della vita del gruppo. Inoltre, è legato alla coesione, la quale può assumere la forma di paura di allontanarsi dalle norme del gruppo, rappresentando, quindi, una resistenza al cambiamento. Per questo, per introdurre un cambiamento è necessario modificare l’equilibrio stazionario presente nelle abitudini individuali e collettive. L’insegnante è chiamato a coltivare in classe un clima di benessere, curando le dinamiche di gruppo che vi accadono, occupandosi dell'accoglienza, della solidarietà, della responsabilità: solo così rende più piacevole ed efficace il processo di formazione, assicurando un vero apprendimento. 60 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 3 Assetti del gruppo Per una sorta di continuità con l’Unità Didattica precedente, ci soffermiamo brevemente sull’importanza assunta dalla prossemica del gruppo all’interno del processo formativo. La prima immagine ci richiama ad un tipo di apprendimento lineare, in cui forte è il distacco tra l’insegnante e gli alunni: questa prossemica marca le differenze, rende passivo l’uditorio e non promuove la partecipazione. Di contro, la quarta immagine ci mostra una formazione diversa e, ovviamente, questo modo di occupare lo spazio in aula attiverà vissuti diversi rispetto al primo: vissuti di collaborazione, di reciprocità, di ascolto, di esposizione, ecc. Le figure intermedie rappresentano una via di mezzo tra le due forme di prossemica appena discusse. Di certo, una lezione “più attiva” riesce a motivare e a rendere più attenti i formandi. Tuttavia, solo le metodologie attive consentono di aumentare la coesione del gruppo, di sperimentare vissuti e di fare esperienze che rappresentano la base di un vero e autentico apprendimento. A questo punto della trattazione, l’attenzione sarà concentrata sulla progettazione dell’intervento formativo, con una necessaria premessa relativa alla progettazione in generale; solo successivamente analizzeremo nello specifico le metodologie didattiche attive. La formazione, infatti, in quanto intervento finalizzato al cambiamento degli individui e dei gruppi, è un’azione che non può essere improvvisata, ma neppure agita secondo uno schema rigidamente precostituito; al contrario, l’intervento formativo va pensato e progettato con cura e attenzione. 61 La progettazione dell’intervento formativo Le fasi del progetto formativo prevedono: - la definizione degli obiettivi formativi e organizzativi; - la scelta della opzioni teoriche e metodologiche (la definizione del setting); - la definizione del percorso; - la scansione temporale; - l’individuazione e l’articolazione dei contenuti; - la definizione dei ruoli in aula; - l’individuazione di criteri di verifica della qualità e degli esiti. Progettare l’intervento formativo non significa cercare di riempire le voci evidenziate, ma piuttosto concedersi un momento di sospensione dell’azione, per riflettere su tali aspetti allo scopo di creare una progettazione di massima. La realizzazione dell’intervento formativo Una volta progettato, l’intervento formativo va poi concretamente realizzato. Sia a livello macro (l’intero percorso formativo) che a livello micro (ogni singolo incontro con il gruppo e i singoli). Possiamo distinguere 3 momenti: L’apertura e il primo contatto La fase centrale La chiusura e il bilancio L’apertura, come sottolineano Bruscaglioni e Spaltro (1982), è di fondamentale importanza, in quanto rappresenta il principale aspetto del processo formativo. La fase di apertura si caratterizza per la presentazione dei contenuti delle attività che si affronteranno (cosa faremo) e delle metodologie che si intendono utilizzare (come lo faremo), nonché della programmazione operativa delle attività (come procederemo, per esempio quando porre eventuali domande) (Celi, Novara, 2004). A livello macro, la fase di apertura include anche la stipula del contratto formativo. Trattandosi del primo contatto tra formatore e formandi, è necessaria la presentazione di entrambi, così come la definizione del rapporto tra i ruoli, vale a dire il chiarimento della funzione del formatore e dei partecipanti. Parliamo di contratto, in quanto il formatore non impone, al contrario è 62 importante che stimoli l’esplicitazione delle aspettative e dei bisogni formativi dei soggetti presenti, per arrivare ad una definizione condivisa degli obiettivi didattici e delle regole d’aula (orari di entrata e di uscita, pause ecc.). La richiesta di una collaborazione attiva, nella definizione del lavoro che verrà fatto, è fondamentale in quanto chiarisce implicitamente ai formandi la necessità della loro motivazione e partecipazione al processo formativo. Nella scuola superiore, nello specifico, tale richiesta promuove anche un senso di responsabilità dei partecipanti. Durante tutta la fase centrale del percorso, è poi necessario andare a stimolare la partecipazione attiva, il confronto e la coesione tra gli alunni, utilizzando tecniche e accorgimenti che consentano di tenere viva l’attenzione e la motivazione. La fase di chiusura e di bilancio ha come scopo quello di agevolare la persona nell’assimilazione e nella ritenzione di quanto maturato durante l’incontro e nella sua rielaborazione (esempio: “in questo incontro abbiamo…”, “i punti principali da ricordare sono…”). Alla fine dell’intero percorso formativo, è importante curare la chiusura anche dal punto di vista relazionale ed emotivo, per esempio proponendo esercizi psicodrammatici, che sollecitano un bilancio esperienziale del percorso; di questi parleremo nel capitolo successivo. Le tecniche Alla luce di quanto visto finora, appare chiaro che, anche dal punto di vista dei metodi, il formatore deve assumere un pensiero progettuale: il docente non applica le tecniche, ma le usa, le sceglie, le trasforma e le inventa, in funzione degli obiettivi, dei vincoli e dei bisogni che nascono all’interno del setting formativo (Di Maria, Venza, 2002). I metodi formativi possono essere distinti in: “strutturati”, il cui modello principale è la lezione, e “poco strutturati”, cioè quei metodi che vengono definiti tecniche attive. Tali metodi non sono in antitesi tra di loro, al contrario è molto utile alternare il loro utilizzo. Infatti, se la classica lezione d’aula non solo è un metodo di trasmissione facile da gestire e consente anche di trattare un numero molto grande di argomenti in un tempo relativamente stretto, nello stesso tempo si limita a trasmettere una formazione meramente informativa e, come tale, non facilita la formazione di processi proattivi. La lezione frontale, così come classicamente concepita, non facilita negli allievi comportamenti di autonomia, sentimenti di efficacia, capacità di relazione e di ricerca, capacità di scambiare, di progettare, di organizzare, di apprendere dall’esperienza. I limiti, che la lezione non riesce a colmare come metodologia, sono i seguenti: 63 - la posizione passiva dell’uditorio rende difficile capire se e fino a che punto l’esposizione stia ottenendo la dovuta attenzione; - l’ascolto, come unica opportunità di apprendimento, comporta un grado di memorizzazione basso e labile nel tempo. - con la lezione è difficile attivare momenti partecipativi e realmente applicativi; Diventa perciò necessario il ricorso anche a diverse metodologie, in particolare alle metodologie attive. La variabile principale che distingue una lezione accademica dai modelli attivi è la partecipazione dei formandi. Gli accorgimenti per rendere più “attiva” la lezione vanno assunti già in fase di progettazione, tenendo presente che la progettazione riguarda sia il “cosa” (contenuti), sia il “come” (processi di comunicazione). Progettare il “cosa” riguarda i contenuti da trasmettere: livello, quantità, organizzazione. Progettare il “come” riguarda le modalità di comunicazione e le attività da compiere. Nel prossimo paragrafo ci occuperemo di come si progetta e si realizza un intervento formativo, per poi passare ad esaminare in dettaglio le metodologie che l’insegnante può utilizzare per raggiungere gli obiettivi qui evidenziati. La lezione, dicevamo, ha sicuramente il vantaggio di consentire di trattare un numero molto grande di argomenti in un tempo relativamente stretto ed è un metodo di trasmissione facile da gestire. Tuttavia, non facilita la formazione di processi partecipativi, di comportamenti di autoosservazione, di autonomia, di sentimenti di efficacia, di capacità di relazione e di ricerca, di capacità di scambiare, di progettare, di organizzare, di apprendere dall’esperienza. È comunque possibile adottare alcuni accorgimenti, che permettono di rendere più “attiva” la lezione, ovvero consentono di elevare il livello di coinvolgimento dei partecipanti e il loro grado di influenzamento su quanto accade, e soprattutto di rendere il rapporto tra relatore e partecipanti più interdipendente (ivi). Tali accorgimenti vanno assunti già in fase di progettazione. Errori da evitare sono, per esempio, la sovrabbondanza o ridondanza di informazioni e la sproporzione tra contenuti diversi. Progettare il “come” vuol dire, invece, porre attenzione alle modalità di comunicazione, con riferimento all’efficacia del messaggio: va curata la progettazione del percorso logico dei contenuti; è importante mettere in pratica accorgimenti di retorica e utilizzare tecnologie didattiche a supporto dell’esposizione, come i lucidi e le diapositive, molto utili per esempio durante una lezione di biologia, così come di chimica. Il come riguarda, inoltre, l’efficacia del processo comunicativo che si istaura tra formatore e alunni. 64 Quest’ultimo aspetto appare il più pertinente in tema di “attivazione” della lezione. Si tratta di adottare accorgimenti per rendere più interdipendente il rapporto tra i partecipanti e il docente. Sarà importante curare il luogo e cioè la disposizione del relatore e del gruppo. A questo proposito, sotto vengono riportati alcuni esempi di assetti, tra i quali il primo è sicuramente quello che attiva meno i partecipanti, in quanto li pone in una posizione passiva rispetto al docente e limita il confronto reciproco. 65 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 4 La metodologie didattiche attive I metodi attivi caratterizzano la metodologia didattica propria della formazione centrata sul gruppo e sul coinvolgimento dei partecipanti; tale didattica è basata sulla presa di coscienza dei formandi, finalizzata alla produzione autonoma di modelli a partire dall’esperienza (Bellotto, 1988). I metodi attivi consentono di: stimolare la partecipazione, l’attenzione e la motivazione, di promuovere la socializzazione e le capacità relazionali, di acquisire nuovi modelli a partire dall’esperienza vissuta. Le metodologie didattiche attive, dunque, sono dispositivi metodologici che costituiscono l’evoluzione della tradizione, che concepisce l’apprendimento come apprendimento dall’esperienza, come risultato del duro lavoro trasformativo connesso con il coltivare e custodire l’humus personale, interpersonale, gruppale e sociale che ci si trova ad esperire. In tale tradizione, il conoscere è un processo generativo, che implica un relazionarsi con e, più che l’esperimento a verifica e falsificazione di ipotesi di relazioni tra variabili, vale l’esperito, lo sperimentato nel senso di vissuto immediatamente (Di Maria, Venza, 2002): l’apprendimento è, dunque, lo ribadiamo, elaborazione e metabolizzazione dell’esperienza vissuta. L’efficacia di tali metodi è correlata a molteplici variabili inerenti la situazione formativa, per esempio la relazione tra formatore e partecipanti, le competenze di entrambi i poli del rapporto, gli aspetti temporali e logistici, il setting specifico ed altri elementi di volta in volta significativi. Il brainstorming Il brainstorming (letteralmente “tempesta di cervello”) è una metodologia che viene usata per: sviscerare gli elementi che compongono un argomento, tema, problema; fare apprendere la tecnica delle associazioni libere; stimolare la creatività e la produzione cognitiva; stimolare l’espressione libera delle proprie idee; aumentare le conoscenze, credenze, informazioni rispetto ad un argomento; scoprire l’importanza della risorsa gruppo; favorire l’accettazione e l’ascolto dell’altro, perché si elimina l’atteggiamento di critica; eliminare la censura su quanto viene prodotto dalla mente. 66 Il conduttore propone un termine e invita i partecipanti a riferire, liberamente e a ruota libera, tutte le parole che nella loro mente si associano a tale termine. Una volta segnate tutte le parole (preferibilmente in una lavagna), si procede alla loro selezione. Le parole che hanno totalizzato un maggior numero di scelte sono quelle che per il gruppo rappresentano meglio il concetto di partenza; si avvia, perciò, una discussione-spiegazione. Per fare qualche esempio, un docente, che intende trattare il concetto di “legame” in chimica, può proporre un brainstorming su tale termine, in modo da avvicinare mentalmente gli alunni all’argomento, o ancora il docente di matematica può chiedere agli alunni di riferire i termini associati al concetto di “funzione” o di “insieme”, al fine di riflettere su di essi. I giochi psicologi Il gioco ha delle caratteristiche ben precise: la lontananza dalla realtà e il conseguente senso di libertà, in quanto quando si gioca non si subiscono effettivamente le conseguenze di quanto il gioco prevede; il rapporto analogico con la realtà, perchè ciò che accade nel gioco non corrisponde fedelmente alla situazione concreta che può toccarci direttamente; l’esistenza di regole che definiscono ciascun gioco specifico e consentono un certo controllo sullo svolgimento della situazione; il coinvolgimento emotivo, infatti, pur essendo per sua natura staccato dalla realtà, il gioco fa vivere ai partecipanti differenti emozioni a seconda delle diverse fasi dell’attività. Le sue funzioni sono: stimolare le potenzialità umane, consentendo la sperimentazione di nuove risorse individuali e di gruppo; stimolare la socializzazione e la creatività; collegare diversi elementi, consentendo di esplicitare, osservare e comprendere fenomeni e procedimenti umani; creare input che il gruppo dovrà elaborare. In riferimento alle fasi, ovvero all’ordine cronologico con cui vengono generalmente proposti all’interno di una sessione formativa, gli esercizi psicodrammatici vengono distinti in: - “giochi di presentazione e di riscaldamento”, proposti all’inizio di un incontro e/o di una sessione formativa, per far socializzare i partecipanti, e per riscaldare gradualmente il gruppo all’uso di un linguaggio che utilizza prevalentemente il corpo e l’azione; - “giochi” veri e propri, che occupano la fase centrale dell’incontro formativo e che possono essere utilizzati ora per esplorare i bisogni del gruppo, ora per esplorare aspetti dell’identità dei 67 partecipanti, ora per affrontare determinate tematiche di apprendimento, ora per migliorare la loro capacità di esprimere e di ascoltare lo stato emotivo dell’altro ….; - “giochi di bilancio e di chiusura”, proposti alla fine di un incontro e/o di una sessione formativa, per aiutare i membri del gruppo a individuare/esprimere/riconoscere aspetti, emozioni, risorse, significati attribuiti all’esperienza realizzata. Il role playing e le simulazioni Sono tecniche didattiche che richiedono ai partecipanti di interpretare modelli di comportamento, che caratterizzano determinati ruoli rispetto alla situazione assunta. I partecipanti diventano attori per un determinato tempo, poi in plenaria il gruppo discute sugli elementi che i protagonisti hanno portato, interpretando quel ruolo. Queste metodologie perseguono gli obiettivi di: sviluppare capacità empatiche; trovare strategie di comportamento alternative; sperimentare nuove soluzioni in un ambiente protetto; anticipare emotivamente gli eventi; acquisire consapevolezza di modalità relazioni. La discussione di gruppo Può essere utilizzata ogni volta che nasce l’esigenza di affrontare tematiche non previste, ma che scaturiscono durante lo svolgersi del percorso formativo, da avvenimenti che richiedono approfondimenti e chiarimenti teorici, relazionali ed organizzativi. Le sue funzioni sono: abituare a parlare in pubblico; formare al confronto ed alla regolazione del proprio comportamento attraverso il confronto e l’autoregolazione, evitando lo scontro e l’attacco aggressivo; educare all’ascolto delle opinioni altrui; favorire l’organizzazione di pensieri sintetici, precisi e funzionali allo scopo; formare all’analisi collettiva di una situazione; creare un clima di condivisione e di scambio reciproco. Affinché le funzioni sopra elencate abbiano una reale traduzione operativa, il formatore deve essere un facilitatore della discussione. 68 La discussione di gruppo può essere utilizzata anche per iniziare a trattare un nuovo argomento didattico, per esempio un insegnate può proporre una discussione di gruppo su questioni ambientali, per poi approfondire argomenti come il funzionamento degli ecosistemi. La riflessione personale e collettiva su un fatto attuale può, infatti, stimolare la curiosità dei ragazzi, ponendoli in una posizione favorevole, perché motivata, all’apprendimento. Il metodo dei casi Consiste nell’affidare al gruppo il racconto di una situazione problematica o di un insieme di avvenimenti e nel promuovere una discussione per analizzare il problema, per comprendere meglio le ragioni degli eventi e dei comportamenti agiti dai diversi ruoli in gioco. Esso presuppone che un problema, riportato nel suo contesto sociale, non ammetta un’unica soluzione , una soluzione tipo, ma che possano esserci soluzioni diverse in funzione di colui che risolve il problema. L’obiettivo, quindi, non è quello di dare informazioni sul contenuto/argomento oggetto del caso, ma di innescare un processo di apprendimento e cap acità di analisi che stimolino un approccio critico alla realtà e sviluppino abilità di ricerca e spirito di collaborazione. Pertanto sollecita a: contestualizzare la situazione per comprenderne i punti cruciali e gli elementi in gioco; decontestualizzare la situazione per comprenderne gli elementi significativi o rivelatori di “scenari” generali (schemi di azione o di pensiero). 69 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 5 Il lavoro di gruppo Continuiamo in questa lezione a descrivere alcuni metodi attivi, utili a promuovere partecipazione e competenze. In particolare ci soffermeremo sul lavoro di gruppo e sulla tecnica dell’apprendimento cooperativo (cooperative learning). Il lavoro di gruppo e il cooperative learning, quindi, sono due metodi che il docente può utilizzare per questi scopi e per favorire l’integrazione dei partecipanti e la formazione di un unico gruppo-classe. Il docente, ovviamente, deve avere la capacità di cogliere le relazioni tra i formandi e, quindi, aggregare tra loro individui appartenenti a sottogruppi differenti. Il lavoro di gruppo è una tecnica formativa che prevede la suddivisione dei partecipanti in piccoli gruppi autonomi, a cui viene assegnato un compito da svolgere in un tempo determinato, per presentarne e confrontarne le conclusioni in sessione plenaria, al fine di giungere a conclusioni anche diverse ma comuni a tutti i partecipanti (Di Maria, Venza, 2002). Gli obiettivi del lavoro di gruppo riguardano sia il livello dei contenuti sia quello della relazione. A livello di contenuto, realizza una facilitazione mediante lo scambio di idee e di esperienze tra i partecipanti, consentendo un maggiore approfondimento dei temi affrontati; inoltre, dato che le conclusioni di ogni gruppo vengono sottoposte alla critica degli altri gruppi, tende ad aumentare l’efficacia del meccanismo del feed-back. A livello di relazione, invece, accelera il processo di socializzazione tra i partecipanti e incrementa l’interdipendenza, a scapito della dipendenza, nel rapporto tra formatore e partecipanti. L’efficacia di tale metodo è connessa alla considerazione di alcune variabili (ivi): la dimensione del gruppo: un numero limitato di persone consente di contenere più agevolmente le ansie che si sviluppano in situazioni gruppali; la composizione del gruppo: si fa riferimento all’omogeneità o all’eterogeneità dei membri del gruppo; conviene adottare il criterio della massima omogeneità quando il mandato affidato al gruppo di lavoro è molto specifico e strutturato; al contrario, il criterio della massima eterogeneità è più indicato dinnanzi un mandato più complesso e meno strutturato; infine, il criterio sociometrico è consigliabile quando il mandato è più ansioso e quando si vuole ottimizzare la prestazione dei sottogruppi; 70 la natura del mandato: il mandato deve essere immediatamente trasferito ed espresso con chiarezza, in modo da costituire il punto di riferimento durante l’attività del gruppo; deve essere compreso e condiviso dai suoi membri, essere coerente al contenuto complessivo dell’iniziativa formativa ed essere percepito dai partecipanti come una richiesta di un loro contributo. Deve, ancora, favorire la discussione di gruppo; i tempi: il tempo di realizzazione del lavoro di gruppo dipende dalla complessità del compito, dalla dimensione del gruppo, dalle caratteristiche dei membri e delle relazioni tra loro; normalmente il tempo affidato è compreso tra 50 e 100 minuti; la procedura del lavoro: a volte è opportuno che il formatore suggerisca al gruppo di definire al proprio interno un ruolo di “moderatore” e uno di “relatore” per la comunicazione in plenaria dei risultati del lavoro del gruppo; può essere funzionale anche attivare alcuni ruoli di “osservatore”, soprattutto quando in plenaria si dovrà discutere anche delle modalità di funzionamento che il gruppo ha adottato durante l’attività; la presentazione dei risultati: al lavoro di gruppo, dicevamo, normalmente segue un incontro in plenaria, in cui i relatori presentano i risultati e vengono discusse le conclusioni raggiunte; questa fase è necessaria non solo per definire i risultati raggiunti, ma anche per valorizzare i lavori svolti e per ricostruire l’appartenenza dei singoli all’insieme dei partecipanti. Per fare un esempio pratico sul lavoro di gruppo, l’insegnante di matematica, può proporre un lavoro di gruppo dando il compito di risolvere un problema di tipo matematico o geometrico, magari anche che richiede competenze nuove, non ancora sviluppate. Il cooperative learning Il cooperative learning, noto anche come apprendimento cooperativo, è un approccio metodologico utilizzato in moltissimi paesi. Numerosi studi, infatti, hanno dimostrato che con il cooperative learning gli studenti ottengono risultati scolastici più alti, una più approfondita acquisizione di contenuti e abilità, un miglioramento dell’autostima e maggiori competenze sociali . Il cooperative learning, come il lavoro di gruppo, prevede la formazione di piccoli gruppi in cui gli studenti lavorano insieme; tuttavia, non bisogna confondere il cooperative learning con il normale lavoro di gruppo. La specificità dell'apprendimento cooperativo sta nell'enfasi posta sulla partecipazione attiva di tutti gli studenti al lavoro e sul successo scolastico di tutti i membri del gruppo. Inoltre, tale metodo si caratterizza per la presenza dei seguenti elementi (Johnson, Johnson, 2005): 71 - Positiva interdipendenza. I membri del gruppo fanno affidamento gli uni sugli altri per raggiungere lo scopo, infatti, se uno studente non fa la propria parte, anche gli altri ne subiscono le conseguenze. I membri del gruppo si devono sentire responsabili del loro personale apprendimento e dell'apprendimento degli altri. - Responsabilità individuale. Tutti i membri del gruppo devono rendere conto sia della propria parte di lavoro sia di quanto hanno appreso. Ogni studente, nelle verifiche, dovrà dimostrare personalmente quanto ha imparato. - Interazione faccia a faccia. Gli studenti devono lavorare in modo interattivo, verificando gli uni con gli altri la catena del ragionamento, le conclusioni, le difficoltà e fornendosi feedback. Gli studenti, quindi, insegnano gli uni agli altri. - Uso appropriato delle abilità nella collaborazione. Gli studenti vengono incoraggiati e aiutati nel gruppo a sviluppare la fiducia nelle proprie capacità, la leadership, la comunicazione, il prendere delle decisioni, e un’efficace gestione dei conflitti. - Valutazione del lavoro. Gli studenti, periodicamente valutano l'efficacia del loro lavoro e il funzionamento del gruppo, e individuano i cambiamenti necessari per migliorarne l'efficienza. Esistono diversi modelli di cooperative learning, riportiamo qui solo due tipi di apprendimento cooperativo: informale e formale. Il cooperative learing informale prevede esercizi brevi assegnati in classe a gruppi non fissi di due o più studenti. Il formatore chiede agli studenti di mettersi insieme in gruppi di 2 o 4 persone e assegna la mansione di scrivere ad uno scelto a caso (gli studenti si contano, 1, 2, 3, ... e il docente dice: "il numero 2 di ogni gruppo scriverà questo esercizio"). Il docente propone poi un compito da affrontare, dando agli studenti un tempo determinato, in genere 5 minuti. Allo scadere del tempo alcuni studenti, appartenenti a gruppi diversi, devono fornire la risposta elaborata dal proprio gruppo. Il compito affidato dal docente può riguardare spiegazioni precedenti, la soluzione di un problema, il completamento di passaggi mancanti in un procedimento di calcolo o in una procedura sperimentale, la formulazione di una spiegazione su una osservazione sperimentale, l'ipotesi di una serie di cause, il riassunto di una lezione, la formulazione di una o due domande sugli argomenti relativi ad una certa lezione, l'elenco di possibili difetti di un esperimento o di un progetto, o la risposta a domande che il docente normalmente fa alla classe durante una spiegazione. Il cooperative learning formale prevede, invece, esercizi più lunghi e impegnativi assegnati a gruppi di studenti, che lavorano insieme per una parte significativa del corso o dell’anno. Il lavoro può essere fatto tutto o in parte in classe, o fuori della classe. Alla fine si valuterà sia il lavoro complessivo del gruppo, sia quello individuale. 72 L'apprendimento cooperativo è una tecnica di insegnamento centrata sullo studente che interagisce con altri studenti; ciò, però, non deve far sottovalutare il ruolo del formatore, dal quale, infatti, dipende il successo di tale metodo. È compito del docente proporre i problemi da risolvere, fissare i tempi, fornire gli spunti ai gruppi che lo richiedono, stabilire chi deve rispondere e, soprattutto, monitorare il funzionamento dei gruppi, al fine di evitare situazioni svantaggiose o pericolose per l'apprendimento. 73 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – III Unità Didattica – Lezione 6 Il problem solving Concludiamo il discorso sui metodi attivi lasciando spazio anche alla trattazione di un’altra tecnica, rappresentata dal problem solving. Letteralmente significa “risolvere problemi”. Si tratta di una tecnica insegnata e applicata con successo in vari ambiti: dalla scuola alle aziende, dal counseling ai gruppi di lavoro. Anche se gli strumenti di problem solving si differenziano a seconda delle diverse aree di applicazione, i principi di base rimangono gli stessi. Si tratta di una tecnica per la risoluzione di un problema didattico o che si verifica nel contesto sociale. Come le tecniche discusse nella lezione precedente, anche questo metodo dà ad ognuno la possibilità di essere partecipe, educa al rispetto delle idee altrui e alla comprensione del proprio errore o successo senza sentirsi giudicati. Si struttura in 6 fasi: • esposizione chiara del problema • proposte di diverse soluzioni • considerazione degli aspetti positivi e gli aspetti negativi di ogni proposta • eliminazione di tutte quelle soluzioni non idonee alla risoluzione del problema • preparazione i mezzi per la risoluzione del problema • verifica dei risultati raggiunti Le fasi sono consequenziali: seguirle nella loro progressione ci consente di impostare correttamente il problema e di chiarire alcuni atteggiamenti o aspetti che ci confondono, impedendoci di trovare delle soluzioni. L’insegnante, alla luce di quanto detto, può decidere di far lavorare i ragazzi sulla risoluzione di un problema. Proporrà, allora, un problema ricordando a tutti che un problema esiste quando c’è un ostacolo al raggiungimento di un obiettivo e che un problema, nello specifico, non corrisponde all’ostacolo, ma a una condizione in cui, a causa della presenza di ostacoli o impedimenti, siamo costretti a 74 individuare nuove azioni, chiamate soluzioni, per raggiungere i nostri obiettivi. Inoltre, accompagnerà i ragazzi nel percorrere le fasi prima citate. L’insegnante, dopo avere analizzato con gli alunni i punti di forza e i punti di debolezza di ogni possibile strategia, procede in assetto di gruppo a vagliare la strategia che sembra più coerente alla risoluzione del problema. Risulta chiaro che per arrivare alla soluzione, è necessario un cambiamento nel nostro modo di vedere e sentire le cose o nei nostri comportamenti, che ci consenta di raggiungere gli obiettivi. Il problem solving ci aiuta a individuare di quale cambiamento abbiamo bisogno e a metterlo in atto. Non si tratta di un processo interamente razionale, al contrario lo scopo del problem solving è aiutarci a integrare le nostre risorse logiche e creative indispensabili per arrivare alla soluzione. In particolare, la creatività e l’intuizione sono il cuore della seconda fase: dopo aver identificato i nostri obiettivi e i reali ostacoli al loro raggiungimento, dobbiamo lasciare la mente libera di proporre soluzioni alternative. «Le ricerche più recenti dimostrano che il Problem Solving non riguarda solo le discipline scientifiche e può essere attuato in ogni ordine di scuola, purché si pongano problemi adeguati al grado di comprensione degli allievi, in situazioni reali o almeno verosimili, interessanti e complesse, al fine di stimolare i ragazzi a porsi sempre nuove domande; si potrà procedere a insegnare in modo critico la Matematica (disciplina per la quale esistono copiosi contributi), l'Italiano (per la risoluzione di un giallo o la scrittura di un testo), le Scienze (attraverso la conduzione di esperimenti in laboratorio), la Storia (ponendo una controversia da analizzare, ricostruendo i processi che hanno dato vita ad alcune grandi vittorie o sconfitte, ...), o utilizzando le tecnologie informatiche (costruendo ipertesti o visionando software e multimedia didattici che pongono situazioni stimolo). L'insegnante decide se mostrare egli stesso come risolvere il problema o se chiedere ai ragazzi quali soluzioni si potrebbero attuare, valutando in base alle caratteristiche del gruppo classe e alla natura del problema come calibrare i seguenti aspetti: modalità di formulazione della domanda; passaggi da esplicitare; spazi problematici da lasciare insoluti; dati da fornire per risolvere l'enigma. L'attività didattica si potrà realizzare sotto forma di ricerca, di lezione euristica, di discussione, di lavoro di gruppo, fino ad arrivare - per la formazione degli adulti - all'analisi di casi specifici» (Di Toma, 2004). 75 Esempio pratico di PROBLEM SOLVING 1. Descrizione del problema La nostra scuola ha aderito al progetto dell’Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione sulla legalità, specificando che si sarebbe impegnata a realizzare un cortometraggio sul tema in questione. È emersa la difficoltà di coinvolgere tutti all’interno di un canovaccio che sia al contempo significativo, breve ed efficace nei messaggi trasmessi. In classe si è discusso sulle modalità di realizzazione del cortometraggio: - - per alcuni alunni il cortometraggio potrebbe essere incentrato su un’unica storia in cui vengono presentati esempi negativi; cioè l’attenzione si potrebbe concentrare su esperienze di trasgressione del codice stradale ambientale e civile; per altri il cortometraggio si potrebbe basare su piccole storie che mostrano la difficoltà del rispetto dei codici, ma che si concludono con la positiva adesione alle norme. 2. Elenco di strategie Quali tra le risoluzioni di seguito elencate vi sembrano coerenti con la realizzazione di un cortometraggio sulla legalità che risponda ai criteri di brevità, significatività ed efficacia e che coinvolga tutti? RISOLUZIONI A B C D E F Elaborare un canovaccio dettagliato con esempi concreti di trasmissione dei codici Proporre degli spot pubblicitari sulla legalità, ironizzando gli spot in voga Inventare una storia su una sola area tematica (bullismo, ecologia, etc…) Scegliere una storia breve che, nella forma umoristica, presenta positivi esempi di rispetto delle regole Suddividere gli alunni nei laboratori o in gruppi per elaborare delle storie su aree tematiche assegnate Ideare delle brevi scene che mostrino la libera adesione alle norme stradali, ambientali e civili. 3. Analisi delle strategie Motivazione A. Questa risoluzione sembra attinente perché quando osservo i comportamenti degli altri noto che i codici non vengono rispettati. B. La scelta dello spot pubblicitario è opportuna perché attraverso la sua efficacia si raggiunge la gran parte della gente C. Questa risoluzione sembra PF PD Questa osservazione è valida Questa osservazione non è perché rispecchia la realtà, sempre efficace in quanto seppur in modo parziale. potrebbe dar vita ad una cattiva emulazione. Questa osservazione è valida perché con lo spot si riesce a catturare l’attenzione degli altri e a coinvolgerli anche sul piano affettivo. Questa osservazione è valida 76 Lo spot non stimola adeguatamente la capacità di riflessione critica di chi lo guarda. Questa proposta ha lo coerente perché una singola area tematica viene sviluppata in tutti i suoi aspetti. D. La scelta della storia breve e umoristica è valida perché l’allievo si diverte e si incontra con la dimensione positiva della norma. E. Questa risoluzione sembra coerente perché l’esperienza di lavoro di gruppo consente all’alunno di essere creativo e produttivo. F. Questa risoluzione è valida perché tutti gli alunni si sentono protagonisti di una storia che li coinvolge. perché offre parecchi spunti di svantaggio di non poter riflessione. coinvolgere tutti gli alunni nella storia. Questa osservazione è valida A motivo della sua brevità, si perché sottolinea l’aspetto rischia di non coinvolgere tutti ludico-ricreativo i partecipanti. dell’esperienza. Nell’esperienza di gruppo viene salvaguardato il coinvolgimento affettivo, socio-relazionale e cognitivo degli alunni. Questa osservazione è valida perché viene promossa la capacità dell’alunno di aderire in modo autonomo alle regole. Con questa metodologia si rischia di non rispettare i tempi previsti nel progetto iniziale. Poiché ci si sofferma su aree scelte, si rischia di non approfondire gli argomenti che sono chiamati in causa nel progetto. 4. Fase decisionale L’insegnante, dopo avere analizzato con gli alunni i PF e i PD di ogni strategia procede in assetto di gruppo a vagliare la strategia che sembra più coerente alla risoluzione del problema. Se il problema principale era: “trovare canovaccio che sia al contempo significativo, breve, efficace e coinvolgente nei messaggi trasmessi”, la risoluzione che meglio risponde a questi criteri è la F. Perché: - gli alunni si sentono tutti protagonisti attivi della storia; - nessun alunno rimane escluso dalla recitazione; - l’alunno ha l’opportunità di scoprire qual è il procedimento attivato nella scoperta delle regole di convivenza civile e nell’adesione libera ad esse; - sebbene gli alunni non hanno la possibilità di approfondire gli argomenti guadagnano una visione globale delle norme; - attraverso questa risoluzione vengono veicolati in modo sintetico ed efficace messaggi sulla legalità. 77 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Anzieu, D., Martin, J.Y. (1968). La dinamica dei piccoli gruppi. Roma: Borla. Avallone, F. (1989). La formazione psicosociale. Roma: NIS. Bellotto, M. (1988). Le metodologie didattiche attive. In Aif (a cura di). Professione formazione. Milano: Franco Angeli. Berti, A.E. (1982). Il mondo economico del bambino. Firenze: La Nuova Italia. Bruscaglioni M., Spaltro, E. (1982). La psicologia organizzativa. Milano: Franco Angeli. Celi, M.S., Novara, C. (2004). Formazione formatori. Il gruppo di lavoro come prima risorsa. In C. Novara (a cura di), Progettare la scuola. Quaderni di ES,10. Contessa, G. (1979). Dinamiche di gruppo e ricerca. Brescia: La Scuola. Di Maria, F. (2000). La formazione di gruppo: teoria e prassi. In F. Di Maria, G. Lavanco (a cura di). Psicologia, Gruppi e Formazione. Milano: Franco Angeli. Di Maria, F., Lavanco, G. (2002). Culture di gruppo. Milano: Masson Di Maria, F., Venza, G. (2002). Il gruppo di formazione. In F. Di Maria, G. Lo Verso ( a cura di). Gruppi. Metodi e strumenti. 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Milano: Franco Angeli. 78 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 1 Il ruolo della comunicazione nei processi formativi Se si vuole attivare nei discenti processi formativi, è fondamentale l'adozione di strategie comunicative finalizzate proprio a questo scopo. Apprendere significa, anche, modificare opinioni, accettare confronti, persuadersi circa l'opportunità di nuovi modi di comportamento. Ecco perché ottenere il consenso dell'uditorio, è tanto importante per il formatore quanto la semplice trasmissione di informazioni. Fatta questa premessa, decidiamo di aprire questa nuova UD con un approfondimento sulla comunicazione efficace e sulla comunicazione persuasiva. Infatti, solo attraverso una comunicazione efficace sarà possibile una trasmissione di contenuti, competenze ed esperienze capaci di incidere sulle concezioni del discente, sulle sue rappresentazioni della realtà e della soluzione dei problemi, che costituiscono le fondamenta di comportamenti e atteggiamenti, nonché la conseguente produzione di un cambiamento stabile e duraturo nel tempo - quando non addirittura permanente - (Miraglia, Lavanco, Varveri, 2008). La comunicazione, infatti, è un processo non solo interattivo e informativo, ma anche e soprattutto trasformativo nella misura in cui il trasferimento di conoscenze e di contenuti operativi avviene nella direzione del cambiamento (Quaglino, Casagrande, Castellano, 1992), di una possibilità "altra" di essere. La dimensione comunicativa di un percorso formativo va osservata nei quattro distinti canali attraverso cui si manifesta: le parole (livello verbale), la voce (livello para-verbale), il corpo (livello non verbale) e lo spazio (livello prossemico). Infatti, in un'interazione faccia a faccia, come quella formativa, intervengono anche aspetti legati al luogo, al tempo, al corpo, ciascuno governato da una propria ragione e modalità tecnica (Bellotto, Trentini, 1996) (cfr. Tabella 1). Va detto che nella comunicazione interpersonale spesso i quattro suddetti livelli si presentano coerenti tra loro, ma in caso di incoerenza le componenti para-verbali e non verbali del messaggio risultano, nella percezione dell'ascoltatore, di un'importanza maggiore del contenuto verbale. 79 Tabella 1. I quattro canali della comunicazione (Schimidt, 1998) CANALI ASPETTI Verbale VARIABILI LIVELLI E IMPLICAZIONI OPERATIVE Livello di difficoltà Generica Quantità di parole colte utilizzate nel discorso È chiaro che non esiste un comportamento verbale adeguato Specifica (quantità di Quantità a parole specialistiche) tutte le situazioni: la di parole specialistiche utilizzate nel discorso capacità di modulare il Formale proprio linguaggio in Codice linguistico funzione degli Dare del lei, usare frasi ascoltatori è una delle eccessivamente più importanti per un Informale corrette, evitare espressioni gergali o docente dialettali, ecc. Argomentazione Partire dai contenuti Partire dagli ascoltatori Descrivere i fenomeni Chiarire l’utilità di ciò che si Quantità di concetti spiega per chi ascolta Ornamenti espressi in un dato tempo Metafore, battute, modi di dire, ecc. Frasi complesse Sintassi Paraverbale Frasi semplici Tono Volume Alzare o abbassare la voce È quello che aggiunge per sottolineare un passaggio significato a ciò che importante viene detto Ritmo Velocità Numero di parole per Rallentare per unità di tempo importanti concetti esprimere e accelerare nei passaggi di collegamento Sottolineature e pause (volute) Esitazioni (non volute) Trasmettono all’uditorio 80 insicurezza Postura Non verbale Aperta/Chiusa Disponibilità/difesa Assata/Disassata Ordine, rigore, razionalità/socialità In avanti/indietro Interesse, sicurezza o Rilassata/tesa aggressività/difesa o insicurezza Apprezzamento/ disprezzo Indica un rapporto positivo con Gestualità Orientata/non orientata gli interlocutori, consente di regolare l’attenzione, mantine desta l’attenzione Mimica facciale Direzione dello sguardo Abbigliamento (contatto visivo) Adeguato al contesto Prossemico Spazio Sistemare l’aula a ferro di cavallo, definire i È certamente invisibile dei il più posti dei partecipanti o quattro canali lasciarli liberi, tenere della aperte o chiuse le tende, comunicazione, ma serve impedire o permettere di a trasmettere le regole più fumare, ecc. Rende più o meno partecipi e difficilmente percepibili, di cui però percepisce trasgressione avviene se importanti i partecipanti ne Predisporre il tempo per la lasciar quando parlare i partecipanti, predisporre Tempo quello per la lezione, ecc. Tratto da Lavanco, Marino, 2000. 81 La capacità di agire trasformativo del formatore è strettamente connessa all'adozione, nel contesto didattico, di tecniche comunicative opportunamente progettate e calibrate durante l'evoluzione della relazione, oltre che modellate sui differenti contesti formativi. Quaglino, Casagrande e Castellano (1992) individuano nel "saper esporre" (essere chiari, completi ed esporre in modo logico e ordinato), nell'"ascoltare" (lasciar parlare, dimostrare attenzione e coinvolgimento, verificare la propria comprensione), nel "rispondere" (rimanere aderenti al tema, adattare il linguaggio agli interlocutori, risolvere dubbi e incertezze) e, infine, nel "convincere" (suscitare interesse ed attenzione, essere persuasivi, ottenere consenso) le quattro aree di competenze che presiedono una comunicazione efficace. Abbiamo già detto, però, come non esista uno stile comunicativo ideale in grado di funzionare in qualsiasi contesto si trovi ad operare il formatore: solo su uno specifico lavoro formativo, flessibile e attento alle differenze metodologiche, di campo e contestuali, di obiettivi fra i vari tipi di gruppo, si fonda una corretta e adeguata professionalità (Miraglia, Lavanco, Varveri, 2008). Parlando di tecniche e strutture nella conduzione dell'incontro di formazione, D'Ambra (1998) sottolinea, per esempio, la necessità di contemplare, in termini di comunicazione efficace, le quattro fasi di conduzione della relazione: fase starter fase di collegamento fase dell'esemplificazione fase di conclusione. Secondo tale modello, una corretta gestione della relazione con l'aula prevede di iniziare con l'autopresentazione e con la creazione di una frase ad effetto, possibilmente ironica, che catturi l'attenzione degli ascoltatori. In seguito è opportuno creare un collegamento tra la frase ad effetto e il cuore del messaggio che si trasmette per rendere, in un certo qual modo, protagonista l'uditorio stimolandone l'identificazione con quanto detto in apertura; più esattamente è necessario evidenziare il guadagno che è possibile trarre dall'ascoltare poiché esso, oltre a stimolare l'attenzione, attiva il consenso. Nella terza fase, è opportuno procedere con esempi che rendano chiari e comprensibili i contenuti dell'esposizione. Infine, nella fase di conclusione, si procede con l'esortazione all'azione, cioè col tradurre i concetti in comportamenti per completare e definire ulteriormente il messaggio comunicazionale (Lavanco, Marino, 2000) (cfr. Tabella 2). 82 Tabella 2. Fasi di gestione della relazione (D’Ambra, 1998) Fase Domanda nascosta Comportamento comunicativo 1. Starter “Chi è costui?” 2. Collegamento “Io cosa centro con quello Collegare frase a effetto Pronunciare frase a effetto che dice?” con ciò che può essere utile all’ascoltatore 3. Esemplificazione “Perché non fai un Fare esempi esempio?” 4. Conclusione “In concreto cosa c’è da Invito all’azione fare?” Etica della persuasione La comunicazione persuasiva è un insieme di strategie che servono a rendere più efficace la comunicazione in modo da poter influenzare le opinioni e i comportamenti altrui; non si può persuadere qualcuno a vedere, sapere o arrivare, ma si può persuadere a guardare, studiare, partire. La persuasione non rappresenta un mero e sofisticato strumento volto all'influenzamento manipolativo, ma semplicemente un potenziale tecnico al servizio di un'azione formativa orientata alla trasformazione dei comportamenti, alla promozione della consapevolezza e diretto, in primo luogo, a stimolare la motivazione degli interlocutori (Miraglia, Lavanco, Varveri, 2008). È in questa accezione che emerge la confluenza tra possibilità tecnica e possibilità deontologica (data, sostanzialmente, dall'assenso degli interlocutori) dell'utilizzo delle strategie di influenzamento (Bellotto, Zatti, 1995). 83 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 2 Lo sviluppo di comunità come esito delle strategie comunitarie Nelle precedenti UD è stato evidenziato il ruolo della scuola come agenzia finalizzata a migliorare la qualità della vita delle persone e, quindi, a promuovere lo sviluppo di risorse – soggettive ed oggettive – fondamentali per rendere una comunità “competente”. Tutte le tecniche e gli strumenti finora analizzati (gli interventi di empowerment, la ricerca-azione, il lavoro di rete, le metodologie attive, la formazione all’apprendimento cooperativo, ecc.) hanno una finalità comune: promuovere sviluppo di comunità. «Lo sviluppo di comunità indica un programma di approcci, metodologie e tecniche che coniugano l’assistenza dall’esterno con lo sforzo e l’autodeterminazione localmente organizzati. Coinvolge i cittadini come persone e come gruppi, le istituzioni, i leaders politici e burocratici. Ricorre alla partecipazione della gente e all’iniziativa della collettività come strumento principale per il cambiamento» (Lavanco, Novara, 2002: p. 37). SVILUPPO DI COMUNITÀ Per sviluppo di comunità si intende una modalità di intervento che mira a creare delle condizioni di progresso sociale ed economico attraverso la partecipazione attiva della comunità. OBIETTIVO MIGLIORARE LA QUALITÀ DELLA VITA DI UNA COMUNITÀ Lo sviluppo di comunità” (community development) tende a realizzare un cambiamento costruttivo, mediante una strategia diretta «a creare un senso di coesione sociale; a sensibilizzare i cittadini sulle problematiche più rilevanti della comunità e a proporre mete comuni d’azione; a utilizzare le competenze dei professionisti per sostenere e incrementare la partecipazione democratica, la 84 cooperazione volontaria, le esperienze di auto e mutuo aiuto; a promuovere le capacità dei leader locali; a contribuire al coordinamento tra i servizi e i movimenti di opinione e i gruppi sociali» (Zani, 1996: pp. 78-79). I soggetti ed i gruppi interni alla comunità stessa sono i fautori del cambiamento da questi desiderato, il che implica lo sviluppo di una serie di competenze relazionali, prima ancora che professionali, frutto della capacità-necessità di collaborare con gli altri, di essere anello del sistema circolare che costituisce la comunità nella sua espressione organizzativa nel gruppo di lavoro. Tali competenze costituiscono il fondamento psichico, prima ancora che metodologico, di quello che viene definito come sviluppo di comunità. The Community Development risponde alla necessità di realizzare una forma di democrazia partecipativa con il coinvolgimento generale della popolazione nella gestione sociale e politica della comunità. Seguendo Noto e Lavanco (2000), è possibile distinguere alcuni capisaldi del Community Development: a) promozione della partecipazione di tutti, educando la gente a suddetta modalità; b) individuazione dei bisogni, determinando le scelte da compiere, selezionando strumenti e scegliendo persone tecnicamente competenti alle quali affidare la realizzazione del progetto di sviluppo della comunità, secondo le indicazioni e le priorità emergenti a seguito di una serie sistematica di incontri coinvolgenti, di volta in volta, vasti segmenti della popolazione e finalizzati ad una elaborazione comune; c) monitoraggio del processo e valutazione dei risultati conseguiti. Il principio fondamentale, a cui si ispira il modello dello sviluppo di comunità, è il riconoscimento delle grandi potenzialità e delle risorse intrinseche ad una comunità solo che si riesca a farle levitare. La comunità, sottolineano Noto e Lavanco, «è essenzialmente un sistema di rapporti tra individui, gruppi, organismi, associazioni, istituzioni locali ed extralocali. Il riferimento al territorio è fondamentale, perché ad esso sono collegate molte decisioni sullo sviluppo, ma anche il riferimento temporale ha uguale valenza in quanto i bisogni da soddisfare, le funzioni da svolgere, il grado di autosufficienza da mantenere sono collegati al grado di sviluppo culturale e tecnologico della società in un dato momento storico. L’interazione tra i gruppi è certamente legata all’ambito comunitario, ma è anche vero che la prospettiva delle idee, progetti e azioni dello sviluppo deve essere allargata a dimensioni più ampie, anche oltre i confini nazionali» (Noto, Lavanco, 2000: p. 21). 85 Lo sviluppo di comunità – tanto dei Paesi ricchi che di quelli sottosviluppati, tanto delle comunità urbane che di quelle rurali – secondo l’orientamento definitosi a livello internazionale, trova alcuni principi comuni a cui devono ispirarsi i programmi di sviluppo. Noto e Lavanco (2000) riportano i seguenti: «1. miglioramento delle condizioni di vita di tutta la comunità, attraverso progetti che nascono e si realizzano con l’autonoma iniziativa dei suoi soggetti, in piena responsabilità e attiva partecipazione di questi; 2. due elementi tra loro integrati: da una parte risorse e potenzialità umane dei membri della comunità (capacità di cambiamento, disponibilità alla cooperazione, volontà di essere protagonisti del proprio sviluppo, ecc.) e dall’altra, l’utilizzazione delle tecniche e degli strumenti provenienti dall’esperienza accumulata a livello internazionale; 3. risorse a livello locale da utilizzare immediatamente, purché la comunità lo voglia; esse sono: il personale disoccupato e sotto-occupato, gli agricoltori che sono di norma inattivi almeno per un terzo dell’anno, il risparmio accumulato che può essere impiegato a scopi produttivi e soprattutto la leadership locale che ha bisogno di incoraggiamento, di guida, di suggerimenti tecnici che garantiscano i risultati produttivi dei progetti realizzati; 4. risorse governative, sia in termini finanziari che di personale specializzato, che vengono attivate, di solito, solo quando le risorse locali si sono rese pienamente disponibili; 5. esperienza notevole nei diversi settori della vita sociale ed economica della comunità, quali: la sanità, l’agricoltura, la cooperazione, l’economia domestica, l’educazione di base, l’assistenza sociale, il tutto nell’ottica dello sviluppo complessivo, i cui indicatori principali sono l’incremento del reddito individuale, il miglioramento delle abitazioni con la dotazione dei servizi secondo gli standard della vita civile, la sanità dell’ambiente, il controllo sulle malattie, l’istruzione dei bambini e degli adulti, l’accessibilità ai servizi di assistenza sociale, ecc.; 6. attuazione dei programmi attraverso uno schema organizzativo più o meno funzionale, dove troviamo degli elementi che vanno menzionati :[…] le forme di coordinamento degli interventi pubblici ai vari livelli di governo che spesso si ignorano, i canali di comunicazione tra la comunità, gli organi pubblici specializzati e le agenzie di volontariato, l’attivazione delle informazioni a doppia via (fornendo agli ufficiali dello Stato i dati aggiornati sui bisogni della gente e ricevendo da questi notizie utili sulla disponibilità dei servizi e come usufruirne); 7. attività di gruppi locali, loro organizzazione, rivitalizzazione e coordinamento dei loro programmi al fine di sviluppare l’iniziativa locale e la leadership; tra questi gruppi vanno menzionati le associazioni per la qualità della vita, le associazioni di sviluppo rurale, i Better Village club, il consiglio di comunità, i gruppi di riforma agraria, ecc.» (Noto e Lavanco, 2000: pp. 29-3). In sintesi, possiamo dire che affinché vi sia sviluppo di comunità è necessario investire sulla formazione e creare una rete di relazioni sane e costruttive di reciproco sostegno e collaborazione 86 tra i membri della comunità da un lato, tra questi e le amministrazioni e tra queste ultime e le istituzioni dall’altro, sulla base di una cultura fondata sul coinvolgimento dei cittadini, dei gruppi e delle organizzazioni presenti nel territorio. Essere soggetti attivi e coinvolti nel benessere della comunità vuol dire tenere contemporaneamente presenti le componenti umane-relazionali e le esigenze economico-amministrative del proprio territorio, nonché la dimensione locale e contemporaneamente extraterritoriale dei piani di sviluppo politico ed economico di questa. Vi è sviluppo di comunità, se esistono percorsi e programmi maturativi che alla formazione tecnica antepongano la presa di coscienza dell’importanza sociale della condivisione, della moltitudine di benefici che questa può portare in termini di qualità della vita e benessere quotidiano della comunità (Varveri, Lavanco, 2008). 87 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 3 Le fasi dei programmi di sviluppo di comunità I programmi di sviluppo di comunità, da un punto di vista operativo, si articolano nelle fasi di pianificazione, valutazione dei bisogni, organizzazione comunitaria, fondazione della leadership, raccolta fondi e risorse umane ed economiche per realizzare le attività. Delineiamo, qui di seguito, le prime 3 fasi fondamentali del fare Sviluppo di comunità, nonché l’attenzione ai finanziamenti e ai fondi; ciò che riguarda la leadership verrà approfondito nella lezione 3. La pianificazione La fase della pianificazione riguarda, in tempi preliminari, la scelta di specifiche strategie da seguire in tutto il processo. PROCESSO Qual è il cambiamento atteso? METODO Come lo si deve realizzare? PROGRAMMA Con quali attività? MOVIMENTO Quali risorse? Finalità generale. Lettura del contesto (analisi dei bisogni) Reperimento di finanziamenti e fondi; scelta del capitale umano; definizione del budget complessivo Strumenti e metodologie: interviste, lavoro di gruppo, coordinamenti, monitoraggio e valutazione; report finali Attività da svolgere in relazione ai settori di interesse (sociale, assistenza, agricoltura, ecc.) Fonte: Lavanco, Novara, 2002 88 Tale fase richiede competenze nella scelta di una strategia sistematica da adottare per la realizzazione del cambiamento desiderato per la comunità. È necessario, a tal proposito, considerare 3 elementi: - il modello di coerenza, ossia un sistema operativo che collega coerentemente la struttura del piano alla sua realizzazione. Bisogna indicare, in modo sintetico e chiaro, la realtà nuova che si pensa di realizzare, dopo aver analizzato la situazione attuale e definito il piano d’azione per favorire il passaggio dal vecchio al nuovo; - la pianificazione strategica, ossia l’analisi più approfondita della realtà che si intende modificare. A tale scopo, Noto e Lavanco (2000) suggeriscono i passaggi che seguono: «· esame dell’organizzazione e della sua effettiva capacità, considerando la struttura, i componenti, il programma, le risorse, ecc.; · analisi dei fattori esterni: sociali, economici, politici, tecnologici che possono interagire con l’organizzazione nelle diverse fasi operative; · diagnosi critica dei vari elementi dell’organizzazione nelle diverse fasi operative; · indicazione analitica degli obiettivi e sub-obiettivi che si vogliono raggiungere; · definizione della strategia di attuazione del piano; · azione di monitoraggio dei risultati ed anche delle reazioni che il processo di realizzazione del piano può comportare» (pp. 126-127). Deve essere realizzata, insomma, una vera e propria analisi del contesto con i suoi punti di forza e di debolezza, con le sue potenzialità ed i suoi rischi, considerato che il periodo di implementazione può durare anche cinque anni; - la pianificazione tradizionale, ossia la metodologia che vede il passaggio dall’analisi dei bisogni alla definizione degli obiettivi, dal confronto delle diverse alternative d’azione alla scelta di una di esse, dall’esecuzione alla valutazione e documentazione delle azioni e dei risultati raggiunti. La rilevazione dei bisogni La valutazione – o rilevazione – dei bisogni consiste nella definizione dei problemi della comunità, fino a stimarne la consistenza. Esistono due categorie di tecniche da impiegare (Butler, Howel, 1980): - quelle usate con riferimento alle fonti conoscitive esistenti (per esempio, il censimento e le statistiche di Enti pubblici o di altri organismi attendibili); 89 - quelle raccolte attraverso i rilievi fatti da testimoni, attraverso lo studio dei casi, l’analisi dei comportamenti, le storie di vita, i pareri di consulenti e di gruppi speciali (task forces), nonché attraverso i forum cittadini. Una delle tecniche molto efficaci per la rilevazione dei bisogni di una comunità è rappresentata dalla survey; in realtà, essa è spesso costosa, presuppone un grosso impiego di tempo e può richiedere un folto gruppo di esperti. «Per stabilire se una survey è necessaria, bisogna accertare: se le informazioni già disponibili sono sufficienti; le ragioni per cui si ritiene necessaria la survey; che tipo di survey si ritiene di fare (per questionario, per intervista o per telefono); quali informazioni si vogliono ottenere e quali domande fare; il pubblico al quale indirizzare i questionari e le interviste: età, sesso, residenza, grado di istruzione, etc.; chi progetta la survey, se sono necessari gli esperti e se essi sono disponibili; le modalità di caricamento dati, tabulazione ed interpretazione di essi, e chi lo farà; come redigere il rapporto finale e a chi dovrà essere consegnato; come saranno utilizzati i risultati delle analisi che saranno fatte; il costo in termini di tempo e denaro» (Noto, Lavanco, 2000: p.129). L’organizzazione L’organizzazione è lo strumento, o l’insieme degli strumenti, predisposti e coordinati per il raggiungimento di specifici obiettivi che, nella fattispecie dello Sviluppo di Comunità, tendono a costruire le risorse umane e materiali della comunità. L’operatore dello sviluppo istruirà i gruppi dei residenti nel darsi stabili modelli organizzativi, nell’adottare i valori-guida del processo di sviluppo, a scegliere il sistema di rilevazione dei bisogni, ad approcciarsi alle tecniche più efficaci per procurare le risorse, finanziarie e non, allo scopo di soddisfare i bisogni rilevati ed, infine, a sviluppare le relative strategie di azione. L’efficacia delle azioni di un programma di sviluppo, infatti, «dipende in larga misura da una buona organizzazione, dotata di persone abili nell’ottenere il consenso della comunità e di mettere in atto una strategia collaborativa» (Noto, Lavanco, 2000: p. 130). La forza dello Sviluppo di comunità, le cui fondamenta vanno ricercate nelle organizzazioni locali e nelle associazioni, sta nella capacità di erigere un solido e permanente sistema di partecipazione dei cittadini. 90 Tra le organizzazioni locali che interessano lo Sviluppo di comunità bisogna annoverare: le associazioni di carattere economico e quelle che si occupano di sviluppo rurale e di assistenza sanitaria; le associazioni di inquilini, di genitori e insegnanti, di professionisti, di uomini di affari; le organizzazioni rionali e i gruppi giovanili e di volontariato; i gruppi che fanno capo alla Chiesa. Raccolta dei fondi Le campagne di raccolta di fondi risultano centrali nella realizzazione dei programmi di sviluppo. Consentono, infatti, di articolare con precisione e chiarezza il programma degli obiettivi da raggiungere, delle azioni da fare, dei compiti da distribuire (e a chi vanno assegnati), delle indagini ex-ante, degli strumenti da utilizzare, di incontri collettivi e di contatti con singole persone, associazioni, enti, fondazioni. Chi va a richiedere fondi deve, innanzitutto, essere consapevole e convinto delle necessità finanziarie del progetto e del reale valore della proposta che effettuando. È utile, pertanto, preparare una scheda di budget che illustrerà nel dettaglio le cifre con le relative fonti di finanziamento, evidenziando il totale che rappresenta il “target” della campagna di ricerca di fondi. Il Piano Operativo in questione dovrà contenere le seguenti precise indicazioni (Kiritz, 1980): chi richiede il progetto, la sua credibilità e i motivi per i quali si richiedono i contributi; quali i problemi che si vogliono risolvere e i bisogni che si vogliono soddisfare; quali gli obiettivi; quanto tempo è necessario per risolvere i problemi alla base del progetto; attraverso quali strumenti si intendono raggiungere gli obiettivi; quale la somma totale di cui si ha bisogno; con quali risorse, in futuro, si farà fronte al problema; come verrà espletata la valutazione dei risultati del progetto. È chiaro che ancor prima di presentare la domanda di richiesta di fondi, è fondamentale sapere chi sono i potenziali donatori. Il denaro potrà chiedersi sia alle fondazioni, che alle corporazioni, club di servizio, chiese, imprese, privati. La competenza di quanti operano la raccolta dei fondi sta nella capacità di fare incontrare il bisogno di risorse con gli interessi del donatore. 91 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 4 La fondazione della leadership e le sue funzioni «Lo sviluppo di comunità risulta […] intimamente connesso alla partecipazione sociale ed alla funzione della leadership, laddove quest’ultima la si intenda in quanto possibilità, non vincolo, in quanto potere del singolo soggetto che, agito e condiviso, diviene potere costruttivo dell’intera comunità » (p. 216). Il ruolo del leader, dunque, è fondamentale, ma per essere espletato nel migliore dei modi deve passare “in secondo piano”; leader è colui il quale possiede le effettive capacità di gestire ed organizzare le risorse formali, nonché di individuare e formare quelle informali, attraverso un’azione volta sia alla dimensione globale che alla specificità e peculiarità territoriale, sia al versante normativo ed istituzionale che al versante psicodinamico e relazionale della propria comunità. Il vero potere della leadership è quello di direzionare i flussi relazionali, i rapporti tra le persone e tra queste e le istituzioni. La leadership va, dunque, orientata al poter essere, piuttosto che al potere: deve essere quindi funzionale allo sviluppo (culturale ed economico) del contesto sociale di riferimento e non limitarsi alla gestione passiva di un capitale (ivi). In sintesi, possiamo dire che la funzione della leadership è strettamente interconnessa al processo di empowerment (individuale e collettivo). “Leader” infatti è «colui che sa coordinare ed integrare differenti valori individuali dei membri del gruppo, per tramutarli in forza e potere d’azione» (Noto, Lavanco, 2000: p.132), così da rendere il gruppo coeso e operante per gli stessi fini. Egli non solo deve determinare gli obiettivi, scegliere strumenti e tecniche, ma anche motivare i soggetti, coordinarli e orientare i loro comportamenti verso fini comuni. Compito del leader è, in altri termini, quello di far transitare il gruppo dalla semplice interazione all’integrazione, di costituire cioè un gruppo di lavoro, una realtà in cui aspetti di membership (legati alla percezione del “gruppo” come opportunità per soddisfare i propri bisogni di sicurezza e identità) e aspetti di groupship (legati al concetto di “gruppo” come entità sovraindividuale con bisogni propri) interagiscano e raggiungano un equilibrio. Le più importanti funzioni della leadership possono essere sintetizzate in tre categorie: programmazione, organizzazione e controllo. 92 Nella programmazione si definiscono e si predispongono forze, risorse e fattori in grado di raggiungere gli obiettivi stabiliti. Nell’organizzazione, la leadership definisce tutto ciò che è necessario per la realizzazione del programma: uomini, materiali, capitale, ecc. La funzione di controllo richiama il necessario processo di verifica, attraverso le metodologie di valutazione dei risultati. La leadership, con i rapporti che saprà stabilire con i cittadini attraverso l’uso efficace dei canali di comunicazione, dovrà dar vita ad un forte e mutuo senso di responsabilità e di impegno. È compito della leadership, tra l’altro, portare alla luce le copiose potenzialità latenti che esistono nell’ambito della comunità e che sono risorse preziose per il bene comune. Valutare lo sviluppo di comunità Il successo o il fallimento di un programma di sviluppo comunitario, sia in fase preventiva che in quella consuntiva, è stabilito dalla valutazione. Valutare lo sviluppo di comunità è non solo importante ed utile, ma per certi aspetti anche necessario. Senza valutazione, infatti, non c’è controllo delle scelte effettuate, non c’è verifica delle strategie adottate e degli investimenti posti in essere dalle agenzie esterne che hanno effettuato l’intervento. La valutazione interessa sia la leadership della comunità, sia le agenzie esterne, perché ogni decisione discende da una valutazione complessa ed articolata in tutti i suoi protagonisti, aspetti ed implicazioni. La valutazione, inoltre, è collegata al monitoraggio: l’osservazione sistematica, che controlla le azioni d’intervento dello sviluppo, gli effetti che ne conseguono e le condizioni che si vengono a creare, il tutto riferito agli obiettivi fissati, ai tempi impiegati e alle risorse utilizzate. Le fasi della valutazione Due sono i momenti fondamentali dell’iter di un progetto: la fase iniziale o “formativa” di esso e la fase conclusiva del progetto, detta anche “in consuntivo”. Nella prima fase la valutazione considera quello che un progetto o programma dovrebbe realizzare, permettendo così variazioni migliorative; nella seconda fase si tende a valutare l’impatto prodotto dalla realizzazione del progetto o programma, giudicando a posteriori se è stato proficuo realizzarlo. 93 Un terzo momento dell’iter progettuale va riferito ad una fase ex-ante, prima che il programma sia messo in azione. In questo caso si tratta di valutare le condizioni dell’implementazione del programma, le quali si collegano al corretto uso delle strategie decise dalla comunità. Per sintetizzare quanto si detto, proponiamo lo schema seguente: Fasi della valutazione fase ex-ante: valutazione dell’implemetazione fase iniziale: valutazione del processo fase conclusiva: valutazione dell’impatto. La valutazione del processo di sviluppo di comunità è interna alla comunità stessa. Si tratta di occasioni in cui la comunità studia se stessa: si interroga, cioè, sulle proprie scelte e il suo stesso sviluppo, suoi successi ed insuccessi, sulla validità dei suoi metodi di azione e sull’efficienza della sua organizzazione. L’importanza di tale tipologia di valutazione viene confermata dal fatto che spesso da tali momenti valutativi scaturiscono motivazioni e stimoli per l’azione. La funzione esterna nella valutazione dei programmi e progetti è il terreno sul quale si muovono gli operatori di sviluppo di comunità, che dalle agenzie esterne hanno l’incarico di valutare progetti e programmi allo scopo di poter decidere della loro continuazione, conclusione o espansione. Oggetto della valutazione saranno i costi affrontati e i risultati ottenuti; solo per via indiretta da qui si può risalire alla valutazione dei processi di sviluppo della comunità: occorrerà valutare quanto e come i risultati raggiunti con i progetti possano affiancare il processo di sviluppo interno della comunità stessa. Una terza funzione della valutazione considera la comunità come un’impresa, la cui efficienza viene misurata dagli indicatori che sono strumenti di valutazione oltreché di misura. In particolare facciamo riferimento agli indicatori di efficienza, di efficacia in genere e a quello di impatto ambientale, agli indicatori di redditività e agli indicatori di performance e, soprattutto, agli indicatori di cambiamento. Potranno esserci valutatori chiamati a giudicare, in casi particolari, il comportamento della comunità vista come un’impresa che, ad eccezione fatta del profitto, ha il suo management, le sue strategie di marketing, il suo prodotto, le sue scelte autonome ma vincolate agli obiettivi, le risorse fisiche, economiche e particolarmente quelle umane più o meno motivate nei loro comportamenti, le pubbliche relazioni quivi compresa l’efficacia delle comunicazioni. 94 La valutazione della comunità come impresa è chiamata a rispondere se lo sviluppo ha realizzato gli obiettivi prefissati, come li ha raggiunto e con quale metodo. Si cerca così di vedere se non esistano metodi alternativi che conducano agli stessi risultati con costi minori o con maggiore efficienza ed efficacia. 95 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 5 Dalle considerazioni esposte nella lezione precedente, emergono i quattro concetti-chiave dello sviluppo di comunità (Community Development): - il raggruppamento umano, che comprende le scuole, le famiglie, il vicinato, ma anche le organizzazioni nazionali e quelle internazionali. Il concetto richiama fortemente quello di motivazione, che deve far in modo che il raggruppamento umano possa lavorare insieme per il raggiungimento di una finalità; a questo si aggiungono anche i processi relativi alla cooperazione o alla competizione, al conflitto o all’interazione. - La comunicazione, il potere e la leadership, strumenti necessari per il buon funzionamento dello sviluppo di comunità. La comunicazione rappresenta il principale strumento d’interazione ed è evidente la sua importanza nel processo di socializzazione e nel processo di costruzione della realtà; il potere richiama la capacità di esercitare il controllo e di determinare effettivamente i processi decisionali in seno alla comunità – aspetto di certo centrale nel coordinamento di gruppi estesi; la leadership, infine, richiama la capacità di dirigere le persone verso gli obiettivi del gruppo, specificando ruoli e funzioni di una logica e di un meccanismo molto vasto. - Il cambiamento sociale, quale causa ed allo stesso tempo effetto dello sviluppo di comunità. - Le relazioni umane, insieme di rapporti tra gli individui, tra gruppi e tra gruppi e comunità. Ribadiamo, innanzitutto, che l’obiettivo sostanziale del Community Development– al di là del tipo di modello utilizzato che si differenzia a seconda del contesto e delle necessità della comunità – è uno ed unico: la realizzazione di progetti di sviluppo messi a punto dalla comunità e per la comunità, garanzia di partecipazione e di cittadinanza attiva orientata a migliorare la qualità della vita delle persone. 96 In secondo luogo, è bene precisare che l’approccio è diverso a seconda del Paese in cui si vuole attivare sviluppo di comunità, in funzione della sua collocazione geografica, della sua storia, delle risorse umane, strumentali ed economiche, dei suoi bisogni. I fattori del CD All’interno dei processi di Community Development si possono distinguere cinque fattori fondamentali e due modelli di riferimento generali (Lavanco, Novara, 2012). I cinque fattori costitutivi lo sviluppo di comunità sono: il fattore educativo, operativo, valutativo, democratico e politico-sociale. Educativo Directing M O Operativo D E L L I F A T T O R I Valutativo Assisting Democratico Politico-sociale Il fattore educativo richiama la necessità di educare le persone a prendersi cura di se stesse come facenti parte di una comunità, il cui benessere dipende appunto dalla partecipazione e collaborazione di tutti. Il fattore operativo rappresenta l’aspetto dinamico dell’intero modello, a partire dall’individuazione dei bisogni, delle scelte da effettuare, degli strumenti e delle risorse umane cui affidare lo sviluppo di comunità. Il fattore valutativo fa riferimento all’attenzione sul monitoraggio delle azioni prima elencate, in particolare del metodo, degli strumenti e degli uomini che partecipano all’intero processo. 97 Il fattore democratico ribadisce che lo sviluppo di comunità è un programma promosso dalla gente e per la gente. I modelli di riferimento Come dicevamo, i due modelli di sviluppo di comunità sono: il modello directing (direttivo), caratterizzato dal procedere “per via di fare”, ed il modello assisting (assistito), caratterizzato, come abbiamo visto nel caso della ricerca-azione, dal modo di procedere “per via di insegnare a fare”. MODELLO DIRECTING Progetti proposti dall’alto e dalle autorità Assistenza tecnica e finanziaria esterna Presenza di agenti esterni Si interviene su una parte della comunità Programmazione predefinita Preponderanza di aiuti governativi VINCOLI: tecnicismo, centratura sui risultati MODELLO ASSISTING Progetti elaborati dalla comunità sui bisogni Utilizzo di risorse interne Leadership locale Si interviene sulla comunità nel complesso Programmazione intesa come work in progress Mix tra aiuti governativi e no VINCOLI: processo lento, assenza di controllo tecnico Fonte: Lavanco, Novara, 2002: p. 40 La scelta di un modello piuttosto che dell’altro deve essere ponderata a seconda delle richieste, delle risorse e, soprattutto, del tipo di problematiche che ci troviamo ad affrontare. A prima vista potrebbe sembrare indiscutibile la convenienza, sia economica che trasformativa, dell’applicazione del secondo, ma in realtà vi sono delle situazioni nelle quali è necessario ricorrere e fare riferimento al primo. Vi sono delle situazioni nelle quali non vi sono risorse umane disponibili o, peggio 98 ancora, l’intervento deve essere fatto tanto precipitosamente che non ci è consentito soffermarci a riflettere e valutare con cura i passaggi processuali di cui tale intervento sociale necessiterebbe (pensiamo ai disastri psichici ed ambientali, alle situazioni di assoluta povertà, agli interventi umanitari nei Paesi del terzo mondo ed a tutti quei contesti nei quali è più importante la risoluzione immediata di un problema specifico, il raggiungimento di un obiettivo, il cambiamento reale, piuttosto che il cambiante, il processo relazionale e collaborativo che porta a tale cambiamento). Ancora una volta è il contesto a suggerire cosa fare, a condizionare i nostri interventi a seconda delle risorse presenti in esso e delle richieste che ci pervengono dai soggetti che lo abitano. Il modello directing ed il modello assisting sono, rispettivamente, di chiara derivazione statunitense ed anglosassone. Il CD nasce negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, su iniziativa di accademici e professionisti interessati al processo di partecipazione ed agli effetti di questa sullo sviluppo di una comunità; nel decennio successivo, nel Missouri, venne istituito il Community Development Centre – trasformato più tardi in Dipartimento universitario, prima, e in International Institute of Community Development, dopo – preposto alla gestione di corsi intensivi di formazione per la figura esperta in materia. Il principio ispiratore dei programmi di sviluppo di comunità realizzati negli Stati Uniti riguardava l’ampliamento delle conoscenze dei problemi collettivi e il chiarimento delle modalità per farvi fronte; la maggior parte di questi programmi – anche quelli che seguirono negli anni Sessanta e Settanta – furono realizzati grazie all’intervento del governo federale: attraverso, cioè, un modello directing. Solo più tardi ci si rese conto che per attivare cambiamenti più efficaci ed efficienti, era necessario coinvolgere la comunità di riferimento, attivando la partecipazione dei singoli e degli attori sociali, più in generale. Quanto detto era risultato chiaro, già da prima, nel territorio anglosassone: qui ci si era resi conto della centralità non del numero di progetti attivati, quanto del necessario cambiamento di mentalità che questi progetti richiedevano per la loro riuscita. Mentre il modello directing realizza progetti proposti dall’alto e dalle autorità, impostati da agenti esterni, il modello assisting incoraggia la comunità a sentirsi responsabile ed attiva rispetto al cambiamento desiderato: i progetti, infatti, vengono elaborati dalla comunità sui propri bisogni, si utilizzano le risorse interne alla comunità, la leadership è locale e la programmazione è un work in progress che deve essere costantemente monitorato. In realtà, tra un approccio esclusivamente direttivo ed uno non direttivo, individuiamo una serie di modelli intermedi sui quali sono stati progettati e realizzati diversi programmi di sviluppo. 99 Si tratta, comunque, di una delle strategie più forti della prospettiva psicologica di comunità, in quanto consente di leggere la comunità nell’interconnessione dei suoi sottosistemi economico, sociale e politica (approccio sistemico), assicura il carattere interdisciplinare dell’intervento e si orienta verso lo sviluppo del cittadino e della cittadinanza attiva. 100 Strategie cooperative e comunitarie di apprendimento – IV Unità Didattica – Lezione 6 Conclusioni L’integrazione tra scuola e il territorio è esplicitamente richiamata dall’art. 9 del Regolamento dell’Autonomia, DPR. 275/99, che afferma: “le istituzioni scolastiche, singolarmente, collegate in rete o tra loro consorziate, realizzano ampliamenti dell’offerta formativa che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti”. Sempre a norma del DPR. 275/99 (art. 7) le scuole, singolarmente o in rete, possono promuovere / costituire / partecipare a convenzioni o accordi stipulati a livello nazionale, regionale o locale. L’obiettivo di quest’intero modulo, Strategie comunitarie e cooperative learning, è stato duplice. Da una parte, attraverso il richiamo alla recente normativa che regola i rapporti fra le scuole e le comunità locali, si è voluto stimolare una progettualità che porti la scuola a entrare in sinergia con famiglie, Enti locali, istituzioni e privati, in modo da accrescere le risorse necessarie a far fronte alle molteplici richieste a cui oggi essa è chiamata a dare risposta. Questo primo obiettivo ha condotto, perciò, ad approfondire il rapporto scuola-territorio, attraverso l’esplicitazione della necessità di sinergie con la comunità territoriale, di conoscenza del territorio, di progettazione in un’ottica di lavoro di rete, di progettazione di una formazione finalizzata a promuovere partecipazione e competenze. Oggi, infatti, appare evidente che gli attori sociali non lavorano secondo una logica di rete; che il mondo della scuola e il mondo del lavoro sono due realtà ancora separate; che le associazioni operanti sul territorio sono consultate saltuariamente e, spesso, non se ne conoscono nemmeno le potenzialità; che i genitori, dal canto loro, chiedono tanto alle istituzioni scolastiche ma spesso sono assenti e non dialogano come dovrebbero, ecc. Dall’altro, si è voluto evidenziare l’effetto di queste strategie comunitarie in termini di sviluppo di comunità. 101 Operare per promuovere empowerment individuale e sociale, per prevenire forme di disagio, per potenziare competenze e farlo in un’ottica di lavoro di rete, di dialogo costante con gli altri attori sociali, di analisi attenta del territorio e delle sue esigenze, sembra essere oggi elemento imprescindibile delle istituzioni scolastiche e della loro mission orientata a promuovere competenze, benessere e qualità della vita. Lasciamo spazio, in queste ultime pagine, a quelli che sono gli strumenti per la concertazione interistituzionale. Strumenti di concertazione interistituzionale Convenzioni, accordi, protocolli d'intesa consorzi di scuole rappresentano gli strumenti frequentemente usati nella realizzazione di reti di scuole e fra queste ultime e altri soggetti per lo svolgimento di progetti specifici, per lo svolgimento di compiti a carattere formativo e per l’acquisizione di beni e servizi. « I protocolli d’intesa sono strumenti di concertazione, che costituiscono dichiarazioni d’intenti tra le parti interessate per il raggiungimento di obiettivi comuni. Nel protocollo vengono indicati criteri e modalità attraverso cui raggiungere in modo sinergico gli obiettivi previsti. I soggetti firmatari del protocollo si impegnano, per la loro competenza, a realizzare quanto dichiarato. Le convenzioni rappresentano uno strumento mediante il quale un ente locale o altre istituzioni pubbliche instaurano rapporti di collaborazione con strutture private o di privato sociale per l'erogazione di servizi ai quali possono accedere i cittadini utenti. Una rete di scuole può stipulare una convenzione con un ente esterno (università, ente locale, ecc.) per la realizzazione di un obiettivo comune. La formula aggregativa più frequente tra scuole è l’accordo di rete, stipulato dalle istituzioni scolastiche per collegarsi tra di loro. L’accordo può dar luogo alla costituzione d consorzi, realizzati individuando l’istituto che si fa carico della gestione amministrativa e finanziaria dell’iniziativa e dando origine a un’associazione in cui le singole scuole condividono l’organizzazione e lo svolgimento di attività o l’acquisizione di beni e/o servizi per uno scopo comune (corsi di formazione per gli insegnanti, realizzazione di laboratori, costituzione del servizio mensa, realizzazione di reti telematiche ecc.). 102 In genere si distingue tra partenariato istituzionale, che rappresenta gli interessi dello Stato, delle Regioni e delle autonomie locali e partenariato sociale, che esprime i bisogni delle parti economicosociali. 8 Vd. Materiali di Studio Gestire in rete l’offerta formativa» (Manildo, 2008). 103 Riferimenti bibliografici Butler, L.M., Howell, R.E. (1980). Coping with growth. Corvallis: Western Rural Development Center, Oregon State University. Di Maria, F., Lavanco, G. (2001). Per una psicologia della convivenza. Studi Junghiani, vol. 7, n.2, 113-128. Milano: Franco Angeli. Kiritz, N.J. (1980). Program planning and proposal writing. Los Angeles: The Grantmanship Center. Lavanco, G, Novara, C. (2012). Elementi di psicologia di comunità. Approcci teorici, aree di intervento, metodologie e strumenti. 3ª ed. Milano: McGraw-Hill. Lavanco, G., Novara, C. (2002). Elementi di psicologia di comunità. Milano: McGraw-Hill. Leas, S., Kittlaus, P. (1973). Church fights: managing conflict in the local church. Philadelphia: Westminster Press. Lewin, K. (1951). Teoria e sperimentazione in psicologia sociale (trad. it. Bologna: Il Mulino, 1972). Manildo, G. (2008). Scuola e Territorio. In www.comprensivomarrubiu.it/ d/materiali/didattica/policentricesmo_educativo.pdf Miraglia, L., Lavanco, G., Varveri, L. (2008). La comunicazione. Dalla sua natura alle applicazioni in politica. In L. Varveri, G. Lavanco (a cura di). Psicologia del mutamento sociale. Milano: Franco Angeli. Noto, G., Lavanco, G. (2000). Lo sviluppo di comunità. Esperienze, strategie, leadership e partecipazione: analisi di un modello di democrazia attiva. Milano: Franco Angeli. Varveri, L., Lavanco, G. (a cura di). Psicologia del mutamento sociale. Milano: Franco Angeli. 104 Strategie cooperative e comunitarie per l’apprendimento Glossario Apprendimento: è un processo che comporta la modifica di un comportamento in relazione ad una determinata situazione , coinvolge le strutture dell’apparato neurofisiologico, il processo di maturazione fisiologica del soggetto, ma sono implicati in tale processo anche gli stimoli e le interazioni che provengono dall’ambiente esterno e che sono indispensabili alla elaborazione di nuove acquisizioni. I mutamenti del comportamento, che si presentano stabili nel tempo, possono essere misurabili e osservabili; in tal caso si parla di valutazione dei risultati di apprendimento, ci si riferisce a contesti di apprendimento ove sia presente l’intenzionalità educativa, tipica di situazioni di apprendimento scolastico o di formazione professionale. Apprendimento cooperativo: la metodologia dell'apprendimento cooperativo ritiene che sia fondamentale inserire gli allievi in contesti sociali in cui essi possano apprendere con e dagli altri. Scommette sull'idea che la dimensione sociale dell'apprendimento possa positivamente influenzare le altre componenti. La metodologia dell'apprendimento fa parte dei cosiddetti sistemi didattici ad "anello aperto". Secondo Kaye della Open University, perché ci sia un'efficace collaborazione o cooperazione ci deve essere una reale interdipendenza tra i membri di un gruppo nella realizzazione di un compito, un impegno nel mutuo aiuto, un senso di responsabilità per il gruppo e i suoi obiettivi e deve essere posta attenzione alle abilità sociali e interpersonali nello sviluppo dei processi di gruppo. Consiste nell’assegnare a gruppi di lavoro la realizzazione di uno specifico progetto, sotto la guida di un tutor. Questa metodologia sfrutta al massimo le potenzialità dei singoli e l’apporto che ognuno di loro dà al gruppo, mettendo a disposizione dei compagni le proprie conoscenze e competenze. I membri del gruppo, condividendo idee, esperienze e conoscenze, cooperano nella costruzione di nuovo sapere e riescono a risolvere i problemi che il compito presenta, nel più breve tempo possibile. Internet e gli strumenti della telematica consentono di sfruttare al massimo le potenzialità dell’apprendimento cooperativo. 105 Competenza: il bagaglio di conoscenze, capacità ed atteggiamenti che la persona possiede ed alle quali fa ricorso per l’efficace svolgimento di un compito. In ambito lavorativo: le qualità professionali e personali possedute da un individuo, che lo mettono in grado di assolvere adeguatamente alle esigenze rappresentate dal ruolo. Comunicazione: la comunicazione è un processo di trasmissione di informazioni che riguardano un mittente ed un destinatario, i quali scambiano i propri ruoli, in ragione di un feedback continuo che si instaura tra gli attori della comunicazione. Nella comunicazione succede che un soggetto (mittente) trasmetta un messaggio ad un altro soggetto (destinatario), il quale, in base al messaggio ricevuto, dà a sua volta un altro messaggio; quindi si innesca un processo in forma di feed-back, nel senso che il messaggio che viene trasmesso da parte di uno dei partner della relazione è in funzione del messaggio ricevuto dall'altro e così via. La comunicazione può essere asincrona o sincrona. Nella prima gli attori della comunicazione hanno un margine di libertà nei tempi e nei modi dell’interazione nell’invio dei messaggi e nella loro lettura. Situazioni di comunicazione asincrona sono: - Mailing-Lists - Forum - Bacheche Elettroniche. La comunicazione sincrona richiede che tutti gli interlocutori siano collegati nello stesso tempo. Tipiche forme di comunicazione sincrona sono: - Chatting - Videoconferenza. Comunità: la conoscenza più efficace, più “significativa” è quella che nasce da un processo di costruzione sociale. Quando sul lavoro si incontra un problema, la prima cosa che ci viene in mente è interpellare coloro che ne sanno più di noi o che hanno comunque un bagaglio di esperienze da mettere in comune. Le comunità di pratica sono gruppi informali di persone che condividono le stesse mansioni lavorative o gli stessi interessi, e che nascono, spesso in maniera spontanea, per scambiarsi esperienze, consigli o pratiche quotidiane di lavoro. Gli attuali strumenti di comunicazione on-line consento di poter pensare a comunità di pratica che prosperano grazie alla rete e in virtù del ruolo di animazione della comunità assunto da un formatore. Il formatore non deve far altro che predisporre il terreno migliore per la vita delle comunità, mettendo a disposizione gli strumenti di collaborazione e l’infrastruttura tecnologica che permetteranno alle comunità di nascere e prosperare anche in rete. Generalmente le comunità di pratica nascono come prosecuzione 106 di attività formative volte ad aggiornare le competenze di un gruppo. Iniziate durante il corso proseguono e si incrementano nel corso dei mesi successivi. Le comunità di pratica sono spesso utilizzate nell’ambito del Knowledge Management. Alla comunità di pratica si ispira il metodo della Learning Community e dell'Authonomy Laboratory. Nella Learning Community i soggetti che apprendono scelgono obiettivi di apprendimento e il gruppo con cui collaborare per la loro realizzazione. Si basano sul principio della massima responsabilizzazione degli utenti e hanno per fine lo sviluppo dell'autonomia personale e della creatività. Nell'Autonomy Laboratory autonomia individuale e sviluppo della creatività costituiscono l'essenza stessa delle attività di apprendimento, che mirano alla attivazione delle risorse personali dei soggetti che apprendono. Learning Community e Authonomy Laboratory privilegiano, sopra ad ogni altra cosa, la capacità di apprendere ad apprendere. Cooperative Learning: il Cooperative Learning è prima ancora che un metodo didattico un ampio movimento educativo che pone attenzione alla integrazione tra gli studenti per la realizzazione di obiettivi sia di tipo educativo che didattico. In quanto metodo il Cooperative Learning ha le seguenti specifiche caratteristiche: a. interdipendeza positiva; b. interazione faccia a faccia; c. insegnamento diretto delle abilità sociali; d. lavoro in piccoli gruppi eterogenei; c. revisione e valutazione individuale e di gruppo. I principali studiosi del Cooperative Learning sono: Johnson e Johnson; Svlavin; Kagan; Sharan, Cohen. Facilitazione dell’apprendimento: processo attraverso cui il docente insegna al discente a migliorare le sue prestazioni, facilitando il raggiungimento degli obiettivi professionali. Tale rapporto è detto anche Coaching. Formazione: la Formazione è una azione complessa, motivata ed intenzionata, in virtù della quale si producono effetti di apprendimento su dei soggetti nell’ambito di una situazione, generalmente di tipo lavorativo, che si viene, in ragione di ciò, a modificare. Questa definizione tuttavia soddisfa solo parzialmente le molte accezioni annesse al termine. Il quale è usato, in taluni contesti, come sinonimo di educazione, ovvero, in altri, come il complesso delle azioni e dei fatti educativi che riguardano la dimensione dell’esercizio delle professioni 107 ovvero, ancora, per designare attività di addestramento, aggiornamento e perfezionamento erogate nei confronti di soggetti che necessitano di esse per entrare nel mondo del lavoro o per permanervi. Probabilmente per cogliere la specificità del termine “formazione” è indispensabile riuscire a distinguerlo da altri termini contigui: “educare”, “istruire”, “insegnare”, “animare”. Formare significa trasmettere delle cognizioni e nel contempo modellare un certo comportamento, attraverso l’esercizio e il fare. Attraverso la formazione si ottengono delle modificazioni strutturali della dimensione cognitiva ed emotiva del soggetto. Accanto a questa definizione bisogna mettere quella per la quale formazione è bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche indispensabili per l’esercizio di una professione o di un ruolo. La formazione, intesa come modificazione profonda della struttura cognitiva ed emotiva del soggetto, è vicina alla nozione di Bildung, che prevedeva lo sviluppo interiore delle capacità umane nella prospettiva della unitarietà della cultura e della integrazione della persona. Tale nozione, come si sa, è diventata obsoleta a causa della crisi degli universalismi etici e culturali del Novecento. La formazione si trova a dover fare oggi i conti con la complessità del sociale e la molteplicità dei valori umani, con le istanze di flessibilità, competitività ed efficienza che caratterizzano il lavoro nella fase della post-modernità. La formazione appare disponibile a sperimentare nuove modalità di insegnamento/apprendimento orientate al compito, nonché ad avvalersi di metodologie “non direttive” che tengono conto delle dimensioni relazionali sottese all’apprendimento e del desiderio di espressione dei singoli, impegnati in processi di acquisizione delle conoscenze. Tende a superare la separazione tra luoghi formativi e luoghi sociali. Piuttosto che sospendere i soggetti dagli usuali luoghi di lavoro e di vita per inserirli in contesti formativi pensati ad hoc, preferisce esperienze cognitive che si realizzano “in situazione”: tali sono le tecniche di problem finding, come l’Action Learning, o le comunità di pratica, che vogliono valorizzare l’esperienza degli individui e dei gruppi, le loro capacità costruttive di conoscenza. In tale ottica ci si pone la questione di come fare dell’apprendimento un’esperienza integrata con la vita dei soggetti, grazie al costituirsi di una attitudine alla riflessività e una disponibilità al cambiamento, stimolate da specifici momenti formativi ricorrenti, a carattere intensivo, capaci di rimotivare i soggetti e di offrire loro nuove opportunità di conoscenza. Rispetto alla pedagogia e alla didattica scolastiche, la formazione sembra accettare la sfida posta dagli attuali assetti socio-economici, che, avendo necessità di un apprendimento continuo, quale fattore intrinseco di sviluppo dinamico dei processi produttivi, sotto la spinta della concorrenza dei mercati divenuti globali, spingono verso il superamento della separazione fra sapere e fare, fra momento della costituzione delle conoscenze (istituzioni formative) e momento di applicazione delle stesse (lavoro). La formazione dà per acquisito il superamento dell’aula quale luogo di 108 realizzazione degli apprendimenti, della lezione quale strumento per veicolare il sapere, assume come importanti gli apprendimenti che si realizzano per le vie non-formali e informali. Essa appare disponibile a concepire le proprie azioni come integrate agli obiettivi gestionali della qualità totale, del miglioramento continuo, dello sviluppo organizzativo. Pertanto la formazione appare configurarsi come azione di stimolo e supporto di processi di apprendimento che si sviluppano all’interno dei processi produttivi, in una prospettiva di sviluppo del potenziale dei soggetti. La formazione aspira ad innescare reali processi trasformativi, che incidano sui processi di soggettivazione, avendo essa l’esigenza di distinguersi da interventi di natura differente, che hanno carattere comunicativo, informativo, di marketing, ecc. Il formatore ha per scopo quello di produrre, attraverso opportune azioni, sempre maggiore integrazione dell’identità dei soggetti che apprendono, affinché si verifichi un miglioramento della qualità della loro vita. Nella formazione c’è inevitabilmente un qualcosa che eccede il dispositivo tecnico-professionale messo in atto. È importante l’individualizzazione dell’intervento formativo. Mirando ad assicurare a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze fondamentali del curricolo, l’attività di insegnamento deve essere disponibile a pensarsi diversificata nei percorsi formativi, in ragione delle specificità e dei talenti di ogni discente. Ma l’individualizzazione può andare oltre e farsi personalizzazione. In questo caso non solo si intende garantire a tutti la padronanza delle competenze fondamentali, ma anche si mira a garantire ad ogni studente una propria forma di eccellenza cognitiva, partendo dal presupposto che esistono stili cognitivi differenti, che l’intelligenza non è una, ma sono molte, ecc. Si può dire allora che l’individualizzazione fissa degli obiettivi comuni per tutti e si studia il modo di farli raggiungere da parte di ciascuno mediante percorsi differenziati, mentre la personalizzazione individua l’obiettivo più idoneo per ciascuno (pluralità di percorsi formativi indirizzati verso destinazioni differenti). «Aiutare ogni studente a sviluppare una propria forma di talento è probabilmente un obiettivo altrettanto importante di quello di garantire a tutti la padronanza delle competenze fondamentali». (M. BALDACCI, Individualizzazione, in G. CERINI , M. SPINOSI (a cura di), Voci della scuola, Tecnodid, Napoli 2003). Identità: identità è coscienza di sé, consapevolezza del proprio esistere individuale e sociale. In psicologia con questo termine si intende l’identità personale, ossia il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre. Per i filosofi J. Locke e D. Hume l’identità è un meccanismo psicologico che ha il suo fondamento non in una entità sostanziale che noi chiameremmo Io, ma nella relazione che la memoria instaura tra le impressioni continuamente mutevoli, e tra il presente e il passato. Da questo punto di vista l’identità non è un 109 dato, ma una costruzione della memoria. Questa riflessione filosofica è stata sostanzialmente accolta dalla psicologia, che parla di identità e crisi di identità in ordine alla solidità o alla fragilità di questa costruzione. In virtù di essa l’individuo si sente parte di un gruppo, interprete singolare dei suoi lavori. Identità, perciò, è senso dell’appartenenza. Intelligenza: non esiste una definizione univoca, ogni definizione risente dell’orientamento di pensiero che la formula. Schematicamente le varie definizioni possono essere suddivise nei seguenti gruppi: a. definizioni generali, in cui l’intelligenza è vista come quel processo che consente all’uomo o all’animale dotato di struttura cerebrale evoluta di risolvere nuovi problemi che implicano una ristrutturazione del rapporto di adattamento con l’ambiente; b, definizioni specifiche, che considerano l’intelligenza come un insieme di processi mentali specificatamente umani che investono il ragionamento logico; c. definizioni operative, nate dalla difficoltà di approdare a una definizione univoca di intelligenza, per cui si preferisce sottoporre alcuni aspetti a determinati test la cui soluzione definisce di volta in volta il comportamento intelligente. Percezione: la percezione è ciò che ci consente di accedere a qualche cosa, a ciò che “c’è”: è apertura all’effettività, conoscenza delle esistenze. Questa prima definizione, apparentemente evidente, permette di cominciare a caratterizzare la percezione per differenza rispetto a ciò che non è. La percezione si distingue anzitutto dal pensiero in senso stretto proprio per il suo carattere sensibile, a cui corrisponde la presenza concreta di qualcosa. Si distingue in secondo luogo dal sentimento, in quanto apre a un’esteriorità invece di ridursi all’esperienza di uno stato dell’io: La percezione è dunque caratterizzata da una doppia dimensione. Da un lato è un modo di accesso alla realtà quale è in se stessa; nella percezione in nessun momento ho la sensazione di avere a che fare con un doppione, con una immagine della cosa: ho, al contrario la convinzione di scoprire una realtà che precede il mio sguardo, così come esisteva prima ancora che la percepissi. Dall’altro la percezione è sensibile, vale a dire mia: è l’esperienza che io ho della realtà. Si traduce in questo modo il fatto incontestabile che, senza soggetto percepiente, precisamente senza organi di senso, niente apparirebbe. È sufficiente distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi perché scompaia un pezzo intero dello spettacolo, oppure spostarsi perché il paesaggio cominci a muoversi: proprio mentre si dà a noi come precedente la nostra esperienza, il percepito sembra allo stesso tempo totalmente tributario della nostra soggettività sensibile. Nell’esperienza immediata coesistono, dunque, due evidenze opposte; la percezione si fa laggiù, nel mondo, e si fa in me, raggiunge la cosa così come è in sé e coglie questa stessa cosa attraverso degli stati del soggetto. Se queste due dimensioni sono conciliabili agli occhi dell’esperienza esse si rivelano al contrario incompatibili 110 non appena si tenti di nominarle, non appena la riflessione tenti di impadronirsene. Ora, come è possibile partire da stati soggettivi, immanenti, e dunque relativi, e accedere a ciò che risposa in sé e non è relativo che a se stesso? Come può il vissuto raggiungere una cosa spaziale che gli è profondamente estranea? Questo è il problema della percezione, così come è posto essenzialmente dalla tradizione filosofica. Così formulato il problema riposa interamente sull’assimilazione, considerata come ovvia e pacifica tra le due caratterizzazioni della percezione: il “qualcosa” non può designare che la cosa estesa nello spazio e la percezione uno stato soggettivo. Non ci sarà in questo ragionamento una grave incoerenza? Si conferisce in prima istanza un senso determinato all’essere del percepito così come a quello del percepente, si comincia con il sottomettere la percezione a delle categorie disponibili, quelle del soggetto vissuto e dell’oggetto esteso – categorie edificate dal cartesianesimo – e si sfocia allora nella problematica questione della relazione fra il soggetto e l’oggetto. Se è vero che nella percezione qualcuno percepisce qualche cosa, niente ci autorizza a definire questo “qualcuno” come un insieme di stati soggettivi e questo “qualche cosa” come un oggetto esteso. Si può al limite affermare che un soggetto raggiunga un oggetto, senza con ciò pregiudicare il senso stesso di queste nozioni. L’incoerenza consiste nella subordinazione aprioristica della percezione, è la percezione stessa, in quanto originario accesso alla realtà, che può liberarcene il senso. Problem finding: nelle attività di problem solving, l’innesco della ricerca della soluzione è dato dalla capacità di riconoscere che la situazione che si ha dinnanzi è una situazione problematica. Una volta riconosciuta una situazione come problematica, il soggetto deve riuscire ad impostare il problema in maniera tale che possa cominciarsi la ricerca (mirata) delle possibili soluzioni. Problem solving: secondo Ausubel si possono distinguere due tipi principali di approcci nella soluzione dei problemi: l’approccio per prova ed errore e l’approccio per insight. Nel problem solving per insight il soggetto o traspone un principio precedentemente appreso ad una nuova situazione, che presenta caratteri di analogia di quella con questa (transfer) oppure procede ad una ristrutturazione cognitiva, grazie alla quale l’esperienza precedente viene integrata sì da dar luogo ad una nuova configurazione più funzionale alla soluzione della nuova situazione problematica. Progetto: il progetto può essere definito come «un’impresa complessa, unica e di durata determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi- 111 tempi-qualità» (F. CAPPA, Progetto senza Soggetto, in ID., a cura di, Intenzionalità e progetto, Franco Angeli, Milano 2007, p. 199). È in altre parole l’anticipazione delle possibilità, cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione, piano, ordinamento nonché il modo d’essere o d’agire che è proprio di chi fa ricorso a possibilità. In questo senso nella filosofia esistenzialistica il progetto è il modo d’essere costitutivo dell’uomo, o come dice Heidegger, che per primo ha introdotto la nozione, è la sua “costituzione ontologico-esistenziale”(M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Utet, Torino 1969, § 37). Studio di casi: attraverso lo studio di casi si intende sviluppare le abilità di “problem solving”. Ogni caso è un problema. Esso esige che si sappia assumere delle decisioni opportune. Si tratta di raccogliere informazioni, analizzare e assumere decisioni in tutte le situazioni che presentano analogie col caso studiato. Le metodiche utilizzate nello studio dei casi sono la problem-analysis e la content-analysis. Attraverso la problem-analysis il caso presentato assume natura e carattere problematico: durante questo passaggio critico si sarebbero potute assumere decisioni differenti? E se fosse successo questo, cosa voi avreste fatto? Attraverso la content-analysis si cerca di far comprendere quali sono le informazioni rilevanti da tenere presente per effettivamente analizzare e risolvere il caso. 112