Nel cuore del Negev

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Nel cuore del Negev
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Luca Franchini
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Prima edizione: febbraio 2014
ISBN 978 88 6787 190 2
“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”
via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496)
www.cleup.it
www.facebook.com/cleup
© 2014 Luca Franchini
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,
totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese
le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
Impaginazione e grafica di copertina: Patrizia Cecilian.
In copertina: immagine del deserto del Negev
(dal sito http://loadpaper.com/desert/desert-pictures.html)
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Prefazione
La mia mente è un Teatro, la tua mente è un Teatro, e in
questo teatro recitano e danzano molte Idee.
Tu sai che sono lì, ma ti è impossibile assistere a quell’incorporea esibizione.
Mi sforzo, provo a immaginarmi il manifestarsi di un’idea.
Chiudo gli occhi. Immagino di essere l’unico spettatore nel teatro della mia mente...
No. Niente da fare, credo che nessuno abbia un potere simile.
O chissà forse non si tratta di un potere, ma di uno stato
primordiale.
Ma non voglio correre troppo...
Insomma, non sappiamo che forma abbiano le idee. O neanche se ce l’abbiano davvero una forma. Voglio dire, in qualche
modo quelle idee ci appartengono, no? E tuttavia non sappiamo nemmeno che forma abbiano!
In effetti forse la forma non ce l’hanno. Forse siamo noi a
dare le forme.
Anzi credo che se volessimo a tutti i costi penetrare in
quell’arena, senza venire travolti dall’insensatezza di quella
danza incorporea, saremmo per forza costretti a dare delle forme. Saremmo costretti a inventare involucri in cui racchiudere
queste idee così da estrapolarle dal quel folle palcoscenico caotico e poterci fermare a osservarle.
Ma ancora non basta.
Difatti da quando abbiamo imparato a parlare, a riconoscere
e codificare parole, non ci basta più un’immagine per capire.
Bisogna riuscire a raccontare. Non per forza si ha bisogno di
qualcuno, puoi raccontare anche a te stesso, ma devi pur sempre capire attraverso le parole.
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Che dire, è il prezzo da pagare per l’invenzione del linguaggio. Un prezzo abbastanza ragionevole tuttavia... comunque...
Per raccontare, abbiamo bisogno di mettere in movimento,
di veicolare quelle idee invaginate in involucri inventati.
Ci serve in poche parole una trama che dia un senso logico a
una cosa che logica non è neanche un po’.
Così nascono i sogni, ma così nascono anche i miti, i racconti, le storie. E così nasce anche questa storia.
Che cos’è il mito alla fine? Il Mito è un Racconto di un Significato, un Involucro di un’Idea, riconosciuto e accettato dall’Umanità. E forse poi, nel progredire, quel Racconto, quell’Involucro che l’Uomo ha creato si è plasmato attorno all’Idea originaria che ha dato avvio a tutto.
Questa storia è nata proprio così; certo non ha la presunzione di essere un involucro di tale importanza, ma neanche io ho
la presunzione di definirmi Umanità. Voglio dire che cambiando i termini della proporzione, il risultato è lo stesso. Detta in
altre parole: il Mito sta all’Umanità come questo racconto sta a
chi l’ha scritto. E io credo fortemente a Terenzio1 quando, già
nel 163 a.C., nel Heautontimorùmenos scriveva: «Homo sum,
humani nihil a me alienum puto»; non esistano pensieri o azioni
umane totalmente estranee ad altre persone. Io sono convinto
che da qualche parte, dentro il tuo teatro, ci siano le stesse idee;
forse sono in involucri diversi, forse non ancora con delle forme, forse sono passate e sparite dietro le quinte del retroscena...
In ogni caso, comunque, la conseguenza è che il quarto termine della proporzione saresti tu.
Quindi, se stai per iniziare a leggere questo racconto, ti chiedo di metterti nei panni non di chi lo legge, ma di chi lo scrive.
1 Mi riferisco al commediografo Publio Terenzio Afro (Cartagine, 165
a.C. ca - Stinfalo, 159 a.C.), il quale fu uno fra i primi autori latini a introdurre
il concetto di humanitas, ovvero quell’attenzione filantropica disinteressata da
instaurare con tutti i nostri simili, senza distinzioni etniche, sessuali o sociali.
A proposito di tale ideale è anche la citazione riportata – traduzione letterale:
«Sono un essere umano, non ritengo estraneo a me nulla di umano».
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Immagina che sia tu a raccontare questo viaggio. Io d’altra
parte ero nelle stesse condizioni quando, cinque anni fa, ho
cominciato a scrivere questo racconto: questa storia non aveva
una trama già definita... Era piuttosto un insieme di concetti,
che talvolta stentavano ad avere un incedere rigoroso; io sapevo
soltanto che raccontava di un viaggio, e di una ricerca.
Ho capito solo dopo che, in realtà, era un viaggio e una ricerca; solo a un certo punto ho intuito il Significato, quello che,
evidentemente, stavo cercando. Era quindi tempo di concludere quella storia, che inizialmente non mi sembrava potesse avere
una fine.
Quello che mi chiedo infine, è se il Significato esisteva prima
del Racconto o se invece è emerso col racconto stesso.
Forse, in effetti, i Significati possono esistere di per sé prima di un Racconto, ma di certo noi non possiamo attingere da
essi, perché finché non sono a misura d’uomo noi non li possiamo capire. Rimangono là, belli nella loro eterea intoccabilità,
là dentro l’intangibile palcoscenico della nostra mente, ma noi
abbiamo ben poco a che fare con loro.
Il Racconto è perciò l’unico modo di rendere un Significato
comprensibile.
Credo sia importante averti fatto sapere l’eziologia di queste
pagine, e spero tu possa cogliere nel modo tuo, straordinariamente personale, il significato che vorrai leggerci.
Luca Franchini
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