Stralcio volume

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CAPITOLO 1
Introduzione allo studio del diritto
costituzionale e pubblico
1.1. Il costituzionalismo francese
Il diritto costituzionale iniziò il suo cammino circa duecento anni or sono, al
tempo della Rivoluzione francese, l’evento storico che travolse l’Ancien Régime, quell’oscuro periodo della tirannia durante il quale non serviva alcuna norma per attribuire ogni potere al Sovrano (tanto che Luigi XIV poteva affermare: «L’Etat c’est moi»). A quel tempo la parola «Costituzione» era ancora il modo per descrivere le condizioni politiche di uno Stato, né più né meno come all’epoca di Aristotele e di Cicerone.
Approvando la famosa Costituzione del 3 settembre 1791, l’Assemblea nazionale francese diede invece l’avvio ad un processo rivoluzionario senza precedenti, proseguito con la Costituzione del 24 giugno 1793 e poi con quella del
22 agosto 1795. Ecco gli atti che abbatterono la Monarchia assoluta, accusata
dai filosofi illuministi addirittura di «non avere una Costituzione». All’origine
del “vero” concetto di Costituzione v’è dunque un principio almeno idealmente e in potenza democratico, un anelito di libertà dal dispotismo, anche se le
Costituzioni furono al loro sorgere, e poi continuarono ad essere nell’800, il
prodotto e l’espressione di oligarchie.
I delegati del “terzo stato”, cioè i rappresentanti della borghesia, trasformarono gli “stati generali” in Assemblea nazionale costituente, rivendicando un
potere primigenio, assolutamente libero da ogni limite e controllo, «salvi quelli che a lui stesso piacesse di adottare» (Sieyès). Se è vero che il potere “costituente” prese forma e si impose in via di fatto, come decisione politica che sostituiva un nuovo diritto al vecchio, la distinzione tra pouvoir constituent e pouvoir constitué (infra, cap. X, sez. I, § 1.2), dovuta proprio alla geniale intuizione
dell’abate Emmaneul Joseph Sieyès, consentì tuttavia di obbligare i poteri “costituiti” al rispetto della Costituzione.
L’idea di legge superiore, non sconosciuta al mondo romano-ellenistico ed
emersa poi nell’epoca medievale come riflesso del principio teocratico, scendeva così dal cielo sulla terra.
Abbattuto il dogma assolutistico, il posto del Sovrano non fu preso dal popolino che aveva assaltato la Bastiglia, ma dalla Nazione, intesa quale entità
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unitaria e trascendente, incarnata dalla Assemblea nazionale. A chi sarebbe
spettata la sovranità sino ad allora detenuta dalla Monarchia? La risposta si
trova negli scritti di Jean-Jacques Rousseau sul «contratto sociale» come manifestazione originaria di democrazia. La «volontà generale» della maggioranza borghese, la nuova forza politica dominante, trovò riconoscimento nell’art.
3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata il 26
agosto 1789 e poi inserita nella Costituzione del 1791 come una sorta di premessa.
La Costituzione girondina, concentrandosi sul «modo di essere giuridico
dello Stato» (Grimm), stabilì dei limiti all’autorità di governo, suddividendola
fra diversi soggetti ed organi: la separazione dei poteri (infra, cap. VII, § 1.5),
teorizzata da John Locke ed eretta a principio giuridico da Charles-Louis de
Secondat, barone di La Bréde e di Montesquieu, era un modo per spezzare l’assolutismo regio, imbrigliando l’autorità politica di uno Stato importante come
la Francia, il cui Sovrano era stato l’emblema stesso della Monarchia legibus soluta. Sotto tale profilo, nel linguaggio originario della Costituzione, definita da
Emmerich de Vattel «regolamento fondamentale per l’esercizio della pubblica
autorità», vi era, accanto ad un anelito di libertà, la preoccupazione che questa
potesse correre seri pericoli se un unico soggetto, un Monarca o un dittatore o
anche un’assemblea, acquistasse il predominio assoluto.
Il testo costituzionale, contenuto in un documento scritto, fornì in tal modo
un’articolata struttura all’assetto che sostituì il defunto Stato assoluto di tipo
patrimoniale (infra, cap. IV, § 2.2), venuto ad esistenza con la pace di Westfalia
(1648) dopo il crollo del Sacro Romano Impero ed evolutosi nello Stato di polizia (ibidem), la cui architettura istituzionale, pur distinta dalla persona del Sovrano, era ancora rozza e primitiva. Le nuove forze borghesi, sostituendosi nella posizione dominante occupata in precedenza dalla aristocrazia, assegnarono
alla Costituzione, insieme ad una funzione polemica di negazione del passato,
proprio quella di definire il nuovo ordine e di stabilizzarne l’assetto giuridico
destinato ad assicurarlo (Mortati).
1.2. … e quello inglese-nordamericano
Le Costituzioni francesi non erano una vera e propria novità, giacché una
celebre dottrina (Jellinek G.) ha potuto dimostrare la loro derivazione dalle
Carte e dalle Costituzioni delle Colonie inglesi sul continente americano, il cui
background furono le istituzioni della madrepatria.
L’assetto politico dell’Inghilterra aveva già raggiunto in quel periodo un notevole grado di perfezione tecnica, affatto ignota altrove: tuttavia Oliver
Cromwell, durante la Gloriosa Rivoluzione, propose senza successo la messa
per iscritto di una vera e propria Costituzione. Il suo Instrument of Government restò soltanto un documento politico, seppure manifestazione primordia-
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le del potere costituente. Sul piano strettamente costituzionale lo spartiacque
fu piuttosto lo scontro che, agli inizi del ’600, aveva opposto il giurista Sir
Edward Coke al Re Giacomo I e al suo Lord Cancelliere Francis Bacon. I common lawyers riuscirono infatti a far valere il primato delle fundamental constitutions e della giurisprudenza nei confronti dello stesso Sovrano, che da allora
in poi fu sottoposto alla rule of law, risalente ad una legge superiore, opera della storia e della consuetudine (infra, cap. X, sez. II, § 1.2).
Paradossalmente proprio l’Inghilterra, dove nacque la Monarchia limitata,
non riuscì però ad avere una Costituzione scritta e garantista, una Constitution
de l’Angleterre (come la definiva impropriamente J.L. De Lolme), ma soltanto
una sequenza di atti materialmente costituzionali dalla Magna Charta (1215) al
Bill of Rights (1689), sino all’Act of Settlement (1701).
Tuttavia l’onda lunga di queste trasformazioni istituzionali, che via via privarono il Re del suo potere sovrano a favore del Parlamento, influenzò i coloni
americani, i quali riuscirono a tradurre i principi della common law in originali
documenti costituzionali.
I covenants nordamericani – il più famoso dei quali fu il Compact sottoscritto dai Padri Pellegrini a bordo del Mayflower – altro non rappresentavano che
l’applicazione pratica delle antiche teorie di Calvino e di Althusio, perfezionate nel pensiero di Thomas Hobbes e John Locke. Quei grandi filosofi avevano
costruito il potere di governo come il risultato di un rapporto contrattuale mediante il quale i sudditi, naturalmente liberi, si uniscono tra loro (pactum unionis) e si assoggettano ai voleri del Sovrano (pactum subiectionis), cedendogli la
propria libertà in cambio della sicurezza comune e di una stabile organizzazione sociale (pactum ordinationis). Se questo è il fondamento dell’autorità, allora
essa trae la sua legittimazione non già da un dono di Dio o, comunque, da
un’entità superiore, ma dalla volontà dei consociati che, in questo modo, conservano i loro diritti politici, garantiti mediante il contratto.
La Costituzione fondeva in sé l’origine contrattuale e il principio democratico, non più confinato nell’iperuranio della filosofia politica, nel momento in
cui i coloni si appellavano al principio «no taxation without representation», rivendicato nel corso dei secoli dallo stesso Parlamento di Westminster, quale
espressione del diritto di resistenza nei confronti del Sovrano. Fu l’assetto inglese di governo, maturato attraverso una esperienza secolare e giunto a compimento alla fine del ’700, a fornire l’esempio da imitare, elevato a modello dai
primi cultori del diritto pubblico, che rappresentarono nei loro trattati proprio
la “Costituzione” consuetudinaria d’Inghilterra come il risultato di un felice
equilibrio tra il Re e il Parlamento.
Thomas Paine scriveva: «Una Costituzione non è l’atto di un governo, ma di
un popolo che crea un governo per i suoi fini». Così, per il tramite di Assemblee rivoluzionarie, nel gennaio e nel marzo del 1776, il New Hampshire e la
South Carolina si erano date due Costituzioni scritte e vi provvidero nel giro di
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un anno altre Colonie: Virginia, New Jersey, Delaware, Pennsylvania, Maryland, North Carolina, Georgia e New York.
Il costituzionalismo nordamericano culminò nella Costituzione degli Stati
Uniti d’America, redatta dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787 nella veste di
moderno convention parliament e poi via via ratificata dai tredici Stati “originari”: era quella una Costituzione rigida, cioè modificabile con una procedura
diversa e più complicata rispetto a quella delle leggi ordinarie. Il potere costituente si distingueva da quello legislativo.
Pochi anni dopo, la Costituzione venne provvista di una Dichiarazione dei
diritti analoga a quelle aggiunte alle Costituzioni degli Stati membri e la sua primazia fu convalidata dalla Corte Suprema che, nella celebre sentenza Marbury
v. Madison, redatta nel 1810 dal suo altrettanto famoso Presidente, il Chief Justice John Marshall, affermò la superiorità della Costituzione su ogni altra legge e, correlativamente, la competenza della Corte Suprema a dichiarare la nullità delle leggi contrastanti con essa. Era nato il controllo di costituzionalità e il
governo delle leggi: cioè un diritto costituzionale giurisprudenziale che, per essere strettamente intrecciato con la common law, ebbe la sua culla nelle aule di
giustizia prima ancora che nelle Università (infra, cap. X, sez. 2, § 2.1).
In Nordamerica i principi del diritto costituzionale si svilupparono nel ’700
e nell’800 seguendo il solco tracciato dalla Costituzione federale e furono coltivati senza soluzione di continuità in un giardino felice, radicandosi saldamente
nella coscienza collettiva.
1.3. Costituzionalismo e Costituzione
Già il 4 luglio 1776, al momento di staccarsi dalla madrepatria, il Congresso
generale delle tredici Colonie, nell’approvare la Dichiarazione di Indipendenza, scritta da Thomas Jefferson, aveva proclamato solennemente, parafrasando
il Locke: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti,
che tutti gli uomini sono stati creati eguali e che essi sono stati dotati dal loro
Creatore di alcuni diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà e la ricerca della
felicità. Che allo scopo di garantire tali diritti sono istituiti tra gli uomini governi, i quali traggono i loro giusti poteri dal consenso dei governati».
Ecco la teoria del diritto naturale, fondamento ultimo del costituzionalismo,
che fa capo a Ugo Grozio e Samuel von Pufendorf. Ma le radici del giusnaturalismo risalgono addirittura a Cicerone che, esponendo nel De Repubblica la
filosofia stoica, parlava di una «vera legge conforme a natura, universale, costante ed eterna… alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire sé stesso e senza rinnegare la sua anima»: diritto di natura che trovasi positivamente
sancito nella Dichiarazione dei diritti della Virginia del 12 giugno 1776, secondo cui: «Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi ed indipendenti e
possiedono certi diritti innati […]».
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Tradotte e pubblicate per la prima volta nella Svizzera francofona, le Costituzioni e le Dichiarazioni dei tredici Stati nordamericani erano ben note ai rivoluzionari europei e già contenevano in nuce gli ingredienti del moderno diritto costituzionale. Questi documenti, grazie alla loro forma scritta, servirono
in tal modo come ponte di passaggio fra la unwritten law inglese, ancora affidata alle fonti consuetudinarie e il diritto dei vari Stati continentali in Europa.
Ma il volano della recezione del costituzionalismo in Europa furono le vicende politiche della Francia rivoluzionaria che, grazie al loro slancio libertario, racchiudevano in sé una straordinaria forza emblematica e propulsiva.
L’affermazione contenuta nell’art. 1 della Costituzione francese del 1791, secondo cui: «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti», nel
riecheggiare le Carte di oltre oceano, fu il proclama dirompente che determinò
il successo della rivoluzione liberale combattuta sotto la parola d’ordine della
Costituzione; e le Costituzioni francesi si diffusero a macchia d’olio in tutta Europa, mano a mano che le varie Monarchie nazionali, poste in scacco dai movimenti popolari e dalle emergenti classi borghesi, cedevano il posto ai regimi paleoliberali.
Fu con il vento del costituzionalismo che la Costituzione entrò nel mare della storia. Il costituzionalismo, quale risultato della simbiosi tra le istituzioni inglesi e le Costituzioni-documento, venute ad esistenza negli Stati Uniti con la
Guerra di Indipendenza ed in Francia con la Rivoluzione, aveva un duplice significato, desumibile dalle teorie politico-filosofiche del contrattualismo e della democrazia radicale: da un lato, era inteso come una tecnica per limitare l’autorità («Un governo senza Costituzione è un potere senza diritto», affermava il
Paine); e, dall’altro, voleva anche dire difesa delle libertà e dei diritti naturali
contro l’ingiustizia e l’oppressione: tanto è vero che l’art. 16 della Déclaration
francese proclamava: «Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est
pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a pas de Constitution».
Così Pellegrino Rossi definiva la Costituzione «legge dei Paesi liberi» e lo
studio del diritto costituzionale esordì come attività divulgatrice di questa ideologia, piuttosto che come disciplina scientifica.
Mentre l’idea di Costituzione abbandonava l’empirismo descrittivo che
l’aveva accompagnata nella storia, per divenire un concetto giuridico, la nostra
scienza nacque e si sviluppò in una prospettiva assiologica, largamente condizionata proprio dalle vicende del costituzionalismo, inteso come sinonimo di libertà costituzionali e di valori, che ha consentito di inaugurare in Europa un sia
pur precario equilibrio tra il modo di organizzare i poteri dello Stato e la garanzia dei diritti individuali. Ma questo imprinting è stato ancor più marcato
negli Stati Uniti, dove la scienza del diritto costituzionale ha avuto origine ed è
stata praticata sino ai nostri giorni con finalità eminentemente concrete, cioè
tralasciando ogni astratta costruzione dottrinale e inquadrando invece la descrizione degli eventi costituzionali in una prospettiva storica.
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1.4. Le Costituzioni tradizionaliste
In Italia, i primi vagiti costituzionali si ebbero nel periodo napoleonico, tra
il 1796 e il 1799, in seguito all’ingresso nella penisola dell’esercito repubblicano francese. Traumatizzati da questi eventi, gli staterelli tributari della Francia
rivoluzionaria approvarono le loro ragguardevoli Carte costituzionali giacobine, tutte modellate sulla Costituzione francese dell’anno III, di cui l’armata
conquistatrice aveva portato seco numerosi esemplari allo scopo pedagogico di
“democratizzare” l’Italia. Tale la Costituzione di Bologna del 1796, poi sostituita da quella Cispadana; tali le Costituzioni Cisalpine, promulgate nel 1797 e
nel 1798; tali le Costituzioni della Repubblica Ligure (1797), della Repubblica
Romana (1798) e della Repubblica di Lucca (1799).
Proprio questa atmosfera rivoluzionaria, contrassegnata da un succedersi
vorticoso di Costituzioni, stimolò l’interesse per lo studio del diritto costituzionale, alimentato dal fatto che i neonati cultori della materia avevano oramai a
disposizione un corpo più o meno organico di norme da illustrare ai profani.
L’aspettativa di una Costituzione scritta, cioè consacrata in una legge o “Carta”
fondamentale, che garantisse irrevocabilmente i nuovi diritti, si coniugava con
le istanze di emancipazione politica. In una atmosfera di grande fervore popolare Marco Giuseppe Compagnoni, il 2 maggio 1797, svolse la sua prolusione
alla cattedra di diritto costituzionale cispadano e giuspubblico universale, istituita presso l’Università di Ferrara con decreto in data 31 marzo 1797. Quasi contemporaneamente, la Repubblica Cisalpina creò altre due cattedre, che sorsero
nel novembre di quel medesimo 1797 nell’Università di Pavia e poi, l’anno dopo, nell’Ateneo di Bologna, conferite rispettivamente all’insegnamento degli
oramai dimenticati professori Alpruni e Algerati.
La giovane scienza del diritto costituzionale era però destinata a una breve
vita. Con la cacciata delle truppe francesi dall’Italia il suo insegnamento scomparve infatti dal manifesto degli studi delle più prestigiose Università, condividendo l’ingloriosa fine di tutte le Costituzioni repubblicane. Nel 1799 il tomo
del Compagnoni dal titolo «Elementi di diritto costituzionale democratico, ossia Principii di diritto giuspubblico universale» fu dato alle fiamme “sotto l’infame albero della libertà”, alla presenza dell’intero corpo accademico dell’Università di Ferrara. Quello storico rogo dimostra come, agli occhi dei contemporanei, il diritto costituzionale e il suo studio avessero un carattere apologetico, che precludeva agli stessi autori l’obiettività richiesta ad una disciplina veramente scientifica.
Soltanto dopo la grande vittoria di Marengo risorsero la Repubblica Cisalpina, la Repubblica Ligure e la Repubblica di Lucca, che si diedero tre Costituzioni modellate su quella francese dell’anno VIII (13 dicembre 1799). Poi il
Congresso di Vienna del 1815 interruppe del tutto il processo riformatore, avviando il periodo della Restaurazione, nel quale prese vigore una più limitativa
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concezione dei documenti costituzionali, che può definirsi «tradizionalista».
Queste ultime Costituzioni non erano norme precettive poste da un atto del
potere costituente ma, come nel passato, leggi fondamentali che si facevano
convenzionalmente derivare dalla divinità ovvero da tradizioni secolari, individuate nella storia dei vari popoli (Bolinbroke). Ecco che la stessa parola «Costituzione» divenne in Francia «Charte» e in Italia «Statuto».
Il ristabilimento degli antichi privilegi veniva tuttavia contestato dai moti rivoluzionari tendenti ad imporre ai Sovrani la concessione di Costituzioni democratiche che, pur “graziosamente” largite ai sudditi, erano tuttavia un vero e
proprio patto sociale «concordato» tra due forze politiche, l’una ormai declinante e l’altra in rapida ascesa. Da un lato, v’erano i Sovrani, tali «per grazia di
Dio» prima ancora che «per volontà della Nazione», i cui poteri, diversamente
che nel passato (rex facit legem), risultavano peraltro disciplinati dalla Costituzione (lex facit regem). Dall’altro lato, stava emergendo prepotentemente quel
ceto liberale che in tutta Europa promosse il sorgere degli Stati nazionali come
spazio giuridico della borghesia emergente.
Il liberalismo più o meno moderato fu l’epoca del passaggio dalle Carte
“dualiste” a quelle tendenzialmente “moniste” e non mancarono documenti
costituzionali liberali approvati da assemblee convocate ad hoc, come la Costituzione belga del 1831 o quella federale svizzera del 1848. Si aprì quella che fu
chiamata in Germania «l’epoca delle Costituzioni» e il termine «Konstitution»
venne sostituito da «Verfassung». A Bologna e in Romagna ebbe vita nel 1831
l’effimera Costituzione delle Provincie unite italiane; finché, tra il 1848 e il
1849, si potè assistere ad una vera e propria fioritura di Carte costituzionali
concesse (octroyées) dai Monarchi: le Carte del Regno delle due Sicilie, degli
Stati temporali della Chiesa e del Ducato di Parma; mentre furono approvati da
Assemblee costituenti lo Statuto del Regno delle due Sicilie e la Costituzione
della Repubblica romana.
L’art. 355 della Costituzione delle Due Sicilie stabiliva che: «In tutte le Università e stabilimenti di pubblica istruzione, dove s’insegnano le scienze politiche ed ecclesiastiche, si darà il primo luogo allo spiegamento delle Costituzioni». E nel 1848, l’anno stesso in cui Carlo Alberto promulgò lo Statuto del Regno di Sardegna, Cesare Alfieri patrocinava a Torino un insegnamento di diritto costituzionale, affidato a Luigi Amedeo Melegari, deputato al Parlamento,
autore di quello che si ritiene il primo manuale italiano di diritto costituzionale
dal titolo: «Sunti delle lezioni di diritto costituzionale date nella Università di
Torino l’anno scolastico 1856-57». A Parigi la prima cattedra della disciplina
era già stata istituita presso la Sorbona il 22 aprile 1834 dietro sollecitazione del
Guizot e la dottrina di Pellegrino Rossi, insigne esponente politico di poliedrica cultura che tenne lezioni dal novembre del 1835 al marzo 1845, ebbe grande eco anche al di qua delle Alpi.
Il significato propagandistico mantenuto dal termine «Costituzione», intesa
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come una sorta di manifesto del movimento liberale, induceva i primi eruditi
che avevano incominciato a studiare la materia sin dai primi dell’800, come
Gian Domenico Romagnosi e William Stubbs, ad assemblare nella c.d. Scienza
delle Costituzioni, con un certo dilettantismo, notizie storiche, materiali legislativi, considerazioni filosofiche e d’opportunità politica. Come notava Vittorio Emanuele Orlando: «Frammenti di filosofia del diritto e di filosofia della
storia si mescolavano con molta politica più o meno scientifica e con elementi
di natura economico-sociale; mentre una scienza nuova, la sociologia, con audacia giovanile, veniva invadendo il dominio delle scienze di Stato, incontrando deboli resistenze nel campo del diritto costituzionale».
1.5. Stato e Costituzione
Nella seconda metà dell’800, il costituzionalismo lasciò tuttavia la politica per
raccogliersi nell’ordine giuridico ad opera della grande Scuola tedesca del diritto pubblico. Furono infatti i Maestri germanici ad avere per primi l’idea di liberare lo studio delle Costituzioni dalle incrostazioni storiche, etiche e di altro tipo
che lo avevano sino ad allora soffocato e reso giuridicamente inservibile. Oltre a
Karl Friedrich von Gerber, anche Paul Laband, Georg Jellinek e Rudolf von Jhering esprimevano, in buona sostanza, una vera e propria reazione dei giuspubblicisti, i quali si proponevano di procedere ad una ricostruzione sistematica del
diritto costituzionale: il loro duplice obiettivo era, da un lato, di elevarlo, come il
diritto privato, al rango e, soprattutto, al livello del diritto positivo, vale a dire
«posto» autoritativamente dal legislatore; e, dall’altro, di conferire alla sua dottrina rigore e dignità autonoma, trasformandola da ars in scientia.
La nuova concettuologia fu articolata attorno alla nozione di “Stato” che,
già presente negli scritti del Machiavelli e di altri illustri politologi del passato,
divenne una definizione giuridica a tutto tondo: i rapporti sociali furono infatti composti nella unità indissolubile dei tre elementi costitutivi dello Stato, vale a dire sovranità, popolo e territorio. Il potere originario e sovrano dello Stato – superiore e indipendente da ogni altro – fu reso autonomo da ogni principio esterno ad esso, fosse pure teocratico, monarchico o democratico. Secondo
la icastica affermazione del Laband: «La volontà dello Stato è diversa da quella dei suoi membri, non è la somma delle loro volontà, ma è una volontà autonoma di fronte ad essi».
Il fulcro di questa rappresentazione risiede nella sovranità che, frantumata
nell’Impero e nel Papato, viene ora ricondotta allo Stato, quale fondamento
delle competenze attribuite ai vari organi costituzionali (Stato persona). Né il
Monarca né il Parlamento debbono considerarsi la fonte della sovranità, che è
invece interamente contenuta nel diritto dello Stato. E, allo stesso modo, la sovranità non spetta al popolo, ma si pone al di fuori dei singoli cittadini, quale
cardine dei diritti soggettivi loro spettanti, non per nulla definiti “pubblici”.
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ALLO STUDIO DEL DIRITTO COSTITUZIONALE E PUBBLICO
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Abbandonato il concetto di potere costituente, che poteva evocare pericolose instabilità rivoluzionarie (De Vergottini), la legge generale, approvata dai
Parlamenti borghesi eletti sulla base del censo e operanti secondo il principio
di maggioranza, è vista come l’unica e principale fonte di produzione dell’ordinamento giuridico (Stato ordinamento). Lo Stato, in quanto sottoposto al diritto, è uno Stato di diritto (traduzione letterale dalla formula tedesca «Rechtsstaat»; v. infra, cap. IV, § 2.3).
In questa forma di Stato la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico
– tramandata dal diritto romano – acquista un peculiare rilievo, ricollegandosi
al diverso ruolo dei rispettivi protagonisti: nell’un caso, i soggetti dell’ordinamento dialogano fra loro su un piano di eguaglianza, mentre nel secondo lo Stato si colloca in una posizione sopraordinata rispetto ai privati.
Bisogna ammettere che fu compiuto allora un significativo passo in avanti
sul terreno delle garanzie. Nel momento in cui la legge si sostituiva al regolamento, l’amministrazione pubblica si vide infatti preclusa la facoltà di emanare
ogni sorta di provvedimento che reputasse opportuno, libera da ogni intralcio
formale ed obbligo di giustificazione, come le era consentito nel precedente
Stato di polizia (v. infra, cap. IV, § 2.2). Con l’affermazione del principio di legalità e della giustizia amministrativa, le sue attribuzioni, da esplicazione di
pura forza, divengono nello Stato di diritto poteri limitati dalla legge, la quale
riconosce l’autonomia dei singoli e instaura un vero e proprio rapporto giuridico tra due soggetti di diritto, uno dei quali è il cittadino e l’altro l’amministrazione pubblica (anche se la posizione delle due parti non è paritaria, in quanto
lo Stato conserva in molti settori del diritto amministrativo veri e propri diritti
di supremazia).
Uno squilibrio fra Stato e cittadini è però fisiologico nel linguaggio dello
Stato di diritto, perché la storia della specie umana va considerata, nella ideologia costituzionale dei suoi teorici, come il compimento di un disegno segreto
della natura che culmina nella perfetta costruzione interna dello Stato, monopolizzatore della forza e della Verità (Kant). In particolare, nello Stato liberale,
inteso come «manifestazione giuridica della vita collettiva» (Gerber), la Costituzione esiste se e in quanto deriva dallo Stato, corporazione politica ed entità
spirituale che si autolimita assoggettandosi volontariamente al diritto. Lo Stato
liberale è uno Stato legislativo: lo Stato pone dunque la Costituzione e non viceversa. Il primato del Rechtsstaat rispetto alla Costituzione appare così irresistibile da prevalere sugli stessi diritti individuali, che debbono conformarsi al
potere pubblico: con la conseguenza che lo Stato di diritto è liberale fino ad un
certo punto o, in altri termini, è garantista in senso negativo, limitandosi a tutelare l’ordine e la sicurezza necessari per l’incontrollato svolgimento delle libertà
economiche (laissez faire). La libertà nello Stato è il mezzo ritenuto necessario
dalla nascente borghesia per far prevalere il fattore economico su quello politico e garantirsi la libertà dallo Stato.
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In ogni caso, una lettura totalizzante della sovranità parlamentare, esaltando
la razionalità della legge ordinaria, colloca al posto del Sovrano, o per lo meno
accanto ad esso, i rappresentanti eletti dal popolo, i quali esercitano le loro attribuzioni legislative senza vincolo di mandato. All’interno di una società omogenea, ne riesce emarginata la politica, reputata, diversamente dal diritto positivo, priva di regole e, in ogni caso, di dubbio utilizzo per finalità rigorosamente giuridiche. Non per nulla i teorici del liberalismo, chiusi nella loro ideologia
“statolatrica”, accusavano addirittura i partiti politici nascenti di svolgere una
funzione anticostituzionale, nella misura in cui avrebbero potuto compromettere, con la loro dialettica, la compattezza di un sistema chiuso in sé stesso e autosufficiente.
1.6. La Costituzione come diritto dello Stato liberal-democratico e le
degenerazioni totalitarie
Una volta che il diritto è risolto nella legge dello Stato, la Costituzione diventa tecnica organizzativa del potere e la scienza costituzionalistica descrive il
potere in quanto disciplinato da regole speciali rispetto a quelle del diritto privato.
Ma il metodo seguito da questi epigoni, che trasformarono la Costituzione
in diritto costituzionale, non era originale. Il loro positivismo aveva la sua radice nella codificazione promossa da Napoleone agli inizi dell’800 (infra, cap.
III, § 1.2.4), quando le Facoltà giuridiche divennero Scuole di diritto, poste
sotto il diretto controllo dell’autorità politica e aventi il compito di spiegare il
Code civil come una specie di grammatica, secondo la distribuzione della materia seguita dal legislatore. A sua volta, questo metodo, detto esegetico, era molto simile a quello logico-aristotelico, usato dai Glossatori medievali che raccolsero le spiegazioni (glosse) della compilazione giustinianea. Non per nulla l’esegesi fu affinata dalla Scuola storica del diritto, i cui esponenti erano romanisti
come Georg Friedrich Puchta, Bernard Windscheid e Karl Friedrich von Savigny, adusi a sacrificare il profilo storico a quello logico-interpretativo. A questi
giuristi, che pure erano molto attenti alla dimensione nazional-culturale del diritto, va infatti ascritto il merito di aver eretto, attraverso una serie di schemi sillogistici, un edificio normativo cristallino nella sua astrattezza, tecnicamente
coordinato e privo di lacune (per colmare le quali furono apprestate apposite
tecniche interpretative). La dimensione sistematica, se non addirittura meccanicistica, del loro lavoro derivava, in ultima analisi, dall’idea kantiana secondo
cui: «Ogni dottrina, quando diventa un sistema, cioè un tutto conoscitivo ordinato secondo principi, si designa come scienza». La dogmatica e il formalismo
logico consistevano, e consistono tuttora, nell’elaborare una genealogia di concetti giuridici, ovvero di dogmi sempre più generali, deducendoli dalle norme
esistenti.