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RASSEGNA STAMPA
lunedì 12 gennaio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
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L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio Articolo 1 del 09/01/15
#siamotuttiCharlieHebdo.
Il mondo dell'associazionismo italiano unito e solidale contro l'attentato al settimanale
satirico francese. Un episodio gravissimo che mina la libertà di espressione, ma che non
deve interrompere quel processo di pace e integrazione tra culture e religioni diverse.
Come racconta ai nostri microfoni Francesca Chiavacci, presidente dell'Arci.
http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/01/8/22788/nous-sommes-charlie-intervengono-fchiavacci-arci-e-m-padovani-le-nouvel-observateur
Da Corriere.it del 10/01/15
La manifestazione di sabato
In piazza Duomo la Milano che vuole «stare
insieme» contro il terrorismo
Il raduno dopo l’appello lanciato da Emergency. All’evento hanno
aderito realtà dell’associazionismo e rappresentanti delle comunità
islamiche
Alcune migliaia di persone si sono date appuntamento sabato pomeriggio in piazza
Duomo dopo l’appello lanciato da Cecilia Strada, presidente di Emergency, che ha scritto
le parole per convocare la mobilitazione «Stare insieme», #stareinsieme. Dopo la strage
alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi numerose realtà dell’associazionismo e della
politica milanese, compresi la comunità islamica di viale Jenner e il Caim, hanno voluto
lanciare un segnale contro «la logica di chi divide il mondo in base alla religione, al colore
della pelle, alla nazionalità. Rifiutiamo la logica di chi specula sulla morte per i propri
interessi, alimentando una spirale di odio e violenza», come si legge nell’appello di Cecilia
Strada. Numerose le bandiere della pace, delle Acli, di Arci e di Emergency.
Cecilia Strada
«Milano vuole stare insieme e dire no con forza alla violenza in ogni sua forma: no la
terrorismo e no alle reazioni xenofobe e contro l’islam che abbiamo visto dopo questa
strage», ha detto la presidente di Emergency Cecilia Strada. «Gli ultimi 14 anni ci hanno
insegnato che la violenza per rispondere a la terrorismo non è una strada altrimenti non ci
troveremmo a contare i morti a Parigi, in Nigeria, a Bagdad e in Afgahanistan. Bisogna
trovare delle alternative perché non ne possiamo più di contare i morti». «Salvini ha detto
che ci sono migliaia di musulmani pronti a sgozzarci sul pianerottolo di casa. Comincio a
chiedermi se nelle parole di Salvini non possa ravvisarsi il reato di istigazione all’odio», ha
detto Strada. «Penso che sentirò un avvocato nelle prossime ore per chiedere se lo si può
denunciare - ha aggiunto - le cose che sta dicendo Salvini non sono solo folli e sbagliate
ma anche molto pericolose, soffiano sul fuoco dell’odio ed è questo sentimento che a
Parigi come in Nigeria versa il sangue sulle strade».
Gli aderenti
Tra le personalità che hanno aderito all’iniziativa Massimo Cirri, Gad Lerner, Alessandro
Robecchi, Michele Mozzati del duo Gino&Michele, il rapper Frankie Hi-Nrg (che ha recitato
a sorpresa un applaudito «free style» ispirato alla tolleranza e alla convivenza), il
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presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo e l’assessore alle Politiche sociali
Pierfrancesco Majorino. In collegamento con la piazza Michele Serra, Lella Costa e Moni
Ovadia. All’iniziativa hanno confermato la loro partecipazione Acli, Arci, Fiom, Anpi, sigle
politiche di sinistra, associazioni pacifiste, di volontariato e la comunità islamica di Milano.
Le comunità islamiche
«La nostra presenza oggi è doverosa e io personalmente sono qui come milanese di
vecchia data per sottolineare ancora una volta agli italiani che siamo dalla loro parte, non
dall’altra», ha detto Abdel Hamadi Shaari, fondatore dell’Istituto culturale islamico di viale
Jenner. «Lavoriamo per la pace, collaboriamo per la pace assieme»ha chiesto dal palco
Mahmoud Asfa, l’imam della Casa della cultura islamica di viale Padova. «Sono felice di
vedere tante anime italiane in questa piazza che vogliono la pace - ha aggiunto -. Ho un
messaggio per voi: basta seminare odio, collaboriamo per diffondere la pace. Andiamo
nelle scuole, nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe. In via Padova - ha spiegato abbiamo sempre condannato chi predica odio e vuole il male perché non sono bravi
musulmani. Sono persone che hanno disonorato il Profeta e la sua parola». «Vogliamo
dire, come musulmani, che questo messaggio di terrore non ci appartiene, che questi
fenomeni nascono da un’interpretazione estrema del messaggio islamico e dal rifiuto di
migliaia di giovani che non si sentono rappresentati, ma rifiutati», ha detto Davide
Piccardo, coordinatore del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, Monza e
Brianza (Caim).
De Cesaris
Assente il sindaco Giuliano Pisapia, «che al momento è in viaggio verso Parigi» per
partecipare alla manifestazione di domenica, ha spiegato dal palco Paolo Limonta, suo
collaboratore. «Porto il saluto del sindaco che oggi è con noi contro tutti gli estremismi e
nel manifestare la solidarietà ai famigliari delle vittime». «Questa è una manifestazione
che mette insieme tutti coloro che hanno dato una grande risposta ai fatti di Parigi: stiamo
uniti senza strumentalizzare, senza colpevolizzare, dividendo da noi chi pensa di utilizzare
la violenza contro la libertà è la democrazia. È evidente dalle parole di oggi di alcuni leader
della Lega che la loro posizione è diversa. Non è un problema di esclusione ma di
diversità di posizione». Così il vicesindaco di Milano Ada Lucia De Cesaris, respingendo
l’accusa del leader del Carroccio Matteo Salvini secondo cui la Lega sarebbe stata
esclusa.
Altre manifestazioni
Un presidio è stato organizzato dall’Associazione dei giornalisti lombardi, sabato mattina,
di fronte al Consolato di Francia, per esprimere solidarietà ai colleghi del settimanale
Charlie Hebdo e alle famiglie delle vittime del vile e feroce atto terroristico di Parigi. Per
domenica, nella stessa sede, è in programma alle 15 una nuova manifestazione in
omaggio alle vittime di Charlie Hebdo, con l’accordo del Consolato Generale Francese.
L’invito è a portare in piazza matite colorate.
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_10/piazza-duomo-milano-che-vuolestare-insieme-contro-terrorismo-7c9c6ad6-98db-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml
Da Corriere Tv del 10/01/15
Il grido di Milano: “Je Suis Charlie”
In migliaia alla manifestazione organizzata da Emergency
di Barbara Righini /CorriereTv
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Migliaia di persone in Piazza Duomo a Milano per dire no al terrorismo dopo la strage di
Charlie Hebdo, a Parigi. Ad organizzare Emergency con l’adesione di moltissime
organizzazioni, fra queste Anpi, Fiom, Amnesty International, Arci. Anche la comunità
islamica è scesa in piazza per condannare la strage di Parigi. “Siamo stufi di doverci
sempre dissociare”, dice una ragazza islamica. “L’Islam e il terrorismo non coincidono”,
sottolinea un altro partecipante islamico. E Abdel Hamadi Shaari, fondatore dell’Istituto
culturale islamico di viale Jenner punta il dito contro le strumentalizzazioni politiche. A
sorpresa Frankie Hi-NRG rappa sul palco.
http://video.corriere.it/grido-milano-je-suis-charlie/dd179842-9906-11e4-8d784120bf431cb5
del 11/01/15
Milano est Charlie
Luca Fazio
Milano. Cinquemila persone ieri pomeriggio sono scese in piazza
Duomo unite dalla voglia di stare insieme, non solo per dire "Je suis
Charlie". E' stata una manifestazione spontanea e molto lucida
convocata da Emergency e da tutte le sigle delle associazioni di sinistra
milanesi. Hanno partecipato anche le comunistà islamiche.
La voglia di stare insieme è un sentimento più forte dell’unità nazionale. Ma di solito è
difficile dargli corpo. Ieri, a Milano, non è stato così. Forse c’entra l’enormità del fatto, ma
non era scontato raccogliere cinquemila persone attorno a un camioncino con
l’altoparlante che per un eccesso di prudenza si era schiacciato sul lato destro del Duomo.
Non osavano gli organizzatori, e invece alla fine si è trattato di una manifestazione vera e
mischiata come non capita mai, come se fosse stata convocata da tutti quelli che hanno
sentito che questa volta non potevano non esserci.
Quando mai, nello stesso luogo, si stringono fino a sfiorarsi vecchi e studenti, cattolici e
laici anche impenitenti (“io abolirei tutte le religioni”), musulmani con le figlie mezzo velate
e “vippame” di varia natura, curdi e palestinesi, dirigenti di associazioni e pensionati
“qualsiasi” con in mano le matite di Charlie Hebdo? C’era, a titolo personale, in disparte,
con le mani in tasca, anche chi in piazza non scendeva da anni. Come a dire, eccomi qui.
La spia di quel bisogno, che la sinistra quasi mai riesce ad intercettare.
Per una volta non c’era solo il solito branco di cuccioli spaesati di sinistra che si cercano
con lo sguardo preoccupato per raccontarsi “io pensavo peggio” e “no io pensavo meglio”.
Ecco la novità.
Adesso bisognerebbe attrezzarsi per non disperdere questa lucida capacità di reazione e
mobilitazione, magari allargandosi laddove presto ce ne sarà bisogno, perché quelli che
non condividono gli stessi “valori” di questa piazza sono già al lavoro, nelle periferie e nei
luoghi dove le farneticazioni sulla “guerra di civiltà” rischiano di diventare molto
convincenti. Intanto complimenti a chi ha sentito che questa necessità di stare insieme era
diffusa, in testa Emergency, ma senza pensarci due volte anche tutto il mondo
dell’associazionismo di sinistra (Arci, Acli, Fiom, Anpi e con discrezione anche alcuni
esponenti dei partiti).
Avrebbe partecipato anche il sindaco Giuliano Pisapia, ma era in viaggio per Parigi, oggi
anche lui oggi sfilerà nella capitale di Francia, per “la Republique” e per la democrazia.
Che non tutti i partiti sono democratici se n’è avuta dimostrazione anche ieri, sempre a
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Milano, con Matteo Salvini che si è guadagnato il suo ennesimo quarto d’ora di celebrità
aggirandosi nei quartieri dove potrebbe sorgere una moschea. Aveva in mano le vignette
di Charlie Hebdo, una bestemmia: “Ci sono migliaia di musulmani pronti a sgozzarci nel
pianerottolo di casa”.
Con questi argomenti saremo chiamati a confrontarci, ma la piazza di ieri ha dato
l’impressione di essere preparata. Tutti si sentivano Charlie, ovvio, ma erano lì per dire
anche altro. Una piazza illuminata, quasi fredda tanto lucide erano le analisi, sul palco e
tra le persone. Non c’era aria di veglia e nemmeno la compostezza che richiede la
commemorazione di una strage. Circolavano le idee, quasi che si fosse consapevoli che
non sarà guerra di civiltà ma sarà battaglia politica molto dura, qui e in Europa.
Gli interventi dal palco sono stati decine: per la tolleranza, per la pace come azione
politica, contro il traffico d’armi, per respingere gli attacchi delle nuove destre, per mettere
a fuoco gli scenari internazionali dove è l’occidente a terrorizzare le popolazioni civili
(musulmane e non). Non erano doverose — perché nessuno deve sentirsi chiamato a
prendere le distanze dagli assassini di Parigi — ma molto “dentro” alla piazza anche le
parole dei rappresentanti delle comunità islamiche. “Collaboriamo insieme per la pace”, ha
gridato l’imam della Casa della cultura islamica di via Padova. “Sono qui come milanese di
vecchia data per sottolineare ancora una volta agli italiani che siamo dalla loro parte, non
dall’altra”, ha replicato all’assedio dei giornalisti Abdel Hamadi Shaari, fondatore
dell’istituto islamico di viale Jenner.
Cecilia Strada, presidente di Emergency, è come se avesse riassunto tutti gli interventi
dicendo “Milano vuole stare insieme e dire no con forza alla violenza in ogni sua forma: no
al terrorismo e no alle reazioni xenofobe e contro l’Islam che abbiamo visto dopo questa
strada”.
Poi tutti a casa, consapevoli che non sarà facile, né restare insieme né dire no, ma che è
questa la sfida da raccogliere. Forse la più grande di tutte, per ricominciare a fare qualche
passo in avanti.
Da TgCom del 10/01/15
Charlie Hebdo, anche Milano scende in piazza
in ricordo delle vittime
Migliaia le persone che hanno manifestato. Presenti molti musulmani:
"Doveroso, collaboriamo insieme per la pace"
19:13 - "La nostra presenza oggi è doverosa e io personalmente sono qui come milanese
di vecchia data per sottolineare ancora una volta agli italiani che siamo dalla loro parte,
non dall'altra". Lo ha detto Abdel Hamadi Shaari, fondatore dell'Istituto culturale islamico di
viale Jenner partecipando al presidio in piazza del Duomo a Milano in ricordo delle vittime
dell'attentato di Parigi, promosso da Emergency.
All'iniziativa hanno partecipato Acli, Arci, Fiom, Anpi, sigle politiche di sinistra, associazioni
pacifiste, di volontariato e la comunità islamica di Milano.
Imam via Padova: "Collaboriamo per la pace" - Lavoriamo per la pace, collaboriamo per la
pace assieme". A chiederlo è Mahmoud Asfa, l'imam della Casa della cultura islamica di
viale Padova, a Milano, dal palco montato in piazza Duomo per il presidio in ricordo delle
vittime dell'attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo.
"Sono felice di vedere tante anime italiane in questa piazza che vogliono la pace. Ho un
messaggio per voi: basta seminare odio, collaboriamo per diffondere la pace. Andiamo
nelle scuole, nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe. In via Padova - ha spiegato 5
abbiamo sempre condannato chi predica odio e vuole il male perché non sono bravi
musulmani. Sono persone che hanno disonorato il Profeta e la sua parola".
http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/speciale-attacco-charlie-hebdo/charlie-hebdoanche-milano-scende-in-piazza-in-ricordo-delle-vittime_2088829-201502a.shtml
Da Redattore Sociale del 09/01/15
Strage Parigi, manifestazione contro la
violenza: "È il momento di #stareinsieme"
Convocata da più realtà cittadine. Appuntamento domani in piazza
Duomo. Le parole chiave dell'evento sono le stesse del dopo Utoya: più
democrazia, più apertura e più diritti. Perché le vittime sono sempre tali,
che siano uccise in Europa o in un piccolo paesino dell'Africa
MILANO - "Reagiremo con più democrazia, più apertura e più diritti", disse l'ex premier
norvegese Jens Stoltenberg (oggi alla Nato) dopo la strage di Utoya, nel luglio 2011. Oggi,
dopo la strage di Parigi, le stesse parole portano in piazza Duomo i milanesi, per un
presidio convocato alle 15.30 didomani, sabato 10 gennaio. "È il momento di
#stareinsieme", il titolo. A lanciare l'appello è Cecilia Strada, presidente di Emergency, che
ha scritto le parole per convocare la mobilitazione. Insieme a Emergency, ci sono L'Altra
Europa di Milano, la Camera del Lavoro, Sinistra ecologia e Libertà e il PD milanese.
"Nessuna paternità, è un'iniziativa partita insieme", specifica Maso Notarianni, de L'Altra
Europa di Milano.
La lista dei partecipanti, nonostante la convocazione sia solo di qualche ora fa, è già
lunga. Hanno aderito tra gli altri Anpi provinciale Milano, Acli, Arci, Altra Europa Milano,
Associazione Il Razzismo è una brutta storia, Associazione La Freccia, Associazione Pace
in Comune, Azione Civile Milano, Camera del Lavoro Milano, Comitato No Muos Milano,
Comunità Kurda Milano, Coordinamento Comasco per la Pace, Coordinamento La Pace in
Comune, Emergency, Forum Diritti Pd Lombardia, Giovani Democratici, Naga, Partito
Democratico Milano, Rete Antifascista Milanese, Rete della conoscenza Milano, Sinistra
Ecologia e Libertà Milano, Unidea Bocconi, Unione degli Studenti Milano. Da sottolineare
anche la presenza di associazioni musulmane come il Caim (Coordinamento Associazioni
Islamiche di Milano Monza Brianza) e i Giovani Musulmani d'Italia.
"La strage di Parigi ci ha lasciati addolorati, sgomenti, arrabbiati. Tutti sentiamo il bisogno
di reagire - scrive nell'appello Cecilia Strada -. È il momento di stare insieme, di far sentire
la voce di tutti quelli, e sono tanti, che di fronte alla morte e alla violenza rispondono con il
dialogo, la solidarietà e la pratica dei diritti. Tutti quelli che non fanno distinzione tra le
vittime di Utoya e Peshawar, di Baghdad, di Baqa e di Parigi, nel Mediterraneo e a New
York. Tutti quelli che credono che diritti, democrazia e libertà siano l'unico antidoto alla
guerra, alla violenza e al terrore. Dove l'odio divide, i diritti possono unire", aggiunge.
Lo svolgimento del presidio è ancora da stabilire: "Improvviseremo, come in tutti gli eventi
nati all'ultimo momento, dal basso", aggiunge Notarianni. Tra le personalità di spicco che
prenderanno parte all'evento ci sono i giornalisti Massimo Cirri, Gad Lerner e Alessandro
Robecchi, gli autori comici Gino&Michele. Si collegheranno con la piazza Michele Serra,
Lella Costa e Moni Ovadia. Per maggiori informazioni, ci si può collegare alla pagina
Facebook dell'evento, in continuo aggiornamento. (lb)
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Da Giornale dell’Umbria del 10/01/15
"Je suis Charlie": l'Umbria scende in piazza
In centinaia alla manifestazione, appello dei vignettisti di Perugia.
Manifestazioni in tutta la regione
Politici, rappresentanti religiosi, sindacalisti, francesi residenti in Umbria ma anche gente
comune. Candele accese, matite al cielo e cartelli. Erano in tanti ieri pomeriggio a Perugia
a manifestare in piazza della Repubblica per ricordare l’attentato di mercoledì scorso
presso il giornale satirico francese Charlie Hebdo che ha causato la morte di 12 persone.
«Non mi aspettavo - ha sottolineato Gilles De Gruga, rappresentante dell’associazione
“Francais d’Ombrie” che raccoglie i francesi residenti in Umbria, che ha promosso
l’iniziativa - tutta questa solidarietà. Ringrazio la Regione, la Provincia, il Comune, che ci
ha permesso di manifestare sulla piazza della “res publica” ovvero sulla “cosa di tutti”, e
tutti i privati che ci hanno sostenuto a cominciare dall’Immaginario Festival».
«Siamo qui - ha ribadito anche la presidente della Regione, Catiuscia Marini - per
esprimere la nostra solidarietà al popolo francese che per primo ha parlato di valori come
la libertà e l’uguaglianza». La presidente della Regione ha poi sottolineato che «questo
attentato è un messaggio per ripensare le politiche estere». Subito dopo l’assessore
comunale Dramane Diego Waguè ha parlato di «tutela al diritto di espressione e di
condanna ad ogni forma di violenza». Concetto ribadito anche da monsignor Fausto
Sciurpa a nome del vescovo della Diocesi di Perugia. Presente anche l’Imam di Perugia
Abdel Qader Abu Sumaya. Ma se ieri pomeriggio si è manifestato in piazza c’è chi in
mattinata ha preso carta e matita per disegnare e riaffermare il valore della libertà di
espressione. All’interno della biblioteca delle Nuvole di Madonna Alta, l’associazione
culturale “UmbriaFumetto” e il gruppo di disegnatori umbri “Fumettisti su Rai3” hanno
impugnato la matita per tracciare una vignetta di solidarietà nei confronti dei colleghi
francesi barbaramente uccisi. Per il presidente dell’associazione “UmbriaFumetto” Claudio
Ferracci «la satira ci sarà sempre, fa parte del nostro dna», mentre per Ulderico Sbarra,
intervenuto per l’occasione non come segretario regionale della Cisl ma come disegnatore
e fondatore dell’associazione, «l’attacco alla satira è la cosa peggiore che poteva
accadere». L’associazione ha voluto lanciare un appello invitando i rappresentanti delle
associazioni di musulmani presenti nel territorio a contattare i soci, al numero di telefono
340.4146555, per organizzare insieme corsi gratuiti di tecnica del fumetto per i ragazzi
musulmani.
Manifestazioni si sono svolte in tutta la regione. A Terni hanno parlato i due imam.
«Stigmatizziamo e condanniamo con forza - hanno detto - quanto accaduto a Parigi,
quello non è l’Islam, è fanatismo, follia. Per noi tutti i profeti vanno rispettati. I musulmani
sono gente pacifica, con i terroristi non c’entrano». La manifestazione (una cinquantina di
persone presenti anche se era lecito aspettarsi qualcosa di più) è stato organizzata in
fretta e furia da Sel di Terni e vi hanno partecipato e aderito i giovani del Pd (presenti
anche gli esponenti della segreteria cittadina del partito e alcuni consiglieri comunali), lo
stato maggiore locale di Sel ovviamente, quello dei Rifondazione Comunista di Terni,
alcuni esponenti di vertice della Cgil ternana, l’Arci, pezzi di mondo dell’associazionismo,
la Rete degli studenti medi e, appunto, i rappresentanti della comunità musulmane che
vivono in città e della Consulta comunale per l’immigrazione.
http://www.giornaledellumbria.it/article/article218156.html
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Da la Nazione del 10/01/15
Charlie Hebdo, presidio sotto il Comune:
"Contro fanatismo e violenza"
Pontedera, 10 gennaio 2015 - Una piazza colorata e multietnica quella che stamattina ha
interrotto lo shopping pontederese del sabato su Corso Matteotti. In tanti si sono ritrovati in
piazza Cavour per affermare l'importanza della libertà di stampa e di espressione,
condannando gli eventi di Parigi. "Siamo una comunità che sente il bisogno di dire “Je suis
Charlie” - ha aperto Gianfranco Francese, segretario provinciale della Cgil di Pisa- una
comunità che non ha paura, che non si divide in base al colore della pelle o
all'appartenenza religiosa".
L'Arci Valdera, la Cgil di Pisa e l'Anpi hanno organizzato un presidio questa mattina sotto il
comune di Pontedera, luogo simbolo della città e che rappresenta, per sua stessa natura,
tutti i cittadini allo stesso modo. Un momento in cui politici della zona, esponenti delle
associazioni organizzatrici, rappresentanti delle comunità straniere, rappresentanti della
stampa e semplici cittadini si sono ritrovati per condannare la strage fatta nella redazione
del settimanale satirico francese Charlie Hebdo e per ribadire l'importanza di lottare
insieme, tra appartenenti a culture e religioni, per vincere ogni tipo di fanatismo e violenza.
Quella violenza che ha causato la morte di chi "ha pagato la voglia di raccontare" come ha
ricordato Sandro Bennucci vicepresidente dell'associazione stampa Toscana.
di Sarah Esposito
http://www.lanazione.it/pontedera/charlie-hebdo-manifestazione-1.563195#1
Da Ansa del 11/01/15
Charlie Hebdo, manifestazione a Pescara
(ANSA) - PESCARA, 11 GEN - "Se Parigi chiama Pescara risponde. Penso non si debba
cedere alla paura". Così il sindaco di Pescara Marco Alessandrini alla manifestazione, in
piazza della Rinascita, per dire no al terrorismo, ricordare le vittime francesi e unirsi
idealmente alla piazza di Parigi. Molta partecipazione, anche delle comunità dei migranti di
Pescara, dei Bengalesi, Iraniana, Tunisina, Marocchina, Senegalese e Algerina, tra i
promotori della manifestazione con Amnesty, Rifondazione, Arci, Sel, Pd, Cgil, Pax Christi,
Giovani Comunisti, Giovani Democratici.
Da QN – Quotidiano.net del 09/01/15
Strage al Charlie Hebdo, anche l'Italia scende
in piazza
Da Firenze a Bologna a Milano, ecco le principali iniziative per dire no al
terrorismo
ROMA, 9 gennaio 2015 - Mentre il premier Renzi sarà domenica alla marcia organizzata a
Parigi, insieme all'ex premier Prodi e a Lady Pesc Federica Mogherini, anche in Italia si
sono attuate o si preparano manifestazioni di solidarietà con la Francia colpita al cuore dal
terrorismo. Vediamo le principali
FIACCOLATA A FIRENZE - La foto del David di Michelangelo con la fascia a lutto "mi ha
colpito: è la foto che io ho inviato a tutti i miei amici, l'ho messa sul sito dell'ambasciata. È
stato il sindaco ad offrirmi lo scatto del David: domani sarà nel mio ufficio", ha detto,
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prendendo parte alla fiaccolata di stasera davanti alla sede del consolato francese a
Firenze, l'ambasciatrice francese in Italia, Catherine Colonna. (Clicca sulla foto per la
gallery della fiaccolata)
PRESIDIO A BOLOGNA - Circa 400 persone, nella serata di oggi, hanno partecipato a
Bologna alla fiaccolata organizzata in piazza Nettuno dopo l'attentato alla redazione di
Charlie Hebdo. La manifestazione era promossa da Fnsi-Aser, Cgil, Cisl, Uil, Anpi, Arci,
Libera, Comunita' islamica, Assopace Palestina, Emergency, Forum del terzo settore. Tra i
partecipanti anche il ministro dell'Ambiente, il bolognese Gian Luca Galletti: "Mi sembra
giusto che Bologna abbia manifestato questa solidarieta' per quello che sta ancora
accadendo in queste ore in Francia", dichiara al termine del presidio. (Clicca sulla foto per
la gallery della manifestazione)
'STARE INSIEME' A MILANO - "Stare insieme", questo l'invito dei promotori della
manifestazione in programma domani alle 15.30 in piazza Duomo. Acli, Arci, Camera del
Lavoro, Emergency e numerose altre realtà dell'associazionismo e della politica saranno
domani in piazza Duomo con la convinzione di rifiutare "la logica di chi divide il mondo in
base alla religione, al colore della pelle, alla nazionalità. Rifiutiamo la logica di chi specula
sulla morte per i propri interessi, alimentando una spirale di odio e violenza".
PUGLIA SOLIDALE - La Presidenza della Regione Puglia ha esposto quest'oggi,
aderendo alle indicazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri, le bandiere a
mezz'asta in segno di lutto e di vicinanza alla popolazione francese, colpita al cuore
dall'attentato terroristico perpetrato ai danni della redazione del settimanale Charlie
Hebdo. "Le bandiere del Palazzo della Presidenza sono quest'oggi esposte a mezz'asta in
segno di lutto per rappresentare il nostro dolore, la nostra vicinanza e la nostra solidarietà
alla comunità parigina e all'intera Francia - ha dichiarato il presidente della Regione
Puglia, Nichi Vendola - dovremmo ora mobilitarci con maggiore impegno nella lotta contro
il fondamentalismo, il fanatismo e la violenza". "Non cadremo nella trappola dell'odio.
Reagiremo - ha aggiunto - con più libertà, più rispetto, più democrazia, più dialogo, più
solidarietà e condivisione. Sono queste le armi in grado di spuntare l'odio, di scacciare i
fantasmi della paura e della diversita', le armi in grado di recidere il filo spinato del
pregiudizio".
http://www.quotidiano.net/strage-hebdo-manifestazioni-italia-1.562234
Da ValdarnoPost del 10/01/15
Charlie Hebdo, ad Incisa come a Parigi: in
tantissimi hanno preso parte alla fiaccolata. I
bambini: "Libertà e rispetto"
di Eugenio Bini
In centinaia alla fiaccolata di Incisa per il ricordo delle vittime dell'attentato terroristico
avvenuto mercoledì scorso a Parigi. Presenti tutte le associazioni, le realtà sportive e
tantissimi bambini. Alla marcia, che si è svolta nello stesso giorno della manifestazione di
Parigi, hanno partecipato anche i parlamentari Simoni e Becattini. Il sindaco Giulia
Mugnai: "Una comunità che continua a camminare insieme nei valori di solidarietà e
rispetto".
Un corteo lunghissimo, come mai si era visto ad Incisa. In centinaia hanno preso parte alla
fiaccolata di solidarietà in ricordo delle vittime dell’attentato terroristico avvenuto mercoledì
scorso al settimanale francese Charlie Hebdo.
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Un’iniziativa organizzata dal Circolo Arci di Incisa con il patrocinio del Comune di Figline
ed Incisa, e che si è svolta quasi in contemporanea con la grande marcia di Parigi, alla
quale hanno preso parte tante associazioni valdarnesi tra le quali “Amici del Valdarno”
che rappresenta la comunità musulmana di Figline e Incisa. Nel corteo anche tanti
bambini, con uno striscione: “Libertà e rispetto”. Oltre ai rappresentanti comunali, e al
sindaco Giulia Mugnai, presenti anche i parlamentari Elisa Simoni e Lorenzo Becattini.
Una marcia silenziosa e molto partecipata, quella promossa dal Circolo Arci di Incisa, alla
quale hanno aderito le associazioni Amici del Valdarno, Anelli Mancanti, Auser, Avis, Il
Giardino, Laboratorio per la Pace e Parrocchia di Sant’Alessandro.
Molto commossa anche il sindaco Giulia Mugnai: “È stato un bel segnale da parte di tutta
la nostra comunità che ha organizzato e partecipato alla fiaccolata. La marcia vuole
essere un gesto di solidarietà nei confronti di Parigi ma anche un messaggio di pace e di
integrazione. La nostra comunità del resto si è sempre contraddistinta per questi valori. È
stato bello vedere come hanno aderito all’iniziativa tutte le associazioni del territorio: dalle
parrocchie alla comunità musulmana, fino alle società sportive. Una comunità che
continua a camminare insieme”.
http://valdarnopost.it/news/charlie-hebdo-in-centinaia-per-la-fiaccolata-ad-incisa-i-bambiniliberta-e-rispetto
Da GazzettaDiReggio.it del 10/01/15
Reggio, marcia della pace con la comunità
musulmana
Comune e Provincia hanno organizzato la manifestazione per domenica
alle 15.30
La comunità musulmana: no alle stragi, ma vogliamo una moschea
"vera" - La fatwa contro i fotografi di un modenese convertito - Il
docente: "Sono scimmie ammaestrate"
REGGIO EMILIA Comune e Provincia di Reggio Emilia organizzano domenica 11
gennaio una manifestazione di solidarietà con la Francia e la redazione del giornale
francese Charlie Hebdo , colpite nei giorni scorsi da un attentato terroristico.
Lo slogan della manifestazione, che ha ricevuto l'appoggio dell'associazionismo
musulmano della città - è “Liberté, égalité, fraternité, in marcia per rimanere umani”. Il
ritrovo è alle ore 15.30 in piazza Gioberti da dove il corteo proseguirà fino a raggiungere
piazza Prampolini. “In concomitanza con la marcia repubblicana che si terrà a Parigi,
invitiamo tutti i cittadini di Reggio Emilia a una marcia di solidarietà con i familiari delle
vittime dell’attentato a Charlie Hebdo e contro ogni tipo di terrorismo" è l'appello delle
istituzioni reggiane.
"Quanto avvenuto a Parigi è stato un attacco al cuore dei principi democratici dell'Unione
Europea, in primo luogo la libertà di espressione, verso il quale nessun cittadino può
rimanere indifferente. Una marcia che testimonia la volontà di continuare nella strada del
dialogo intrapreso per sostenere l'incontro, perseverando nella ricomposizione dei conflitti
e riconciliazione. Invitiamo a marciare chi crede che nessuna religione possa giustificare
un atto criminale e violento. Invitiamo a marciare per affermare che siamo esseri umani,
per affermare il valore della diversità e del dialogo, della pace e della non violenza”.
A destra l'assessore Serena Foracchia... A destra l'assessore Serena Foracchia durante il
discorso nella moschea di via Gioia
10
Durante la manifestazione è previsto un intervento dei rappresentanti delle istituzioni,
affiancati dagli esponenti delle redazioni reggiane e dai vignettisti che vivono e lavorano
nella nostra provincia.
Presenti alla manifestazione decine di istituzioni e associazioni reggiane. Oltre ai sindacati
ci sarà il vescovo di Reggio Massimo Camisasca, Fondazione Mondinsieme, Boorea, Arci
e tutte le realtà del mondo musulmano presenti in provincia.
http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2015/01/09/news/reggiani-e-musulmaniin-marcia-per-la-pace-1.10636036
Da Tg Verona del 10/01/15
Verona ''est Charlie''
Verona est "Charlie". Così alcune centinaia di persone, oggi pomeriggio in piazza dei
Signori, hanno voluto manifestare la propria solidarietà alla Francia, e in particolare a
Parigi, a pochi giorni dall'attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo, durante il quale
sono rimaste uccise dodici persone. La manifestazione è stata organizzata da Radio
Popolare, Cgil, Cisl, Uil e Arci di Verona, insieme a Movimento Non Violento, Emergency,
Consiglio Islamico, Legambiente, il Comitato Veronese per le iniziative di Pace, Nigrizia, la
Rete degli Studenti Medi e l'Unione degli Universitari di Verona. Matite in mano e bandiere
francesi al vento. Così i veronesi hanno detto "no" alla strategia del terrore. Scongiurando
reazioni di pancia alla strage di Parigi.
"E' il momento di riflettere e non di agire di impulso - ha spiegato Serena Betti, di Radio
Popolare - perchè aggiungere violenza alla violenza non porta a nulla e la lezione dell'11
settembre ci deve far riflettere. Ci sono altri modi per parlare con queste persone".
In piazza dei Signori anche due matite veronesi eccellenti, in passato vignettisti di Verona
Infedele, Gianni Burato e il maestro Milo Manara. Quest'ultimo a difendere il diritto alla
satira "unica forma di difesa dalla banalità dei luoghi comuni e dalla retorica. E' uno
sguardo che improvvisamente illumina un angolo buio delle nostre vite. E che, soprattutto,
è arma contro la retorica".
"Questa la si vuole far passare come una guerra di religione - ha detto Gianni Burato - ma
in realtà è una lotta fra cretini, integralisti, conservatori, che non vogliono il progresso".
Tante le testimonianze, durante la manifestazione. Anche commosse, come quelle di
alcune ragazze francesi, a Verona per partecipare all'Erasmus e che in coro hanno detto
"non abbiamo paura perchè tutte le persone in giro per il mondo manifestano la loro
solidarietà nei nostri confronti. Questi terroristi hanno tentato di uccidere Charlie Hebdo,
ma hanno fallito".
http://www.tgverona.it/index.cfm/hurl/contenuto=400535/attualita/verona_est_charlie_piazz
a_contro_terrorismo.html
Da Repubblica.it del 10/01/15 (Palermo)
Palermo in piazza per dire no al terrorismo
islamico
Palermo in piazza per dire no al terrorismo islamico Seconda manifestazione a Palermo
per dire no al terrorismo dopo i tragici fatti di Parigi. Dopo il sit-in del pomeriggio
organizzato da Cgil e comunità islamica, alla manifestazione organizzata in serata dall’Arci
11
hanno partecipato cittadini, studenti, rappresentanti della Consulta delle culture, del
Consiglio e della giunta del Comune, il sindaco Leoluca Orlando, tanti francesi residenti in
città e il team del Centre culturel français. Al sit-in si sono uniti i rappresentanti dell’Islam
che nel pomeriggio avevano partecipato alla prima manifestazione. I manifestanti
esponevano il cartello “Nous sommes Charlie et Ahmed, Palermo multiculturale”,
omaggiando così anche il poliziotto trucidato dopo il blitz nel giornale satirico parigino
(Claudia Brunetto, foto di Igor Petyx)
Fotogallery
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/01/09/foto/palermo_in_piazza_per_dire_no_al_te
rrorismo_islamico-104632563/1/#1
Da Redattore Sociale del 09/01/15
Palermo per Charlie Hebdo. "Manifesteremo
in nome dell’Islam autentico"
Due iniziative di Arci e Centro lavoratori stranieri della Cgil. Adam
Darawsha: "L'esempio del poliziotto musulmano che ha perso la vita in
difesa di un giornale che faceva satira sull’Islam è molto significativo"
PALERMO - Due presidi a Palermo per manifestare la vicinanza ai giornalisti francesi di
Charlie Hebdo, uccisi barbaramente da un commando di fondamentalisti islamici. Due
manifestazioni per ribadire il no alla guerra e ad ogni forma di intolleranza ribadendo i
valore della libertà e della pacifica convivenza tra i popoli di qualsiasi religione lontano da
ogni forma di estremismo.
Il primo presidio, organizzato dal Centro Lavoratori Stranieri della Cgil è previsto a partire
dalle ore 17 a piazza Verdi, davanti il teatro Massimo. Il secondo appuntamento, invece, è
previsto, alle 20 a piazza Bologni ed è organizzato dall’Arci. In quest’ultimo si prevede, tra
gli altri, la partecipazione del presidente della Consulta delle Culture Adam Darawsha e
del sindaco Orlando.
“Da sempre denunciamo tutte le frange fondamentaliste ed estremiste che in diversi paesi
del Medio Oriente hanno portato violenza e morte - sottolinea con forza il presidente
palestinese della Consulta delle Culture, il medico Adam Darawsha -. Soltanto nel 2014
sono stati uccisi 64 mila siriani e 18 mila iracheni. Stiamo parlando naturalmente di
popolazione civile indifesa uccisa nelle forme più brutali. Oggi ancora di più bisogna
decidere da che parte stare, combattendo con tutti gli strumenti democratici, ogni forma di
fondamentalismo che non rappresenta il vero Islam. Il fondamentalismo islamico è un
cancro che dura dagli anni 80 e che molti paesi arabi (Algeria, Egitto, Siria, Libia, Libano,
Tunisia) hanno cercato di combattere con tutte le forze. Noi conosciamo bene questo
cancro e abbiamo sempre cercato di avvertire l’occidente dei pericoli forti che corre”.
“Una buona parte degli immigrati che vivono a Palermo e che conosco, credono
fermamente nella libertà altrimenti non avrebbero scelto di vivere in Sicilia – aggiunge -.
L’attentato di Parigi è stato un attentato preciso alla valore della libertà. L’esempio del
poliziotto musulmano che ha perso la vita in difesa di un giornale che faceva satira
sull’Islam è molto significativo. Ci vuole una reazione forte in cui oggi prevalga il pensiero
che in Europa non ci possono essere forme di avvicinamento con questi terroristi.
Nessuno può più chiudere gli occhi su questo fenomeno. Tutti noi musulmani siamo
innocenti e vittime di gente che non predica un vero Islam e che bisogna estirpare. Siamo
davanti ad un cancro che si moltiplica contro il quale non possono esistere le mezze
misure e soprattutto non bisogna scendere a patti. Non ci può essere nessun tipo di
12
giustificazione. Noi musulmani dobbiamo capire che vivere in un mondo civile significa
rompere in maniera forte con tutte le frange fondamentaliste. L’Islam deriva da una radice
di tre lettere precise che insieme significano Salam che significa Pace. La libertà è sacra
per tutti e per questo noi oggi manifesteremo in nome dell’Islam autentico in cui crediamo
che non prevede alcuna forma di violenza”.
“Il Centro Lavoratori Stranieri della Cgil Palermo, e i rappresentanti della comunità
islamica a Palermo nell’esprimere cordoglio e solidarietà alle famiglie dei giornalisti –
sottolinea pure Zaher Darwish - e dei cittadini francesi criminalmente assassinati a Parigi,
condanna inequivocabilmente quel barbaro gesto che nulla ha da condividere con l’islam e
tanto meno con i musulmani”.
“Gesti del genere non possono avere nessuna paternità religiosa, offendono l’islam e
l’intera comunità islamica, la comunità internazionale si deve impegnare affinchè il dialogo,
il rispetto per la vita e la libertà religiosa rispettosa degli altri prevalgano sulla logica delle
armi e sulla violenza. È necessario, in città, come in tutto il paese un atteggiamento di
condivisione dei valori fondamentali a cui è ispirata la carta internazionale dei diritti
dell’uomo, comportamenti che hanno affinità islamofoba rischiano di minare un percorso di
dialogo e di confronto costruttivo nel paese. La Cgil di Palermo, è impegnata nella
costruzione di momenti di interscambio fra le culture ed etnie, che pacificamente vogliono
costruire una città del futuro”. (set)
Da LeccoNotizie.it del 10/01/15
“Libere matite!” anche Lecco in piazza contro
il terrorismo
LECCO – Tutta l’Europa sta scendendo in piazza per difendere la libertà di opinione, di
pensiero, di espressione, di stampa. La Libertà.
Berlino, Bruxelles, Vienna abbracciano Parigi e la Francia con decisione. Anche l’Italia
risponde e Lecco vuole essere presente: “Libere matite!” un’iniziativa spontanea, nata
dalla cittadinanza, è organizzata per sabato 10 gennaio alle ore 17.30, in piazza Garibaldi.
“Vogliamo difendere la libertà, ribadirla, viverla tramite le parole di chi ne ha fatto un
valore per il quale esporsi con coraggio: leggeremo brani di Voltaire, Giordano Bruno,
John Milton, Charles Darwin, Cesare Beccaria e tutte le voci che i partecipanti vorranno
evocare – spiegano gli organizzatori – Invitiamo tutti a partecipare: giornalisti, vignettisti,
artisti, uomini e donne di cultura, cittadini liberi!”
Hanno finora aderito all’iniziativa Corrado Valsecchi, Luca Radaelli, Angelo Riva (Crams),
Michele Tavola, Vittorio Campione, Antonio Pasquini, Lello Colombo, Enzo Scolari,
Federico Bario, Chiara Bonfanti, Luciana Venturini, Paola Manfredi, Michela Giusto,
Michele Losi (ScarlattineTeatro), Alberto Bonacina, Marta Galli (ArteVox Teatro), Giorgio
Galimberti, Luca Perego, Sergio De Muro (Cellula Coscioni), Vanda Panzeri e Alberto
Consonni (Radicali Lecco), Maria Bonaiti, Lorenza Pagano, Valerio Bongiorno, Roberto
Rampi.
Anche l’Arci aderisce e condanna il feroce attacco terroristico al giornale satirico parigino
Charlie Hebdo, che ha portato all’uccisione di 12 persone e al ferimento grave di altre otto.
“Con una violenza inaudita si è voluta così colpire la libertà di espressione e di stampa –
spiegano dall’Arci – . Tra le vittime compaiono celebri vignettisti e intellettuali noti a livello
mondiale. Una perdita per tutto il mondo della cultura e del giornalismo. La matrice forse
alqaedista o comunque legata all’Is dell’attentato mette in luce ancora una volta il pericolo
che queste organizzazioni costituiscono per la civile convivenza umana e per la pace. In
nessun modo però bisogna cedere ad atteggiamenti islamofobi, che confondono l’islam
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con il terrorismo, alimentati dalla destra europea e italiana, che non fanno altro che
alimentare un clima di intolleranza i cui frutti sono sempre drammatici”.
http://www.lecconotizie.com/attualita/libere-matite-anche-lecco-in-piazza-contro-ilterrorismo-214527/
Da Gazzetta di Modena del 10/01/15
#JeSuisCharlie in duecento al presidio in
Piazza Torre
Anche in piazza Torre fiaccole e matite contro l’attacco alla testata satirica “Charlie
Hebdo”. Al presidio convocato nel tardo pomeriggio di ieri da Cgil, Cisl e Uil hanno subito
risposto decine di associazioni – dall’Arci alla Casa per la Pace, da Libera alle
associazioni islamiche: circa duecento persone, in gran parte di fede musulmana. E sono
loro i veri “protagonisti”. Tengono a smarcarsi con nettezza, sottolineano che «l’attacco
non è contro l’Occidente, ma contro tutta l’umanità.
Siamo stati tutti colpiti». «Quando ho visto quelle immagini – spiega Idriss Bakari,
vicepresidente della “Casa della Saggezza, Misericordia e Convivenza” – quel poliziotto,
egli stesso musulmano, ucciso così barbaramente, non ho potuto che piangere». La
condanna, ovviamente, è senza possibilità di appello. «Tutto il mondo islamico ha
ovviamente preso le distanze. Stiamo parlando di una cosa atroce. Una vignetta contro
una vita? Ma stiamo scherzando? Dio non dice questo, l’Islam non dice questo, la nostra è
una religione di pace. In nome di chi stanno uccidendo?». Anche perché se il primo
sentimento è stato di sgomento, ben presto è montata la rabbia. Perché, spiega ancora
Bakari, «per colpa di due o tre bestie – mi è piaciuta la definizione di Alfano, anche se
questi sono forse peggio delle bestie – ci rimetteranno gli oltre 6 milioni di musulmani che
risiedono in Francia».
Erano circa 200 le persone presenti giovedì sera in piazza Torre a Modena per
manifestare contro il terrorismo e quanto accaduto a Parigi con la strage nella redazione di
Charlie Hebdo. In prima fila i rappresentanti delle comunità islamica modenese. Presenti
anche il sindaco i rappresentanti dei sindacati, dei partiti e le associazioni che operano sul
territorio modenese.
La paura, infatti, è che l’attacco possa risvegliare l’islamofoia del continente. Anche se,
continua il vicepresidente dell’associazione, «a Modena siamo tranquilli». Del resto, «la
nostra comunità porta un messaggio di pace. I nostri sermoni sono contro la violenza». È
anche per questo che hanno portato i figli in piazza, ieri sera, «perché è fondamentale far
passare questo tipo di pensiero».
Sotto la Ghirlandina, ad osservare il minuto di raccoglimento in memoria delle vittime,
anche tanti volti noti della politica modenese. A partire dal sindaco, Gian Carlo Muzzarelli:
«Oggi è importantissimo scendere in piazza per ribadire i concetti fondamentali della
democrazia e della libertà di stampa». Già a mezzogiorno il primo cittadino aveva invitato i
dipendenti comunali ad osservare un minuto di silenzio in ricordo della strage. «Non deve
passare un messaggio di morte. Dobbiamo trovare le condizioni perché ci si capisca
ancora di più e si trovino gli spazi per una comunità responsabile».
Di principi parla anche Cécile Kyenge, europarlamentare Pd, che spiega come sia
necessario ritornare alla solidarietà, alla fratellanza, all’accoglienza e al rispetto verso
l’altro. «Se non abbiamo chiari questi valori rischiamo di confondere il nostro nemico con
qualcosa di diverso. Non identifichiamo queste violenze con una religione». Sulle stesse
corde anche i rappresentati dei sindacati, dai quali è partito il tam tam che ha portato alla
fiaccolata, organizzata, spiegano, sull’«onda emotiva» per quello che la Uil definisce come
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«un fatto di una gravità inaudita». Claudio Riso, della Cgil, parla apertamente di «rischio di
deriva xenofoba e islamofobica».
Marcello Radighieri
http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2015/01/09/news/fiaccole-e-matite-inpiazza-per-ricordare-le-vittime-1.10634804
Da Redattore Sociale del 09/01/15
Violenza, consultazione sul piano d'azione.
Arci: "Serve partecipazione più ampia"
Si conclude domani la consultazione pubblica avviata dal Dipartimento
per le Pari Opportunità. L'associazione l'Arci chiede "un vero processo
di partecipazione, che non può essere ridotto a una consultazione on
line"
ROMA - Si concluderà domani la consultazione pubblica avviata dal Dipartimento per le
Pari Opportunità che, con il contributo delle Amministrazioni interessate, delle regioni,
degli enti locali e delle Associazioni impegnate a livello nazionale sul fenomeno della
violenza di genere, sta definendo il Piano d’azione straordinario contro la violenza
sessuale e di genere. A intervenire sul tema è l'Arci che ha ribadito la necessità di attuare
"un vero processo di partecipazione, che non può essere ridotto a una consultazione on
line".
"Da sempre come Arci sosteniamo il lavoro dei Centri Antiviolenza, convinti e convinte che
il tema della violenza sulle donne si affronta sia attraverso un necessario cambiamento
culturale generale insieme all’efficace protezione delle vittime e un’equa punizione dei
colpevoli". L'associazione condivide la preoccupazioni di Di.Re, la rete che rappresenta i
Centri Antiviolenza italiani, che ha manifestato la contrarietà a questa modalità di
consultazione e invitato la cittadinanza a ignorare questa sollecitazione.
"Aderiamo a questo invito - sottolinea l'Arci - non partecipando ad una banale e riduttiva
consultazione on line, ma cogliamo l’occasione per invitare il Governo a costruire un
autentico processo di partecipazione e di coinvolgimento delle donne, delle loro
associazioni, della loro esperienza e dei loro saperi maturati sul campo in decenni di
esperienza. La lotta ai pregiudizi e agli stereotipi che nutrono la percezione del fenomeno,
la conquista della libertà delle donne, la prevenzione e la lotta alla violenza hanno bisogno
della costruzione di una nuova cultura per superare clichè e modelli attraverso un
intervento diffuso che coinvolga tutti e non può prescindere dall’esperienza preziosa di chi
lavora da decenni su questi temi".
Da Repubblica.it del 10/01/15 (Torino)
Estate flop ai Murazzi: la "spiaggia" sul Po in
rosso di 130mila euro
Costa caro all'Aics aver risposto con l'Arci all'appello del Comune.
"Brutto tempo, costi pesanti, pochi incassi: difficile fare il bis". E lo
sponsor Smat non versa i 20mila promessi
15
di DIEGO LONGHIN
DIFFICILE immaginare una nuova spiaggia ai Murazzi la prossima estate. La gestione
dello spazio non si è rivelato un buon affare, almeno per chi lo ha organizzato, le due
associazioni Aics e Arci, che a luglio hanno risposto all'appello del Comune e si sono rese
disponibili ad allestire lo spazio in riva al Po nel giro di quindici giorni. A fronte di una
spesa di circa 200 mila euro, l'incasso è stato intorno ai 70 mila. Almeno questi sono i dati
che l'Aics ha presentato come rendiconto in Comune. Insomma, 130 mila euro di "rosso".
E non sono arrivati nemmeno i 20 mila euro promessi dalla Smat, sponsor dell'iniziativa,
che invece ha fatto pagare a tariffa normale l'acqua utilizzata nei due mesi di attività.
Cosa che ha convinto l'Aics a bussare alle porte di Palazzo Civico chiedendo l'intervento
della Città sull'azienda partecipata. L'occasione anche per sottoporre al sindaco e agli
assessori che si sono occupati della questione, Ilda Curti, Mimmo Mangone, Maurizio
Braccialarghe, i magri conti dell'iniziativa. Possibile che un'iniziativa che ha occupato i
Murazzi per 60 giorni sia costata 200 mila euro, solo per l'Aics, ossia più di 3.300 euro al
giorno? La risposta, da parte dell'Aics, è "sì, questi sono i costi". E aggiunge: "Colpa
anche del fatto che siamo partiti all'ultimo, aderendo alle richieste del Comune, diciamo
sull'onda dell'emozione", spiega Ezio Dema dell'Aics di Torino. Ci fosse stata maggiore
programmazione le associazioni avrebbero potuto spuntare prezzi migliori sia sull'affitto
del materiale, dalle pagode ai frigo, dalle forniture ai materiali per allestire la zona. E poi ci
sono gli altri costi pesanti: "Per il personale, regolarmente assunto, abbiamo speso tra i 30
e i 40 mila euro - sottolinea Dema - Solo per la sorveglianza, 24 ore, vista la zona
sensibile, altri 25 mila euro". Poi i gruppi e gli artisti che si sono esibiti per ravvivare le
giornate e le serate, le collaborazioni con le altre associazioni coinvolte dall'Aics, il
noleggio dei magazzini per il materiale, l'allestimento e lo smantellamento. Alla fine il
Comune ha imposto, scontato del 50 per cento, anche il pagamento della tassa rifiuti e
dell'occupazione del suolo pubblico: 6 mila euro. Saldati in anticipo.
Insomma, non è stato un buon affare. Ed è difficile che ora Palazzo Civico, oltre a fare
pressing sulla Smat, possa intervenire per contribuire a ridurre il buco. "Con il senno di poi
ci penseremmo due volte - dice oggi Dema - è stata una bella iniziativa, gli obiettivi sono
stati raggiunti, ma senza un aiuto economico è complicato fare il bis". Non ha aiutato
nemmeno il meteo: tanta pioggia, pochi incassi. Oltre al fatto che diverse famiglie hanno
utilizzato gli spazi, dalla spiaggia al beach volley, senza consumare: "Il bar era a prezzi
popolari, un segno delle difficoltà economiche", aggiunge Dema.
Cosa fare la prossima estate? I bandi per affidare le arcate dei Murazzi, sia per le attività
commerciali sia per le associazioni, non sono ancora usciti. Se ne parlerà a fine gennaio,
secondo l'assessore Ilda Curti. Il collega al Patrimonio, Gianguido Passoni, proprio a luglio
aveva indicato come scadenza settembre-ottobre. Sono passati mesi e ancora nulla si
muove.
http://torino.repubblica.it/cronaca/2015/01/10/news/estate_flop_ai_murazzi_la_spiaggia_s
ul_po_in_rosso_di_130mila_euro-104635549/
Da Alternativa Sostenibile del 09/01/15
Premio Impatto Zero: proclamati i vincitori
della quarta edizione
Una startup di giovani che ha sviluppato un'applicazione per il recupero dell'avanzo
alimentare a favore di onlus e associazioni, una cooperativa che ha dato il via a un
laboratorio di sartoria sociale per il riciclo e riuso creativo, un cittadino che presiede un
comitato civico impegnato nell'ecologia e nella lotta all'abbandono dei rifiuti e
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un'associazione studentesca attiva da anni nella sensibilizzazione ai temi della
sostenibilità: sono loro i vincitori della quarta edizione del "Premio Impatto Zero", iniziativa
di Arci che valorizza le buone pratiche sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative.
Tutte scelte di vita e comportamenti ecologicamente virtuosi, che riducono il consumo
delle risorse, limitano le emissioni di Co2 e i rifiuti, infine contribuiscono a diffondere la
cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita dell'intera comunità.
Nato a Padova nel 2011, e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è
promosso da Arci e organizzato da Arci Padova, con il contributo di AcegasApsAmgasocietà del gruppo Hera, in collaborazione con Legambiente nazionale, Coordinamento
Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi
Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno e Confcooperative
Padova, con il patrocinio di EXPO Milano 2015, Ministero dell'Ambiente e Comune di
Padova. Ad assegnare i riconoscimenti è stata un'apposita commissione, composta da
esperti e rappresentanti istituzionali e dai promotori del Premio. Decisivi nella scelta:
l'originalità e la creatività della buona pratica candidata, il minor impatto ambientale,
l'efficacia nella promozione della sostenibilità, l'esportabilità delle prassi ad altre realtà del
territorio, il miglioramento della vita sociale.
Per la categoria delle associazioni vince Breading: una startup dalla vocazione sociale
nata da giovani under 30 che hanno messo a punto un'applicazione gratuita per far
interagire panifici, bar e grande distribuzione con associazioni e onlus allo scopo di ridurre
l'avanzo alimentare ed evitare gli sprechi. Si aggiudica il titolo di migliore cooperativa la
Quadrifoglio di Santa Margherita del Belice (Agrigento) - impresa sociale operante da
quasi trent'anni e formata da circa cinquanta donne - per il laboratorio creativo artigianale
"3R: riduco, riuso, riciclo!" della Sartoria sociale, avviato nel febbraio 2013 con l'obiettivo di
diventare attività permanente di autoproduzione artigianale; il laboratorio è aperto alle
donne del territorio, alle ospiti dei centri di accoglienza e a donne e uomini rifugiati o
richiedenti asilo. Daniele Dal Mas, presidente di "Uniti per Valsalega", attivo nella provincia
di Treviso, è invece il cittadino più meritevole: nei mesi scorsi il suo comitato civico ha
organizzato due giornate ecologiche in occasione della settimana europea della lotta
all'abbandono dei rifiuti; come risultato, in un'area boschiva sono stati raccolti cinquanta
quintali di rifiuti, conferiti nel centro di raccolta per essere smistati e avviati al riciclo. Infine,
una menzione speciale - migliore candidatura veneta - per l'associazione studentesca Asu
di Padova, premiata per l'impegno costante e tenace nell'educazione alla sostenibilità di
studenti e cittadini, anche attraverso attività innovative di sensibilizzazione. Tra le buone
pratiche dell'associazione, la promozione di un GAS per l'acquisto di prodotti locali,
biologici ed equosolidali, l'organizzazione di un festival musicale attento alla sostenibilità
ambientale, la promozione della campagna "Acqua bene comune".
Ai vincitori delle categorie vanno in premio - offerti dagli sponsor Sammontana, CiaoBio,
Italwin, Selle Royal, Coop Adriatica, Fairtrade, EcoZema, Abano Ritz Hotel terme,
Consorzio imballaggi alluminio - una "ricicletta", city bike ottenuta dal riciclo di 800 lattine,
un buono sconto per l'acquisto di una bici elettrica, selle "eco-friendly", un buono spesa
per prodotti ecosostenibili, un buono sconto per prodotti biologici, una fornitura di prodotti
(bicchieri, posate, stoviglie) in MaterB, una cesta di prodotti biologici, una cena al
ristorante, confezioni di prodotti del mercato equo solidale, e altri premi forniti da aziende
attente alle tematiche ambientali.
http://www.alternativasostenibile.it/articolo/premio-impatto-zero-proclamati-i-vincitori-dellaquarta-edizione-.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 12/10/15, pag. 17
Donazioni. Aumentate sia la detraibilità che la deducibilità
Il maggiore sconto fiscale «premia» le piccole
Onlus
La legge di Stabilità ha portato una gradita novità al popolo dei donatori, prevedendo per
le erogazioni liberali effettuate a partire dal 2015 alle Onlus da persone fisiche e soggetti
Ires un cospicuo aumento del limite massimo rispettivamente di detraibilità e di
deducibilità.
In particolare, le persone fisiche potranno detrarsi nella misura del 26% - percentuale già
innalzata a tale soglia a partire dal 2014 – le donazioni in denaro fino a 30mila euro (art
15, c 1.1, TUIR). L’incremento è significativo, considerato che fino all’anno scorso il limite
assoluto era fissato a 2.065 euro. Pertanto, il massimo risparmio conseguibile da un
contribuente è ora pari a 7.800 euro di imposte, mentre precedentemente era di soli 537
euro.
Nel calcolo della convenienza fiscale, il donatore verificherà se la Onlus alla quale dona
può, in alternativa alla detrazione, far applicare la cosiddetta “Più dai, meno versi” (DL
35/05), norma che prevede la deducibilità delle erogazioni fino al 10 % del reddito
dichiarato e per un massimo di erogazione di 70mila euro. La condizione per la Onlus per
poter far accedere i propri sostenitori alla deducibilità è che essa tenga scritture contabili
che rilevino in maniera analitica i fatti economici, finanziari e patrimoniali da riportare a fine
anno in un vero e proprio bilancio.
Per i contribuenti che hanno un’aliquota marginale maggiore del 26% (quindi con redditi
sopra a 15mila euro) la deducibilità è comunque più vantaggiosa, dato che – con
riferimento ai 30mila euro donati – nell’ipotesi di un contribuente con più di 75mila euro di
reddito, questi ne risparmia ben 12.900, ossia 5.100 euro in più rispetto all’applicazione
della detrazione.
Anche le aziende vedono aumentata la convenienza a donare, questa volta collegata alla
deducibilità di cui all’art. 100, c 2, lett h) del TUIR. Del doppio limite rimane inalterata la
quota percentuale (2% sul reddito d’impresa) mentre è stato incrementato il limite
assoluto, da 2.065 euro a 30mila. Diversamente dalla “Più dai, meno versi”, il limite cui far
riferimento è quello maggiore, fermo restando che sono comunque deducibili le erogazioni
fino a 30mila euro, qualsiasi sia il reddito d’impresa. Per redditi molto elevati
(indicativamente superiori a 1,5 milioni di euro), è comunque applicabile il limite del 2%.
L’innalzamento del limite assoluto è pertanto un incentivo alle piccole medie aziende a
donare anche in presenza di utili non significativi. Così come per le persone fisiche,
l’azienda porrà a confronto questa previsione con la “Più dai, meno versi” che agisce con
gli stessi limiti e condizioni, anche relativamente alla tenuta da parte della Onlus di una
contabilità in partita doppia.
In pratica, l’effetto della novità prevista dalla legge di Stabilità sarà quello di favorire le
donazioni destinate alle piccole Onlus, quelle che – per ragioni di competenza degli
amministratori e di costi – non possono di norma permettersi la tenuta di una contabilità
aziendale e la redazione di un vero e proprio bilancio.
Peraltro, proprio le Onlus sono destinatarie di una norma che prevede che fino a 50mila
euro di proventi da attività istituzionali e connesse non siano obbligate a redigere un
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bilancio, ma un semplice rendiconto (art. 20-bis, c. 3, Dpr 600/73). Inoltre le organizzazioni
di volontariato possono non tenere conto del limite di cui sopra, in forza del comma 4 della
disposizione richiamata.
Anche le organizzazioni non governative possono sulla carta avvalersi della medesima
esenzione, ma sia per le caratteristiche delle attività – per le quali gli enti finanziatori
richiedono talvolta anche bilanci certificati – sia per l’intervenuta riforma della
cooperazione internazionale si ritiene difficilmente applicabile questa misura.
Quanto alle altre categorie di organizzazioni non profit, fondazioni, associazioni e comitati
che, operando per fini umanitari nei Paesi non Ocse sono individuati di volta in volta da
Dpcm, sono equiparati – ai fini della detraibilità per le erogazioni effettuate dalle persone
fisiche e della deducibilità per quelle ad opera di aziende – alle Onlus, e pertanto anche
questi enti godranno dell’aumentato appeal fiscale. Analogamente, anche i partiti politici
possono avvantaggiare i propri donatori (già dal 2014) con la detraibilità fiscale del 26%
fino a donazioni entro i 30mila euro, tanto per le persone fisiche quanto per le aziende.
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ESTERI
del 12/01/15, pag. 1/2
Le tragedie dei giorni scorsi sembrano aver unito l’Europa. L’abbraccio
dei leader e i sorrisi dei bambini. L’impressione è quella di una festa di
liberazione. Dal terrore
Due milioni in piazza nella grande marcia
contro la paura “Parigi capitale del mondo”
BERNARDO VALLI
PARIGI
LE TRAGEDIE fanno versare lacrime, indignano, ma dolore e collera possono provocare
miracoli. Politici si intende. In Place de la République ho avuto l’impressione di vivere una
festa della liberazione. Quella dell’Europa non più litigiosa ma solidale, non più depressa
ma grintosa. Liberata da timori e lamenti. Qualcosa di simile a una rinascita. Si può
dunque rinascere a quasi sessant’anni, quanti ne ha l’Unione europea? Il sussulto è
probabilmente effimero, ma al momento esaltante. Sulla statua di Marianna, simbolo della
Repubblica, al centro della piazza, giovani di tante nazionalità agitano tricolori francesi, ma
anche qualche tricolore italiano, e bandiere tedesche, spagnole, portoghesi, danesi,
britanniche; e in mezzo a quelle europee ce ne sono alcune israeliane, palestinesi,
tunisine, turche… Ecco questo è il miracolo politico cui assisto imprigionato in una folla
tanto compatta che mi impedisce di respirare. Devo stare sulla punta dei piedi per
prendere aria. Non c’è violenza, né rabbia. Molta euforia. Non ho mai ricevuto tante
gomitate accompagnate da sorrisi. Ci pigiamo giovani e vecchi come se ci
abbracciassimo. Non è sempre piacevole, ma nessuno vuole guastare la festa con litigi o
brontolii. Il fatto di trovarsi in tanti insieme sembra creare sollievo. Capita di rado. Le
esclamazioni sono in tante lingue, sono tedesche, inglesi, arabe, oltre a quelle dominanti
francesi. Il freddo non aggressivo e il cielo arruffato, ma con ampie chiazze di sereno,
contribuiscono all’aria di festa. Non so quanta gente ci sia tra la République e la Nation,
sulle piazze e gli ampi boulevard; e sottoterra, dove oggi si viaggia sulla metropolitana
senza biglietto. Un gendarme mi dice più di un milione. Un altro dice: no, due milioni.
L’euforia non risparmia le forze dell’ordine. C’è euforia, eppure siamo qui a ricordare
diciassette e morti, quelli delle tre drammatiche giornate parigine, sette, otto, nove
gennaio. Mercoledì, giovedì, venerdì della scorsa settimana. I loro cadaveri sono ancora
negli obitori, per gli esami anatomici necessari alla giustizia. I parenti delle vittime sono in
testa al corteo diretto verso la Nation lungo viale Voltaire. Ma non c’è nulla di funereo. E’
una “marcia repubblicana”, una manifestazione con cui si vogliono ribadire i principi
democratici europei insanguinati da tre terroristi. Tre terroristi musulmani, ma di
nazionalità francese. Nati in Francia. Quindi ufficialmente europei nonostante le origini
delle loro famiglie. La ventata di odio che ha spinto alla strage veniva da altre contrade,
ma è stata compiuta da gente di casa. Pare che Cherif, uno dei fratelli assassini non
parlasse quasi l’arabo. Il triplice attentato (il massacro di Charlie Hebdo, l’uccisione a
Montrouge dell’allieva vigile urbano, e la scarica micidiale di kalashnikov a Porta di
Vincennes contro gli ostaggi ebrei) non era soltanto un’offensiva dei jihadisti mediorientali
in Europa ma anche l’episodio di un conflitto civile. Più insidioso dunque, perché gli
assassini sono tra di noi. E continueranno a colpire. La marcia repubblicana serve a
liberarsi dalla paura. E per scrollarsela di dosso ci vuole grinta. Una società depressa
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subisce. Un’atmosfera solenne ma funebre avrebbe demoralizzato il paese. François
Hollande, il presidente troppo normale, afflitto da un’impopolarità senza precedenti nella
Quinta Repubblica, perché giudicato incerto, inconcludente, si è rivelato deciso quando lui
stesso ha ordinato l’assalto finale ai terroristi venerdì sera, e un uomo geniale quando ha
subito mobilitato il paese con la marcia repubblicana. Questa giornata è per lui un
successo. Ha trasformato un avvenimento funesto in una festa della liberazione,
liberazione dalla paura, e di riflesso in un insolito slancio europeo. In place de la
République la gente riprende coraggio e vive la tardiva presa di coscienza che soltanto
unendo le proprie forze l’Europa può far fronte alle insidie che la minacciano. In particolare
a quella del fanatismo religioso, che nulla ha a che fare con il vero Islam. Per questo
François Hollande ha dato alla marcia repubblicana una forte impronta europea. Tra i
manifestanti ci sono degli arabi. Non sembrano frustrati. Né timorosi. Una giovane donna
porta un cartello appeso al collo su cui è scritto: sono una parente dell’agente Ahmed
Merabat, musulmano assassinato il 7 gennaio insieme a quelli di Charlie Hebdo. Ahmed
Merabat era il poliziotto ucciso con un colpo alla nuca quando giaceva ferito sul
marciapiede, davanti alla redazione del settimanale satirico. Le perplessità, i timori affiorati
nelle moschee durante le preghiere del venerdì, hanno probabilmente impedito un forte
affluenza dei musulmani alla manifestazione in place de la République, nonostante le
ripetute esortazioni degli imam. Ma molte ragazze maghrebine leggono tra gli applausi
dichiarazioni in cui si nega ai terroristi jihadisti il diritto di richiamarsi all’islam. Le
sconfessioni si ripetono durante tutta la giornata mentre il corteo si muove tra la
République e la Nation. Alcune sono spontanee altre suonano come dei rituali. Nel tardo
pomeriggio Hollande fa visita ai familiari di Ahmed Merabat, il poliziotto assassinato. E poi
alla grande sinagoga per ricordare gli ebrei massacrati alla Porta di Vincennes. Accusato
di essere molle, il presidente rivela un dinamismo insolito. In un momento di grande
tensione, compie tutti i gesti indispensabili per il primo cittadino di un paese che conta
circa cinque milioni di musulmani e la più numerosa comunità ebraica, dopo Israele e gli
Stati Uniti. Ha invitato più di quaranta tra capi di Stato e di governo e la gente non gli
risparmia gli applausi quando imbocca viale Voltaire con Angela Merkel sottobraccio. Gli
applausi arrivano anche dalle finestre e dai balconi. E sono spesso accompagnati da uno
sventolio di bandiere di solito dedicato ai liberatori. Quello su viale Voltaire è un saluto
all’Europa accorsa per esprimere solidarietà alla Francia ferita, e rivela la sorpresa davanti
ai numerosi uomini di governo venuti a dimostrare che l’Europa, in preda a rigurgiti
sciovinisti e da incomprensioni sul piano economico, nel vero dramma sa essere unita. È il
momento delle emozioni, non quello di chiedersi per quanto tempo durerà quel
comportamento esemplare. Adesso immaginiamo un’Europa rinata. Oltre ai leader europei
(Merkel, Cameron, Renzi…) affiancano Hollande monarchi, emiri e ministri arabi. Ci sono
anche Abbas, presidente palestinese, e Netanyahu, primo ministro israeliano. Avere preso
l’iniziativa di farli camminare quasi fianco a fianco in una circostanza in cui i rapporti tra
musulmani ed ebrei sono più tesi del solito, è stato un gesto al tempo stesso di coraggio e
di buona diplomazia. Ma anche di saggezza perché può servire a placare la tensione tra
gli elementi delle due comunità più sensibili alle ondate di antisemitismo e di islamofobia,
di cui si accusano a vicenda. In queste ore vedere il leader palestinese e il primo ministro
israeliano quasi fianco a fianco per le strade di Parigi ci è apparso un atto soprattutto
giusto Un atto che dà prestigio a chi ne ha avuto l’iniziativa. Questa domenica di lutto ha
offerto l’occasione per un rilancio dell’Europa depressa e spesso disunita, ed anche per
creare nel paese che ne è stato il teatro l’opportunità di placare almeno per qualche giorno
le rivalità nella politica interna. Nicolas Sarkozy, sconfitto tre anni fa da Hollande ed oggi
capo dell’opposizione di centro destra, ha partecipato alla marcia repubblicana. E cosi
l’UMP, il suo partito. Tutte le formazioni politiche erano presenti, ad eccezione di quella di
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Marine Le Pen che ha compiuto la sua marcia, non repubblicana, in un feudo elettorale del
Front National, nel Sud della Francia. La presidente dell’estrema destra voleva un invito
ufficiale e comunque non poteva percorrere il classico, storico itinerario della sinistra
francese, che va dalla République alla Nation. Sul quale invece Hollande è riuscito a
portare, almeno per una domenica, la società politica democratica francese ed anche
l’Europa.
del 12/01/15, pag. 8
Nelle strade le tre religioni provano a sentirsi
unite
«Non si uccide in nome di Dio». I cartelli: sono ebreo, sono musulmano,
sono Charlie
DALLA NOSTRA INVIATA PARIGI Mai tanta voglia di un abbraccio ecumenico, come ieri.
Lo storico giorno della Liberazione dall’intolleranza religiosa. Una domenica
indimenticabile, a Parigi e in tutta la Francia, capitale di una mobilitazione planetaria che
ha proclamato in tutte le lingue il primo comandamento universale: non uccidere. Tanto
meno in nome di Dio.
Peccato non possano vedere il risultato delle loro gesta i fratelli Kouachi e il loro complice
Amedy Coulibaly. Peccato, soprattutto, che non possano vederlo i giornalisti, i disegnatori,
il correttore di bozze di Charlie Hebdo , la guardia del corpo del direttore del settimanale,
Stéphane Charbonnier.
Peccato che i due poliziotti uccisi, fuori dalla redazione del giornale e, il giorno dopo, a
Montrouge, non abbiano potuto sentire gli applausi riservati ai loro colleghi dispiegati ieri
alla manifestazione.
Peccato che i quattro ostaggi falciati da Coulibaly nel supermercato kosher non abbiano
potuto vedere il padre di uno di loro, il rabbino Benyamin Hattab, mescolare il suo dolore a
quello, identico, della madre del giovane paracadutista franco-marocchino Imad Ibn
Ziaten, ucciso tre anni fa da un altro fanatico, Mohammed Merah, 23enne franco-algerino,
che ha fatto sette vittime fra Tolosa e Montauban, prima di essere ucciso dalla polizia.
Ieri non c’erano quasi donne velate nelle strade inondate di cittadini che volevano essere
di tutte le religioni, e in particolare di quelle solitamente meno solidali fra loro: «Sono
ebreo, sono musulmano, sono Charlie» dichiaravano i cartelli più diffusi. Ma c’erano
sicuramente donne musulmane nella folla; e, certo, osservanti. Hanno indossato cappelli
di lana oppure hanno lasciato la testa libera. Da paure e pregiudizi. Da condizionamenti e
distinzioni.
Due maliane, tra le poche con il foulard sui capelli, affermano il loro rancore verso gli
aggressori di Charlie , e in particolare Coulibaly, maliano come loro: «Questo non è Islam,
questo è terrorismo e basta».
Non sanno argomentare il loro pensiero come un ex mullah iraniano, ma la convinzione di
fondo è la stessa: «Mi è bastato guardare le foto dei tre terroristi per capire che la religione
non c’entra» afferma Mohammed Javaad Akbarein, 39 anni, teologo formato a Qom, la
Santa Sede sciita, e condannato a un anno di carcere da un tribunale religioso per aver
osato sostenere che occorre reinterpretare il Corano. In che senso? «La religione —
risponde — deve essere al servizio degli uomini, al loro fianco. E la Torah, la Bibbia o il
Corano sono diretti al cuore degli uomini. Come si può uccidere in loro nome? Coulibaly
era andato in Yemen a imparare a fare la guerra, ma mi domando chi fosse accanto a lui
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quando ha imparato a leggere il Corano. E se pensava che, in nome di una sura, si poteva
rispondere alla satira con una strage ha commesso un grave errore di interpretazione. La
matita non è un’arma».
Akbarein riconosce che le caricature, le barzellette, le vignette un po’ triviali sul profeta
non aiutano: «L’Islam è come un bimbo che deve imparare la tolleranza, che deve
imparare a crescere, ma senza essere picchiato. Ogni presa in giro è un pugno. Cresce
bene un bambino che riceve tante botte?».
Alla guida di un piccolo corteo di iraniani, l’ex mullah ha partecipato alla marcia parigina,
dopo aver preso parte l’8 gennaio, all’indomani dell’attacco a Charlie Hebdo , all’incontro
tra musulmani, cristiani ed ebrei, convocato dal rettore della Grande Moschea di Parigi,
Dalil Boubakeur, prima della preghiera del venerdì. «Il rettore — riferisce Akbarein — ha
ricordato il messaggio delle tre religioni monoteiste e la difesa, in nome di Dio, della
libertà».
Elisabetta Rosaspina
del 12/01/15, pag. 4
Sfilano i leader, manca solo Obama: una
“catena umana” di capi di Stato
L’arrivo in bus, poi il corteo nel silenzio Hollande, quell’abbraccio con la
Merkel Polemiche negli Usa: “Perché non c’è Barack?”
ALBERTO D’ARGENIO
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI
«JE SUIS Charlie!», urla un bambino dalla finestra di un palazzo che affaccia su
Boulevard Voltaire. Avrà al massimo sei anni. I leader del pianeta giunti a Parigi per la
marcia repubblicana si voltano, lo applaudono. Poi sul corteo torna ad aleggiare il silenzio.
È una giornata così, storica, senza retorica, senza cerimoniale, di emozioni alle quali
nemmeno gli uomini più potenti del mondo sono impermeabili. Già, anche un duro come il
ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov lo ammette con più di un collega: «Non
dimenticherò mai quanto ho vissuto oggi». In testa al corteo i capi di Stato e di governo
formano una catena umana, alcuni si commuovono, altri sono impassibili, travolti da
quanto sta accadendo intorno a loro in una Parigi multietnica ferita dalle stragi jihadiste ma
pronta a stringersi intorno ai valori repubblicani.
Sono una cinquantina i leader di tutti i continenti che tra mezzogiorno e le due del
pomeriggio arrivano all’Eliseo. A riceverli trovano François Hollande, senza cappotto, in
cima alla scalinata che chiude il cortile del palazzo presidenziale. Con la Merkel e Renzi
l’abbraccio più sentito. I grandi del mondo — mancano solo Putin e Obama, criticato dalla
stampa Usa per non avere mandato Biden o Kerry ma solo l’ Attorney General Eric Holder
— si riversano nel grande salone a sinistra dell’ingresso che mano a mano si riempie. Ci
sono quasi 200 persone tra leader, ministri degli Esteri, degli Interni (hanno appena
terminato un summit d’emergenza con Holder) e delegazioni. In molti nemmeno si
conoscono, ma si mescolano, si presentano, non c’è protocollo, per la macchina
organizzativa francese ricevere tanti ospiti all’improvviso è uno sforzo immane. Sotto gli
stucchi e gli ori del salone c’è un buffet: camembert, tartine, succhi di frutta e caffè. I
leader non si sono ancora calati del tutto nell’atmosfera di una Parigi scossa dalla doppia
strage di Charlie Hebdo e del supermercato ebraico, chiacchierano piuttosto distesi.
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Poco dopo le due del pomeriggio le delegazioni vengono caricate su quattro pullman per
raggiungere Boulevard Voltaire, quello dei capi di Stato e di governo è nero, a due piani,
con i vetri oscurati. I posti non sono assegnati, ognuno si siede dove capita. All’andata
Renzi è con Valls, al ritorno con Cameron. I leader guardano fuori dal finestrino e si
emozionano: la gente li sta applaudendo. Quando arrivano a destinazione colgono il senso
più profondo della giornata e sprofondano nella commozione. La sicu- rezza è
approssimativa, nonostante i tentativi delle forze di polizia di far chiudere le finestre e
sgomberare i balconi, dai palazzi sono tutti affacciati a battere le mani. Lo stesso avviene
quando incrociano una traversa del boulevard. I parigini sono rassicurati dalla presenza
dei grandi del mondo, gli sono grati e nel momento della difficoltà finiscono quasi con
l’identificarsi con loro.
Si forma la prima fila del piccolo corteo, alla testa, ma staccato per ragioni di sicurezza, dal
resto della folla che converge verso Place de la Nation. Al centro si posiziona Hollande: il
“presidente normale” è emozionato, scosso. Dietro di lui Sarkozy e Carla Bruni. Alla sua
destra Juncker e Cameron, a sinistra la Merkel e Renzi. Si tengono tutti a braccetto,
formando una catena umana. Le posizioni durante la marcia, un chilometro abbondante
percorso in mezz’ora, si scambieranno proprio perché tutto avviene in modo spontaneo. In
molti si commuovono, fino alle lacrime, tra consiglieri, portavoce e ministri. Il destino vuole
che il leader israeliano Benjamin Netanyahu e il capo dell’Anp Abu Mazen ad un certo
punto si sfiorino, dietro di loro ci sono i reali di Giordania. Ma i due non si rivolgono la
parola, tanto meno si stringono la mano. Netanyahu, in piena campagna elettorale,
incassa di fronte ad Abu Mazen diversi incoraggiamenti in ebraico che si levano dalla folla:
una donna gli strappa un sorriso quando urla «Bibi, Bibi!».
È un corteo silenzioso al suo interno, è impressionante quanto sia muto, tanto che a fine
giornata è la prima cosa che chiunque fosse lì racconterà a chi non c’era. La gente però
allo sfilare dei leader scatta foto con i cellulari e li incita. Da una traversa una piccola folla
intona la Marsigliese, le persone ai balconi e al bordo della strada dietro le transenne li
segue e l’inno francese sale, rimbomba per tutto il boulevard creando una tale atmosfera
che i leader si fermano e si mettono quasi sull’attenti fino alla fine del canto. Almeno per
un giorno in un continente sempre più tentato dall’antipolitica e dai populismi è questo il
senso di unità provocato dalle mattanze dei fratelli Kouachi e del loro amico Coulibaly. I
leader mentre camminano salutano la gente alle finestre.
Nel gruppo ad eccezione di Marine Le Pen c’è tutta la classe politica francese di ieri e di
oggi. Oltre a Renzi dall’Italia sono arrivati Prodi, che non ha viaggiato sul volo di Stato con
il premier, Gentiloni, Alfano, Gozi e Fassino. C’è anche Monti, ma non è tra le autorità: l’ex
premier partecipa alla marcia da privato cittadino, confondendosi tra la folla.
Percorso un bel tratto di Boulevard Voltaire il corteo dei leader si ferma e osserva un
minuto di silenzio. Hollande bacia tutti i colleghi in prima fila, Juncker gli stampa le labbra
sulle gote, Cameron lo conforta, la Merkel lo abbraccia. Mentre il presidente francese
continua la sua marcia tra la folla parigina, tutti gli altri tornano all’Eliseo. In cortile
qualcuno di loro parla davanti alle telecamere, altri preferiscono tacere. Così come erano
arrivati, ad uno ad uno, risalgono sulle auto e filano verso l’aeroporto. Alla fine di una
giornata storica, sincera e straziante, a strappare un sorriso a tutti è la biondissima
premier danese Ellen Thorning Schmidt: inciampa e ruzzola giù dalla scalinata dell’Eliseo.
Non si è fatta nulla, si guarda intorno e ride.
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del 12/01/15, pag. 9
Netanyahu parla di esodo «Israele è la vostra
casa» Ma è gelo con Hollande
Il premier Valls: senza gli ebrei il Paese non è lo stesso
DAL NOSTRO INVIATO PARIGI Trent’anni fa un soldato tunisino irrompe nel cortile della
sinagoga a Djerba, spara con il fucile che gli ha dato l’esercito, uccide cinque persone, tra
loro una diciassettenne. Venerdì Amedy Coulibaly irrompe nel supermercato di prodotti
ebraici alla periferia di Parigi, ammazza quattro clienti, tra loro il figlio della sorella di quella
ragazzina. La stessa tragedia, due Paesi diversi. Eppure il fratello di Yoav Hattab, che è
stato freddato mentre cercava di disarmare il terrorista, commenta: «La Tunisia è più
sicura della Francia».
A lui non bastano le rassicurazioni del presidente François Hollande che visita la Grande
Sinagoga rimasta chiusa per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale e prima della
marcia per le strade della capitale incontra i leader della comunità. Assicura che la
protezione davanti alle scuole e ai templi verrà rafforzata, «se necessario schiereremo
l’esercito». È quello che chiede Roger Cukierman, presidente dell’organizzazione che
riunisce le istituzioni ebraiche: «Vogliamo tornare a recitare i salmi, ad acquistare cibo nei
nostri negozi. Non vogliamo nasconderci, non vogliamo andarcene».
L’orgoglio di essere francesi, la Marsigliese intonata dalla folla davanti alle vetrine
oscurate del supermercato sono una risposta all’appello di Benjamin Netanyahu. Che è
volato a Parigi per partecipare alla manifestazione e ha invitato gli ebrei francesi a
emigrare: «Ricordatevi che Israele non è soltanto il luogo dove tornate per pregare, è la
vostra casa». Ha anche annunciato di aver organizzato un comitato che aiuti e favorisca il
trasferimento. Quando nel 2004 Ariel Sharon da primo ministro aveva lanciato un appello
simile a «fuggire dall’antisemitismo selvaggio», l’allora presidente francese Jacques
Chirac aveva chiesto spiegazioni e dichiarato una sua visita ufficiale «non gradita».
Le quattro vittime della strage a Porte de Vincennes saranno seppellite domani a
Gerusalemme sul Monte degli ulivi, funerali di Stato come per i caduti israeliani del
terrorismo. Netanyahu considera i giovani estremisti di Parigi e i miliziani palestinesi di
Hamas soldati di uno stesso esercito globale: «Sono rami dello stesso albero velenoso».
Avigdor Liberman, il suo ministro degli Esteri, avverte «gli attacchi contro i Paesi europei
aumenteranno, è l’ondata di ritorno di chi è andato a combattere in Siria con lo Stato
islamico». Anche Moshe Yaalon, il ministro della Difesa, raccomanda di cercare rifugio in
Israele: «Gli ebrei sono sotto attacco, è il posto più sicuro». «L’unico posto», lo definisce
Yair Lapid, ex ministro delle Finanze in corsa alle elezioni di marzo.
In Francia vive la più grande comunità d’Europa, oltre 550 mila persone. L’aumento degli
attacchi antisemiti ha spinto molti a trasferirsi in Israele, 7 mila nel 2014, il doppio rispetto
all’anno precedente. Delle sette vittime di Mohammed Merah nel 2012 quattro sono state
ammazzate in una scuola ebraica. Pochi mesi fa a Créteil una coppia è stata assalita
dentro l’appartamento, la donna violentata: «Voi ebrei avete i soldi», hanno detto i tre
uomini armati mentre arraffavano i contanti e le carte di credito.
La parola in ebraico per definire l’emigrazione in Israele è aliyah: ascesa. Chi lascia il
Paese commette invece yerida, discende. La comunità che vive all’estero respinge le
parole di Netanyahu: «Il governo israeliano deve smetterla con il riflesso pavloviano di
incoraggiare gli ebrei a fuggire dopo ogni attacco antisemita. Nessuno invita gli abitanti dei
villaggi attorno alla Striscia di Gaza a scappare appena esplode un razzo lanciato da
Hamas», commenta il rabbino Menachem Margolin, che guida l’Associazione delle
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organizzazioni ebraiche europee. «I politici a Gerusalemme devono accettare che non
stiamo per emigrare in massa e riconoscere l’importanza del nostro ruolo, del sostegno
che possiamo dare anche da fuori».
Allison Kaplan Sommer scrive in un editoriale pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz
: «Netanyahu deve capire che questi appelli indeboliscono le comunità politicamente,
riducono le possibilità di premere perché i governi europei garantiscano maggiore
sicurezza».
Il primo ministro Manuel Valls replica: «Il posto degli ebrei di Francia è la Francia». In
un’intervista a Jeffrey Goldberg per la rivista americana Atlantic prima degli attentati della
settimana scorsa, il premier nato a Barcellona spiega: «La Rivoluzione francese decise nel
1789 di riconoscere agli ebrei la piena cittadinanza. Per capire che cosa significhi l’idea di
Repubblica è necessario capire il ruolo centrale rappresentato dalla loro emancipazione.
Se 100 mila francesi di origine spagnola se ne andassero, non direi che il Paese è
cambiato. Ma se 100 mila ebrei francesi emigrassero, la Francia non sarebbe più la
Francia».
Davide Frattini
del 12/10/15, pag. 8
Sfilano per la tolleranza e l’integrazione. Nordafricani, siriani, turchi,
curdi. “Purtroppo l’estremismo è diventato una calamita per psicopatici,
ma riusciremo a isolarli”
“La nostra fede vuol dire pace i terroristi
sono nemici dell’Islam”
PAOLO BERIZZI
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI .
Magari fosse questo il fondamentalismo islamico: quanto sarebbe bello. Il bambino
sventola la bandiera della Tunisia seduto su una casella postale in boulevard des Fillesdu-Calvaires, un pezzo di fiume umano che scorre tra i due formicai di place de la Bastille
e place de la République. «Alè maman... «. Schiude le labbra a un sorriso pieno. Sul
piumino è appiccicato un foglio: «Je suis petit Charlie», scritto di suo pugno, avrà 10 anni.
La madre si chiama Halima Fatnassi, ha i capelli a treccine raccolti. Scandisce il coro
«Liberté! liberté!» mentre aiuta il figlio a dispiegare il drappo rosso e bianco tunisino: c’è il
cerchio con la mezzaluna, simbolo del mondo arabo, e la stella icona dei cinque pilastri
dell’Islam: fede, preghiera, elemosina ai bisognosi, digiuno nel mese del Ramadan,
pellegrinaggio. «Islam deriva da una parola che significa pace e noi obbediamo alla pace.
Mio figlio l’ho cresciuto così. Gli ho spiegato che siamo tutti uguali. Che crediamo tutti nello
stesso Dio. Gli ho detto che questi assassini che uccidono in nome dell’Islam sono i primi
nemici della nostra religione. Non sono musulmani: sono dei pazzi criminali. Deformano il
Corano, lo prendono a pretesto della loro barbarie schifosa».
Marciano per la pace e la tolleranza i musulmani di Parigi. Camminano fieri con le famiglie,
i figli, le fidanzate. Orgoglio morale ma anche un po’ ostaggi di una crisi identitaria. Questi
sono quelli veri, che hanno perso i loro “fratelli”, non i “musulmani finti”, come li ha
chiamati in lacrime il fratello del poliziotto in bicicletta Ahmed Merabet, trucidato per strada
da Said e Chérif Kouachi. Cercare nomi e fedi su delle facce è difficile. Quando due milioni
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di persone riempiono una città per lanciare lo stesso messaggio, quando quella città è la
capitale di un Paese che ospita la più grande comunità islamica d’Europa (7 milioni su un
totale stimato di 18), tutto si amalgama. Ma c’è un senso di appartenenza che non sfugge.
Ahmed Al Hamata è un impiegato tecnico del Comune di Parigi, «lavoro là in fondo,
11esimo arrondissement» (lo stesso della strage di Charlie Hebdo, ndr). Trentacinque
anni, algerino “berbero del Sahara”, tiene a dire. Sfoggia l’adesivo con la scritta «Non
staremo zitti! Libertà di espressione, laicità e antirazzismo». «Il Profeta non ha mai detto di
uccidere, non ha mai chiesto vendette sanguinarie. Gli assassini che dicono di essere
vendicatori di Maometto li chiamo “integralisti nazisti”. Perché hanno le stesse idee
deliranti dei nazisti: se non sei d’accordo con loro, ti uccidono». Ahmed è in mezzo alla
folla che inonda boulevard Beaumarchais. «I Kouachi, Coulibaly e i loro compagni di odio
sono dei perdenti. Hanno scelto di stare dalla parte sbagliata. Vince chi ha ragione, e loro
non ne hanno nemmeno una».
Nordafricani, siriani, turchi, curdi. Ecco Muslum, 40 anni, originario del Kurdistan turco. È
un musulmano sunnita. Solleva un cartello: sfondo nero, scritta rossa. «Sono curdo e sono
Charlie!». È un modello di comunicazione, ognuno lo declina con la sua nazionalità. «Sono
algerino e sono Charlie!»; «Sono arabo e sono Charlie». Una rivendicazione morale:
origini e religione, «ma vivo in pace e voglio la pace» ripete Muslum. La figlia, accanto,
anche lei uno slogan vergato su un cartone: «Il terrorismo uccide in Francia come in
Kurdistan».
Parte un lungo applauso all’angolo tra boulevard du Temple e rue Jean-Pierre Timbaud.
Un matitone gigante si materializza da un balcone all’ultimo piano di un palazzo: «Liberté»
recita lo striscione, lo srotolano tra due finestre. Dice Kamal Aassid, cameriere, Marocco:
«Noi siamo per l’amore e la tolleranza. Non per i kalashnikov. Purtroppo il radicalismo
islamico è diventato una calamita per psicopatici. Il peggiore nemico dell’Islam. Ma li
isoleremo questi animali, spegneremo la loro violenza». Predicava il Profeta Maometto:
«Troverete guerrieri votati a Satana: combatteteli con la sciabola in mano... «. In place de
la Bastille, sotto la Colonna di Luglio con in cima la statua del Genio della Libertà, si
vedono solo matite. Sono le sciabole della città di Charlie.
del 12/10/15, pag. 1/14
Il mondo è diventato una polveriera impossibile da tenere in ordine
Dobbiamo prepararci a difenderci Ma la “guerra” all’Islam non è il
rimedio Perché questo è il momento della ragione
Le risposte dell’Occidente oltre lo scontro di
civiltà
GUSTAVO ZAGREBELSKY
IL MONDO è diventato troppo complicato per essere tenuto in ordine. Questa è l’unica
considerazione obbiettiva, di fronte non solo alla tragedia di Parigi, ma anche alle tante
stragi lontane da noi, da cui allontaniamo l’attenzione appena ne apprendiamo l’esistenza.
Il mondo è in subbuglio e non esiste visione, teoria, algoritmo capace di risolvere le
incognite. Non siamo sicuri nemmeno di quali le incognite siano. Ancora Parigi: fanatici
che credono di difendere l’onore offeso del Profeta; rete terroristica di Al Qaeda che deve
farsi sentire per non finire oscurata dall’Is; inizio di strategia generale, per scardinare
l’ordine dell’Occidente; mossa intimidatrice contro la politica francese nella complicata e
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spesso indecifrabile galassia di forze nel mondo arabo. Le contraddizioni scoppiano qua e
là, per ora perifericamente ma sempre più numerose, e minacciano scoppi più grandi.
Vacilla il pensiero, ancor prima che l’azione.
La teoria politica ha riflettuto sul rapporto tra «forme» e «spazio» del governo. La
democrazia, ad esempio, è adatta alle piccole dimensioni; l’autocrazia, alle grandi. Così
pensava Montesquieu. Nel mondo odierno in cui tutto circola, non è nemmeno più
problema di forme di governo, ma di governo tout court. Il mondo è una grande
scorribanda: poteri economico- finanziari e tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà
di potenza; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali;
circolazione illimitata di armi micidiali che alimenta conflitti. Il mondo è una polveriera dove
civiltà umiliate nei secoli cercano rivalse; dove storiche rivalità etniche e tribali sono libere
di riesplodere; dove fedi politico- religiose che erano confinate nel premoderno riemergono
con la loro carica d’intransigenza e d’intolleranza. Il mondo, che la globalizzazione ha reso
uno, si sta disgregando in contraddizioni non più tenute sotto il controllo da un qualunque
ordine mondiale, fosse anche l’ordine assicurato dall’«equilibrio del terrore». Il terrore
s’insinua capillarmente e anarchicamente nelle aggregazioni umane che chiamiamo
«nazioni» dove l’insufficienza di politiche e culture integratrici produce vite infelici,
sbagliate e senza radici: facili vittime del fascino perverso della violenza riscattatrice.
Massima estensione uguale massima debolezza. La legge del «gradiente della perdita
della forza» dice che, mano a mano che ci si allontana dal centro, cresce l’anarchia. Pare
unità ed è Babele, il cui mito viene a proposito come monito: l’impresa smisurata rovina su
se stessa e coloro che vi lavorano si disperdono nel marasma. Tutti i regni malati di
gigantismo si sono dissolti: l’impero persiano, macedone, romano, mongolo, ottomano,
giapponese, russo, giapponese, ecc. Questo è accaduto pur quando governi centrali
dispotici esistevano. Immaginiamo quando un governo nemmeno esiste: qui la debolezza
è massima e il disordine e la violenza si diffondono indifferentemente tra quelli che
continuiamo a considerare centri del mondo (New York, Londra, Madrid, Parigi, ecc.) e
periferie (Palestina, Sudan, Nigeria, Siria, Egitto, Turchia, paesi del sud-Asia, ecc. ecc.).
Gli ottimisti della globalizzazione credono che le tante forze in campo finirebbero per
disporsi in un assetto naturale, determinato dal libero gioco reciproco degli interessi. La
nascita spontanea delle istituzioni e dell’ordine sociale è un fenomeno ben noto, con
riguardo soprattutto ai fatti economici, dove dovrebbe valere la razionalità degli attori. Non
sempre, però, le cose funzionano così. Soprattutto non funzionano quando i soggetti da
integrare sono di natura diversa (economica, culturale, etnica, religiosa), sono troppo
numerosi e le motivazioni e gli impulsi degli uni sono sconosciuti e imprevedibili per gli
altri. Il gioco delle aspettative razionali circa i comportamenti reciproci — gioco da cui
nasce l’ordine spontaneo — è impossibile, tanto più quando si contrappongono valori
sostanziali, come si usa dire, non negoziabili. C’è poco da stupirsi se la globalizzazione
anarchica non ha portato al massimo della razionalità, ma al massimo dell’irrazionalità.
Non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza.
Il mondo, così, è diventato una grande incognita, un grande rischio. Le nostre società sono
vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi sono a fior di pelle. Poiché, però, non
possiamo rimettere indietro le lancette della storia e sognare impossibili, romantici ritorni
alle «piccole patrie» o agli «stati nazionali chiusi» e alle loro sicurezze, dobbiamo
rassegnarci ad affrontare le conseguenze di quello che è il nostro momento storico,
preparandoci. È difficile e doloroso ammetterlo: i morti di Parigi e le centinaia e migliaia di
morti che li accompagnano in ogni parte del mondo non sono né saranno anomalie. Sono
conseguenza del mondo che abbiamo costruito e che ora si rivolta contro di noi
modellando, alquanto spaventosamente, le nostre vite.
28
Prepararci: sì, ma a che cosa? A difenderci, naturalmente. Difendere che cosa di noi? La
vita e la sicurezza, innanzitutto, e il nostro mondo di principi e valori di libera convivenza,
senza i quali perderemmo noi stessi. Questo dicono tutti. Ma, difenderci con che mezzi? Il
tema che già si è imposto nei discorsi politici è la guerra, qualunque cosa questa parola
possa significare nella situazione in cui ci troviamo. Siamo solo all’inizio, perché su questa
parola si giocano interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni
primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero siamo
come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta porre la domanda
per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso. Serve solo a mobilitare
irrazionalmente l’opinione pubblica interna, per ragioni di lotta politica, come stanno
facendo i partiti e i movimenti nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono
con la promessa che «la guerra» sia la risposta risolutiva.
Questa generica parola d’ordine — a parte l’orrore della leggerezza con la quale è usata
— vale soprattutto come argomento per vincere le elezioni, contro avversari politici interni,
accusati d’essere pusillanimi, opportunisti, traditori dei valori occidentali, se non addirittura
conniventi con i terroristi. Ma, rispetto al contrasto del terrorismo, è così difficile
comprendere quale pericolo essa racchiude? Il primo effetto d’una guerra dichiarata
genericamente contro l’Islam sarebbe di compattare in un unico fronte nemico gli islamici
che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. Sarebbero questi le
prime vittime: atti di violenza nei loro confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza
come ritorsione. Odio su odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’islamismo
presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura. Quando si chiede,
piuttosto provocatoriamente, a un islamico che vive pacificamente nei nostri Paesi di
dissociarsi dal terrorismo, questi ha buon gioco nel rifiutare la provocazione rispondendo
di non avere nulla di cui scusarsi, da cui prendere le distanze, perché il suo Islam è
pacifico e lui, islamico, ha col terrorismo lo stesso rapporto che ha ciascuno di noi, cioè
nessun rapporto di vicinanza. Ma, se fossimo proprio noi a equiparare nella stessa
categoria del nemico gli islamici come tali, come crederemmo ch’essi si schiererebbero?
Con noi, contro l’Islam, o con l’Islam, contro di noi? La campagna per la guerra è una
formidabile propaganda per l’arruolamento all’Islam violento, un regalo ai nostri nemici, il
cui obiettivo è il compattamento integralista di tutto l’Islam.
Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra, ma controlli, indagini e
azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di polizia c’è la differenza che le prime sono
rivolte indifferenziatamente contro «il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i
delinquenti, le loro organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori. S’è già detto della
debilitazione del governo nel gigantismo politico. Troppe contraddizioni, troppi interessi
particolari impediscono un’azione efficace di polizia mondiale e, a maggior ragione, azioni
militari dirette a distruggere le basi di reclutamento e addestramento dei terroristi. C’è
sempre qualche governo che ha interessi geopolitici suoi propri, che impediscono azioni
comuni. Molte volte si sono visti governi appoggiare e armare opportunisticamente la
violenza in altri Paesi, pensando di usarla per i propri fini, salvo pentirsi quando il terrore si
è ritorto contro di loro.
Riprendiamo l’osservazione iniziale: lo spazio troppo grande pregiudica l’efficacia del
governo; lo spazio giusto è quello che non include interessi contraddittori. Gli Stati europei,
almeno sulla loro sicurezza, possono superare le rivalità. Alla globalizzazione del
terrorismo l’Europa si contrapponga come regione che cerca sicurezza e pace.
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del 12/10/15, pag. 15
«Vendetta contro la libertà d’opinione Così le
città diventano polveriere»
Superficialità del multiculturalismo, sottomissione alle leggi di mercato che riducono gli
ultimi a «scarti» del progresso socio-tecnologico, prossimità e umiliazione dell’altro da sé
sono i meccanismi fondamentali colti nei fatti di Parigi dallo sguardo verticale di Zygmunt
Bauman, il filosofo e sociologo polacco di origini ebraiche grande interprete della
modernità che disarticola le costruzioni complesse del nostro vivere in un continuum
«liquido» e sfuggente. «L’assassinio politico è una forma di violenza legata a doppio filo
agli antagonismi umani, difficile da sradicare — dice Bauman al Corriere —. Negli ultimi
due secoli ha preso di mira personaggi quali Jean Jaurès, Aristide Briand, Abraham
Lincoln, l’arciduca Francesco Ferdinando... molto distanti tra loro per ruolo e ideologia ma
sempre percepiti come fonti di potere, da eliminare per rendere possibili svolte epocali».
In cosa si distingue la violenza politica rivolta contro «Charlie Hebdo»?
«Va registrata una prima differenza con gli attentati dell’11 settembre 2001, diretti non
contro personaggi noti o ritenuti responsabili di crimini da punire, ma contro simboli del
potere economico e militare, il World Trade Center e il Pentagono americano. Puntando su
obiettivi ad alto valore mediatico, l’assalto del 7 gennaio 2015 riflette invece la coscienza
pubblica di un progressivo scivolamento del potere effettivo dalle sedi tradizionali verso i
centri che creano opinioni. Inoltre l’assalto al giornale è nato come atto di vendetta
“personale”, secondo il trend inaugurato dall’Ayatollah Khomeini con la fatwa emanata nel
1989 contro Salman Rushdie per i suoi Versi Satanici . Se l’11 settembre
“spersonalizzava” la violenza politica, mirando a fare il maggior numero possibile di vittime
e a ottenere il massimo dell’attenzione, il 7 gennaio risponde alla de-istituzionalizzazione e
individualizzazione della condizione umana nelle nostre società. In questo contesto i
soggetti che costruiscono e distribuiscono informazione diventano i protagonisti del
dramma della convivenza».
Convivenza resa problematica dal senso di alienazione che in società così
frammentate spesso vivono le minoranze etnico-religiose. Come s’inserisce il
rapporto con l’Islam in questo meccanismo? La ferita al cuore di Parigi, cittàparadigma dei valori occidentali, è un capitolo della secolare guerra tra civiltà e
religioni?
«Le letture di questi giorni incentrate sull’antagonismo tra Cristianesimo e Islam
contengono una parte di verità, non possono abbracciare la totalità di un fenomeno
articolato. L’elemento decisivo per comprendere le nuove dinamiche va cercato a mio
parere in un mondo segnato dalle diaspore, dove lo straniero un tempo distante è
diventato il vicino con il quale condividiamo strade, strutture pubbliche, scuole, luoghi di
lavoro. Una prossimità destabilizzante, poiché dall’altro non sappiamo cosa aspettarci e,
diversamente da quanto accade nella dimensione virtuale e “social”, non ci è possibile
rimuovere o aggirare con un click differenze fin troppo reali, incompatibili con il nostro
punto di vista. Le risposte che abbiamo elaborato finora si sono rivelate fallimentari. Nelle
nostre vite ha messo radici un multiculturalismo superficiale, una fascinazione per la
diversità che si esprime nel gusto per i cibi etnici o per i festival del weekend, semplici flirt
con ciò che appare esotico. Declinazione del consumismo globale al tempo di Facebook.
Un sistema che riconosce la legittimità di culture diverse dalla nostra, ma ignora o rifiuta
quanto vi è di sacro e non negoziabile in tali culture. Questa mancanza di autentico
rispetto risulta profondamente umiliante».
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Un’umiliazione che può diventare dinamite sociale?
«Appartiene alla natura dell’offesa cercare una forma di assoluzione o risarcimento.
Quando ciò accade scopriamo che i confini tra chi umilia e chi è umiliato si sovrappongono
a quelli tra privilegiati e sottomessi. Viviamo su un terreno minato, dov’è impossibile
prevedere le deflagrazioni».
In tal senso il discusso romanzo di Michel Houellebecq uscito in Francia nel giorno
dell’attentato, «Soumission» (Sottomissione), coglie nel segno?
« Soumission è la seconda grande distopia di Houellebecq dopo La possibilità di un’isola .
In questo libro l’islamico Mohammed Ben Abbes vince le elezioni francesi del 2022 testa a
testa con Marine Le Pen, una coppia per nulla casuale, profetica se non riusciremo a
invertire il corso di una storia che ha tradito le speranze di libertà e uguaglianza riposte
nella democrazia. In tutta Europa assistiamo all’ascesa del sentimento antidemocratico, a
una secessione di massa dei nuovi plebei che confluiscono verso gli opposti estremi dello
spettro politico, attratti dalle promesse dell’autocrazia. La parola del Profeta diventa così
un vessillo dispiegato per chiamare a raccolta gli umiliati, gli emarginati, gli esclusi,
affamati di vendetta».
Come rispondere? Lei sostiene che la forza della morale risiede nella consapevole
libertà dell’«io», non nel potere coercitivo di un «noi» impersonale. Parte da qui il no
al fondamentalismo?
«Nella sua prima Esortazione Apostolica (la Evangelii Gaudium del 2013, ndr ) papa
Francesco ha messo a fuoco la grande sottomissione, la nostra resa a un capitalismo
licenzioso, sfrenato, cieco all’umana miseria. Non troverà risposta più profonda ed
esaustiva a questa domanda. Il Pontefice ha richiamato quella cultura dello “scarto” che va
oltre lo sfruttamento e bandisce intere popolazioni dai progressi del welfare e della tecnica,
masse che non sono più semplicemente oppresse o marginalizzate, bensì rimosse dalla
comunità, “fuori” dal corpo sociale. Questo non può essere accettato, a questo dobbiamo
opporci».
Maria Serena Natale
Del 12/01/2015, pag. 6
Le guerriere per l’Islam “ammaliate” dal
Califfo
La strategia dei fondamentalisti: aprire alle donne
Francesca Paci
Quando nel 2006 la musulmana riformista Amina Wadud pubblicò «Inside the Gender
Jihad» (dentro il jihad di genere) non aveva in mente esattamente Hayat Boumeddiene o
la 27enne Maria Giulia Sergio ribattezzatasi Fatima per poi lasciare l’hinterland milanese e
trasferirsi in Siria. La Wadud, prima islamica a guidare la preghiera del venerdì in una
moschea di New York, invoca da anni l’inclusione delle donne nel credo coranico.
Il paradosso
Paradosso beffardo, la sua sfida rischia di essere scavalcata oggi dai fondamentalisti che
strategicamente arruolano volontarie della guerra santa per dare scacco matto al
femminismo occidentale e non. Le cronache dettagliano le scelte estreme della moglie di
Coulibaly, i Bonnie & Clyde del neo islamismo francese, e di Fatima, unica italiana nota tra
i ranghi del Califfato che nel 2010 auspicava su Facebook «la vittoria sui miscredenti» e
un paio d’anni dopo chiedeva come fare «il niqab da sposa» in vista del secondo
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matrimonio con un albanese (aveva rotto col primo marito marocchino: troppo moderato).
Ma non sono solo loro. Mentre il mondo si stringe alla Francia, gli integralisti nigeriani di
Boko Haram fanno strage usando i corpi-bomba di 3 bambine (altre 2 ieri a Yobe) e la
polizia austriaca arresta due ragazze minorenni pronte a partire verso lo Stato Islamico.
Forzate o intimamente convinte, le ladies jihad sono sotto i riflettori. E non perché, come
nota Katherine Brown del King’s College il fenomeno sia nuovo: ci sono state guerriere
senza scrupoli in Irlanda del Nord, in Sri Lanka e anche gruppi come Hezbollah, che un
tempo obiettavano divieti religiosi, hanno poi permesso alle donne d’immolarsi. Secondo la
Brown tra l’81 e il 2007 il 26% degli attacchi kamikaze ha avuto firma femminile. Ma le
almeno 200 europee che si stima affianchino il Califfato colpiscono l’immaginario perché
non sono cresciute nel conflitto ma lo vanno «romanticamente» a cercare.
I siti d’incontro
L’ultimo mezzo usato dai reclutatori è lo speed dating, siti d’incontri online tipo quello
gestito da Raqqa da Abu Qa’qa al-Britani per proporre alle aspiranti spose i migliori
mujaheddin. Le nozze col potenziale martire sono però solo una parte della storia. È vero
infatti che, come scrive Mia Bloom nel saggio «Bombshell: Women and Terrorism», quasi
tutte le volontarie straniere non vogliono sparare ma aiutare, fare pr, procreare. E molte,
come la marocchina di Avignone Nora che continua a chiamare disperata il fratello Fouad
perché la vada a prendere, scoprono a loro spese quanto il ruolo di muhajirah (la fidanzata
del Califfato) sia sinonimo di schiava.
Ma ci sono pure la 22enne londinese Khadijah Dare che twitta «vorrei essere la prima
jihadista a uccidere un ostaggio occidentale», la connazionale a capo della polizia
religiosa femminile di Raqqa, la medico malese Umm al-Baraa che chatta «lo stetoscopio
intorno al collo e il kalash sulle spalle, il martirio è il mio sogno» o la 20enne scozzese
Aqsa Mahmood frustrata perché «qui non c’è assolutamente modo per le sorelle di
partecipare ai combattimenti, nessuna operazione di martirio né milizie femminili». Ci sono
insomma jihadiste più agguerrite dei loro compagni che rispondono fiere al tam-tam di al
Baghdadi perché, osserva Sasha Havlicek dell’Institute of Strategic Dialogue, persuase di
battersi contro «l’occidente decadente e corrotto» che per quanto proclami il contrario non
ha rispetto per le donne. E magari si sentono femministe.
del 12/01/15, pag. 1/25
Il buon esempio e la paura
ILVO DIAMANTI
I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno, certamente, una matrice religiosa, prima che
politica, come ha argomentato ieri Eugenio Scalfari.
MA SONO destinati a produrre — e, anzi, hanno già prodotto — conseguenze politiche
molto serie. In Francia, in Italia. E in Europa. Ben al di là delle intenzioni dei terroristi. Gli
autori dell’eccidio ai danni della redazione di Charlie Hebdo intendevano, infatti, punire
l’offesa contro il Profeta e i simboli dell’Islam. In modo estremo, secondo la loro
interpretazione estrema ed estremista del Corano. In questo modo, però, perseguivano —
ed eseguivano con ferocia — anche una finalità “politica”. Intimidire la patria delle libertà:
culturali, di espressione, religiose. Al tempo stesso, intendevano — intendono —
radicalizzare l’Islam — in Francia e in Europa — intorno a un solo nucleo. A una sola
interpretazione. Jihadista. Anche se l’Islam è un fenomeno complesso, come ogni
religione. Lo ha rammentato ieri Corrado Augias. L’eccidio di Parigi, però, rischia di
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produrre anche altri esiti. Diversi, ma non meno pericolosi. Non solo per i francesi, ma per
noi tutti.
In particolare, l’attacco degli jihadisti (francesi) che ha insanguinato Parigi ha, senza
dubbio, colpito al cuore anche l’Unione europea. Mettendone in luce l’estrema debolezza e
“lateralità” rispetto alle scelte e alle questioni che riguardano la vita — e la morte — delle
persone. La sfida terrorista dell’Islam radicale, infatti, è stata affrontata, a Parigi, dai servizi
e dalle forze dell’ordine “nazionali”. Non da un sistema di difesa e di sicurezza “europeo”.
Che non esiste. Come non esiste un esercito. Né una politica estera comune e condivisa.
Non per caso, in nome della difesa e della sicurezza contro la minaccia terrorista, in questi
giorni, sono state messe in discussione le regole sulla libera circolazione dei cittadini fra i
paesi europei previste dal trattato di Schengen. Un’ipotesi “rivendicata”, per primo, da
Roberto Maroni. Importante leader della Lega, ma, anzitutto, governatore della Lombardia.
Una Regione aperta — e influente — sull’Europa. La stessa preoccupazione, d’al- tra
parte, ha trovato altri sostenitori autorevoli, nei governi della Ue. In particolare, da parte di
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea.
D’altronde, la “politica”, nei sistemi democratici, avviene attraverso la competizione per il
potere e l’esercizio del governo, fondati sul consenso dei cittadini. Che è regolato dal voto
e condizionato dall’opinione pubblica. E ha base saldamente “nazionale”. Per questo,
risulta chiaro che il sanguinoso attacco a Charlie Hebdo avrà una forte influenza sulla
fiducia — e sfiducia — degli elettori nei confronti delle forze “politiche” e delle istituzioni.
Nazionali. E contribuirà a (ri)orientare la politica nei diversi sistemi politici. Nazionali. Tanto
più per il violento impatto prodotto sul piano “mediale” — previsto e premeditato dai
militanti jihadisti.
In particolare, è prevedibile che questa vicenda contribuisca ad allargare i consensi delle
forze politiche che agitano la paura degli stranieri e, insieme, l’islamofobia. Anzitutto, le
Front National. Che, alle Europee, ha ottenuto oltre il 25% dei voti. Primo partito, in
Francia. In Italia, la Lega di Salvini, anch’essa in grande crescita. Ormai vicina a Forza
Italia, secondo i sondaggi condotti prima delle festività. Ma oggi, presumibilmente, anche
oltre. Salvini, non a caso, è intervenuto immediatamente. In modo esplicito e aggressivo.
Ha echeggiato Jean-Marie Le Pen, ancor più della figlia Marine.
D’altronde, dovunque, in Europa, la presenza dei musulmani, nella popolazione, è
largamente sovrastimata (indagine Ipsos MORI). Non è, dunque, un caso che tanto il Fn
quanto la Lega — “nazionalizzata” e personalizzata da Salvini — siano apertamente antieuropei. Perché i due sentimenti risultano strettamente connessi e reciprocamente
intrecciati, non solo nelle strategie di questi (e altri) soggetti politici, ma anche negli
orientamenti sociali. Non a caso, in Italia, fra coloro che percepiscono l’immigrazione come
una minaccia, la sfiducia nella Ue cresce fin quasi all’80%. Cioè, oltre il doppio rispetto alla
popolazione. Si tenga conto che si tratta di stime calcolate in base a sondaggi (di Demos)
condotti oltre un mese fa. Quando la “paura degli immigrati” coinvolgeva circa un terzo
degli elettori. Un dato, probabilmente, accentuato dagli avvenimenti recenti.
Anti-europeismo e xenofobia (letteralmente: paura dello straniero) appartengono,
d’altronde, alla medesima sindrome. Lo spaesamento. Riflette la perdita di riferimenti
generata dalla mondializzazione. Dalla progressiva scomparsa dei confini che, comunque,
offrono de-finizione, identità, riconoscimento. Una sindrome che si riflette nel crollo della
fiducia in tutte le istituzioni pubbliche e nelle principali organizzazioni sociali, rilevato
dall’Indagine 2014 sul “Rapporto fra i cittadini e lo Stato”.
Per questo, al di là — e oltre — le intenzioni degli autori, è probabile che la sanguinosa
aggressione di Parigi crei uno spazio favorevole ai soggetti e ai sentimenti anti-europei.
Anche perché l’Europa, tanto attenta e sollecita a vigilare sui parametri economici e di
spesa, appare altrettanto distratta e svagata di fronte alle questioni che riguardano la vita
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e la sicurezza delle persone. E, mentre vigila sulla moneta e sul mercato comune, si
disinteressa della costruzione di una “difesa” comune. All’esterno e all’interno. Così, la Ue
continua ad apparire una moneta e un mercato senza Stato. Incapace, anche per questo,
di neutralizzare — ma anche di affrontare — la sfida del fondamentalismo islamico, che
cresce al suo interno. Certo, ieri due milioni di persone e 50 capi di Stato e di governo, di
tutto il mondo, hanno marciato a Parigi. In nome della libertà di espressione. Della
convivenza fra idee e religioni diverse. Anche questo è un effetto, non previsto, del
massacro compiuto dagli jihadisti. Segno di una coscienza collettiva. Che per risvegliarsi,
però, ha bisogno di tragedie come questa. Certo, la grande manifestazione di ieri ha
offerto un “buon esempio” dell’Europa che vorremmo. Non di quella che conosciamo.
Perché marciare e morire per un Euro: non ha “senso”.
del 12/01/15, pag. 13
Nigeria, altre due bambine kamikaze
Caricate di esplosivo e fatte saltare: è la nuova tecnica di attentato di
Boko Haram. Sette le vittime in un mercato
Mentre gli occhi del mondo sono puntati su Parigi che rialza la testa contro il Terrore, in
Nigeria l’orrore segna un escalation senza freni e senza limiti. Ieri i miliziani di Boko Haram
hanno fatto viaggiare la morte addosso a due bambine. All’indomani della piccola
kamikaze immolata nel mercato di Maiduguri, a saltare in aria sono state questa volta due
ragazzine, sempre sui dieci anni.
È domenica pomeriggio quando una doppia deflagrazione crea macerie e morte in un
mercato di telefonini a Potiskum, capitale economica dello stato nordorientale di Yobe, già
più volte nel mirino del gruppo fondamentalista sunnita. A novembre, in una scuola, un
kamikaze con la divisa degli allievi aveva fatto una cinquantina di vittime, per lo più
studenti. E ieri tra le bancarelle di telefonini sono rimaste a terra almeno sette persone, i
corpi dilaniati, ridotti a brandelli. Le due giovani kamikaze «hanno sui dieci anni: di loro si
vedono soltanto i capelli intrecciati e la parte superiore del busto» ha raccontato un
venditore alla Reuters . Un testimone, citato da Bloomberg , precisa che le due ragazzine
sono arrivate al mercato a bordo di un triciclo a motore: «Una di loro ha innescato e fatto
detonare la sua bomba mentre l’altra, che era ancora seduta sul veicolo, ha detonato la
sua». Rimane difficile pensare a delle bambine come martiri consapevoli: più facile
pensare che i terroristi, a loro insaputa, abbiano azionato a distanza la cintura esplosiva
che nascondevano sotto il vestito, come era forse accaduto anche sabato a Maiduguri.
Qui la piccola kamikaze ha fatto 19 vittime nello stesso mercato dove lo scorso primo
dicembre due donne si erano fatte esplodere provocando una decina di morti.
Dopo la serie di attentati affidati negli ultimi mesi alle donne kamikaze (l’esplosivo sotto il
niqab passava inosservato), gli integralisti islamici sembrano puntare sulle «bambine
esplosive» per l’ultima fase dell’ondata di terrore che precede le elezioni presidenziali di
metà febbraio. Voto che i fondamentalisti vogliono far saltare, intenzionati come sono a
creare nel nord della Nigeria un califfato affiliato all’Isis di al Baghdadi.
Si tratta del terzo episodio in cui è stato accertato il ricorso a bambine-kamikaze: il primo
risale al 10 dicembre, quando una tredicenne rifiutò di farsi detonare in un mercato di
Kano e raccontò di essere stata «reclutata» dal padre per servire il «califfato» di Boko
Haram.
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«Il gruppo terroristico sembra aver intrapreso una nuova strada, ora dobbiamo diventare
sospettosi di ogni donna che indossa il niqab, giovane o vecchia che sia» ha dichiarato un
ufficiale di polizia nigeriano al New York Times .
In questa escalation pre-elettorale si colloca anche la strage compiuta la scorsa settimana
a Baga sul lago Chad e in 16 villaggi vicini, sempre nello stato del Borno, dove uomini,
donne e bambini sono stati sterminati a migliaia «come fossero insetti», secondo le
testimonianze di alcuni fuggitivi sopravvissuti rese note ieri dai media nigeriani. «Abbiamo
corso per giorni e visto cadaveri, sopratutto sulle isole del lago Ciad». «I miliziani sono in
agguato lungo le acque e quando vedono passare una barca aprono il fuoco». «Una
donna incinta aveva lo stomaco squarciato».
Il presidente nigeriano Jonathan Goodluck cerca la riconferma a febbraio. Ma per
l’inconcludente lotta ai Boko Haram è stato ribattezzato «Badluck», sfortuna.
Alessandra Muglia
Del 12/01/2015, pag. 13
Haiti prova a sorridere 5 anni dopo
A Port-au-Prince sono state rimosse le macerie del terremoto che nel 2010 uccise
230 mila persone Ma sulle colline si vive nelle tendopoli e l’opposizione chiede le
dimissioni del presidente Martelly
Haiti cinque anni dopo appare un Paese nuovo, ma le ferite del terremoto ancora non si
sono rimarginate. Il 12 gennaio 2010 l’isola è stata colpita da un sisma di magnitudo 7 che
ha provocato oltre 230.000 morti, migliaia di sfollati e violenza. Il terremoto ha messo in
ginocchio un Paese già poverissimo, segnato da instabilità politica e scontri per il potere.
Per la ricostruzione 5 miliardi
Poi è arrivata l’epidemia di colera: oltre 8 mila vittime. Oggi i progressi si vedono, il colera
è quasi sotto controllo, e le macerie sono state portate via dalla maggior parte dei centri
cittadini. Tuttavia, il Paese fatica a rimettersi in moto.
Nelle campagne la popolazione continua a vivere in condizioni disperate. Molti dormono
nelle tendopoli, senza luce e acqua potabile. La comunità internazionale ha stanziato oltre
5 miliardi di dollari per la ricostruzione, ma parte di questi fondi non si sa che fine abbia
fatto. La corruzione delle istituzioni governative ha limitato la possibilità di fornire aiuti in
maniera efficace. E così la responsabilità della ricostruzione è caduta in gran parte sulle
organizzazioni umanitarie.
Le nuove elezioni
Il nuovo presidente Michel Martelly, che già nel 2011 aveva impiegato mesi per formare un
governo ed essere riconosciuto dal Parlamento, sta perdendo credibilità. Nelle settimane
scorse, dopo che l’esecutivo non era stato in grado di organizzare nuove elezioni politiche
(le prime in tre anni), diverse manifestazioni hanno provocato vittime e hanno portato alle
dimissioni del premier Laurent Lamothe. Ora l’opposizione chiede allo stesso Martelly di
farsi da parte. [e. cap.]
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INTERNI
del 12/01/15, pag. 10
Allarme per il Vaticano “È il prossimo
obiettivo dei terroristi dell’Is”
Un rapporto di Cia e Mossad all’intelligence italiana A Parigi vertice
sulla sicurezza: “Rivedere Schengen”
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI . «L’immagine della bandiera nera dell’autoproclamato Stato islamico in piazza
San Pietro non rappresenta solo una minaccia simbolica e non è rivolta solo all’Italia». È
una dichiarazione da allarme rosso quella che Angelino Alfano rilascia alla fine del vertice
tra i ministri dell’Interno europei riuniti a Place Beauvau per mettere a punto il sistema di
sicurezza continentale dopo gli ultimi attacchi terroristici. San Pietro, insomma, è «il
prossimo obbiettivo dell’Isis». Oltre ad Alfano, lo dicono — e ne ha dato notizia ieri sera la
tv di stato israeliana — Cia e Mossad, i servizi segreti Usa e israeliani, i quali con una nota
riservata hanno messo in guardia i servizi di sicurezza italiani e d’Oltretevere pur
sottolineando che non ci sono «segnali concreti». Il clima, a Roma, dove è stato vietato il
transito delle automobili nel quartiere ebraico, è di quelli pesanti: ieri all’Angelus del Papa
c’è stata un’affluenza bassissima, una circostanza che molti hanno messo in relazione con
le notizie in arrivo da Parigi.
«I cittadini italiani — dice ancora Alfano — devono stare all’erta, si devono guardare
intorno e se hanno qualcosa da segnalare lo dicano subito alle autorità». Quanto alle
misure straordinarie discusse ieri, la più clamorosa è quella, proposta dal ministro
spagnolo Jorge Fernandez Diaz: «Modificare gli accordi di Schengen e riconsiderare la
possibilità di controlli alle frontiere». La proposta ha suscitato molte perplessità, ma è
comunque stata presa in considerazione. «Schengen è una grande conquista di libertà
che non può essere regalata ai terroristi», è la posizione italiana espressa da Alfano che
tuttavia rilancia sul «rafforzamento dei controlli». In particolare il riferimento è ai dati dei
viaggiatori raccolti dalle compagnie aeree. La cosiddetta questione del pnr (personal
number record), e cioè la scheda che i vettori compilano per ogni passeggero, che viene
associato a un numero: in quella scheda vi sono moltissime informazioni personali, nome,
età, metodo di pagamento del biglietto, eventuali preferenze alimentari espresse durante il
viaggio o condizioni sanitarie emerse, oltre che ovviamente tutte le informazioni relative
agli spostamenti.
In America, Australia e Canada le compagnie sono obbligate a condividere tali
informazioni con le autorità. In Europa no. Per motivi di privacy. «La condivisione del pnr
— secondo Alfano, ma anche secondo la maggioranza dei suoi colleghi — deve essere
considerata una priorità».
Dovrà invece variare il rapporto tra gli stati e i colossi di internet. Dopo la stagione della
criminalizzazione (Nsagate) sembra affacciarsi l’era della collaborazione. Le moschee non
hanno più un ruolo primario nella cooptazione jihadista.
Ad esse si è sostituita Internet. Il segretario alla giustizia Usa che partecipava all’incontro
ha spiegato come sia ormai «indispensabile la collaborazione con gli operatori di Internet
per identificare e ritirare rapidamente i contenuti che incitino all’odio e al terrorismo».
( ma. me.)
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Del 12/01/2015, pag. 7
Il ministro Orlando: “Italia pronta per una
super-procura antiterrorismo”
“Spesso il carcere diventa un luogo di reclutamento e proselitismo
Bisogna armonizzare le legislazioni Ue per un’azione più efficace”
Francesco Grignetti
Ministro Andrea Orlando, dopo fin troppi anni di discussione, è arrivato il momento
di una superprocura antiterrorismo?
«E’ vero, se ne parla da molto tempo. Ma ora un coordinamento unico nazionale è
divenuta un’esigenza riconosciuta da tutti. Non è più questione di discutere del se, del
quanto, del come. Il punto di partenza è un ddl presentato alla Camera dall’onorevole
Stefano Dambruoso, che allarga alla procura nazionale antimafia le competenze
antiterrorismo. Procederemo, come annunciato da Angelino Alfano, a un tavolo di
confronto tra governo e le grandi procure italiane, comunque è chiaro che occorre un salto
di qualità, essendo il terrorismo islamista un fenomeno sovranazionale e la dimensione
locale delle singole procure è sempre più in difficoltà».
Lei è più favorevole a raddoppiare le competenze dell’Antimafia oppure a creare
un’analoga struttura antiterrorismo?
«Prima di prendere decisioni, è necessario un confronto, quindi ci incontreremo con i
magistrati che si occupano di terrorismo per poi procedere in tempi rapidi».
Perché ha segnalato l’opportunità di coordinare tra i Paesi Ue le norme di contrasto
al terrorismo, in particolare contro i “foreign fighters”. Ci sono problemi?
«Abbiamo toccato con mano, nel corso del Semestre a guida italiana, le resistenze ai
processi di integrazione europea. Siamo riusciti a portare il tema del terrorismo
internazionale al tavolo dei ministro della Giustizia, essendo stato finora un tema trattato
esclusivamente dai ministri dell’Interno nella consapevolezza che non può essere
sufficiente la dimensione di polizia, ma è necessario uniformare le legislazioni. È troppo
pericoloso ricadere negli errori che si sono fatti in passato; a lasciare discrasie tra le
legislazioni europee, si rischia di creare delle maglie nelle quali il terrorismo può agire.
Queste organizzazioni sono fin troppo abili ad inserirsi tra le pieghe. Abbiamo operato
quindi per una parziale cessione di sovranità per investire del tema antiterrorismo le
istituzioni comunitarie. Di pari passo nel confronto è emersa anche la questione
dell’esecuzione della pena. Il carcere, come s’è visto, rischia di essere un veicolo di
proselitismo, motivo per il quale si è posto il problema di come una misura repressiva
rischi di trasformarsi in un aiuto per queste organizzazioni».
Risultato?
«Diversi Stati europei sono gelosi dei propri ordinamenti, temono fortemente ogni cessione
anche minima di sovranità alle istituzioni europee. Riconoscono che il problema di una
risposta comune al terrorismo internazionale esiste, ma diventano molto timidi, per non
dire di più, quando si tratta di accedere a una dimensione comunitaria. Al termine della
discussione, siamo giunti a un approdo realistico che costituirà il punto di partenza per la
nuova presidenza lettone: l’impegno a un confronto costante tra ministri della Giustizia
affinché ci sia una progressiva armonizzazione dei singoli ordinamenti».
Torniamo all’Italia. Delle tante riforme annunciate sulla giustizia, quali vedremo
convertite in legge per prime?
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«A febbraio, subito dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, potrebbe diventare legge
la responsabilità civile dei magistrati. Poi verranno tante altre riforme. Segnalo infine che è
ripresa la discussione al Senato sui reati ambientali, che prevede la riconfigurazione del
disastro ambientale: approvarlo rapidamente sarebbe la nostra migliore risposta alla
vicenda dolorosa del processo Eternit».
Del 12/01/2015, pag. 7
La marcia dei giovani musulmani “Chi spara
non ci rappresenta”
Reggio Emilia, le associazioni islamiche in piazza dopo l’appello di
Comune e Provincia
No, lo slogan «Je suis Charlie» non lo condividono, anzi, fosse per loro un giornale di
satira blasfema non dovrebbe uscire in edicola «perché offende tutte le religioni», ma il
sangue versato in nome di Allah è imperdonabile: «I terroristi hanno danneggiato molto più
l’Islam di quanto abbia fatto il giornale satirico». Loro sono i giovani musulmani che ieri
pomeriggio hanno sfilato in corteo a Reggio Emilia, dopo aver risposto insieme alle
principali associazioni islamiche all’appello a scendere in piazza lanciato da comune e
provincia.
Le ragazze con il velo
Ragazzine col velo come Sara Hamoumi, nata in Italia 19 anni fa e iscritta al primo anno
della facoltà di lingue, a Parma: «I tre estremisti hanno oltraggiato la nostra fede dicendo
di agire nel nome dell’Islam. Questa manifestazione è importante perché è un’occasione
per dialogare con le altre persone, per far vedere che siamo tutti contro il terrorismo e ogni
forma di violenza». Migliaia di persone in marcia lungo via Emilia centro (5mila secondo il
comune, ndr) e poi riunite nella piazza del municipio, e in fondo al corteo gli striscioni “Not
in my name” e “Il terrorismo non ha umanità, il terrorismo non ha religione”, con qualche
decina di ragazzi dalla pelle bruna e gli occhi accesi ad esprimere il loro sdegno per
quanto è successo a Parigi. Gli altri musulmani, adulti e famiglie, erano in mezzo alla
piazza ad ascoltare il sindaco Luca Vecchi e il presidente della provincia Giammaria
Manghi. «Siamo venuti per dire no ai terroristi che ammazzano le persone e dire di sì alla
libertà di parola», dice il presidente della comunità egiziana di Montecchio, Magdy El
Meligy. La provincia reggiana è una delle zone a più alta concentrazione di stranieri
d’Italia, ma la convivenza sembra funzionare: «Io mi sento italiano, sto bene qui, la
maggior parte dei miei amici sono italiani – spiega Ilias Moukrime, 22 anni, musulmano,
fresco di laurea triennale in tecnologia alimentare -. Il corteo serve a dire che
condanniamo gli attentati ed è anche un’occasione di condivisione fra gente di fede
islamica e italiani. Secondo la mia fede nessuno può giudicare o uccidere altre persone. E
in un paese che ti offre tutto non puoi comportarti così».
Abdel Fattah al Fatimi ha 20 anni, vive a San Polo D’Enza e studia ingegneria civile;
racconta di aver provato «sdegno, tristezza e imbarazzo» quando ha saputo degli
attentati: «Gente che si presenta col kalashnikov urlando “Allah Akbar” sembra che ci
rappresenti in quello che ha fatto, ma non è assolutamente vero: sono gesti incompatibili
con la nostra religione». Aggiunge di essere soddisfatto fino a un certo punto della
partecipazione dei musulmani alla manifestazione: «Mi aspettavo di più: venire a cortei
come questo è importante, perché forse ora i cittadini italiani si sentono meno sicuri,
dunque vedere molti di noi in piazza sarebbe un segno di sicurezza. Le vignette di Charlie
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Hebdo? Va bene la libertà di espressione, ma con un po’ di rispetto. La reazione violenta
però è inaccettabile. Il Profeta è stato deriso ma reagiva col silenzio».
Sguardi pesanti
Khadija Sadid, 27 anni, marocchina, lavora in un negozio di ottica: «Il giorno dopo
l’attentato la gente mi guardava in modo diverso. In Francia hanno agito solo tre assassini:
per il Corano chi uccide un essere umano è come se uccidesse l’umanità».
del 12/01/15, pag. 16
Sul dopo-Napolitano Alfano dà l’altolà al
“patto esclusivo” tra Pd e Forza Italia
“Nessun assegno in bianco, valuteremo il candidato” Italicum, sfida dei
frondisti su nominati e preferenze
FRANCESCO BEI
ROMA .
Ci siamo. Domani Giorgio Napolitano saluterà i dipendenti del Quirinale e il reggimento
Corazzieri, nelle stesse ora in cui a Strasburgo Renzi rendiconterà davanti al parlamento
europeo i risultati del semestre di turno dell’Italia. Due appuntamenti concomitanti che
sono la campanella per l’ultimo giro, con le dimissioni del capo dello Stato attese per il
giorno successivo: mercoledì 14. Ma già nella maggioranza si odono i primi scricchiolii in
vista dell’apertura del Parlamento in seduta comune. Ad alzare la voce, contro il premier e
l’idea di un Pd “pigliatutto”, sono gli alleati di Area popolare, il gruppo che riunisce Ncd e
Udc. Non è piaciuta infatti agli alfaniani l’intervista rilasciata ieri a Repubblica da Roberto
Speranza, in cui il capogruppo dem dava per scontati i voti della maggioranza su un
candidato scelto da Renzi. Alle tante voci di dissenso dei centristi si è aggiunta anche
quella della capogruppo Ap alla Camera, Nunzia De Girolamo che accusa Speranza di
aver «falsato la realtà» del pallottoliere. Dunque, nulla è stato ancora stabilito: «Ncd-Udc
non ha firmato nessun assegno in bianco a Renzi per il candidato del Colle: i nostri voti,
ovviamente, dipenderanno dalla figura individuata e da nient’altro. Insomma gli alfaniani
vogliono essere della partita e non informati solo a cose fatte: «Nessuno pensi di fare i
conti senza di noi, anzi crediamo sia giunto il momento di fare un tagliando alla
maggioranza».
E un «tagliando» sicuramente ci sarà oggi pomeriggio in Senato, visto che martedì sera
scade il termine per presentare gli emendamenti all’Italicum. Tutto infatti è ancora in alto
mare e si tratta di tradurre in norme concrete l’accordo raggiunto tra la maggioranza e
Forza Italia. Un patto che prevede il premio alla lista (sempre più inviso ai forzisti), la
soglia di sbarramento abbassata al 3% e i cento capilista bloccati. L’idea è quella di
emendadere menti comuni, firmati da tutti i capigruppo, che sostanzialmente riprendano
quelli elaborati dalla (ex) relatrice Anna Finocchiaro. La scrittura dovrà essere molto
attenta: non sono previsti sub-emendamenti e sarà quindi un pren- o lasciare.
Ma contro quest’ultima versione dell’Italicum, soprannominato 2.0, sono da tempo in
campo battaglioni di guastatori. Anzitutto dentro Forza Italia, dove l’area fittiana è sempre
più ostile al patto del Nazareno. Un’opposizione interna che si è persino rafforzata nel
week-end dopo le voci sull’arrivo di Guido Bertolaso al vertice del partito. Fittiani e ribelli
vari si comportano ormai come un partito autonomo e difficilmente rinunceranno a ritirare
gli oltre 1500 emendamenti già preparati. Anche dentro il Pd resta una questione aperta,
quella legata ai capilista bloccati. I bersaniani pretendono che sia ribaltata la proporzione
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tra eletti con le preferenze e nominati e sono riusciti a tirarsi dietro anche esponenti di altre
correnti. In particolare sono 37 i senatori dem che hanno firmato l’emendamento di Miguel
Gotor sulle preferenze per tutti. La battaglia deve ancora iniziare.
del 12/01/15, pag. 19
Fassina-Civati, missione greca: qui a scuola
di sinistra vera
Il tour dei due esponenti pd per studiare Syriza
ATENE L’autoironia non manca. «Ci fosse anche Gianni Cuperlo potremmo anche fondare
un nuovo Pd in esilio». Fine settimana di vacanze-lavoro per Stefano Fassina e Pippo
Civati. Due dei più coriacei dissidenti del renzismo sono arrivati alla scuola di Atene per
abbeverarsi alla fonte della nuova sinistra-sinistra di Alexis Tsipras. Sono l’avanguardia
delle scanzonate Brigate Kalimera della sinistra italiana prenotate sui voli low cost per il
weekend elettorale di fine gennaio quando il partito anti liberista e anti austerity Syriza
potrebbe conquistare la maggioranza del Parlamento greco. «Per chi come noi crede sia
possibile un’alternativa alle politiche rigoriste europee sarebbe una bella spinta». Solo
all’idea brilla nuova luce negli occhi.
Sono come al primo giorno di un nuovo corso che promette di insegnare cose
meravigliose. Invece di Platone hanno trovato il giovane Tsipras. Civati è venuto a sue
spese con la compagna. Anche Fassina attinge al portafogli personale, ma in compagnia
di «uno degli ultimi funzionari di partito viventi, praticamente un dinosauro» (così come si
definisce l’interessato). Pure «l’esemplare in via di estinzione» è in ferie.
Sarà la passione, l’aria dolce di Atene, il profumo di souvlaki o che qui discutere di politica
attorno ad una bella cena costa meno di 10 euro a testa, fatto sta che la maggior parte
degli incontri assume una venatura nostalgica. Non è mai bello stare in panchina a
guardare gli altri vincere, anche quando sono degli amici. La rete di accoglienza è fatta da
pochi elementi scelti. Un ex candidato nelle liste di Tsipras in Italia, un’ex giovane
comunista esiliata a Roma ai tempi dei colonnelli, simpatizzanti di origini disparate.
Compare anche Stathis, fratello del rivoluzionario Panagulis, amore di Oriana Fallaci e
ispiratore del suo «Un uomo». Pare un viaggio nel tempo: passato e futuro.
Il lavoro che la coppia di minoranza si propone in Grecia è serio quanto ciclopico: capire
come Syriza sia riuscito in tre anni a passare dal 2-3% a proiezioni che lo danno primo
partito con il 30 per cento. La scalata greca è avvenuta per di più senza rinnegare
l’ispirazione marxista del movimento. Ai due Pd in trasferta potrebbe forse bastare un
innesto di egalitarismo e una spintarella keynesiana. Civati sembra preoccuparsi
soprattutto di carpire il segreto del radicamento sociale di Syriza attraverso le associazioni
di assistenza promosse dal partito. Mense sociali, ambulatori gratuiti, il vecchio sano
lavoro di base che nel Pd «made in Renzi» è dato per «desaparecido». «Movimento
sociale e politico crescono insieme — dice Pippo —. E crescita dovrebbe coincidere con
uguaglianza». Fassina, da buon economista, è concentrato sui numeri. Guarda alla gravità
della crisi sociale greca e alla disperazione che ne è nata. «In Italia, fortunatamente, non
siamo arrivati a tanto».Tra un piatto di tzatziki e un dibattito, il gioco degli specchi tra
Grecia e Italia regala riflessi a volontà. Un tempo era la sinistra ateniese a scappare da
noi, domani chissà? Allora la sinistra italiana era la più forte d’Europa, il 26 gennaio
potrebbe essere la greca. Una volta facevano scuola le salamelle alle Feste dell’Unità e la
capillarità delle sezioni Pci. Oggi è Syriza ad inventarsi le lenticchie equosolidali e le
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associazioni di auto-aiuto. Parallelismi e fughe in avanti. Da noi la frammentata banda
dell’Ulivo di Prodi è stata incapace di reggere alla prova di governo, qui ad Atene l’ala
massimalista del partito potrebbe togliere il sorriso a Tsipras. C’è spazio anche per
qualche frecciatina al frenetico segretario restato in Italia. «Nel semestre europeo di
presidenza italiana, Renzi non ha aperto alcun discorso di verità sull’Eurozona — dice
Fassina —. Vediamo se ci riesce la Grecia con la vittoria di Alexis Tsipras».
I due hanno alberghi e agende diverse, ma incontri a ripetizione anche con esponenti di
partiti diversi dal rosso Sypras. Fassina ne approfitta per presentare il suo libro-manifesto
«Il lavoro prima di tutto» (Donzelli editore) nel Caffè Aitiou, giusto sotto il Partenone. «Il
programma di Syriza non è affatto estremista — spiega —. Anzi è l’unico realista perché
prende atto che l’agenda della Troika non funziona».
La vera domanda dal pubblico all’ex dipendente del Fondo Monetario Internazionale è
«riusciremo a convincere il mondo a condonare il nostro debito pubblico?». L’ex vice
ministro delle Finanze cerca di regalare le rassicurazioni che i compagni greci vorrebbero
sentire da lui. Parla della necessità di una «conferenza sul debito» e di una
«rinegoziazione». Ma chi è minoranza non può dare garanzie. Il massimo che gli esce è:
«Farò di tutto per convincere il Pd ad appoggiare le richieste di Syriza».
del 12/01/15, pag. 16
Liguria, nelle primarie caos vince la Paita
Battuto Cofferati, che protesta per gli stranieri ai seggi: “C’è materia per
la procura, non riconosco il risultato”
AVA ZUNINO
GENOVA .
La guerra delle primarie del Pd in Liguria per la scelta del candidato presidente della
Regione si chiude con una vittoria delle truppe renziane di Raffaella Paita, 40 anni,
assessore regionale uscente. Ha vinto contro Sergio Cofferati, l’europarlamentare
saldamente ancorato alla minoranza dem. Il distacco, quando i dati sono ancora ufficiosi, è
nell’ordine dei quattromila voti. Cofferati domina nel capoluogo, ma fuori Genova stravince
Paita.
«Ho vinto in 3 Province su 4 con uno scarto enorme — dice lei — adesso lavorerò per
l’unità del Pd e per affrontare al meglio la sfida delle regionali, saranno anni rock». La
partita non è finita, dice invece Sergio Cofferati, che chiede alla commissione di garanzia
di pronunciarsi sulle segnalazioni di irregolarità nel voto. Arriva nella sede del Pd che sono
quasi le undici di sera e annuncia: «Non considero affatto concluse queste primarie.
Prendo atto dei risultati ma non li riconosco, ci sono tantissime segnalazioni di irregolarità.
Chiedo che la commissione di garanzia esamini tutte le segnalazioni per la partecipazione
impropria del centrodestra e le ipotesi di voto eterodiretto di intere comunità di stranieri».
Parla anche di «ipotesi di possibile interesse da parte della procura». Dunque, dice, per lui
i risultati saranno tali quando la commissione di garanzia si sarà espressa.
La giornata del voto, con quasi cinquantamila elettori che sono andati nei 300 seggi sparsi
per la Liguria, città, riviere ed entroterra, è stata caratterizzata dalla tensione, la stessa che
ha dominato le ultime settimane della campagna elettorale. In uno dei seggi de La Spezia,
ad esempio, le operazioni di voto sono state interrotte per una decina di minuti: prima si è
presentata una donna cinese che voleva votare, pur non avendo i documenti di soggiorno
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in regola e poi da due cabine sono scattati i flash delle fotocamere dei cellulari per
immortalare la scheda.
La spaccatura tra i due contendenti è netta. Cofferati alle cinque del pomeriggio, tre ore
prima della chiusura dei seggi, denunciava già irregolarità di voto. Ai seggi delle primarie il
clima era torrido. E’ successo di tutto e le segnalazioni fioccano anche dal resto della
coalizione. Angelo Sanza, responsabile dell’ufficio di presidenza nazionale di Centro
Democratico, che sostiene il candidato outsider, l’ex Udc Massimiliano Tovo (poco più
del’1 per cento dei consensi), parla addirittura di stranieri, “file di cinesi e marocchini” che
ai seggi hanno votato e poi hanno chiesto «agli imbarazzati scrutatori, dove potevano
ritirare il compenso che era stato loro promesso». Anche Cofferati (peraltro
soprannominato da sempre “il cinese”) denuncia la presenza dei cinesi e di altri stranieri ai
seggi.
Intanto nel centrosinistra comincia al resa dei conti e Sel annuncia: «Non saremo mai nella
coalizione con Paita per le elezioni regionali».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 12/01/15, pag. 11
Stretta sui controlli alle frontiere
La misura divide i governi europei
Francia e Spagna vogliono rivedere Schengen, l’Italia è contro. Parte la
mediazione
ROMA Le linee guida sono stabilite, adesso toccherà all’Ue prendere una decisione. Ma
non sarà semplice. Perché la possibilità di sospendere o quantomeno rivedere l’accordo di
Schengen, ripristinando i controlli alle frontiere interne, divide i governi e rischia di
vanificare il clima di grande condivisione che si respira dopo l’attacco dei terroristi islamici
a Parigi. E invece per prevenire la minaccia di nuovi attacchi imminenti che i servizi segreti
di mezzo mondo continuano a ritenere «altamente probabile», è necessario «rispondere
con una sola voce», come viene ribadito al vertice dei ministri dell’Interno che si svolge
nella capitale francese. E come accadrà da oggi in Italia con questori e prefetti chiamati
dal capo della polizia Alessandro Pansa a riformulare la lista dei possibili obiettivi sulla
base delle indicazioni fornite.
Misure urgenti
Sono tre le «misure» ritenute urgenti nella lotta internazionale al fondamentalismo: oltre al
ripristino dei controlli al confini, c’è l’approvazione della direttiva Ue che obbliga le
compagnie aeree a fornire tutti i dati sui passeggeri e un coinvolgimento dei gestori della
Rete web per limitare la pubblicazione dei messaggi che incitano all’odio e soprattutto una
vera campagna di controinformazione come sollecitato dal ministro dell’Interno spagnolo
Jorge Fernández Díaz. Tutto questo passando per un Centro di analisi europeo.
Le liste passeggeri
L’accesso immediato al Pnr (Passenger name record) che l’Italia ha più volte sollecitato
durante il semestre europeo ma che non è stato varato per una resistenza trasversale
all’interno dei vari schieramenti politici legata alle possibili violazioni della privacy, sembra
adesso mettere tutti d’accordo. Anche Germania, Francia e Spagna — oltre a Stati Uniti,
Canada e Australia che già lo hanno reso obbligatorio — spingono perché si faccia in
fretta. E già la prossima settimana, in un nuovo vertice che si svolgerà a Bruxelles, si
potrebbe arrivare a un risultato concreto superando le perplessità sull’accesso ai dati
sensibili. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano lo dice chiaramente: «Il punto di equilibrio
tra privacy e sicurezza deve variare a seconda dei momenti storici che si attraversano. In
questo momento storico occorre un nuovo punto di equilibrio. Il limite di 3 anni per la
conservazione delle informazioni è un compromesso che può sbloccare la situazione».
Schierato anche il francese Bernard Cazeneuve che lo definisce «uno strumento
fondamentale» e la britannica Theresa May.
Controlli alle frontiere
Più complesso il nodo legato al trattato di Schengen con Francia e Spagna che spingono
per una revisione degli accordi, mentre l’Italia si oppone con Alfano «perché si tratta di una
grande conquista di libertà che non può essere regalata ai terroristi e dunque va bene
rafforzare il sistema di informazione, ma senza arretrare» e il titolare della Farnesina Paolo
Gentiloni che parla di «regalo ai terroristi se si decidesse di limitare la libera circolazione».
Ora comincia il lavoro di mediazione, su qualcosa certamente bisognerà cedere perché
Parigi e Madrid appaiono unite nel chiedere quantomeno controlli «a campione» e pare
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difficile che Roma possa sganciarsi dalla linea comune che sta prevalendo. E infatti ha
trovato ampio consenso la proposta di convocare riunioni ristrette «tecniche» e politiche in
sede europea per esaminare le informazioni prima che avvengano gli eventi perché,
spiega Alfano, «occorre scambiarsi opinioni, notizie, rappresentarsi il rischio reale che
ognuno avverte nel proprio Paese».
Fiorenza Sarzanini
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SOCIETA’
del 2/01/15, pag. 13
Welfare
Europa «disunita» anche sulla povertà
Italia in coda con Spagna, Grecia e Portogallo per quota di popolazione
indigente
Il divario economico tra Nord e Sud e tra settori di popolazione non è una caratteristica
solo italiana, ma investe l’intera Europa. In Italia, tuttavia, l’allarme disuguaglianze e
indigenza è particolarmente elevato.
I fattori critici
Nel nostro Paese infatti – come ha osservato Luca Ricolfi nell’editoriale sul Sole 24 Ore
del 2 gennaio scorso - oggi esiste «una terza società, la società degli esclusi», che negli
anni della crisi è cresciuta di dimensioni, fino a superare quota dieci milioni di persone tra
disoccupati, occupati in nero e inattivi ma disponibili a un impiego. Una schiera che più o
meno coincide con l’ultima statistica Istat su quanti vivono in condizioni di povertà relativa
(il 16,6% della popolazione sotto la soglia mensile di 972 euro di spese per nuclei con due
componenti).
E che non accenna a diminuire, visto che nel novembre scorso il tasso di disoccupazione
ha raggiunto il record del 13,4% (+0,9% rispetto a 12 mesi prima), sfiorando il 44% tra i
giovani, quando invece a fine 2014 la Germania è riuscita a mettere a segno il minimo
storico del 6,5 per cento. Ulteriore elemento che rende ancor più preoccupante lo scenario
italiano: il nostro Paese - clandestini ed emergenza sbarchi a parte - è il quarto in Europa
(dopo Germania, Spagna e Regno Unito) per presenza di immigrati regolari (sono circa
4,4 milioni, il 7,4% della popolazione residente totale), ma si tratta di soggetti
prevalentemente con titoli di studio bassi e con scarsa qualificazione professionale.
Una recente ricerca realizzata dalla Fondazione Moressa su dati Eurostat, che mette a
confronto le differenze di reddito e i tassi di povertà in Italia e in Europa, conferma
ulteriormente la posizione critica in cui si trova il nostro Paese e spiega in parte la perdita
di appeal dell’Italia (basti pensare che nel 2013 sono aumentati i trasferimenti all’estero,+
21% tra gli italiani e +14% tra gli stranieri, mentre sono calati del 13% gli ingressi).
I flussi
Se le destinazioni più gettonate sono Regno Unito e Germania, la principale spinta a
questi flussi in uscita è la possibilità di ottenere un reddito superiore. In questi due Paesi,
infatti, l’importo medio per uno straniero può oltrepassare i 20mila euro, superando
addirittura quanto possono guadagnare un italiano o uno spagnolo nei loro Paesi
(rispettivamente 18.800 e 16.700 euro, si veda la tabella).
Ma non è tutto. Se si osserva il divario tra i redditi medi percepiti dai nativi e quelli cui
possono aspirare gli stranieri, l’Italia si trova al 22° posto nella classifica Ue 28 elaborata
dalla Fondazione Moressa: circa 6mila euro di differenza sia nel nostro Paese sia in
Spagna (al 24° posto) rispetto ai 2mila euro della Germania (13°) e agli appena 332 nel
Regno Unito (settimo).
Certo, anche in altre aree del Nord come Svezia, Francia o Austria si rileva una forte
differenza di reddito tra autoctoni e immigrati, ma va osservato che nel “gruppo Nord” gli
importi medi degli stranieri sono molto più alti di quelli percepiti da un immigrato nel
“gruppo Sud” (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia). Inoltre, in questi anni di crisi (dal 2008
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al 2013), in Italia e in Spagna i redditi degli immigrati - impegnati in gran parte in settori
come l’edilizia o i servizi domestici, poco remunerativi e più colpiti dalla congiuntura
negativa - hanno subìto una contrazione del 10% circa; in Svezia, Francia e Austria sono
invece aumentati con percentuali a doppia cifra. E poi nell’appeal di un Paese contano
anche le chance lavorative: il tasso di occupazione degli autoctoni in Italia e in Spagna si
aggira sul 55% (quasi dieci punti in meno della media Ue 28), mentre per tedeschi e
inglesi supera il 70 per cento.
L’indigenza
Tutti fattori che concorrono a posizionare il nostro Paese in una situazione allarmante sul
fronte dell’esclusione sociale. Secondo la ricerca della Fondazione Moressa, in Italia oltre
il 26% degli italiani e il 43% degli stranieri si trova a “rischio di povertà” (secondo
l’indicatore adottato nell’ambito della strategia Europa 2020, che deriva dalla
combinazione del rischio di poverta, della grave deprivazione materiale e della bassa
intensità di lavoro: in totale, oltre 16 milioni di persone). Valori che pongono l’Italia agli
ultimi posti nella Ue assieme alla Grecia (unico Paese Ue privo di una misura nazionale
contro la povertà, come evidenziato da Cristiano Gori sul Sole 24 Ore del 4 gennaio),
Spagna e Portogallo. «A distinguersi positivamente sono, anche in questo caso, Regno
Unito e Germania, con valori inferiori alla media Ue - osserva Stefano Solari, direttore
scientifico della Fondazione Leone Moressa -. In conclusione: l’Europa è profondamente
divisa tra Nord e Sud sul versante dei redditi, delle chance occupazionali, del trattamento
economico riservato a nativi e stranieri, della quota di popolazione da considerare a rischio
povertà». Una porzione di residenti che - in Italia -, oltre a non aver trovato rappresentanza
né risposte neppure nelle ultime manovre economiche, va a scalfire ulteriormente il grado
di attrattività del Paese.
del 12/10/15, pag. 13
L’indice. Gli effetti dell’austerity
Giustizia sociale in continuo peggioramento
C’è un ulteriore deficit, che purtroppo colpisce tutti i 28 Paesi, che si aggira per l’Unione
europea, frutto di questi sette lunghi e venefici anni di crisi e deflazione. È legato alla
giustizia sociale, il cui trend generale (dal 2007 al 2013) è in calo, fiaccato dalle recenti
misure di austerità e dalle riforme strutturali adottate per la stabilizzazione economica e
finanziaria, con conseguente riduzione in molti Paesi della capacità di investire in settori
strategici per la crescita, per esempio nell’istruzione e nella ricerca. Non solo: lo stesso
obiettivo, fissato nell’ambito della strategia decennale “Europe 2020” di ridurre entro
quell’anno di 20 milioni le persone in condizione di povertà ed esclusione sociale sembra
difficile da centrare.
A fotografare lo stato di salute (non proprio di ferro) della giustizia sociale in Europa è un
recente rapporto della Fondazione Bertelsmann Stiftung, che ha elaborato il Social Justice
Index (Indice di giustizia sociale), che misura sei differenti dimensioni: prevenzione della
povertà, equità dell’istruzione, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale e non
discriminazione, salut e e giustizia intergenerazionale.
A parte il fatto che gli Stati si muovono in ordine sparso, le migliori performance vengono
realizzate dai Paesi nordici (soprattutto nella prevenzione della povertà, nell’accesso al
mercato del lavoro, nella coesione sociale e nella non discriminazione), anche se non
mancano punti di debolezza. Segue un secondo gruppo di Paesi dell’Europa centrale che
ottiene un punteggio medio, mentre al terzo posto si collocano i Paesi dell’Europa
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meridionale (tra cui l’Italia), caratterizzati da risultati in peggioramento e da evidenti
carenze in tutte le voci dell’indice. Disequilibri sociali che, se non sanati o attenuati,
rischiano di mettere a repentaglio la coesione dell’Unione europea.
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ECONOMIA E LAVORO
Da Repubblica – Affari e Finanza del 12/01/15, pag. 6
Personaggio
Yanis Varoufakis l’economista di Syriza che
vuole cambiare la politica europea
DOCENTE IN TEXAS DOPO UNA CARRIERA IN QUATTRO PAESI, È
L’AUTORE DEL PROGRAMMA CHE SPAVENTA LA BCE E LA
CANCELLERIA TEDESCA: CHIEDE DILAZIONE DEI PAGAMENTI E
CONGELAMENTO DEGLI INTERESSI MA SOPRATTUTTO UN CAMBIO
D’IMPOSTAZIONE
Eugenio Occorsio
«Ho 54 anni, e non ne posso più: sono cresciuto con la dittatura dei colonnelli e mi ritrovo
sotto la tirannia delle banche e degli economisti sedicenti liberisti». Ma forse Yanis
Varoufakis, che si presenta con quest’amara autoironia, sta per smetterla di girare il
mondo alla ricerca di una nazione veramente libera: se tutto andrà secondo le previsioni,
fra due settimane sarà ministro dell’Economia del suo Paese, la Grecia. Gliel’ha promesso
Alexis Tsipras, capo di Syriza e tutt’ora accreditato di un 3% di vantaggio su Nuova
Democrazia, il partito del premier uscente Antonis Samaras. Che è, neanche a dirlo, il più
grande dei bugiardi secondo Varoufakis: «Ha messo in giro questa voce che la Grecia sia
in ripresa, solo perché ha chiuso un trimestre (il terzo del 2014, ndr) con un aumento del
Pil dello 0,7%. Ma a parte che non significa niente perché siamo in deflazione e i prezzi
scendono dell’1,9% e quindi la somma algebrica sarebbe tutta un’altra, di quale ripresa
parla? Ma gira, Samaras, per le strade di Atene? Le vede le file dei disoccupati, di chi va a
mangiare alla Caritas e fruga nei cassonetti? Ma si è accorto che per dare retta all’Europa
che ci impone di privatizzare tutto il possibile a marce forzate abbiamo svenduto beni
inestimabili a una serie di lestofanti? Guardi, mi creda, la Grecia è ancora nel profondo di
una spaventosa depressione che dura da sette anni ». Il rimedio? Ovviamente «cambiare
governo». Sbaglierebbe però chi definisse Varoufakis solo un massimalista di sinistra, uno
che usa questi toni perché è in campagna elettorale. In realtà è più realista, dialogante e
metodico di quanto si potrebbe pensare. E di quanto indicherebbe il suo aspetto da duro,
con quella faccia da pugile a riposo che ama ripetere “When the going gets tough, the
tough gets going”, che non sarebbe altro che “quando il gioco si fa duro...”. Invece c’è
proprio lui, il guru economico di Syriza, dietro il cambiamento forse decisivo di
atteggiamento internazionale di Tsipras. E’ avvenuto un paio di settimane fa. Fino a quel
momento il leader di Syriza aveva costruito il suo successo politico su uno slogan tanto
semplice quanto irresistibile: “Basta con i sacrifici, la Grecia fuori dall’euro”. Poi,
all’improvviso questa minaccia è sparita e Tsipras ha cominciato a parlare di
comprehensive agreement, un accordo complessivo che risolva la situazione senza
drammi. Anche perché dai sondaggi pre-elettorali si è scoperto che il 74% dei greci
nell’euro, malgrado tutto quello che gli costa, ci vuole restare. I due protagonisti di questa
battaglia sembrano essersi divisi perfettamente i compiti: Tsipras è l’oratore, il demagogo,
il catturapopolo, Varoufakis è l’eminenza grigia e anche il tecnico di profonda esperienza
che suggerisce le formule giuste. «L’euro è stato costruito malissimo, e manderei a
processo chi ne ha formulato le technicalities », dice Varoufakis. «Per la Grecia, ma anche
per tanti altri a partire dal-l’Italia, sarebbe stato molto meglio starne alla larga fin dall’inizio.
È crollato miseramente sotto i colpi della crisi finanziaria americana del 2008 e non si è più
ripreso perché le cure sono state le più sbagliate possibile. Ma ormai a bordo ci siamo e
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indietro non si torna. È come una nave che in mezzo all’Atlantico comincia a imbarcare
acqua. Vogliamo metterci a fare il processo agli ingegneri che l’hanno costruita mentre
stiamo per affondare? L’unica cosa da fare è mettercela tutta e arrivare sull’altra sponda».
Ed è su questo “mettercela tutta” che Varoufakis ha concepito la sua ricetta, che è
diventata la piattaforma economica di Syriza ma prima aveva riassunto in un libro intitolato
“Una modesta proposta per risolvere la crisi dell’euro», scritto a quattro mani con James
Galbraith (figlio del grande John Kenneth Galbraith che era stato l’economista di
Kennedy), suo collega alla Lindon Johnson University di Austin, Texas, dove attualmente
insegna economia politica dopo un giro del mondo che l’ha portato dall’Australia
all’Inghilterra, e infine in America. La proposta “complessiva” comprende un ampio raggio
di misure interne di razionalizzazione e riduzione della spesa, ma il tutto si basa
sull’assunto che pretendere che la Grecia, così come forse altri debitori in difficoltà, sia
costretto a pagare nei tempi previsti fino all’ultimo euro di debito, rappresenta un supplizio
irragionevole. «È solo una tortura inutile, condotta oltretutto a carico di chi, per quanto
abbia buona volontà, non ce la farà mai a rientrare nei termini previsti. Aggrava la
situazione in una spirale di dolore infinita». Varoufakis aveva coniato in un’intervista
proprio a Repubblica che ha anche inserito nel suo sito, il termine “fiscal waterboarding”
come la peggiore delle torture della Cia in versione finanziaria, «ma forse era un po’
forte», ammette ora. Sta di fatto che se Syriza vincerà, chiederà «entro i primi cento giorni
di governo», assicura Varoufakis, una completa rinegoziazione del suo debito estero,
detenuto ormai in massima parte (81%) dai tre membri della Troika. Tassi molto più
agevolati per tutte e tre le fattispecie di creditori: Bce, Fmi, Paesi europei, Fondo salvastati
(per la verità sono stati già rinegoziati più volte e la media è scesa dal 3,5 all’1,5%). E
scadenze dilazionate «senza un termine prefissato, almeno la parte dovuta alla Bce:
cominceremo a restituire quando si sarà ripristinata una crescita adeguata». Ma quante
possibilità, ammesso che un capo di governo come la Merkel porti questa proposta
all’approvazione del Bundestag, quante possibilità esistono perché passi? «Non lo so, ma
noi non cederemo. È la nostra linea rossa, non arretreremo. E poi, almeno per la parte di
debito in mano alla Bce, ci è dovuto». E perché? «Perché quando nel 2011 ci fu la
ristrutturazione del debito greco, le banche avevano già pensato bene di liberarsi dei titoli
cedendoli alla Bce. La quale era esente dall’haircute così nessuno ha perso niente. Ci
sono rimasti impigliati solo i debitori privati. È stata un’ingiustizia e una manifestazione di
arroganza da parte del sistema finanziario alla quale ora c’è l’occasione di porre rimedio ».
Ma quello che fa più infuriare Varoufakis, economista di pura marca keynesiana, è
l’intromissione «in una campagna elettorale democratica». Due sono i colpevoli: la Merkel,
naturalmente, e Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione reo di aver detto di
«fare attenzione » alle idee di Syriza in economia. «Juncker- accusa Varoufakis - dimostra
un profondo disprezzo per la democrazia e un atteggiamento neocoloniale che si fa beffa
dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri». In teoria,
aggiunge l’economista ateniese, «dovrebbe essere la Commissione europea ad essere
tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte ai cittadini degli Stati membri, e non i cittadini
ad essere tenuti a rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per
definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito sull’esito di
un’elezione, figurarsi se può indicare il candidato giusto e quello sbagliato ». Il problema
resta: i mercati sono ora nella fase in cui pensano che, d’accordo, vinca il migliore ad
Atene. Ma se arrivano Tsipras e Varoufakis con le loro richieste e queste non vengono
accolte, cosa succede? L’economista di Syriza Yanis Varoufakis visto da Dariush
Radpour; a fianco, le scadenze dei bond greci compresi quelli trentennali dell’ultima
tranche dei prestiti della Troika in via di erogazione
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