Le varianti della «Cleopatra» di Giovanni Delfino. In La letteratura

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Le varianti della «Cleopatra» di Giovanni Delfino. In La letteratura
LAURA DROGHEO
Le varianti della «Cleopatra» di Giovanni Delfino.
In
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena,
Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di
G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 978-88-907905-2-2
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397
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La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
LAURA DROGHEO
Le varianti della «Cleopatra» di Giovanni Delfino.
La Cleopatra è, tra le tragedie di Delfino, la più nota, la più apprezzata, e nello stesso tempo quella che ha avuto la
storia editoriale più travagliata. Le quattro edizioni settecentesche riportano almeno tre versioni dell’opera: la prima impresa,
curata da Scipione Maffei, estrae dal corpus drammatico proprio la Cleopatra e la adatta per inserirla nella raccolta
Teatro italiano, Verona, 1725; la seconda, un’edizione realizzata in Olanda, offre una versione molto inesatta, piena di
errori, Utrecht, 1730; la terza è l’edizione ufficiale, curata dal nipote dell’autore, ma nel finale sembra essere stata espunta
una scena, Padova, 1733; infine l’ultima, curata da uno stampatore romano, è realizzata allo scopo di divulgare le tragedie,
credute finora solo manoscritte, e sembra, tra tutte, la più esatta e completa, Roma, 1733. Finora, lo studio delle fonti
manoscritte non avrebbe potuto chiarire i dubbi, poichè l’unico documento disponibile era il ms. 220 della biblioteca
Arcivescovile di Udine, sostanzialmente identico alla versione ufficiale stampata nel 1733. Impossibile quindi capire da dove
provenissero le scene presenti nelle altre edizioni, di cui rimanevano tracce anche nella versione ridotta da Maffei.
Recentemente, il riordino dell’inventario della biblioteca Bertoliniana di Udine ha riportato alla luce un manoscritto della
Cleopatra in molti luoghi diverso dal già noto ms. 220. In questo nuovo testo sono presenti correzioni di mano di Delfino,
nonchè parecchie scene che non compaiono nella versione ufficiale. Si è ipotizzato allora che i motivi dell’esistenza di tante
varianti potrebbero risiedere non, come nel caso della Cleopatra maffeiana, nell’intervento esterno dell’editore o del curatore,
bensì nella volontà dell’autore, cui si può tentare di risalire a partire dal raffronto dei due manoscritti pervenuti. Se lo studio
del nuovo documento fuga ogni dubbio circa l’autenticità di alcuni passi e mostra quale fosse la struttura iniziale dell’opera,
l’analisi congetturale della decostruzione e ricostruzione della tragedia ipotizza come l’autore abbia verosimilmente dovuto
confrontarsi con una doppia serie di parametri: da un lato, l’influenza del sostrato culturale umanistico della tragedia classica
di tipo senecano, dall’altro, la pressione esercitata dalle poetiche teatrali della trattatistica del periodo. In teoria, gli effetti di
queste forze avrebbero potuto rilasciare le loro tracce nelle diverse edizioni, che potrebbero così essere la prova dell’esistenza di
diversi manoscritti oggi perduti.
Il corpus drammatico di Giovanni Delfino è costituito da quattro tragedie, di cui la
Cleopatra è la terza nata. La precedono il Medoro, rielaborazione in tragedia di una favola
pastorale e la Lucrezia, tragedia di argomento romano; termina la serie il Creso, di fine
lieto. Scritta tra la primavera e l’autunno del 1662, la Cleopatra impiega circa otto mesi
per vedere la luce, un tempo relativamente lungo se paragonato ai due mesi che sono
serviti per comporre la precedente Lucrezia.
Contrario a pubblicare le sue opere, Delfino ne cura una diffusione controllata
attraverso la compilazione di copie manoscritte, che personalmente invia a nobili e
autorevoli corrispondenti. Le tragedie saranno diffuse solo in tale versione per più di
mezzo secolo, e le continue ricopiature costituiranno una cospicua fonte di corruzione
dei testi. A partire dagli anni venti del Settecento la Cleopatra inizia ad essere stampata,
sia singolarmente che insieme agli altri drammi; seguono diverse edizioni nell’Ottocento
e nel Novecento, la più recente delle quali è quella curata nel 1994 da Mauro Sarnelli.
Quattro le edizioni settecentesche, che citiamo qui sinteticamente, in ordine
cronologico, con l’indicazione dello stampatore e del luogo di stampa: la prima è del
1725, presso Vallarsi, a Verona; poi 1730, presso Croon, a Utrecht; 1733, presso
Comino, a Padova; ancora 1733, presso Salvioni, a Roma. Le quattro imprese editoriali
hanno caratteristiche profondamente diverse, ma ciò che preme sottolineare ora è che
ognuna di queste edizioni riporta una versione in qualche modo dissimile della tragedia,
ciò che non accade invece se si confrontano tra loro i testi degli altri drammi, dove le
differenze sono molto meno significative. Come mai sono così diverse le sorti della
Cleopatra? Una prima serie di risposte scaturisce dal dato comune che caratterizza le
varianti, cioè dall’essere diverse nella zona del finale, dove la Scena ultima appare e
scompare insieme alla presenza ultraterrena che ne è protagonista. Si profila dunque
una serie di ipotesi, inerenti da un lato alla discussa problematica della presenza in
teatro delle entità soprannaturali, deità e simili, argomento sul quale, come si sa, lungo il
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Cinquecento e il Seicento una nutrita schiera di trattatisti scrive e medita, dall’altro
all’altrettanto ampiamente discussa struttura retorica del finale, che nelle alternative
proposte da Delfino reca contenuti diversi e con diversi esiti, procurando al lettorespettatore in un caso pietà, nell’altro terrore. Evidentemente il dibattito teorico investe la
Cleopatra proprio per la sua peculiare architettura, che dovrà essere analizzata in
dettaglio. Ma ora, ai fini della nostra analisi, dovremo tenere presente solo che nel finale
di tre edizioni a stampa su quattro è presente la cosiddetta Scena ultima, in cui parla
l’Ombra di Antonio, venuto dall’Ade per promettere ad Augusto che lo perseguiterà in
eterno.
Se in passato le copie manoscritte delle tragedie che circolavano in Italia erano
molte, oggi ne rimangono ben poche, pochissime quelle con correzioni autografe. La
maggior parte degli scritti autografi di Delfino è conservata presso la biblioteca
Arcivescovile di Udine, dato che l’autore è patriarca di Aquileia dal 1657 al 1699, anno
in cui egli muore. A metà del Settecento, dopo la soppressione del patriarcato, la diocesi
di Udine viene trasformata in arcidiocesi, che nel frattempo è stata munita dal nipote di
Delfino, Dionisio, anche lui patriarca, di una vasta biblioteca, oggi denominata
biblioteca Arcivescovile. Qui è conservata un’unica copia della Cleopatra, il testo
utilizzato da Dionisio per la stampa presso Comino, a Verona, nel 1733. Il manoscritto
della Cleopatra è rilegato insieme a quelli delle altre tre tragedie e porta il numero 220. É
una copia apografa, senza correzioni di mano dell’autore. Dallo studio di tale unico
manoscritto non si comprende da dove abbia origine la Scena ultima, visto che questa
risulta assente nel ms. 220. Nessuna istruzione in merito ci viene fornita direttamente o
indirettamente dall’autore, nè attraverso la corrispondenza con l’amico e poeta Ciro di
Pers, nè scorrendo i paradigmi teorici che Delfino espone nel suo Dialogo sopra le Tragedie.
Ciò considerato, con tali dati a disposizione sarebbe lecito persino mettere in dubbio che
Delfino abbia scritto quei versi, visto che la Scena ultima nel ms. 220 non c’è.
Ora, nuove ipotesi possono scaturire dall’esame di altri due manoscritti,
recentemente pervenuti. Questi sono conservati rispettivamente nella biblioteca
Bartoliniana di Udine e nella biblioteca Nazionale di Firenze. Il primo è un documento
recentemente riemerso grazie al riordino dell’inventario della biblioteca, il manoscritto
27. Il secondo è un acquisto, relativamente recente anch’esso, effettuato presso un
antiquario da parte della biblioteca di Firenze, contrassegnato dal numero 1037.
Ulteriori notizie potranno poi essere desunte dall’esame di altri quattro manoscritti, due
dei quali conservati a Firenze, uno a Roma e uno a Cremona, utili esempi di quali
potessero essere le copie diffuse nelle librerie e nelle biblioteche dell’epoca. Ognuno di
questi documenti risponde a una serie di interrogativi, e per questo motivo ciascuno di
essi acquisterà uno specifico valore nella nostra indagine.
Novità importanti subito emergono dall’esame del primo manoscritto qui citato, il
documento reperito nella biblioteca Bartoliniana, il ms. 27, una versione apografa di
una redazione iniziale della Cleopatra, dalla quale prenderanno le distanze tutti i
manoscritti successivi. Ma, ciò premesso, in tale manoscritto sono presenti le risposte ad
alcune domande poste sopra, e possiamo perciò ora affermare che la discussa Scena
ultima è stata sicuramente scritta da Delfino; siamo in grado di confermare l’ipotesi che
la Cleopatra sia stata sottoposta a più di un rimpasto scenico; possiamo avvalorare la tesi
che le varianti coinvolgano sempre le apparizioni ultraterrene; infine, è confortata
l’ipotesi che nella maggioranza dei casi le correzioni apportate vengano poi mantenute
nelle copie successive, permettendoci così di ordinare in sequenza temporale i
documenti. D’altro canto, se il ms. Bartoliniano 27 ha le potenzialità di fugare alcuni
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dubbi e se il suo ritrovamento rende conto di alcune varianti, per spiegarne altre è
necessario fare riferimento al manoscritto fiorentino 1037. Tale prezioso documento
potrebbe essere l’esito di tante variazioni, l’ultimo anello della catena, la Cleopatra come
doveva essere, se solo trovassero conferma definitiva quelle che sono oggi solo plausibili
ipotesi. Pensiamo infatti che il manoscritto potrebbe essere una copia curata
personalmente dall’autore per essere inviata in dono a un personaggio dell’ambiente
culturale fiorentino, l’identità del quale potrebbe coincidere con quella di Leopoldo de’
Medici, oppure Orazio Rucellai, o Carlo Roberto Dati. In attesa che ulteriori studi
confermino le nostre ipotesi, pensiamo che il volumetto sia stato preparato a Udine.
Infatti, se l’aspetto familiare del ductus del copista potrebbe essere frutto solo di una
somiglianza con quello di altri manoscritti delfiniani ivi conservati, con i quali non è
stato ancora esaurientemente confrontato, diverso è il caso delle brevi note di altra
mano, dal tratto più pesante e più corsivo, che intervengono soprattutto a correggere
errori del copista, e che a un primo esame sembrano essere di pugno di Delfino. In
questa copia manca la famosa Scena ultima, e seppure alla fine del nostro percorso non ci
sarà possibile ricostruire fisicamente l’iter compositivo attraverso copie che rechino tutte
le variazioni di mano di Delfino, potremo però prendere atto di quale potrebbe essere
stata la copia manoscritta della Cleopatra che era in circolazione a fine Seicento e che il
suo autore approvava, e quindi quale delle plurime versioni fosse quella definitiva, e di
qui passare a ricostruirne il travaglio compositivo, per poterne poi interpretare gli esiti
formali e contenutistici.
Non meno importanti sono gli ultimi quattro documenti menzionati, cioè i due
manoscritti fiorentini, il manoscritto romano e quello cremonese, i quali rendono conto
invece di quale sia stato il modello preso in considerazione da tre edizioni a stampa su
quattro, la cui esistenza non avrebbe potuto altrimenti essere esaurientemente
giustificata: in tutti, stampe e manoscritti, è presente la Scena ultima, a volte indicata come
duodecima.
Anche se tutte le versioni successive della Cleopatra prenderanno le distanze dalla
versione del manoscritto 27 della biblioteca Bartoliniana, questo documento è di grande
importanza, e non solo per confermare la paternità della Scena ultima: come anticipato,
sono presenti segni di decostruzione e ricostruzione molto significativi. E la Scena ultima
non si chiama affatto così, anche se poi in realtà chiude la tragedia. Il ms. 27 è un
volumetto rilegato in cartone e costituito da 166 carte; contiene solo due tragedie, la
Cleopatra e il Medoro. Alla c. 102r c’è un nome a tutta pagina, in una calligrafia
rotondeggiante, Elisabetta Dolfin: la nipote di Delfino (figlia del fratello minore di
Giovanni, Andrea) la quale dovrebbe avere ora all’incirca quattordici anni, forse la
proprietaria del volume. L’altra tragedia qui rilegata, il Medoro, è molto simile alla
versione padovana di Comino, se non nel Coro che chiude il secondo atto; nelle parti
restanti la copia è abbastanza conforme alla versione stampata. Il manoscritto risale
perciò a una data sicuramente posteriore al 1660, poiché a quell’altezza l’opera è già
stata rielaborata da favola pastorale in tragedia. Mentre il Medoro è senza titolo, la
Cleopatra è preceduta da una lunga descrizione, di mano diversa da quella del copista:
Cleopatra. Tragedia del cardinal Giovanni Delfino in parecchi luoghi diversa dalla stampata. Nel
sottotitolo, una importante precisazione: Le correzioni che in più passi s'incontrano son di mano
dell'Autore. Artefice del titolo è probabilmente Domenico Ongaro (1713-1796), l’erudito
prefetto del Seminario di Aquileia che cura e custodisce il patrimonio librario della
biblioteca istituita nel 1711 da Dionisio Delfino. Sappiamo quindi che la copia è un
apografo, ma che la penna che corregge è quella di Delfino. Se non avessimo le versioni
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successive, già di per sè tale dato farebbe pensare a una delle prime ricopiature in bella
di una stesura iniziale dell’opera: le correzioni sono infatti abbastanza numerose. Nella
prassi compositiva dell’autore, della quale è possibile individuare alcuni tratti ricorrenti
attraverso lo studio dei manoscritti contenenti le prose e le liriche, si rintracciano fasi
successive ordinate in una serie precisa. La prima di queste è costituita dalla stesura
della minuta, che viene riletta e corretta, anche in più riprese. Parole singole o intere
righe possono essere cancellate e sostituite con aggiunte poste lateralmente, oppure negli
spazi interlineari. Quando la variazione risulta essere particolarmente consistente e
riguarda intere strofe o interi periodi, Delfino inserisce una carta aggiuntiva, dove scrive
la nuova versione accanto alla strofa cancellata. Tale brogliaccio viene poi dato a
copiare in bella. Una volta ultimata, la bella copia risultante viene nuovamente letta da
Delfino e corretta, per eliminare eventuali errori del copista e nel contempo inserire
modifiche e aggiunte. Ogni correzione altera il testo e ne stabilisce la fisionomia futura,
come testimonierà l’analisi testuale. Ora, un’alta percentuale di correzioni di mano
dell’autore sembra deporre per una copia vicina, dal punto di vista temporale, alla
composizione dell’opera. Se dunque la Cleopatra nella versione del ms. 220 della
biblioteca Arcivescovile ha l’aspetto di una bella copia “definitiva”, poiché non riporta
alcuna correzione di mano dell’autore, quella trascritta nel ms. 27 è invece con tutta
probabilità una delle prime belle copie, che Delfino legge e ancora corregge. Ma quale
certezza abbiamo che il ms. 220 sia stato compilato con la supervisione di Delfino?
nessuna; l’unico garante della sua conformità alla volontà dell’autore è il nipote
Dionisio, che ne utilizza il testo per una stampa che egli dichiara essere ufficiale. Ma se
poniamo a confronto il ms. 27 e il ms. 220 troviamo una serie di differenze che
acquistano particolare rilievo se poste a loro volta a confronto con il manoscritto
conservato a Firenze, il 1037. Sono molte le affinità tra questi due ultimi testi, una per
tutte il fatto che sia il 220 che il 1037 sono privi della Scena ultima. Ma una serie di
riscontri minuti, che rileva la presenza di piccole espunzioni praticate sul ms. 220
rispetto al contenuto sia del ms. 27 che del ms. 1037 sembra confermare una ipotesi
finora mai apertamente formulata in mancanza di prove, cioè che Dionisio abbia
apportato qualche piccola modifica in senso censorio, nel segno di sue personali e bene
intenzionate convinzioni. Passiamo ora a dare qualche breve cenno riguardo la struttura
originaria del finale. La tragedia contenuta nel ms. 27 è articolata in cinque atti, come
tutte le versioni sin qui descritte. Il soprannaturale è situato nella prima scena del primo
atto, in cui Megera e l’Ombra di Antonio prendono accordi per portare Cleopatra alla
morte e strapparla così ad Augusto, che non deve macchiare il maritale letto di Antonio.
Tutti i manoscritti, nonchè tutte le versioni stampate, mantengono tale disposizione. Nel
ms. 27 però Megera riappare nel quinto atto, e nella prima scena annuncia che ora agirà,
penetrando nell’animo di Cleopatra e inducendola a sospettare e ad agire accecata dal
furore.
La scena non comparirà mai più in nessun altro manoscritto, ma una parte dei versi
che la costituiscono entrerà a far parte della replica di Megera all’Ombra di Antonio
nella prima scena primo atto, che nel ms. 27, per questo motivo, risulta più breve che
non nelle altre versioni. Significativo per noi è che della lunga tirata Delfino selezioni
solo alcuni versi, e scelga di far confluire nel discorso di Megera solo quelli che
contengono i riferimenti agli “infuriati” della mitologia classica, la maggior parte dei
quali non a caso coincide con i protagonisti delle tragedie di Seneca. Non è arduo
riconoscere in tale scelta l’aderenza a un ambito culturale che negli ideali classici
rintraccia gli esempi di virtù etica e politica ai quali intende conformarsi, un sentire che
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informa le variazioni del finale, dove in chiusura della decima scena, dopo il racconto
della morte di Cleopatra, appare al disperato Augusto, quasi evocata dalla passione
disumana con cui egli piange l’amata, l’Ombra del defunto Antonio. Augusto sarà
dannato, per sempre, e la sua pena per aver desiderato con tanta furia una donna che
non poteva avere non finirà mai. Manca tutto il commiato di Cleopatra morente e il
Coro finale, la tragedia finisce con la crudele minaccia dell’ombra di Antonio:
Io m’unirò con l’ombre
Dei generosi Bruti,
Che ver te son ripiene
D’odio feroce, e che a me dier la pace
Quando a Lete i discesi a te nemico:
E rapirò alle furie
Per agitarti io stesso, e serpi, e faci.
Un finale irregolare, terrificante, che non rientra certo nei canoni classici che
informano l’ambiente culturale entro cui muove i passi Delfino, che prende le distanze
dagli estremismi di alcune poetiche del periodo sostenuto da Ciro di Pers nelle
immediate vicinanze e poi da Sforza Pallavicino, Fulvio Testi e Carlo De’ Dottori
appena poco più da lontano. L’ambiente fiorentino della Crusca colma il vuoto lasciato
da Ciro di Pers, che muore nel 1663, e a partire dal 1664 circa, una fitta corrispondenza
mette in collegamento Delfino, Carlo Dati e Oreste Rucellai nonchè Leopoldo de’
Medici, che amerà in modo particolare proprio la Cleopatra, perchè più piena di dottrine e
sentenze, come scrive a Paolo del Sera il 20 giugno del 1665. Ma già nel febbraio del 1664
Leopoldo aveva così lodato le opere di Delfino:
In questo genere di tragedie non credo che altri lo abbia agguagliato, così nel mantenere
il costume, nella molteplicità delle erudizioni, nella sodezza e varietà delle dottrine [...], e
infine con una osservanza intera di ogni buona regola.
Leopoldo ama tutte le tragedie ma predilige questa proprio per la sua classica
regolarità; una regolarità che il ms. 27 deve ancora guadagnare attraverso escissioni e
ricostruzioni, il cui risultato definitivo potrebbe verosimilmente essere il ms. fiorentino
1037, allestito in una nuova veste dall’autore in questa occasione, proprio in vista di tale
doverosa riforma: chiude ora la tragedia un breve Coro, pura sentenza, nel segno del più
classico decoro.
Bibliografia
Testi analizzati:
S. MAFFEI, Teatro italiano o sia Scelta di tragedie per uso della scena. Tomo terzo, ed ultimo. In cui si
contengono il Solimano del Bonarelli, l'Alcippo del Cebà, l'Aristodemo del Dottori, la Cleopatra del
cardinal Delfino non piu stampata, in Verona, Jacopo Vallarsi, 1725; Parnaso del'em.mo cardinal
Delfino. Dedicato al ill.mo & eccel.mo sign.re il sign.re Guglielmo milord e marchese di Blandford,
Parte prima, In Utreche, appresso Guglielmo Croon, 1730; Le tragedie di Giovanni Delfino
senatore veneziano, poi patriarca d’Aquileja, e cardinale di Santa Chiesa, cioè La Cleopatra, Il Creso,
La Lucrezia, Il Medoro, ora la prima volta alla sua vera lezione ridotte; e illustrate col Dialogo
apologetico dell’autore, non più stampato, In Padova, presso Giuseppe Comino, 1733; Tragedie
del Cardinale Giovanni Delfino senatore veneziano, poi Patriarca d’Aquileia con dialogo sopra di esse.
Dedicato a mons. Gio. Luca Niccolini. In Roma, Archiginnasio della Sapienza, appresso
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Giovanni Maria Salvioni, 1733; Ms. 220, Biblioteca Arcivescovile, Udine; Ms. 27,
Biblioteca Bartoliniana, Udine; Ms. N. A. 1037, Biblioteca Nazionale di Firenze; Ms.
Sess. 386, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele, Roma; Ms. II/VII/60,
Biblioteca Nazionale Firenze; Ms. II/VI/104, Biblioteca Nazionale Firenze; ms. 140,
Biblioteca Statale di Cremona.
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