Messico: le scarpe - Mondadori Education
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Messico: le scarpe - Mondadori Education
© Mondadori Education Vittorio Zucconi Messico: le scarpe – Zapatos! – Scarpe! – Zapatos... zapatos... zapatos, – ripeteva la bambina messicana con il dito e gli occhi puntati sulle mie scarpe. Non erano niente di speciale quelle mie scarpe, un paio di stivaletti bassi di pelle con la suola grossa di gomma, come si usano per camminare nella polvere e nel fango. Anzi, ora che me le faceva guardare, mi accorgevo di quanto fossero sporche, impolverate e macchiate, quelle scarpe, e pensai che me le sarei dovute pulire e spazzolare per bene rientrando in albergo. Ma delle mie piccole vergogne, alla bambina messicana non importava nulla. A lei interessava soltanto il fatto che quelle fossero scarpe. Scarpe come non aveva mai visto prima. Scarpe come non avrebbe forse visto mai più nella sua vita tra la spazzatura. La bambina era spuntata all’improvviso da un mucchio di bottiglie rotte alto come una casa di due piani, dietro un piccolo somaro talmente spelacchiato ed esausto che la povera bestia non aveva nemmeno più la forza e la voglia di annusare. Stava a mala pena diritto, e immobile, come se volesse risparmiare quelle poche energie che ancora gli rimanevano. La bambina mi aveva sorpreso alle spalle, facendomi sobbalzare con la sua vocina acuta: – Zapatos! Non ho idea di quanti anni avesse. La miseria, la denutrizione, la fame stravolgono i ritmi normali di sviluppo di un essere umano, peso, statura, muscoli, ossa, e lei poteva avere cinque anni o dieci, sei o dodici. Era molto piccola, molto sporca, magra e fragile come una pianticella che sta morendo e due gambette scheletriche le uscivano dalla sottanina per finire nei piedi nudi e anneriti da anni di sporcizia. Piedi, appunto, senza zapatos, senza scarpe. – Come ti chiami? – le domandai, non sapendo davvero che altro dire. – Ida, – mi rispose sorridendo orgogliosa. – Questo è il tuo somaro? – Sì. – Dove abiti? – chiesi, pentendomi subito della domanda della quale già sapevo la risposta. – Aquí, – disse infatti, qui, indicando con il braccino il mare di immondizia che si stendeva attorno a noi, a perdita d’occhio. «Qui» era la più grande estensione di spazzatura che avessi mai veduto. Come altri bambini, come migliaia di adulti precipitati al fondo della società, Ida viveva – se quella si poteva chiamare vita – nella Ciudad de la Basura, la Città della Spazzatura alla periferia della capitale messicana, Città del Messico. Tutti noi abbiamo visto qualche volta montagnole di spazzatura, discariche di rifiuti, cataste di immondizia abbandonata in attesa che un giorno qualcuno si decida a mandare un camion a portarla via. Ma nessuno che non abbia visto la Città dell’Immondizia può immaginarne la grandezza e l’orrore. La Ciudad de la Basura non è, naturalmente, una vera città. La chiamano così i messicani, con disperato umorismo, perché essa è tanto grande e tanto popolata da sembrare ormai davvero una città. Si estende per chilometri, fra spazzatura di ogni genere, cibo andato a male, cocci, bidoni, cartacce, lattine, stracci, cartoni, carcasse di automobili e di animali, tazze del gabinetto e sanitari sbrecciati, in un panorama agghiacciante di tutto quello che una grande città produce, consuma e getta via. Ogni giorno, 1500 camion arrivano a scaricare nuova immondizia fresca di giornata, che va ad aggiungersi alla vecchia e che nessuno porta via. Sotto il sole violento del Messico, la spazzatura marcisce lentamente e s’imputridisce, sprigionando un fetore di fogna, di morte, di carogna, che non si può neppure cominciare a descrivere. – Zapatos –, insisteva la bambina additandomi le scarpe che non mi erano sembrate nulla di speciale alla mattina, uscendo dall’albergo, e che ora cominciavano a sembrare, anche a me, bellissime. Perché quelle scarpe e la loro robusta, spessa suola di gomma, erano tutto quello che separava il mio corpo dalla superficie della putredine infetta sulla quale camminavo. Erano come la zattera che tiene a galla il naufrago sul mare, come l’ala che tiene in volo un aereo. Erano, improvvisamente, il bene più prezioso che un uomo potesse possedere in quell’inferno. Molto più prezioso dell’orologio di marca che portavo al polso, o della catenina d’oro che portavo al collo, o del costosissimo registratore tascabile che tenevo nella borsa. – Zapatos –, mormorava Ida, mentre il somaro muoveva lentamente la coda nel tentativo impossibile di allontanare dai suoi fianchi gonfi e malati milioni di mosche, fameliche quanto lui. Come altri bambini e adulti che vedevo attorno a noi, non soltanto Ida viveva tra le montagne di rifiuti, accampata sotto baracche costruite con lamiere arrugginite e sacchetti di plastica legati insieme. In quella città della putrefazione, Ida e gli altri “lavoravano”. Tutto il giorno, sotto il sole di Città del Messico velato dai fumi e dall’inquinamento che si sprigionano dalla città e restano intrappolati nel catino delle montagne e dei vulcani che la circondano, questi dannati dell’immondizia frugano a mani e piedi nudi fra i rifiuti. Cercano qualcosa da mangiare, qualche rottame da recuperare e da vendere ai rigattieri che la sera arrivano con i loro camioncini e carretti per comprare. – Zapatos, – insisteva Ida, asfissiante, e per un attimo ebbi la tentazione di spingerla via, di allontanarla da me come il somaro faceva con le mosche. – Zapatos. – Oh, come sono noiosi i poveri, come sono insistenti e invadenti e maleducati. – Zapatos, zapatos, zapatos… – E va bene, maledizione a te, prenditi queste scarpe. Mi sfilai gli zapatos. Glieli passai, Ida non mi disse neanche grazie. Se li tenne stretti per un momento come se fossero una bambola e poi corse via verso un altro gruppo di bambini e di adulti curvi sopra le montagnole di spazzatura gridando ancora «zapatos… zapatos… zapatos». Persino il somaro si scosse dalla sua immobilità cadaverica e mosse la sua spelacchiata carcassa per seguire Ida. Lei era già lontana, che correva reggendo le mie scarpe. La vidi inciampare, cadere a faccia in avanti nella spazzatura e rialzarsi ridendo, come un bambino che gioca sulla spiaggia. Mi sentii molto buono, molto generoso. E non avevo fatto nulla, non avevo cambiato nulla. Nulla. Ida sarebbe rimasta Ida, io sarei tornato nella mia bella casa lontana, piena di belle scarpe. Camminai con i piedi rattrappiti dallo schifo, sopra i rifiuti disgustosi, cercando di evitare i cocci di vetro e di posarli laddove anni di sole e di vento avevano indurito la spazzatura. Quando tornammo finalmente in albergo, un bell’albergo di lusso con la piscina e un muro altissimo tutto intorno perché gli ospiti non fossero disturbati dalla vista di altri miserabili come Ida mentre facevano il bagno, il portiere e i camerieri ci guardarono con il naso storto e tutti nell’atrio mi sembrava fissassero i miei piedi senza scarpe. Una nube di puzza ci circondava ancora. Corsi in camera, mi spogliai tutto furiosamente, mi misi a mollo nella vasca da bagno e poi feci una doccia e poi ancora un bagno, per lavare via l’odore e il ricordo della Città della Spazzatura. Con la punta delle dita, come si prende la carogna di un sorcio, raccolsi i vestiti, li infilai in un sacchetto di plastica per la lavanderia e scesi nell’atrio dell’hotel, non per farli lavare, ma per gettarli nel bidone della spazzatura. Nella notte, sarebbe passato il camion della nettezza urbana per portarli via. Per scaricarli nella Città della Spazzatura. Erano vestiti ancora buoni, che si sarebbero potuti rivendere bene a un rigattiere. Spero almeno che li abbia trovati Ida. Vittorio Zucconi, Stranieri come noi, Einaudi Scuola