Sonica - Parliamo Di Videogiochi

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Sonica - Parliamo Di Videogiochi
PROJECTRING
__________________________________ n10
www.project-ring.com
APRILE2004
SOMMARIO
SPECIALE
BOOM BOOM
Silicon Valleys
RUBRICHE
Tesori Sepolti
Conker’s Bad Fur Day
People
Yu Suzuki
Me Nintendo
Nonline
Ivory Tower
Affective Gaming
Arena
Periferiche
Chain Mail
3.0
Vox Mundi
Column 03: Out Soon
Sanguine 01: Carnivorous W.
Il Davide
Davide Return!!!1
INDEPTH
Versus: Beyond Good & Evil
Kikaioo
RECENSIONI
Ninja Gaiden
Onimusha 3
Forbidden Siren
Gregory Horror Show
Sonic Heroes
Fatal Frame 2
Legacy of Kain: Defiance
Astroboy
Metroid Zero Mission
.03
.08
.40
0
.42
.44
.45
.46
.48
.49
.52
.54
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.25
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.30
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.32
.34
.36
.38
«Sa’osa? E mi garba dimorto vella
rivista, de’, ‘om’è
che si ‘hiama?
Ring! Eh! Bella su’i
serio. Però diobono
e finisco sempre
l’inchiostro delle stampanti de i’ quirinale. Vabbe’ tanto paga baugigi.»
Con queste parole di stima da parte
della prima carica dello Stato, Ring
si autotraghetta verso il suo episode
11, e per omaggiare baugigi, produce un numero denso di immagini!
Non ci credete? Check Silicon Valleys (pag. 8) e l’indepth su Kikaioo
(pag. 18), che poi altro non è che
un pretesto per un saggio sul character design nipponico.
Attenzione: il presente numero di
Ring è completamente privo di pesci
d’aprile. Abbiamo valutato la cosa e
l’abbiamo ritenuta una stronzata…
Ring è...
Copertina:
David Vineïs
www.sub88.com
Sezione Online a cura di:
Tommaso De Benetti
Sezione PDF a cura di:
Gianluca Belvisi
Sito e Forum ospitati da:
Bitpower (www.bitpower.it)
Versioni PDF ospitate da:
www.qub3.net
[Cover Story]
Fiat Pixel
E pixel fu…
Se avete un’età garbatamente veneranda, come me, allora avrete il seguente ricordo: voi
che zompettate, in una non ben definita località marittima, impegnandovi nel dirottare
‘casualmente’ i genitori verso quella sala giochi, laggiù.
Siete poco più che bambini e solo fra qualche mese imparerete a scoprire voi stessi,
condannandovi ad un futuro di cecità e peli sui palmi delle mani. Ma ora non vi importa,
le ragazze nemmeno esistono per voi. Esistono solo le lucette che provengono da quei
cabinati lampeggianti. E i suoni.
Ma soprattutto le lucette.
Solo più tardi, molto più tardi, imparerete ad usare termini come sprite o poligono o
texture. Per ora, quelli sono solo quadratini colorati che si aggiornano pigri sullo schermo, sono solo simboli e metafore di ciò che rappresentano. E noi li traduciamo benissimo,
sappiamo da subito che quel grumo di pixel è in realtà un eroe senza macchia né paura.
E poi passano, toh, una quindicina d’anni, e sei qui che conti i peli del naso a Jin Kazama..
L’evoluzione tecnologica dei videogiochi ha numerosi risvolti degni di analisi, ma il più
appariscente dei mutamenti investe quella cosa che per prima, anni orsono, rapì i nostri
portafogli: La Grafica.
È possibile tracciare un parallelo interessante fra l’evoluzione estetica all’interno del VG
e la medesima nel mondo dell’arte della Pittura.
Ambedue sono linguaggi visivi che tramandano rappresentazioni (non necessariamente
del vero) e situazioni (non necessariamente reali). E simili sono pure i percorsi di crescita
dei due linguaggi visivi.
Dacché la Pittura ha alle spalle una storia più antica, di quella solo trentennale del VG,
analizzare i suoi cambiamenti nel tempo può suggerirci le nuove forme che l’estetica del
VG potrebbe un giorno assumere.
Le prime tracce di testimonianza visiva prodotte dall’uomo, sono vecchie quanto l’uomo
stesso. I graffiti paleolitici traducevano cronache di vita quotidiana, ritraendo scene di
caccia o rituali, ma ad interessarci è soprattutto la forma stilistica adottata da questi precursori: gli oggetti, animali e uomini venivano ritratti con intento naturalistico, limitatamente all’abilità dell’autore.
Il tratto realistico non muta nelle epoche future e anzi, si assiste ad un’accelerazione
della spinta verso il vero che sfocia nelle pitture egiziane, greche e poi medievali. Queste
manifestazioni artistiche continuano a mantenere in sé caratteri ‘sintetici’ (la bidimensionalità, le proporzioni) ma esse si adoperano per avvicinarsi al mondo come ci appare.
È durante il Rinascimento che la ‘scoperta’ della prospettiva imprime una nuova e decisiva svolta nell’impronta realistica dei dipinti (il parallelo videoludico del 3D è qui evidente).
Probabilmente a causa della grande capacità riproduttiva raggiunta, però, si cominciano ad intravedere i primi fermenti di una pittura che cerca di ‘codificare’ l’immagine. Puntinisti, macchiaioli, impressionisti ed espressionisti, l’arte astratta o surreale, la pop art..
La misura si colma di nuove correnti che disfano e ricompongono, a discrezione, le linee direttive del vero, muovendosi oltre la forma e proponendo letture e significati nascosti agli occhi, ma non alla mente.
Il percorso della Pittura è lungi dall’essere interrotto, a questi movimenti si addizionano
quelli iperrealisti (più vero del vero) sino a lambire i confini dell’arte fotografica per poi
ritornare nel baratro del simbolico e del rappresentativo grazie al Digital Imaging.
È un circolo reiterato e mutevole che spinge ad evoluzioni continue, senza soste né
traguardi.
Dicevamo del parallelo con il VG..
Superata una prima fase arcaica, quella del videogioco simbolico, siamo in pieno periodo naturalistico, dove l’intento principale è la ricerca del vero, del credibile. Quello che ci
attende è dunque la decostruzione dei parametri estetici che oggi ci sono cari, e di questo
abbiamo già le prime avvisaglie, con VG che offrono impatti visivi di rottura, caleidoscopi
cromatici o grafie inusuali (REZ, Mojib Ribbon, Killer 7).
Se oggi giochiamo un Sam Fisher ritratto fra le ombre del Caravaggio e domani confidiamo di baloccarci in un Fable di fiamminga memoria, fra qualche tempo saremo probabilmente proiettati nei mondi molli di Dalì, ci muoveremo nei contesti cari al Cubismo o
saremo impegnati in un lavoro di decifrazione, davanti ad uno stage che fa il verso a Gustav Klimt.
Nel frattempo, godiamoci il bump mapping e preghiamo la venuta del ray tracing in
tempo reale. Un giorno, poi, potremo ritrovarci un’estetica all’insegna del Futurismo più
spinto.
Redazione:
Marco "Il Pupazzo Gnawd" Barbero
Gianluca "Sator" Belvisi
Francesco “L’Esorciccio” Bicci
Cristiano "Cryu" Bonora
Emanuele "Emalord" Bresciani
Tommaso "Gatsu" De Benetti
Nemesis Divina
Cristiano "Amano76" Ghigi
Paolo “Jumpman” Ruffino
Federico Res,
Giacomo "Gunny" Talamini
Nemesis Divina
Hanno collaborato:
Stefano “Teokrazia” Brocchieri
Giacomo “Hob” Margotti
Per richieste di collaborazione
(articoli e cover), per contattare la redazione, per offrire soldi o intentare cause legali scrivete a:
[email protected]
Ring è grossomodo un periodico di critica, approfondimento, satira, amore,
studio, invettive, guerriglia, disobbedienza, edgekilling, riguardante il sopravvalutato medium dei
videogiochi.
Ring è oltremodo gratuita,
ma gli articoli al suo interno sono e restano proprieta intellettuale dei rispettivi autori. Non ci provate.
:SPECIALE:
Ring#11
Digital Warfare/Digital Soldiers
BOOM
di Gunny
BOOM
Puo’ il Videogioco raccontare la guerra?
La notte del 17 gennaio 1991: una notte senza luna.
Ma non una notte buia, non a Baghdad.
Lampi e bagliori accecanti salutarono l’inizio della
guerra delle ‘1000 ore’.
Prima che il sistema di difesa antiaereo iracheno si
sgretolasse sotto l’attacco aereo della Coalizione, prima che le truppe di Saddam venissero travolte dai carri Abrams del generale Franks, tra i vertici militari statunitensi serpeggiava la paura.
La paura riguardava l’emergere di imprevisti, di difficoltà. Riguardava i dubbi sull’esito di un conflitto potenzialmente micidiale. Soprattutto, riguardava lo
spettro della Guerra del Vietnam: le regole di ingaggio
assurde, le ambiguità politiche, l’impreparazione alla
guerriglia di un esercito concepito per giocare a Risiko
con il Patto di Varsavia.
Ma questi timori non si concretizzarono: il 28 febbraio, l’offensiva terrestre della coalizione si arrestò,
decretando la vittoriosa fine della Guerra del Golfo.
Meno di due mesi dopo l’inizio della guerra, New
York era già teatro della gloriosa parata dei reparti,
sotto una pioggia di fiori e coriandoli.
La guerra era stata rapida, indolore.
Soprattutto era stata chiara, netta, televisiva, più
comprensibile di una partita a tennis.
L’immagine della Guerra del Vietnam che l’America
conservava nell’animo era quella di una bambina nuda,
disperata e ustionata dal napalm che scappava urlando
da un villaggio rastrellato.
L’immagine della Guerra del Golfo che l’america avrebbe conservato erano le schermate dei sistemi di
guida delle bombe elettro-ottiche che colpivano con
chirurgica perfezione l’obiettivo (rigorosamente militare) verso il quale erano state lanciate.
L’immagine della guerra, presso il pubblico occidentale, era stata igienizzata.
Riflettiamo: quali sono stati, nel tempo, i veicoli mediatici tramite il quali abbiamo imparato a conoscere la
guerra del Vietnam?
Risposta: pellicole cinematografiche (Apocalypse Now,
Platoon, Full Metal Jacket,
Hamburger Hill, Il Cacciatore,
Bat21, Berretti Verdi, Good
Morning Vietnam…).
3
Pellicole tramite le quali diversi
autori o registi hanno espresso il
loro pensiero sulla guerra in Vietnam, fosse esso positivo (in pratica un solo caso, Berretti verdi),
o negativo (tutti gli altri).
Ora: quanti film ricordiamo sulla Guerra del Golfo?
Risposta: …
Vedo una mano alzata in fondo. Si, Threee Kings, è
vero. Una parodia del vecchio I Guerrieri con Clint Eastwood, una fusione commedia-western ambientata
dopo la fine della guerra: quindi no, non ci siamo. Ah,
nessuno mi tiri fuori Hot Shots, per favore. Altro?
Risposta: …
Riflettiamo: a cosa dobbiamo questo silenzio? Forse al
fatto che sulla Guerra del Golfo non c’era poi molto da
dire? Forse si. Nessuna ferita su cui piangere, nessuna
menzogna su cui recriminare. Nessun dubbio, emotivo
o etico.
Il cinema era rimasto silenzioso di fronte alla guerra
perfetta.
Questo stesso silenzio (direi stupito) del cinema era il
contraltare di un’esplosione di popolarità senza precedenti delle forze armate presso l’opinione pubblica americana. Nei 12 mesi successivi alla fine di Desert
Storm il corpo del Marines dovette rifiutare un record
storico di candidature, quasi 100 volte superiore
all’effettiva necessità di reclutamento.
Dove andò a sfogarsi, dal punto di vista espressivo,
tutto questo entusiasmo dell’opinione pubblica occidentale?
Nei 7/8 anni successivi alla Guerra del Golfo, esplode letteralmente il genere del simulatore bellico. Che si
tratti dei prodotti arcade dell’era Amiga o dei primi
tentativi di effettiva simulazione (Strike Commander,
Falcon, Apache Longbow, Armoder Fist), si parla
comunque di videogiochi direttamente ispirati agli avvenimenti di Desert Storm, a quelle schermate filtrati
dai visori notturni, a quei missili che ‘anche se te ne
vai inseguono il bersaglio da soli’.
La generazione post-Guerra del Golfo aveva eletto a
propria forma d’espressione popolare il videogioco, che
consentiva di assaggiare almeno in parte la sensazione
che i più decisi si aspettavano di provare arruolandosi
in un esercito ora vincente e rinfrancato.
Laddove la semplicità della guerra prosciugava la
fonte d’ispirazione della pellicola argentata, essa apriva la strada ad un nuovo modo di raffigurare un’istanza, quella bellica, che era divenuta popolare, gradita,
desiderata.
:SPECIALE:
Ring#11
La guerra da lontano
Poniamo per un attimo di avere di fronte un tavolo,
ricoperto delle confezioni di tutti gli wargames prodotti
tra il 1991 ed il 1998. Rovistiamo, diamo un’occhiata
qua e la. Giochiamo, dove necessario.
Che sia una partita a M1Tank Platoon2, a F22
ADF, vi sfido a trovare un gioco dove si possa avvertire la sensazione di aver ucciso un uomo.
Non parlo di vedere i suoi occhi spegnersi, di sentirlo
piangere o urlare dal dolore. Parlo della sensazione di
aver colpito qualcosa che anche alla lontata poteva
sembrare un essere umano. Non troverete quasi niente, e nella maggior parte dei casi non distinguerete
nemmeno una sagoma umana.
Vedrete obbiettivi materiali, quelli si; a decine. Vedrete casematte, bunker, postazioni SAM, blindati leggeri, jeep, carri armati, elicotteri, cacciabombardieri,
piste di decollo, antenne radio. Ma non l’ombra di un
essere umano.
La condotta bellica rimane solo un fattore tecnico
(uso della corretta arma, precisione d’utilizzo, rapidità
d’esecuzione) asservito ad un obbiettivo semplice e
inequivocabile (distruggi la caserma X, elimina il carro
armato Y), che si fa fatica a definire politico.
Nella guerra igienizzata dell’era del videogioco,
l’uomo ha provveduto a rimuovere se stesso.
Che altro ci aspetteremmo da un
conflitto, in condizioni normali?
«La guerra è un vero camaleonte perché in ogni caso concreto cambia un
po’ la sua natura; eppure nel suo manifestarsi complessivo e nelle sue tendenze dominanti si rivela come uno
strano trilatero, composto dalla violenza originaria del suo elemento, l’odio e
l’ostilità, che è da considerarsi come
un cieco impulso naturale; dal gioco
delle probabilità e del caso che ne fanno una libera
attività dello spirito e dalla natura subordinata allo
scopo politico, con cui essa si affida alla semplice ragione.
«Il primo di questi tre lati si riferisce più al popolo, il
secondo più al capo militare e al suo esercito, il terzo
più al governo. Le passioni che devono esplodere in
guerra devono essere necessariamente presenti già nei
popoli; gli scopi politici invece appartengono soltanto
al governo.»
(Von Clausewitz, Vom Krieg, libro primo: risultato per
la teoria )
Adottando un pensiero formulato in era napoleonica,
possiamo parlare rispettivamente di elemento morale
(umano), tecnico (relativo alle armi e alla fenomenologia della guerra) e politico (il fine che il mezzo serve)
Per essere chiari stiamo parlando del soldato che
combatte, dell’arma che utilizza e del politico che coordina questi due fattori.
Abbiamo imparato ad individuare questi tre elementi
attraverso film e romanzi. In molti film di guerra troviamo analizzate le specifiche peculiarità umane dei
conflitti trattati: si tratta probabilmente dell’elemento
più trattato dal cinema. In molti film di guerra troviamo trattate e criticate le ragioni politiche delle guerre.
In tutti i film, per ovvie ragioni, vediamo descritto
l’elemento tecnico, inscindibile dal combattimento.
In diverse pellicole, si è trattato di come il fattore
tecnico (la capacità distruttiva acquisita dall’uomo nel
4
secolo appena trascorso) abbia annichilito ogni ragione
umana e politica (Niente di nuovo sul fronte occidentale), o abbia minacciato di farlo in modo irreparabile (Il
Dottor Stranamore, The Day After).
Tuttavia, negli anni successivi alla Guerra del Golfo,
vediamo bene come il videogioco si sia candidato narratore del solo fattore tecnico.
Colpa del videogioco? Macchè.
Riflettiamo un secondo su queste frasi:
«Per ovviare alle attuali carenze in materia di fuoco
d’appoggio, abbiamo concepito il progetto Arsenal
Ship. Si tratta di una nave semplice e relativamente
economica, in grado di trasportare oltre 730 missili da
crociera…
«/…all’atto pratico questa nave dovrebbe essere in
grado di vincere una guerra da più di 500km di distanza e con una sola bordata di missili, per poi tornare a
casa a rifornisi per la guerra successiva.»
(Ammiraglio Bill Owens, ex vice capo degli stati maggiori riuniti, US Navy)
«L’aspetto negativo di questa potenza e flessibilità (del
carro armato M1A2, ndGunny) è che per trarne il meglio il capocarro deve essere dotato di eccezionale
prontezza e genialità nello sfruttare le
situazioni che si presentano di volta in
volta. Tutavia, basta pensare alla nuova generazione di ragazzi che hanno
passato i primi anni della loro vita davanti ai computer e a giocare con i videogames per capire che sono perfettamente in grado di far funzionare il
sistema.»
(Tom Clancy, Armored Cav)
La guerra è un videogioco, o i videogiochi aiutano a
combattere meglio?
Andiamo verso una realtà in cui la tecnologia renderà
obsoleto il contatto con il nemico? In tal caso non potremo capire se la nostra console sta guidando un vero
sistema d’arma o se invece è semplicemente una console: qualcuno dovrà avere la cortesia (o l’onestà?) di
spiegarcelo.
Ci sarà poco da ridere, in tal caso, ripensando al
vecchio Wargames.
Andiamo verso una finzione ludica dove l’ultima
frontiera da spezzare sarà l’effettiva morte dell’utente?
Ma ci sarà davvero bisogno che venga spezzata, date
le nuove caratteristiche della guerra che andavamo
esamindo sopra? Durante la guerra del Kosovo le forze NATO non riportarono nemmeno una vittima…
«Nelle VR Mission si ha una sensazione di dolore e di
ansia. L’unica differenza è che non succede davvero.»
«Questo è quello che vogliono farti credere, per toglierti la paura che invece si prova nelle situazioni di
combattimento. La guerra come un videogioco. Quale
sistema migliore per forgiare il soldato supremo?»
(Metal Gear Solid2: Sons of Liberty)
Mentre la finzione ludica e la finzione bellica convergevano idealmente sui videoschermi dei PC e dei cacciabombardieri F16, il cinema prendeva fiato…
:SPECIALE:
Ring#11
La guerra da vicino
1998: esce in tutto il mondo Salvate il Soldato Ryan.
Dopo un periodo di assoluta carenza di cinema bellico,
il pubblico mondiale si trova catapultato negli orrori di
Omaha Beach. Le ogive dell’artiglieria pesante sollevano nubi di sabbia e sangue. Piovono arti, e tanti premi
Oscar.
Il cinema bellico, grazie a Salvate il
Soldato Ryan, conosce una nuova giovinezza. I registi imparano a ripercorrere i campi di battaglia della modernità, con una nuova parola d’ordine in
testa: realismo.
Che poi il concetto si concretizzi in
un’effettiva ricerca di autenticità
(Black Hawk Down) o in un paravento
per nascondere una certa immaturità
contenutistica (We were Soldiers) pare
essere una questione secondaria.
I risultati, a prescindere da essa, sono piuttosto
buoni.
Il videogioco non sta a guardare: Medal of Honor invade la ludoteca degli utenti Sony, Commandos quella dei Pcisti.
Tramontano i simulatori bellici, tramonta la guerra
tra oggetti.
L’uomo ricompare nel videogioco bellico. Le conseguenze?
Racconta, il videogioco, la storia di persone coinvolte
nelle vicende belliche, ne analizza le motivazioni/i dubbi/le convinzioni? No, non lo fa.
Approfondisce, il videogioco, le ragioni politiche o i
presupposti storici delle guerre che rappresenta (in un
modo che esuli la semplice e necessaria descrizione del
contesto d’azione, ovviamente )? No, non lo fa.
Le conseguenze. Prima si sparavano missili e si
sganciavano bombe su sprite a forma di carro armato.
Ora si sparano pallottole e si lanciano bombe a mano
su agglomerati poligonali a forma di uomo. Il carro
perde ingranaggi, l’uomo perde sangue.
That’s all? Ho paura di si.
Quand’è stato, esattamente, che ho smesso di considerarmi un wargamer incurante del contesto?
Mi capitò, dieci anni fa, di visitare le spiagge della
Normandia. Riportai con me un piccolo oggetto, una
specie di giocattolo che emetteva uno schiocco metallico, e che i paracadutisti della 101a aviotrasportata
USA chiamavano cicala.
Serviva loro per riconoscersi senza rischio durante le
operazioni notturne. L’avevo acquistato in un museo
bellico poco distante dalle scogliere di Pointe du Hoc.
Non lasciai in pace per un istante i
miei genitori durante il viaggio di ritorno, suonavo la cicala ogni trenta
secondi. Ma sono una persona disordinata, e non tardai a perderla una volta
tornato a casa.
L’ho ritrovata solo l’anno scorso,
mentre gettavo via alcuni ricordi d’infanzia. In qualche modo non mi sembrava all’altezza del ricordo che ne avevo; era quasi un tesoro per me,
quando l’avevo comprata. Oggi le mie
disponibilità economiche sono un po’ diverse. Possiedo
un telefono cellulare, e posso contattare chiunque in
tutta Europa nel giro di dieci secondi.
I seimila ragazzi che la notte del 5 giugno 1944 si
gettarono da degli alianti di cartone, per riconoscersi
nel buio, avevano solo un giocattolo che io per 8 anni
avevo dimenticato in mezzo ai mattoncini Lego…
5
Per la prima volta, sentii dentro qualcosa di sinistro.
Quell’oggetto davvero non stava bene in mezzo ai miei
giocattoli. Perché non era un giocattolo, benché me lo
avessero venduto come tale.
Forse ero cambiato io. Ne erano successe di cose in
quegli otto anni. Alcune delusioni. Una certa maturazione personale. Salvate il Soldato Ryan.
Non faccio del revisionismo: lo Sbarco in Normandia è stato una fortuna
per l’Europa e per il mondo intero. Ma
qualcosa comunque mi sembrava stonato. Quell’oggetto non aveva niente a
che fare con il ricordo o la gratitudine
verso chi quel giorno era morto. E non
era neppure quello lo scopo per cui mi
era stato venduto.
Non ci trovavo niente di immorale o
riprovevole, quei soldi probabilmente
erano serviti per il mantenimento del
museo. Allora perché quella sensazione non se ne andava?
E perché rispuntò fuori alcuni mesi dopo, mentre
provavo in un ipermercato la demo di Medal of Honor: Frontline? All’inizio andava tutto bene: reduce
da Halo, in un minuto mi ero ambientato. Ero una
scheggia, avevo già un’idea precisa di come infilarmi in
un grosso bunker che svettava sulla spiaggia. Ah, di
che spiaggia si tratta? Mi accorsi di trovarmi ad Omaha
Beach, nel settore Dog Green.
Un brivido: otto anni prima, io ero stato su quella
spiaggia. L’avevo calpestata, e avevo visitato quello
che rimaneva di una batteria di grossi pezzi di artiglieria tedeschi a pochi chilometri da lì. Delle lunghe, pesantissime canne nere che sbucavano da una collina di
cemento. Mi sono accorto che non mi stavo più divertendo.
Mi sembrava che qualcuno avesse cercato di ricostruire un mio ricordo con poligoni e texture, e che lo
vendesse a 59 euro sullo scaffale di un ipermercato.
Poco più in là una commessa si affaccendava nel cercare di rifilare GTA:Vice City ad un ragazzetto.
Se il ragazzetto avesse chiesto un gioco di guerra,
magari la commessa gli avrebbe proposto l’acquisto di
quella Omaha Beach poligonale.
Il bambino avrebbe ricordato poco di quanto ascoltato svogliatamente dall’insegnante nel mezzo di una
classe rumorosa. Un nome, forse: Normandia. Poco
altro, immagino.
Per il bambino del supermarket, Medal of Honor:
Frontline avrebbe rappresentato l’unico mezzo per
imparare qualcosa sugli eventi del 6 giugno ’44.
Il suo unico ricordo degli avvenimenti
sarebbe stato il livello di un videogioco,
in cui un soldato in tuta vede deve uccidere soldati in tuta grigia. Almeno finché non sarebbe arrivato un amico a
giocare un doppio in split-screen.
Per molti mesi un team di tecnici aveva lavorato sodo alla ricostruzione
dell’evento bellico. Il realismo storico,
visivo e sonoro, sarebbe stato superiore a qualunque gli avesse detto la sua
insegnate nei 15 minuti di tempo che il
programma scolastico concede ai fatti del ’44.
Ma nel retro della copertina, prima di iniziare, avrebbe letto frasi di questo tipo: “usa fino a 14 armi
contro dei nemici realistici”/“esaltati immergendoti nei
più sanguinosi scontri armati del fronte occidentale”.
:SPECIALE:
Ring#11
È questa quella che, se riusciamo a trattenere le risate, possiamo chiamare una ‘rilettura storica’ ad opera del videogioco.
Ma se abbiamo l’ardire di non accontentarci di questo
livello di approfondimento, ci sono altre considerazioni
che possiamo chiamare in causa.
Che lo voglia o meno, il videogioco bellico di oggi
non è più semplicemente un passatempo avulso dalla
realtà.
Il videogioco bellico di oggi, laddove pretende di
rendere realistica l’esperienza, fallisce totalmente nello
assolvere alle sue responsabilità.
Domanda: Di che responsabilità stiamo parlando?
Da quando i videogiochi sono responsabili?
Risposta: io si, ritengo che i videogiochi, nel momento stesso in cui decidano di trattare tematiche potenzialmente in grado di modificare la coscienza storica
di una persona, divengano responsabili.
Non c’è ne ci sarà mai una legislazione che impedisca
la trattazione superficiale o errata di materie storiche
nei videogiochi: democrazia; libertà d’espressione; libertà di informazione/disinformazione.
È plausibile pensare, invece, che con il tempo si
formi una sorta di coscienza comune che senza bisogno di un’azione esterna critichi e disapprovi la realizzazione di giochi storici inutili o addirittura dannosi,
spingendo i game desinger verso una direzione migliore?
Ma soprattutto, esiste una direzione migliore?
La guerra dall’interno
Marzo 2001: esce in tutto il mondo Black Hawk Down.
Ridley Scott rinchiude le sue opinioni in una cassaforte, gira il film, e se le riprende solo a lavoro ultimato.
Black Hawk Down è un documentario (e lo sarebbe ancora maggiormente se fosse stato conservato l’amarissimo finale originario, visionabile nell’edizione DVD),
e il suo obbiettivo è descrivere.
Black Hawk Down procura allo spettatore gli elementi
della vicenda bellica, senza celare l’orrore e senza fornire comode letture/giustificazioni artificiose. Che sia
un pacifista che sia un militarista, lo
spettatore viene inchiodato di fronte
ai fatti, e nel dare una sua interpretazione è costretto a fissare la realtà
negli occhi.
Pochi mesi dopo l’uscita della pellicola, fa la sua comparsa negli scaffali
il tie-in videoludico del film di Scott
(Delta Force: Black Hawk Down).
La ricostruzione della Mogadiscio
digitale è buona. Il realismo delle
armi e delle tattiche è buono. Ma è la
stessa cosa?
Vedere un oggetto poligonale di cui si ignora il nome
cadere colpito da un proiettile è un’esperienza traumatizzante? È come vedere Jamie morire dissanguato tra
i commilitoni impotenti, o Stuart e Gordon massacrati
dalla folla inferocita e denudati? Soprattutto, quegli
oggetti poligonali indistinti che sparano dai tetti sono
davvero quei mille e più miliziani somali che morirono
nel 1993?
Inutile dire che no, non lo sono.
Volendo essere pessimisti, si potrebbe osservare che
ciò che rende un film un degno mezzo d’espressione
scompare nel momento stesso in cui l’esperienza diventa interattiva.
Una raffica di mitragliatrice calibro 7,62 investe un
soldato, che cade urlando.
Paradossalmente, la finzione videoludica (che immergendoci nel contesto ci fa capire che quel soldato è
‘nostro compagno’) causa meno turbamento di quella
cinematografica, dove lo stesso soldato è un terzo a
noi completamente estraneo.
La tecnica videoludica, nella sua mera applicazione
al contesto bellico, pare totalmente priva della capacità
di far riflettere l’utenza.
È un sospetto che cresce mentre lo schermo è occupato da America’s Army: le stesse tecniche di rappresentazione di Medal of Honor (spogliate se vogliamo di qualche elemento pseudo-cinematografico),
sono agevolemente piegabili a fini propagandistici.
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America’s Army riproduce fedelmente le modalità
di arruolamento e qualificazione al tiro/addestramento
dell’US Army.
Un filmato, realizzato con identici scopi ed identici
slanci retorico/patriottici, risulterebbe quantomai sorpassato e noioso.
Ma il gameplay invita la videorecluta a sperimentare,
chiudendo gli occhi su qualche ‘hoo-ha’ fuori posto; e
magari dicendosi “la guerra non deve essere così male”, mentre scarica su bersagli digitali il suo M16A2 digitale.
È questione semplicemente di realismo grafico/sonoro? Non lo credo.
È un limite insuperabile del videogioco, che inibisce qualsiasi tentativo di serietà? Non credo nemmeno
questo, troppo fresco è ancora il ricordo di Metal Gear Solid (per
quanto il suo contesto non sia propriamente bellico).
Cosa hanno da dirci in proposito
gli ultimissimi videogiochi di guerra?
L’anno scorso ha fatto la sua comparsa sugli scaffali
l’attesissimo Vietcong.
In esso non è difficile scorgere un tentativo di ricostruzione visiva/sonora senza precedenti. Ma non è
solo questo che stupisce: in Vietcong si ha l’effettiva
sensazione di far parte di un gruppo di soldati.
Con soldati non si intende oggetti texturati simili a
soldati, si intende proprio soldati. Persone, ognuno con
delle caratteristiche proprie e dei tratti distintivi.
Lodevole è anche lo sforzo di ricreare l’atmosfera
opprimente delle giungle del sud-est asiatico, di simulare lo stress del continuo alternarsi tra combattimento
spietato e inquietante silenzio.
Non è un punto d’arrivo, ma può essere un punto di
partenza.
Il futuro Full Spectrum Warrior, stando ai programmatori, si ripromette di ricreare il panico e la frenesia
degli scontri a fuoco con grande efficacia (non che Operation Flashpoint avesse fallito).
Tutto questo è sicuramente interessante, sicuramente positivo. Ma la domanda è: è sufficiente che un videogioco di guerra comunichi panico e ansia, per poter
dire ‘ok, questo è quello di cui sono capaci i videogiochi di guerra’?
:SPECIALE:
Ring#11
Chiudiamo la rassegna parlando di un ultimo videogioco. Si chiama Trench War, ed è un videogioco praticamente perfetto.
Ha il solo difetto di non esistere, ma spero lo tollererete per qualche minuto.
Trench War è un FPS ambientano nel 1917 a Verdun,
Francia nord occidentale.
Il protagonista è un fante di nome Jacques Junot. Il
suo arrivo in un reparto di prima linea è coincidente
con una pausa di due settimane nei combattimenti.
Nel frattempo (alcune ore di gioco), l’utente ha il
tempo di familiarizzare con i commilitoni. Soprattutto
uno di loro, il caporale Francois Ney, che gli da un sacco di consigli utili, e gli confida di essersi fidanzato da
poco con sua sorella maggiore, della quale Jacques
non ha più avuto notizie dall’inizio della guerra.
Finchè tutto è pronto: si sta per scatenare l’offensiva
contro le posizioni tedesche. Ma la notte prima
dell’attacco, Jacques non ha dormito affatto. Infatti,
mentre scortava un addetto ai dispacci fino al comando francese, ha avuto modo di origliare una discussione: il comandante in capo della sua armata, il generale
Nivelle (storico, ndGunny), ha concepito questo attacco come un mero diversivo al fine di sguarnire le posizioni tedesche più a nord, e si aspetta una percentuale
di morti vicina al 100%.
Il gioco fornisce diverse opzioni: si può decidere di
tenere l’orribile segreto per se; si ha la semplice possibilità di parlarne con l’amico Francois; si può anche
decidere di parlarne ad alcuni ufficiali, per tentare in
qualche modo di fermare la carneficina annunciata.
Se l’opzione scelta è una delle prime due, l’attacco è
inevitabile.
Alle 6 del mattino, 14.000 fanti infreddoliti si preparano ad uscire allo scoperto, addentrandosi nel terreno
lunare che li separa dalle linee tedesche.
>>Stop’n’Go>> 10 secondi al box
Alb
Troppo difficile, hanno rovinato il gioco....
Neuronal Noise
anche secondo me è troppo difficile...
son al samurai vicino al cimitero, dopo
la settima volta (non l'ho fatto nemmeno scendere da cavallo) ho lanciato il
pad per terra
Marittiello
idem...ma il pad crystal non lo lancio a
terra! Sti giochi dove devi gestire le
pozioni li odio...dammi la sfida è te la
supero, ma non farmi tornare indietro
perchè ho scoperto che improvvisamente non mi dai più pozioni...mah
Alb
è proprio questo il tipo di giochi che
fomentano il mercato dei giochi copiati
:-(((
Bilbo Baggins
embè certo non è più sufficiente il prezzo alto adesso pure se sono troppo difficili è lecito masterizzarli
maperpiasè...
Ad un primo fischio, scattano in piedi. Poco prima
del secondo fischio, le batterie tedesche allungano il
tiro. Un enorme proiettile da 280mm impatta poche
decine di metri all’esterno della trincea. La vibrazione
fa perdere l’equilibrio a diversi uomini, ma la sorpresa
peggiore arriva quando tutti si sono ripresi dallo
shock: il capitano che avrebbe dovuto dare il segnale
per l’attacco, che si ergeva sul bordo della trincea, è
stato ucciso dalle schegge.
Il sergente maggiore, secondo le gerarchie, subentra
al comando. Ma è esitante, sentendo il formidabile urlo
dei cannoni tedeschi.
Il giocatore ha un’ultima possibilità di raccontare al
suo comandate quello che ha sentito: forse il peggio
può ancora essere evitato.
Se ancora una volta prevale l’inazione, l’attacco viene lanciato.
La massa di uomini, con un urlo in bilico tra la rabbia e la disperazione, si lancia compatta verso i cavalli
di frisia. Ma dopo pochi metri, un proiettile di mitragliatrice di grosso calibro colpisce all’addome Francois,
che si accartoccia al suolo, per poi cominciare a contorcersi urlando.
Compi la tua scelta, guerriero digitale: il sergente
maggiore ti ha già addocchiato; ha l’ordine di sparare
a chiunque desista dall’attacco.
Ti fermi a soccorrere Francois e rischi che il sergente
ti faccia secco? Lo fai tu secco prima? Aiuti i tuoi
compagni che vengono fatti a pezzi trenta metri più
avanti sperando che Francois sia ancora vivo, quando
tornerai?
Ti piacciono ancora i videogiochi di guerra, Soldato
Jacques?
Ti piacciono ancora i videogiochi realistici, Soldato
Jacques?
Ninja Gaiden: Non ci sono più gli hardcore gamers di una volta (messaggi liberamente tratti
da it.comp.console)
Alb
Ma si, non si possono pagare 60 euro
per dei giochi che hanno ancora questi
difetti, come top spin che doveva essere
un gioco di tennis simulativo ed invece
sembra di giocare a guerre stellari tanto
è arcade, ho speso 230.000 delle vecchie lire per portare a casa 2 videogame
frustranti, non è tanto il prezzo, perchè
mi sarei pentito del loro acquisto anche
se li avessi pagati 5 euro l'uno, è proprio il fatto di far uscire il gioco con simili stupidi difetti che mi fa incazzare!
E' ovvio però che se una persona spende tanti soldi per dei prodotti che lasciano un "leggero" disappunto, è lecita
la sua propensione a farci un pensierino
nel prendere la prossima volta un gioco
copiato. Non capisco come questi c....o
di produttori di videogiochi non si rendano conto di simili difetti, che sono
così palesi, lampanti, se ne accorgono
TUTTI tranne loro, o sono degli idioti o
sono dei pazzi....
Gian
Concordo quasi su tutto, tranne che
sulla parte riguardante Top Spin. A me
ha divertito moltissimo, nonostante
7
non siano mancate caterve di bestemmie. Non sarà il massimo della simulazione, ma certo un ottimo gioco di tennis. E comunque vorrei far notare come
anche sull'amato cubetto la situazione
sia identica. F-Zero è ingiocabile, VJ
difficilissimo, Metroid frustrante. Sarò
io che mi sono imborghesito, ma da un
gioco pretendo divertimento e sfida
moderata, non un accanimento nei miei
confronti o il fatto che per andare
avanti siano richieste ORE di apprendimento...
Mpjedi
Vi dico solo una cosa.... SIETE DEI
NIUBBI PORCO MONDO VI MERITATE I
GIOCHI DI MERDA DELLA EA ZIO PORCO INFAME LADRO !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
E fanculo a tutti!!!!
Recensione di
Ninja Gaiden a pag 23
:SPECIALE:
Ring#11
Vincitore nella categoria ‘Excellence in Level Design’ ai Game Developers Choice Awards 2002: Ico affida al level design la trasmissione
di buona parte del patrimonio emozionale che lo contraddistingue. Abbacinanti contrasti di luce memori della pittura di Giorgio De Chirico screziano gli spazi malinconici di un’immensa fortezza di ispirazione romanica.
di Cryu
Se l’architettura e il design sono il mestiere di chi progetta ambienti in cui vivere, il level design è quello di chi crea ambienti in cui giocare. Silicon Valleys: un
viaggio nelle inesistenti regioni del videogioco.
Il level design ricopre spesso un
ruolo ornamentale. È lo sfondo, la
quinta, il diorama davanti al quale
si gioca. Se ben fatto, rende gradevole il soggiorno nel videomondo.
Altrettanto spesso il level design è
invece strettamente legato al gameplay. Ne esalta o ne inficia le
potenzialità, costituendo una parte
integrante del sistema di gioco.
Tomb Raider avrebbe fatto comunque storia se fosse stato ambientato in un magazzino abbandonato
piuttosto che in affascinanti siti archeologici? Perché il tanto discusso
Super Mario Sunshine rimane comunque il miglior platform dell’ultima generazione hardware? Nel
level design di questi giochi risiedono le risposte a tutte queste domande. E Gran Turismo 3 sarebbe
ugualmente appassionante se come
circuito di gara disponesse del solo
ovale Test Course? Corrispettivo
corsistico del level design, dal canto
suo il track design è un fattore de-
cisivo nella creazione di ogni buon
simulatore di guida.
Dai platform agli sportivi passando per gli sparatutto in prima persona: Silicon Valleys ripercorre i
luoghi di dodici videogiochi che
hanno lasciato il segno nella storia
del level design tridimensionale.
Dodici scenari digitali creati appositamente per giocare. Dodici mondi
virtuali indimenticabili.
Platform adventure [1]: La saga di Tomb Raider (Eidos, 1996-2003)
Eccezionale all’alba del primo episodio della serie, il level design di
Tomb Raider si è reso colpevole
negli anni di una mancata evoluzione che ne ha decretato la progressiva obsolescenza.
Nel 1996 la saga debutta rivoluzionando il genere degli adventure
in terza persona. Molto più che un
Prince of Persia (l’originale del
1989) in tre dimensioni, Tomb
Raider stupisce il mondo per una
progettazione degli ambienti di gioco che ha dell’incredibile: per varietà, complessità e ricercatezza stilistica. È il periodo in cui si inaugura
il dibattito arte/videogiochi, e gli
sforzi di Core per riprodurre in SoftImage architetture inca (fig. 1),
greche ed egizie (fig. 2) non passano inosservati. L’esperienza di gioco si impregna di un gusto archeologico secondo a nessun film di Indiana Jones. Lara Croft diventa in
brevissimo tempo il simbolo del videogioco anni ’90, e il merito non è
certamente da attribuirsi solo alla
generosità della sue misure.
A partire dal 1998, con la puntualità svizzera degli aggiornamenti
della serie FIFA, Eidos rilascia con
cadenza annuale quattro controversi seguiti.
Tomb Raider II – The Dagger
of Xian, è ancora un grande successo di pubblico e critica, ma rispetto al predecessore offre un level design meno ispirato, scevro di
quel sapore misterioso conferito
all’episodio precedente dalla sua
studiata caratterizzazione archeologica.
Tomb Raider III – Lara Croft
Adventures abbina location di
grande fascino e complessità architettonica, come la giungla dei primi
stage, ad ambientazioni oscure ed
emotivamente scariche, come lo
scenario londinese. Ma a questo
punto la serie soffre un gameplay
sopravvissuto a se stesso, che non
paga solo una generale discontinuità qualitativa, quanto una concezione di level design inadeguata a
un panorama software ormai assuefatto al fascino del free-roam-
1
2
8
:SPECIALE:
ing. Nel 1996 spendere 30 secondi
attraversando un corridoio deserto
costituiva di per sé un intrattenimento efficace. Si stava esplorando
un videomondo tridimensionale,
con totale libertà di movimento, attraverso i resti di civiltà sepolte e
dimenticate. Col passare degli anni
– e degli episodi – questo appeal
viene completamente meno. L’originale Tomb Raider e Super Mario 64 ispirano un’infinità di cloni.
Deambulare liberamente per il videomondo, di per sé non costitui-
Ring#11
sce più né una novità né un divertimento. Ma Core non se ne accorge, e aspetta fino al quarto episodio della serie per riconsiderare lievemente il proprio approccio al level design, creando poi per Tomb
Raider - The Last Revelation livelli più compatti, forieri di un ritmo di gioco meno diluito. Non si
tratta però di una rivoluzione, bensì
di un timido accorgimento a un sistema di gioco obsoleto, che toccherà il fondo della sua picchiata
qualitativa con il sesto episodio del-
la serie: Tomb Raider -The Angel
of Darkness.
La domanda sorge quindi spontanea: com’è possibile che le brillanti menti che nel 1996 rivoluzionarono gli action adventure in 3D,
negli anni a venire siano rimaste
totalmente a corto di idee? La risposta è semplice: i padri di Tomb
Raider, Toby Gard e Paul Douglas,
lavorarono soltanto al primo episodio della serie.
Platform adventure [2]: Prince of Persia: The Sands of Time (Ubisoft, 2003)
Atmosfere soffuse, vedute da mille
e una notte, stellate che incappucciano chiostri esotici guarniti di
palmeti: Prince of Persia: The
Sands of Time strizza l’occhio a
Ico regalando a Lara Croft una vacanza in Medio Oriente.
La critica lo ha paragonato soprattutto a Ico e a Devil May Cry
(a quest'ultimo per via delle velleità
stylish dei combattimenti), ma ai
fini di un esame ambientale POP si
presta innanzitutto al paragone con
il solito Tomb Raider.
Nel paragrafo precedente si accertava come Tomb Raider sia
morto di vecchiaia, riproponendo
episodio dopo episodio ritmi e sti-
lemi ludici sempre più obsoleti. Per
conseguire tempi di fruizione moderni, POP schiva ogni possibile
freno all'azione, su tutte la certosina fase di esplorazione che in
Tomb Raider precede la risoluzione dei puzzle ambientali. In POP
raramente ci si interroga sul da farsi: c'è sempre un flashback, una
cut-scene, un'inquadratura ammiccante o un PNG che interviene a
illustrare la manovra da effettuare
o il percorso da seguire. Se la lentezza è uno dei fattori che negli anni ha decretato l’inappetibilità di
Tomb Raider, POP agevola e fluidifica l'azione finanche a degenere
nel tutorial e nella progressione inerziale. Se non proprio valorizzato
da alcune scelte di game design
(come l’invadenza di certi consigli
della coprotagonista), il level design di POP viene incoronato da
soluzioni registiche d’autore, che
nelle fasi finali superano addirittura
i virtuosissimi di Ico. Alla telecamera manuale si affiancano inquadrature fisse dalle quali emerge una spiccata coscienza fotografica,
massimamente valorizzante del fascino di ogni architettura.
Sul fronte della credibilità, il palazzo di POP (fig. 3) denuncia troppo
apertamente la sua funzione ricreativa. Laddove il primo Tomb Raider infondeva la suggestione di visitare i resti di civiltà scomparse, in
POP scorrono ambienti eterei, evocativi, ma spesso macchiati da una
palpabile artificialità di fondo. Ciò si
ravvisa sia ad un'analisi tecnica
(l'impressione alle volte è di trovarsi di fronte a splendide facciate di
cartone dietro alle quali il nulla) che
strutturale, dal momento che qualche location soggiace troppo vistosamente allo scopo dell'esplorazione lineare. A farne le spese è la sospensione dell’incredulità, perché
una cosa è vivere un’avventura
ambientata in un antico palazzo
persiano, e altra è percepire che
quel palazzo è stato costruito cin-
3
4
9
:SPECIALE:
que minuti fa solo per farci divertire.
In definitiva, il level design di
POP attualizza Tomb Raider sulla
scia di Ico. Il risultato è un mondo
elegante ma agile, modellato sulle
doti atletiche del principe, che nel
Ring#11
suo sviluppo dinamico recupera
parte di quell’immediatezza dell’originale Prince of Persia andata
perduta nel disorientante 3D di
Tomb Raider. A conti fatti, di quest’ultimo rimane insuperata la credibilità ambientale e l’esperienza
turistico/archeologica; la magia nostalgica della prigione di Ico, dal
canto suo, riecheggia nell’inquietudine surreale che sul finire di
POP albeggia sulla Torre Aurora
(fig. 4).
Platform adventure [3]: Legacy of Kain – Soul Reaver (Eidos, 2000)
La caratteristica chiave del gameplay di Soul Reaver è
da ricercarsi nella rilevanza ludica che Crystal Dynamics
ha saputo conferire al level design del reame di Nosgoth.
La trovata della doppia dimensione si traduce nella duplicità del design di tutti ambienti di gioco. Esistono due
versioni per ciascuna location: reale e spettrale (fig. 5 e
6). La risoluzione di molti enigmi prevede che il giocatore
alterni le due configurazioni. Laddove nella dimensione
reale la distanza tra due piattaforme non è copribile con
un salto, la stessa distanza può ridursi grazie alle deformazioni subite dall’ambiente nella dimensione spettrale.
5
Singolarità di Soul Reaver è il meccanismo di risoluzione
dei puzzle a cui addestra il giocatore: una sorta di pensiero laterale applicato al game design tramite il level design. Se l’ambiente pone un problema, la soluzione non
sarà da ricercarsi attraverso il suo studio, bensì questionando a monte i termini del problema modificando l’ambiente stesso. Quando in Tomb Raider il giocatore rimane bloccato in situazioni apparentemente insolubili, non
gli resta che prodursi in una minuziosa osservazione
dell’ambiente, alla ricerca di appigli, vie d’uscita, congegni dapprima ignorati. In Soul Reaver quandunque gli
ambienti pongono degli ostacoli alla loro esplorazione, al
giocatore è concessa la facoltà di intervenire direttamente sulla loro morfologia.
Al design di Soul Reaver è poi deputata la produzione si
quell’atmosfera di perdizione, fatalità, e irrecuperabilità
che permea l’intera avventura. Le architetture del Reame
di Nosgoth, dai Cancelli all’Abbazia Sommersa, si distinguono per una forte ispirazione agli stili gotico e moresco. Ma ciò che le rende così suggestive è l’abbandono e
il decadimento che paiono aver subito. Crystal Dynamics
ha allestito uno scenario di agghiacciante miseria in cui è
evidente la traccia di un passato grande e ambizioso,
quando Nosgoth non era ancora stata corrotta dal malgoverno di Kain. La Cattedrale Silenziosa, con i suoi corridoi
angusti cuciti in altezza da archi a sesto acuto, e i Cancelli di Nosgoth (fig. 7), “che una volta si estendevano
fino al cielo”, producono un effetto destabilizzante all’occhio dell’osservatore. Lo spazio di queste costruzioni è
vertiginosamente verticale. Sono templi che evocano il
tempo di una civiltà industriosa e fiorente, infine decaduta e dimenticata.
In Soul Reaver II e Legacy of Kain: Defiance (in foto
la Saraphan Stronghold – fig. 8) esploderà in pompa magna il talento architettonico di Crystal Dynamics. Forti dei
supporti hardware di ultima generazione, gli ambienti
realizzati per i due seguiti offrono un impatto estetico
nettamente superiore. Tuttavia, il fascino delle location
del primo Soul Reaver rimane tutt’oggi ineguagliato, in
quanto prodotto dalla risonanza di uno sfondo narrativo
extradiegetico. La storia di Soul Reaver era suggestiva
soprattutto perché scaturita da un’altra storia, maestosa,
lontana e mai raccontata, che nel presente lasciava memoria di sé solo in migliaia di metri cubi di roccia scolpita.
10
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8
:SPECIALE:
Ring#11
Platform adventure [4]: SOS The Final Escape (Irem, 2002)
Il singolare level design di SOS
The Final Escape costituisce la
condizione necessaria del gameplay
che in esso si dipana. Lo scopo del
gioco è semplice: fuggire da una
città che sta crollando sotto gli effetti di un sisma. Solo un level design mutevole in tempo reale può
consentire questo tipo di gameplay,
dove il giocatore deve riconsiderare
continuamente le proprie intenzioni
per assecondare i repentini sconvolgimenti della morfologia degli
scenari:
collo verso l'uscita, continuando a
variare la traiettoria della corsa per
schivare le macerie in caduta libera.
La terra trema. Al cedimento improvviso del soffitto mi affretto verso l'uscita più vicina. Una violenta
scossa la ostruisce, obbligandomi
alla ricerca di un'altra via di fuga.
Una nuova scossa smuove i detriti
di quello che fino a un attimo prima
era un vicolo cieco, ma che ora
socchiude un pertugio verso la salvezza. La scossa non cessa e sotto
una pioggia di calcinacci mi scapi-
9
Il level design rappresenta l’autentico avversario contro cui il giocatore deve confrontarsi per tutto il
gioco. Non deve ingannare il fatto
che l’avventura incorpori una sottile
trama comprensiva di ‘cattivi’ della
situazione. In SOS i contendenti
sono il giocatore e il sisma. L’uno
contro l’altro, dall’inizio alla fine.
Il sisma, entità estratta, si concretizza in una città suicida che
mentre è intenta a distruggersi fa
di tutto per trascinare con sé il giocatore (fig. 9). Da teatro dell’azione
di gioco, in SOS il level design si
emancipa ad antagonista del giocatore. Come le guardie in Metal Gear Solid, come gli zombie in Resident Evil, come le forze dell’ordine
in Grand Theft Auto. In qualità di
minaccia, il level design è anche
responsabile dell’emozione dominante l’intera esperienza di gioco: il
panico. Con i survival horror il videogioco ha suscitato paura, angoscia, orrore, ma mai panico. Quando in SOS un intero cavalcavia si
abbatte a pochi metri dal protagonista, o quando il ponte sotto i suoi
piedi inizia a sbriciolarsi, nel giocatore si infonde un’emozione mai
provata prima davanti a uno
schermo.
First Person Shooter: 007 GoldenEye (Nintendo/Rare, 1997)
Benché si tratti di un gioco datato 1997, la scelta di un FPS significativo dal punto di vista del level design ricade su 007 GoldenEye per
un motivo semplicissimo: è l’inventore dello sniper mode, ovvero
della modalità di fuoco in prima persona con regolazione manuale
dello zoom del mirino telescopico. Proprio attorno alla pratica del
cecchinaggio Rare costruì le missioni più riuscite dell’intero gioco.
La prima (la diga – fig. 10) e la terza missione (la piana innevata –
fig. 11) erano un sensazionale esempio di level design concepito per
valorizzare un certo tipo di gameplay. Queste location erano caratterizzate da due elementi che favorivano l’uso del fucile con mirino telescopico:
10
1) Ambientazione a cielo aperto (fig. 10). Ovvero: estensione della
porzione di livello “a tiro” dalla singola posizione.
2) Numerose torrette di avvistamento (fig. 11) da riconvertire in
postazioni di tiro. Eliminare dalla distanza la sorveglianza delle strutture pattugliate, consentiva una volta giunti sul posto di esplorarle
senza il timore di rischiose sparatorie ravvicinate.
11
Azione: Devil May Cry (Capcom, 2001)
In Devil May Cry il level design
svolge quasi esclusivamente una
funzione di cornice dell’azione di
gioco, influendo su di essa solo nel
momento in cui location particolarmente anguste complicano l’esecuzione delle manovre evasive. Tuttavia, in occasione degli scontri con
i boss, l’elemento chiave per il successo è la corretta lettura del luogo
della battaglia.
Il primo scontro con Phantom ne
costituisce un esempio lampante.
All’interno di quella che sembra una
cattedrale vivente il giocatore deve
impiegare le colonne della sala come riparo dalle bordate di lava del
nemico. Ma è solo al livello di difficoltà più elevato che si apprezza
una più profonda relazione tra il design della location e la miglior strategia offensiva adottabile. A livello
‘Dante Must Die’, infatti, l’unica arma da fuoco a cui Phantom si mostra vulnerabile è il NightmareB, il
misterioso fucile energetico che si
ottiene verso la fine della prima
tornata di gioco. Apparentemente
11
di scarsa utilità, esso svelerà il proprio potenziale solo riaffrontando
l’avventura ai livelli di difficoltà più
elevati. Contro Phantom la strategia vincente consiste infatti nell’uso
continuativo del NightamareB, i cui
raggi carambolano impazziti per il
soffitto e le navate della sala colpendo a ripetizione lo scorpione di
lava. Una scena illuminante circa la
mai troppo apprezzata importanza
che una condotta stylish ricopre
nell’economia di gioco.
:SPECIALE:
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14
Anche nella sua funzione squisitamente estetica, il level
design di DMC si distingue per l’ardita ibridazione di stili
architettonici diversissimi. Le influenze gotiche (fig. 12) e
neogotiche (fig. 13) sono le più evidenti, tuttavia non
mancano all’appello contaminazioni ellenistiche (fig. 14),
del medioevo europeo (fig. 15) e di una disturbante bioarchitettura, come nel caso delle colonne pulsanti nella
sala di Phantom (fig. 16).
Il risultato è un level design stilisticamente azzardatissimo, eppur sorprendentemente coerente ad un’analisi
estetica finale. Questo fa di DMC uno dei ‘pezzi d’architettura’ più notevoli della storia dei videogiochi, e costituisce uno degli innumerevoli aspetti in cui l’infausto Devil May Cry 2 paga dazio se paragonato al suo predecessore.
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Sportivi [1]: Aggressive Inline (Acclaim, 2002)
I simulatori di skateboard, pattini in linea e i trick game
in generale devono al level design almeno il 50% della
loro attrattiva. In altre parole, il gioco è divertente se
sono divertenti gli stage. Tony Hawk in autostrada
sarebbe il gioco più brutto del mondo. Amped 2 con una
sola pista perfettamente rettilinea e priva di gobbe sarebbe di una noia indicibile. È questo il motivo per cui
nessuna trasposizione videoludica del surf ha mai pienamente convinto. Pennellare evoluzioni intorno a quella
che in fin dei conti rimane sempre la stessa onda risulta
presto stucchevole.
La direzione evolutiva del level design del genere è
stata indicata dalla serie di Tony Hawk. Oltre a varie
riproduzioni di arene concepite espressamente per lo
skateboarding, la serie di Neversoft offre da sempre scenari urbani riconvertiti da arte in teatri di folli evoluzioni
su tavola.
Aggressive Inline di Z-Axis esplode al massimo le
potenzialità di questo approccio, vantando le ambientazioni più improbabili per un titolo del genere. Il risultato
è straordinario: stage come quelli al luna park (fig. 17) o
al museo (fig. 18) propongono situazioni tanto insolite
quanto galvanizzanti. L’esecuzione di un grind lungo i
binari di un otto volante piuttosto che sulla colonna vertebrale di un T-Rex regalò emozioni inedite agli appassionati del genere, ed avvicinò i neofiti a una filosofia di
gioco che, all’avvento del terzo Tony Hawk, abbisognava di una sferzata di fantasia per recuperare la sua
appetibilità originaria.
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:SPECIALE:
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Sportivi [2]: WRCII Extreme (SCEE, 2002)
Con WRCII Extreme la pendenza irrompe quale caratteristica chiave del track design. Si tratta di uno dei
rari simulatori di guida in cui i tracciati sono costruiti
sfruttando al massimo le tre dimensioni. Il segreto risiede nel tool utilizzato per la loro creazione, denominato ‘Spline World’ dagli sviluppatori di Evolution Studios. Esso permette di generare rapidamente aree tridimensionali con un’estensione che supera i 50 km
quadrati, all'interno delle quali viene poi scavato o rialzato il percorso di gara. Laddove negli altri racing game i tracciati sembrano nastri concepiti bidimensionalmente, e solo successivamente movimentati lungo
la terza dimensione (con gobbe, salti, ecc.), in WRCII
le piste nascono già tridimensionali. Pertanto si sprecano le scalate e gli scollinamenti, con il fattore pendenza che incide palpabilmente sulla condotta di guida,
dal momento che successioni di tornanti in leggera salita o in ripidissima discesa esigono un approccio nettamente distinto.
“Più di 800 chilometri di piste”, recita uno strillo sul
retro della confezione europea. E non uno uguale
all’altro, aggiungiamo noi. Ciascuna tappa del World
Rally Championship è uguale solo a se stessa. Rispetto
al primo WRC emerge una consapevolezza dei track
designer molto più lucida. Il risultato è un’enciclopedia
di situazioni rallistiche di ineguagliata completezza.
Entrando nel merito del cuore della simulazione è
d’uopo segnalare la strettezza della carreggiata. Non si
tratta di un’esclusiva di WRCII, è la componente chiave della riuscita di ogni simulatore di rally con ambizioni di realismo. Ma limitare l’ampiezza del percorso è
possibile solo nel momento in cui il modello simulativo
non obblighi a controsterzi esageratamente prolungati,
come in GT3, che per questo motivo include tracciati
sterrati larghi come autostrade.
In ultima analisi, il track design di WRCII si distingue per un fattore che non incide sulla componente
simulativa in senso stretto, quanto sull’esperienza di
gioco tout court. Una certa regia, un preciso gusto fotografico sembrano soggiacere alla progettazione di
certi tracciati:
19
CIPRO: Una serpentina di aspri tornanti cadenza l’ascesa del
versante in ombra di un rilievo montagnoso. A mezzo chilometro dalla vetta la vegetazione si dirada fino a svelare la roccia
nuda della sommità. Un ultimo, lunghissimo curvone conduce
alla vetta. Lo imposto, scalo due marce e inizio a derapare. A
metà traiettoria la Subaru Impreza è investita dalla luce arancione del tramonto che incipria il versante opposto della montagna. Varcato il passo inizia la discesa. Alla prima curva a
gomito il piede sprofonda nel freno, ma lo sguardo fugge dal
percorso di gara verso il panorama da cartolina che si staglia
oltre il guard-rail. Dal fondo valle il nastro d’asfalto risale svelto un nuovo pendio impellicciato di fitta boscaglia.
Tra due minuti sarò lassù.
Momenti come questo arricchiscono il feeling di gioco
di un piacere turistico mai sperimentato prima in nessun racing game.
Sportivi [3]: SSX 3 (EA, 2003)
I giochi di snowboard sono un genere ibrido a metà tra i racing game e i trick game. Velocità e performance stilistica condividono il
medesimo gameplay, richiedendo
ambienti di gioco parimenti valorizzanti dell’una e dell’altra componente. Ne risultano tracciati innevati che alternano pendenze vertiginose a dossi da cui spiccare voli
acrobatici.
20
Oltre ad esplodere entrambe queste componenti, SSX 3 propone un
track design rivoluzionario rispetto
alla canonica serie di piste affrontabili singolarmente e accessibili
solo da menu. Tutti i tracciati appartengono al medesimo luogo virtuale, una gigantesca montagna,
esplorabile a prescindere dalla partecipazione alle innumerevoli competizioni ivi allestite. L’organicità
dell’ambiente di gioco, che vede
ogni pista collegata all’altra dagli
opportuni raccordi, dona coesione e
consistenza a un track design che si
arricchisce del fascino del freeroaming. L’esplorazione, nei giochi
di snowboard solitamente relegata
alla sola scoperta di scorciatoie, si
affianca qui alla velocità e all’esecuzione di trick quale caratteristica
chiave del gameplay. Decine di sfide e di bonus conquistabili unicamente setacciando la montagna
pongono l’accento su questa componente, esaltata da un look&feel
degli scenari che combina panorami
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da documentario (fig. 20) e sonorità ambientali new age.
Ma è nelle ‘Peak to valley races’
che si percepisce tutta la carica innovatrice del track design di SSX
3, ovvero in quelle competizioni
che prevedono la discesa a valle da
uno dei tre picchi della montagna.
Dal picco più alto fino alla città situata alle pendici si frappongono
fino a 30 minuti di ininterrotta crociera su neve, attraverso le piste
più prossime alla linea d’aria che
unisce la sommità all’arrivo. Il continuo (ma invisibile) accesso al DVD
consente l’acquisizione in tempo
reale dei dati relativi alla porzione
di gara immediatamente successiva, traducendo la competizione in
corso in un’esperienza di gioco inedita per estensione e continuità.
Lo sviluppo di un ambiente di
gioco innovativo e della tecnologia
necessaria a sorreggerlo è pertanto
la pietra angolare su cui Electronic
Arts ha edificato uno dei migliori
titoli sportivi di sempre.
:SPECIALE:
Ring#11
Platform: Super Mario Sunshine (Nintendo, 2002)
Il level design di Super Mario
Sunshine fa acqua da tutte le parti. Non che sia un male. L’elemento
liquido costituisce infatti il leit
motiv di tutti i mondi in cui è ambientato il gioco. La scelta, prima
ancora che da ragioni estetiche o
atmosferiche, è dettata da un game
design teso a esplodere tutte le
possibilità ludiche dell’acqua in ambito platform. In assetto ‘pistola ad
acqua’ lo Splac 3000 in dotazione a
Mario regola l’interazione con le
creature dell’Isola Delfinia, mentre
in assetto jet pack agevola i movimenti dell’idraulico, spostando il
baricentro
della
deambulazione
piattaformica verso le fasi aeree.
Non a caso i livelli di SMS presentano un accentuato sviluppo verticale rispetto a Super Mario 64. Il
potenziamento ‘Spruzzoturbo’ comprime i tempi di risalita laddove la
godibilità delle scalate più babeliche
potrebbe venir compromessa da
frustranti cadute.
Sulla scia di SM64, anche SMS
rifugge mondi progettati per assecondare un’esplorazione lineare
lungo determinati percorsi (alla Ratchet & Clank, per esempio), a
favore di morfologie più equilibrate,
compatte, immediatamente zeppe
di cose da fare, mai dispersive o disorientanti. Perché deambulare liberamente per il videomondo, di
per sé non costituisce più né una
novità né un divertimento. Nintendo lo sa. Quindi non tanto ‘livelli’,
quanto ‘paesaggi’: ambienti dalla
conformazione irregolare, credibile,
dalla fortissima caratterizzazione
mariesca. È quest’ultimo punto una
evoluzione stilistica rispetto a SM
64. Laddove il classico stage innevato di SM64 avrebbe potuto essere l’ambientazione montagnosa di
qualsiasi platform game, in SMS
ciascun livello trasuda identità nintendiana e demenzialità idraulicobaffuta. Le casette di Colli Ariosi
(fig. 21), i prati di girasoli sorridenti, lo spassoso luna park con la giostra degli Yoshi: tutte impagabile
cartoline di level design rigorosamente Mario-style. A ciò si aggiunge il dinamismo dei vari mondi,
mutevoli col prosieguo del gioco al
fine di offrire situazioni ludiche
sempre nuove nei medesimi spazi.
Un’ultima riprova di sopraffina
competenza in materia di level design è testimoniata da un numero
di missioni subacquee sorprendentemente basso per un gioco in cui
l’acqua la fa da padrone. Nintendo
è perfettamente consapevole del
ritmo lento e della dispersività che
da sempre affliggono le fasi subacquee dei videogiochi, e ne ha pertanto ridotto al massimo la presenza in SMS.
21
First Person Adventure: Metroid Prime (Nintendo, 2002)
Dominatore incontrastato dell’edizione 2003 dei Game Developers
Choice Awards, Metroid Prime si è
aggiudicato entrambi i riconoscimenti di “Game of the Year” ed “Excellence in level design”.
Ancora una volta l’esame ricade
su ambienti digitali di rilievo sotto
entrambi i profili ludico e architettonico. L’esplorazione del pianeta
Tallon IV procede vivace lungo tutti
e tre gli assi cartesiani, approfittando di un sistema di controllo così riuscito da non risentire della
congenita incompatibilità della visuale in prima persona con le manovre di salto. Lo sviluppo di questa componente platform accentua
il distacco tra MP e il genere FPS,
tradizionalmente più votato all’azione che all’esplorazione. Esplorazione peraltro condita dagli half-pipe e
dalle sezioni su rotaia dedicate alla
‘morfosfera’: perfettamente integrate con il resto dei livelli, tanto
da non dare mai l’impressione di un
bizzarro sottogioco estraneo al gameplay in cui si inserisce.
Una suprema forma di integrazione tra sistema di controllo, gameplay e level design si realizza in
occasione degli scontri con i boss
(fig. 22). Ad agevolare la messa in
atto della miglior strategia evasiva/
offensiva non interviene solo il sistema di lock-on, ma anche la pianta circolare delle arene che ospitano la battaglie.
Paradossalmente, il meglio e il
peggio del level design di MP risiedono entrambi nel criterio di stratificazione secondo cui Tallon IV si
lascia esplorare. Ciascuna location
non si mostra mai tutta in una volta, ma svela nuovi aspetti di se
stessa ad ogni tornata che segue
l’acquisizione di una nuova abilità.
Ma il ‘backtracking’, dal canto suo,
costituisce l’unico intoppo alla piacevolezza dell’esplorazione, da metà gioco in poi accompagnata da
un’impressione di ripetitività forse
evitabile implementando un sistema di teletrasporto.
Sotto il profilo stilistico, per la
modellazione di Tallon IV Retro
Studios ha visualizzato una civiltà
aliena attraverso la creazione di uno stile architettonico ad hoc. Dopodiché ha proceduto alla ragionata
demolizione degli scenari costruiti,
per restituir loro un aspetto remoto, decaduto e sottilmente malinconico. Il procedimento è assimilabile
a quello adottato in ambito cinematografico per l’allestimento di set
anticati, ad esempio i ruderi di templi e statue che compaiono nelle
pellicole de Il Signore degli Anelli, i
quali risalgono a ere precedenti rispetto a quella in cui sono ambientati libro e film.
È nel complesso delle Chozo Ruins (fig. 23) che MP esprime maestoso le sue migliori qualità estetiche in fatto di level design. Nell’e-
14
splorazione di questa regione si ritorna a sperimentare il gusto archeologico che permeava il primo
Tomb Raider, con in più lo stupore
derivante da ambienti dal look
violentemente
“altro”,
inedito,
alieno. E ancora una volta ci si
scopre a giocare sotto l’impulso
tutto turistico di scoprire nuovi
luoghi per lasciarsi rapire dal loro
fascino.
22
23
:INDEPTH:
Ring#11
Beyond Good & Evil
VS
Between Good & Evil
di Good Sator & Evil Cryu
Cryu – «BG&E esordisce bene, mostrando subito il fianco alle critiche ma offrendo
tutta una serie di pregi che ti convincono
a chiudere un occhio sulle magagne. Grafica pittorica, virtuosismi registici, panorami poetici, atmosfere incantate, scorci
caratteristici (la città non è altro che una
Venezia tra i monti), sensazionale uso del
colore abbinato ad alcune delle migliori
texture viste su PS2. Tutto questo spalleggiato da una colonna sonora a tratti
sorprendente per un VG europeo (il pezzo
Propaganda è eccezionale, e anche il sottogioco cui si accompagna è molto divertente). In più il character design è una
meraviglia, a cominciare da Jade, per continuare con lo Zio Maiale, pardon, Zio
Pey’J. Ma anche il cane è da sbellicarsi.
Tutti espressivi, originali, pittoreschi. E
poi è graziosa l'idea del giornalismo d'assalto, lo scopo di ogni infiltrazione è quello di scattare delle foto, un po' come nel
Tanker di MGS2. Intrigante.
Ma ahimé, manca tutto quello zoccolo
duro di gioco che poi sarebbe andato ad
ornarsi di tutti i pregi qui sopra elencati.
A cominciare dalla grafica: stile a profusione, ma accompagnato dal peggior
motore grafico della storia di PS2. Se durante le cut scene il gioco è visualizzato in
formato 16:9, durante le fasi di azione la
porzione di schermo attiva si restringe
ulteriormente. Troppo, troppo, troppo
stretto. Aggiungiamo che i poligoni sono
davvero pochi, viene da chiedersi come
diavolo sia possibile che dopo quattro anni
di sviluppo si verifichino cali di frame rate
così drastici. Ancel dice che il gioco era
già completo, seppur diverso, due anni fa.
Anche ammettendo che due anni fa Ubisoft avrebbe avuto il coraggio di rilasciare
un gioco con questo motore grafico, nei
due anni extra non si poteva ottimizzarlo
un tantino?»
Ancel) su Dreamcast o PC: stesso stile,
ma con texture e colori ancora più belli, a
tutto schermo. In BG&E la visuale è talmente sottile che spesso non sono neanche inquadrati i piedi della protagonista.»
Sator – «Un ottimo senso dell'inquadratura. Non mi dire che ti ha dato fastidio
una cosa simile. A me è addirittura piaciuta.»
Cryu – «Eccome se mi ha dato fastidio.
La percezione dello spazio circostante risulta parziale, complicando l’orientamento. Ti sembra di stare col naso nel
culo di Jade: sexy quanto vuoi ma ti viene
da spostare indietro la sedia. Se a questo
ci aggiungi il frame rate claudicante e la
nevrosi della telecamera virtuale il mal di
testa è assicurato.»
Sator – «Mal di testa? Allora GTA che
effetto ti fa? Un alien che balla la rumba
all'interno della scatola cranica? Tra l’altro la mobilità della telecamera quando
Jade é nascosta dietro a un riparo é veramente eccellente.»
Cryu – «E non è tutto. Il peggio si verifica
quando si cerca di scorgere che cosa ci sia
un filo più in alto o più in basso di Jade. Si
deve ricorrere alla soggettiva perché lo
schermo finisce poco sopra la sua testa e
appena sotto i suoi piedi; ma la soggettiva ha i bordi oscurati per dare un effetto
obiettivo da macchina fotografica. Caspita
se è scomodo, anche perché una visuale
in soggettiva così limitante penalizza la
libera degustazione di certi splendidi ambienti di gioco.»
Sator – «Le tue critiche mi sembrano esagerate. L'eccellente stile grafico riversato nel gioco mi basta e mi avanza. Che mi
frega del polygon count?»
Cryu – «Niente, infatti. Però se ci sono
pochi poligoni è assurdo che il frame rate
sia così traballino.»
Sator – «Ovvio che se ci sono entrambe
le cose, stile e fluidità, uno è più contento, ma proprio non ce la faccio a penalizzare un prodotto con tanto senso del bello
solo perché gli ingegneri che hanno lavorato al motore grafico preferivano andare
coi viados. Ci sono troppi Jak II in giro
per non applaudire un BG&E.»
Cryu – «Fatto sta che i limiti dell’impianto tecnico penalizzano ciò che dovrebbe
invece valorizzare: la materia artistica.
Come avere un pittore sensazionale e farlo dipingere su dei quadratini di carta igienica invece che su una tela di un metro
per due. Un fottuto spreco. Prendi Rayman 2 (sempre del team capeggiato da
Sator – «I livelli si sviluppano principalmente in orizzontale, e quelli che hanno
più piani non necessitano di occhiate elevate. A meno che non stiamo cercando
animali, ma in questo caso serve appunto
la fotocamera.»
Cryu – «Sono convinto che con i VG che
prevedono spostamenti in tre dimensioni
il 16:9 sia solo una scocciatura. Avere la
visuale di gioco dimezzata non è proprio
un vantaggio.»
Sator – «Perché no? Pensi la stessa cosa
quando ti vedi Le Due Torri?»
Cryu – «Le Due Torri è un film, non devo
giocarci dentro. Anche durante le cut sce-
15
ne di BG&E non mi lamento dei 16:9, ma
quando prendo in mano il pad e mi trovo
la visuale così sproporzionata tra larghezza e altezza mi sento in una gabbia ampia
quanto un campo da calcio ma alta un
metro e mezzo. D'altronde ci sarà un motivo se ci si lamenta da anni delle bande
nere nei giochi PAL. Ecco, questo è fatto
in Europa, però ha le bande nere spesse il
doppio di quelli fatti in Giappone e convertiti alla buona.»
Sator – «Nelle conversioni PAL le bande
nere non perseguono alcuna ricerca dell'inquadratura, anzi, ti fanno pure vedere
personaggi grassocci (oltre alla ridotta
velocità).»
Cryu – «Ma la sensazione di claustrofobia
che danno è assimilabile. Oltretutto i giochi PAL schiacciano ma non tagliano niente. In BG&E a volte mi sembra proprio
che manchi un pezzo di visuale. Una scelta di stile? Ci credo poco: l'engine non
riesce neanche a gestire uno schermo metà nero, mai nella vita avrebbe potuto
muovere una grafica a pieno schermo.»
Sator – «Poco importa se la scelta del
16:9 only sia stata dettata da motivi artistici o per le magagne del motore. Conta
il risultato, non la causa che lo ha prodotto. Stessa cosa per gli anni di sviluppo.
Buoni per nozionismi ma ininfluenti nel
giudizio di un'opera. Per dire: Spielberg
Lo Squalo voleva che fosse ben visibile nel
film: un po' tipo ET. Ma il pupazzo che
avevano fatto quelli degli effetti speciali
era talmente penoso che ha dovuto tenerlo nascosto inventandosi millemila inquadrature geniali e sequenze al cardiopalma
(DU-DUM) che fanno del film il capolavoro
che é.»
Cryu – «Parlando di gameplay, ho apprezzato lo spunto dell'interazione con i
personaggi comprimari. È ciò che volevano fare in Studio Cambridge con Primal e
che non sono riusciti a realizzare. Brillanti
anche molti enigmi: semplicissimi, ma
perlomeno un po' originali. Ma siamo alle
solite: c'è tutto il contorno, ma manca lo
scheletro. BG&E è uno stealth game primordiale. Guardie che hanno un cono visivo approssimabile alla linea retta, intelligenze artificiali inesistenti, credibilità
generale delle situazioni evasive pari a
zero.»
Sator – «Consideri un difetto la visuale
ridottissima in lunghezza della guardie di
MGS? Io no. È semplicemente una delle
regole del gioco. I nemici di BGE invece
hanno una visuale che si estende in lunghezza ma non in larghezza: cosa ampiamente voluta dagli sviluppatori e che
va ad incastonarsi in un gameplay che ne
fa un uso consapevole. Inoltre non condivido il "primordiale". Ci sono un sacco di
trovate per rendere varia l'azione stealth
ed il tutto rivela un buon studio delle cau-
:INDEPTH:
se/effetto. E non dimentichiamoci che si
tratta di puzzles. Non è Splinter Cell né
vuole esserlo.»
Cryu – «Ma gli stealth game erano così
cinque anni fa. Tutto già fatto e già visto
decine di volte. Ora soluzioni del genere
fanno specie come farebbe specie se ne
Le Due Torri Gollum fosse una marionetta
di plastica. 50 anni fa nessuno avrebbe
fiatato, ma oggi è anacronistico. Ne abbiamo già fatte troppe di sequenze stealth
così basilari, non solo nei primi MGS, ma
anche in tutti i cloni che ha generato. Se
uno passa davanti alla TV mentre giochi
(a me è capitato) scoppia a ridere vedendo che sei accovacciato di fianco (non dietro, di fianco) a una guardia e questa non
ti vede, così come è pazzesco che se apri
una porta dietro una guardia questa non
sente il baccano che fai.»
Sator – «Perché tu consideri lo stealth
gaming di questi giochi una simulazione
dell'agire stealth nella realtà, quando invece a BG&E non si cura minimamente di
ricreare i comportamenti degli SWAT reali.
Sono giochi che stabiliscono delle regole
(vista in profondità, bombole sulle spalle
come punto debole, granata pulisci-tutto)
e su questo imbastiscono il loro gameplay.»
Cryu – «Nessun dubbio a questo proposito, ma l’easy gaming può farla da padrone
negli arcade e sui portatili, ma in un adventure lo vedo fuori posto. I combattimenti poi, mamma mia. È bello il fatto
che mentre si combatte si debba anche
preoccuparsi di fotografare l'avversario
esponendosi alle sue grinfie nel tempo in
cui si aggiusta l’inquadratura, ma il combattimento in sé è pietoso. Ancora una
volta il contorno è intrigante, ma la pietanza cruda.
Gli scontri si svolgono in questa maniera: appena bisogna menare le mani il
frame rate fa le valige e parte per le Canarie, dopodiché rimane da pestare come
fabbri X facendo giusto un po' d'attenzione a quando gli avversari caricano (e allora giù di botte al quadrato per schivare).
In caso di presenza di un personaggio
comprimario (doppia H o Zio Pey’J) ogni
tanto si pigia anche il triangolo…»
Sator – «…Utile anche a fini enigmistici.
Non consideri poi la direzione in cui pestare. Anche quella è importante, molto più
che schivare: questa utile soprattutto
contro i mostri sulla luna. I combattimenti
sono divertenti, anche se poco approfonditi.»
Cryu – «La trama poi, all'inizio mi piaceva
più che altro per i soggetti coinvolti (ribadisco: protagonisti d’eccezione!), ma è la
stessa di Ratchet & Clank, però imbevuta con il cliché della cospirazione alienogovernativa. E poi continua a ripetere cose ovvie. Già alla fine dell'introduzione si
capisce lontano un miglio che le Squadre
Alfa sono in combutta con gli alieni. Nonostante questo le tre ore di gioco successive sono un susseguirsi di informazioni a
supporto di una conclusione già ampiamente conclamata. Ronf.»
Sator – «Certo che si capisce fin dall'inizio che le Squadre Alfa sono in combutta
con gli alieni: c'è scritto anche nelle press
release! Narrativamente la storia non si
sviluppa per farti scoprire quello che già
Ring#11
sai: i protagonisti devono invece
capirne i modi e i motivi e, soprattutto, devono trovare le prove
per convincere la popolazione; e
più ci provano, più i media al soldo delle Squadre Alfa smentiscono tutto dicendo che è un complotto orchestrato da quei comunistacci dell'IRIS.»
Cryu – «Ok, ma il fatto stucchevole è che per tre ore continuano
a imboccarti, come a dire "se non
sei ancora sicuro sicuro sicuro
della cospirazione eccoti la conferma". Ad esempio, Jade pronuncia un sacco di battute da idiota da cui si evince che non ha
ancora capito nulla. Nonostante questo ci
si ritrova a selezionarle per poi sentirsi
dare del tonto dal proprio interlocutore.
La mia autostima ringrazia.»
Sator – «Il fatto è che Jade non ha letto
le press release e che tu non hai colto il
conflitto principale del gioco, e che interessa soprattutto Pey'j: è giusto che io,
Zio Maiale, rischi la mia vita in un'indagine quando ho delle precise responsabilità
verso i bambini del faro? Se fai scoprire
subito che le Squadre Alfa sono certamente in combutta con i DomZ, togli potenza
a questo conflitto, perché dài a Pey'j un
motivo valido per continuare (cercare di
impedire nuovi rapimenti). Così invece il
collegamento Squadre Alfa/Domz non è
sicuro, e i personaggi devono assumersi
un rischio maggiore.»
Cryu – «Ma è proprio quello che succede!
È dall'intro che si capisce che Zio Pey'J sa
che le Squadre Alfa sono culo e camicia
con i DomZ.»
Sator – «Sono sospetti. Poi Zio Pey’j sa
molto di più ma non può darlo a vedere.
Inoltre è ovvio che sono cliché, ma sono
cliché usati con competenza: il colpo di
scena dello Zio Maiale a capo dell'IRIS,
poi, è veramente bello.»
Cryu – «Non mi è piaciuto neanche questo. Per due motivi: 1) Pey'J è un suino. E
come usa come nome in codice? ‘Cinghiale’. Inventiva saltami addosso. Se lo
merita di farsi catturare. 2) Assurdo che il
capo di un'organizzazione si esponga in
prima persona in una missione operativa.»
Sator – «Ma lui non si voleva esporre! È
Jade che decide di indagare. Pey’j non
vorrebbe nemmeno accettare la missione
ricevuta dal fantomatico signor De Castellac. Questo perché, essendo a capo dell’IRIS, sapeva che “De Castellac” è un nome
fittizio usato per reclutare nuovi membri.
Un po’ come “Nemesis Divina” per Ring.
Pey’j tenta più volte di convincere Jade a
desistere, e le va dietro solo per non lasciarla sola.»
Cryu – «Chapeau. Ma adesso spiegami
come è possibile commettere un errore di
narrazione come questo: il colpo di scena
della resurrezione di Pey'J è completamente rovinato da un’anticipazione indiretta, ovvero gli ascensori attivabili solo
da tre individui contemporaneamente.
Indovina-indovinello: si arriva alla base
DomZ in due per recuperare un terzo,
prima di ripartire è necessario recarsi in
un luogo che richiede la presenza di tre
16
personaggi. Quando troviamo il terzo
questo è morto. Secondo voi è proprio
morto morto morto?
Di solito ci si lamenta di come un ottimo gameplay sia sciupato da una pessima
trama. Qui è il contrario, con un colpo di
scena il cui effetto è letteralmente infranto da un gameplay telefonato.»
Sator – «Ti ribalto la cosa... Trovi l'ascensore a tre. Pensi: “Hurrà, troverò Pey'j e ce ne andremo a spasso tutti e tre!”.
Poi trovi Pey'j, imprigionato come Han
Solo. Svenuto? Sicuramente, dài. Poi lo
liberi e lo trovi morto. Ma... e l'ascensore?
NOOOOOOOOOOOOO!!!»
Cryu – «Ci hai provato. Ma in un VG, se
una cosa c'è, è perché prima o poi va usata, non ci sono santi. L'ascensore a tre è
proprio ciò che mi impedisce di gridare
NOOOOOOOOOOOOO!!!»
Sator – «Ora, seriamente: il ritorno in
vita dello Zio è talmente immediato che
non credo sia stato inserito per suscitare
sorpresa. Serve invece a evidenziare, ancora una volta, il legame strettissimo che
lega Jade a Pey'j, nonché a dare qualche
indizio sulla vera natura di lei. E voglio
sottolineare come il tutto segua le regole
classiche della narrazione, vale a dire che
quando si deve ribadire una cosa, bisogna
farlo in un contesto di tensione crescente:
dal semplice rischio di morire durante il
primo boss, alla "morte apparente" nel
finale. È quasi lo stesso motivo per cui
Aragorn, ne Le Due Torri, vola giù dal dirupo. Qualcuno in sala pensava veramente che Aragorn fosse morto? No. Allora la
scena è stato un fallimento? No, assolutamente.»
Cryu – «Assolutamente sì. Narrativamente è il momento peggiore di tutto il film,
peggio di Legolas SSX. Perché quella scena è poco credibile non per il fatto che
muoia il protagonista (seee, come no),
ma perché non è girata con i crismi delle
morti importanti. Quando Aragorn finisce
di sotto non c'è nessuno slow motion
(sempre c'è lo slow motion quando muore
qualcuno, vedi Boromir o Haldir), nessuna
colonna sonora lirico-struggente, nessuna
immagine, anche parziale, di Viggo che
vola di sotto.»
Sator – «Questo perché il film non ci prova nemmeno a far credere allo spettatore
che Aragorn stia cavalcando nei Campi
Elisi; ci dice piuttosto che il nostro eroe,
fico quanto vuoi, non è imbattibile. Non é
un caso che una scena simile sia stata
inserita alla vigilia della battaglia del Fosso di Helm.»
:INDEPTH:
Cryu – «Ma io al cinema sono anche disposto, per sospensione dell’incredulità, a
credere per dieci minuti che il protagonista sia morto (se ci ragiono so che non è
così, perché è impossibile, ma posso non
ragionarci), a patto che tu, regista, ci
metti del tuo per farmelo credere. Così
quando “scoprirò” che era tutta una finta
sospirerò come Èowyn alla ricomparsa del
suo amato.»
Sator – «Io la penso al contrario. Se mi
metti lo slow motion usi un codice universalmente riconosciuto per una cosa specifica: la morte di un personaggio. Se poi il
personaggio non muore allora mi girano,
perché il codice é stato usato per imbrogliare.»
Cryu – «Da questo punto di vista è molto
più credibile la presunta morte di Trinity
giù dal palazzo in Matrix Reloaded che
non la caduta nel baratro di Aragorn ne Le
Due Torri. Tié, Matrix Reloaded è un film
migliore de Le Due Torri (grasse risate).
Ritornando alla storia di BG&E, la scena
dopo i credits in cui a Zio Pey'J compare
in mano una piovretta DomZ mi ha fatto
lo stesso effetto della tipica fine dei film
horror di serie Z quando dalle macerie che
hanno sepolto il cattivone finale spunta
una mano...»
Sator – «Ma negli horror é una scena fine
a se stessa. Giusto per far fare il sobbalzo
finale sulla poltroncina. Qui invece c'è un
personaggio a cui vogliamo bene che sta
nascondendo qualcosa che potrebbe condurlo alla rovina: è un'anticipazione sulla
prossima puntata (che ahimé, dubito vedremo).»
Cryu – «Sarà, se questa fosse stata la
sceneggiatura di un film l'avresti distrutto,
ma in un VG ti sta bene.»
Sator – «Vero. Qualsiasi sceneggiatura di
un videogame, se fosse stata in un film,
l'avrei distrutta. Non sono media narrativamente paragonabili (sai che ronfate uno
Shenmue al cinema, e Final Fantasy
VII? Rotfl!).»
Cryu – «Forse tu non attribuisci enorme
dignità espressiva al VG, per cui quanto di
buono arriva è tutto grasso che cola. Per
me non si tratta di un medium inferiore,
perlomeno a livello di grammatica, poi,
come sostiene Nemesis, a poter dire qualcosa col VG sono in quattro gatti in virtù
dei mostruosi investimenti alle spalle di
ogni produzione. Ma questo è un limite
estrinseco del medium, non intrinseco.»
Sator – «Sinceramente è vero. Ritengo il
VG a livello di grammatica inferiore a cinema e letteratura.»
Cryu – «Per me, invece, i VG e i film sono
sì media per certi versi paragonabili. Certo, sono cose diverse, una trama banale
(Shenmue) vissuta dall'interno grazie a
mirabili escamotage tecnico/ludici può
diventare credibile, esattamente come
quando nella realtà ti capitano cose che
paiono scritte da uno sceneggiatore, non
è che ti lamenti della scarsa credibilità
dello storyline della tua vita e incroci le
braccia, la vivi e basta perché è reale per
forza.»
Sator – «Esattamente. L'interazione valorizza moltissimo una trama. Ma se togli
Ring#11
l'interazione, la trama di un VG per ora ha
sempre detto poco e abbastanza male.
Nel globale di un racconto, intendo. Nelle
piccole scene invece ancora ancora se la
cava. Per dire: Final Fantasy il film. La
storia è schifosa. Siamo tutti d'accordo.
Ma se tale storia la sposti in un VG credo
che molti videogiocatori eiaculerebbero
sui forum di mezzo mondo.»
Cryu – «Tuttavia sono convinto che con
un VG si possano raccontare storie coerenti e credibili come con un film o un libro, e non parlo per ipotesi, ma con in
testa Silent Hill e Metal Gear Solid.
Ritornando al gioco, le fasi sull'hovercraft
sono emblematiche della scarsa cura riposta nel rifinire l’opera tutta: oscillano tra il
divertente e il banale, ma sempre inficiate
da una rozzezza di fondo determinata un
po' dalla realizzazione tecnica, un po' dai
controlli, un po' dal sistema di sparo, un
po' dagli scatti della telecamera. Quando
nella recensione dicevi che i giochi Nintendo come Zelda li puoi maltrattare
quanto vuoi ma alla fine reggono sempre,
credo che intendessi questo: sulla barca
di Link ci si annoia a morte, ma tutto fila
via liscio come l'olio: i controlli, la camera,
il motore grafico, i colori, le animazioni di
Link, tutto. Le fondamenta ci sono, poi
magari sono sotto-sfruttate, ma mostrano
la loro forza.
Sator – «Credo che BG&E abbia sofferto
la sua natura multipiattaforma. Probabilmente molte risorse sono state concentrate lì invece che in altri posti. Penso che
questo genere di giochi sia il più difficile
da sviluppare, perché devi competere con
una cosina da nulla chiamata Zelda e
perché racchiudono in sé moltissimi stili di
gioco. E tutto deve essere ben amalgamato e coerente.»
Cryu – «Ma proprio perché contengono
svariate tipologie di gioco si chiude un
occhio se fanno tutte un po' pena prese
singolarmente, e si considera solo l'amalgama. Vale lo stesso discorso per Vice
City e Shenmue: ottimi giochi nell'insieme, mediocri nei vari sottogiochi che li
compongono (sparatorie di GTA e picchiaduro di Shenmue anyone?).»
Sator – «Amalgamare diversi stili ludici,
in una struttura via via più profonda, senza una netta suddivisione in livelli… Secondo me bisogna essere molto più che
ingegneri. È un inferno, sono pronto a
scommetterci. Un platform in confronto è
una bicchierata d'acqua.»
Cryu – «Mettiamola così: è più difficile
realizzare Mario Party o Super Mario
Sunshine? Uno è un autentico Decamerone del VG, l'altro "solo" un platform.»
Sator – «È un caso limite. Ti rispondo
dicendo che secondo me un dungeon di
Zelda è la cosa in assoluto più difficile da
realizzare a livello di game design. Inoltre
gli sviluppatori hanno pagato il loro essere
alla prima esperienza nel fare un gioco
simile.»
Cryu – «È vero, per Ancel e soci BG&E
era la prima esperienza in un gioco à la
Zelda, ma BG&E ha ereditato da Rayman e relativo seguito enormi porzioni
di gioco. L'idea dei comprimari, le sequenze racing, pensa che ho riconosciuto
un motivo sonoro preso paro paro da Ra-
17
yman 2, e alcuni elementi grafici sono
proprio quelli di Rayman 2. Addirittura la
trovata di invertire i comandi sul finire del
gioco per ricreare l’effetto di Jade che sta
perdendo il controllo di se stessa è ereditata dal primo Rayman: un mago ti faceva un incantesimo ed eri costretto a superare un livello con i comandi invertiti.»
Sator – «Un eventuale sequel avrebbe
buone chance di sfondare, ma soprattutto
di aggiungere una boccata d'aria fresca.
Cosa che fa questo BG&E, ma non pienamente.»
Cryu – «Esatto, nonostante la sua pachidermica gestazione, a questo gioco sembra mancare ancora un anno di sviluppo.»
Sator – «Un altro anno di sviluppo? Farebbe bene a qualsiasi gioco.»
Cryu – «Sì, ma a BG&E avrebbe fatto
benissimo. Ci sono le idee, ma manca la
sostanza. c'è l'estro, ma mancano le basi.»
Sator – «BG&E le basi le ha eccome. Gli
manca l'approfondimento che solo il mestiere può dare.»
Cryu – «Stiamo parlando di Michel Ancel
e Ubisoft, non di un team di sviluppatori
da cantina. Ti immagini se BG&E fosse
stato sviluppato da Capcom che pienone?
Forse a Ubisoft è mancato davvero del
coraggio. Quando due anni fa avevano
finito un gioco, avrebbero dovuto pubblicarlo. Invece si sono lasciati condizionare
dall’insuccesso commerciale di Ico, a dire
di Ancel simile nel look alla prima versione
di BG&E, così hanno ricominciato daccapo
tutto col morale nei calzini e non ce l'hanno fatta a completarlo.»
Sator – «Hanno tentato. Posso capirli.»
Cryu – «Anche se alla fine del gioco scattano le anticipazioni, non sono così sicuro
che ci sarà un BG&E2. Perché in questo
BG&E c'è del valore, ma è riposto là dove
in pochi riusciranno a vederlo.»
:INDEPTH:
Ring#11
Anatomia di un Character Design
[Chooko Senki Kikaioo]
di Amano76
Il re dei Pilder
I grandi picchiaduro della storia non hanno solo imposto il proprio sistema di
combattimento, ma hanno anche inculcato nell'immaginario dei giocatori personaggi come quelli di Street Fighter II o Tekken o King of Fighters.
In Capcom, data la confidenza col genere, non sono mai venuti a mancare prodotti esemplari in questo senso, tanto che persino il terzo Street Fighter, un titolo ignobile dal punto di vista strategico, può farsi vanto di un traguardo simile.
Pochi però sono riusciti a proporre soluzioni nuove ed originali come quelle presenti in Kikaioo. È vero che di recente l'etichetta di Osaka si è profusa in molti
picchiaduro su licenza, come quello bidimensionale di Jojo, quello tridimensionale
di Spawn, o il mastodontico Marvel vs Capcom 2. E Chooko Senki Kikaioo,
per quanto sfoggi un cast di personaggi inediti, in un certo senso è anche lui figlio
di simili condizioni. Ciò che separa quest'ultimo dal resto della produzione Capcom
è che alla progettazione abbia collaborato un veterano come Shoji Kawamori: in
Kikaioo l'autore non si è solo divertito a recuperare, ironizzandoli, i soliti personaggi-tipo dei cartoni robotici, ma è anche riuscito a sintetizzare, con estrema
complessità, matrici storiche con altre di gusto odierno.
Il cast del gioco non è pertanto una semplice tessera del carisma di questo impeccabile picchiaduro1, ma anche una chiave di lettura di quelle che sono le tensioni semiotiche del character design nipponico.
Cerotti rotantiii!
Junpei [foto], pilota di Kikaioo, è il
classico protagonista delle serie a
cartoni anni '70, rozzo ma dagli alti
ideali. Una testa calda poco imbarazzata dalle donne, che pensa solo
a salvare il mondo, far vincere la
giustizia e andare d'accordo con gli
amici. Il suo viso possiede un particolare ben visibile: un cerottone
grande e grosso sul naso.
Lo sfregio sulla faccia (o il cerotto) è una caratteristica ricorrente in
molti personaggi giapponesi: in una
società in cui il viso sbarbato e impeccabile è la condizione principale
di bellezza esteriore, abbinato ove
possibile a capelli di forma e colore
assurdi, il protagonista con imperfezioni sul viso sta diventando una
figura classica dell'immaginario a
cartoni e quello videoludico. Si pensi a Ryo Hazuki (cerotto), Solid
Snake (barbone e capelloni), o
Squall (sfregio sul naso), o il più
recente Monkey D. Luffy del blockbuster One Piece (squarcio sulla
guancia): tutti personaggi distinti
da imperfezioni del volto che saltano immediatamente agli occhi, senza le quali risulterebbero impersonali e ordinari.
Si potrebbe terminare il discorso
concludendo che sono tutti discendenti di Capitan Harlock, in realtà il
fatto che così tante caratterizzazioni
della cultura popolare giapponese
moderna convergano su questa faccenda della cicatrice, non è casuale.
Lo sfregio (o il cerotto che la nasconde) risponde alla classica necessità narrativa di dare una cifra di
distinzione al protagonista, è vero,
ma rappresenta anche una sorta di
segno dei tempi, una beffa alla spasmodica cura per l'aspetto esteriore
di tanta gioventù giapponese, la cui
appariscenza non è altro che l'indice
più clamoroso di una diffusa superficialità. Una simile interpretazione
ovviamente non vale in senso assoluto, ci sono esempi di segno completamente opposto (Sayuki, trasmesso da MTV, tanto per dirne uno) tuttavia è innegabile che una
simile "corrente di pensiero" da parte di molti character designer sia
più che diffusa, e questo perché in
genere il loro lavoro è indirizzato ad
un pubblico che non è dedito a coltivare un aspetto modaiolo e appariscente. Si pensi a Final Fantasy
X, in cui lo sbruffone Tidus, tanto
simile nell'aspetto ad un adolescente trendy nipponico (abbronzatura
artificiale, tinta bionda, abbigliamento cool) viene presentato come
un egocentrico incapace di rendersi
conto della situazione che sta vivendo: è proprio questa scelta estetica di Nomura che accentua la
drammaticità del momento in cui
l'eroe deve affrontare la realtà dei
fatti sino ad allora trascurata, perché lo spettatore ha fin dall'inizio
del gioco etichettato Tidus in base
alla sua apparenza. Una scelta che
dimostra come l'ormai ufficiale character designer di Final Fantasy
non sia un semplice appassionato di
tamarri, ma un disegnatore di talento in grado di sintetizzare le intuizioni degli sceneggiatori con personalità e malizia.
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Ring#11
Sono figo perchè non ci vedo
Anche il "personaggio con gli occhiali" è un altro segno dei tempi.
Santificato dall'inimitabile caratterizzazione di Gendo Ikari, il quattrocchi è una figura narrativa che
sta acquistando uno status di onnipresenza senza precedenti.
Il Simon Harvard di Kikaioo, comunque, più che parte di questa
nuova corrente, è l'inequivocabile
stampino di Maximilian Genius e va
catalogato semmai come un tributo
al suo antenato di Macross2. Eppure
che sia uno dei protagonisti della
vicenda nonostante la pecca delle
lenti, salta agli occhi. Un esempio
più valido del contagio di questo
trend in ambito ludico è il Lizard
Vales di Valkyrie Profile, raffigurato come un diabolico cospiratore
col vizio di aggiustarsi gli occhiali
ogni cinque minuti. La sua miopia,
probabile conseguenza di uno studio incessante, non ha la funzione
di esprimere un aspetto estetico
poco appetibile quanto più sottolineare l'eccezionalità della sua intelligenza e quindi la sua superiorità,
che l'inquietante mago piega a propositi di ogni risma arrivando persino a costruirsi cloni della protagonista per farne bambole sessuali.
Cominciato come tentativo ruffiano per guadagnare le simpatie del
pubblico degli otaku, tarati da difetti estetici che spesso sono il motivo
del loro isolamento (non sempre
involontario), il personaggio miope
ha assunto via via maggiore ricorrenza narrativa, arrivando a diventare un’icona della positività a tutti
gli effetti: si pensi a molte caratterizzazioni recenti come quella di Auron in Final Fantasy X (tanto per
non citare i soliti giochi), o Basara
in Macross Dynamite 7 [foto] o ancora al Bolt Crank di Eat-man, o il
semi-onnipotente Citan di Xenogears, tutti protagonisti/eroi segnati
dalle loro montature raffinate e
stylish, ma pur sempre portatori
(ganzi) di un handicap. Fondamentale in questo senso la gamma di
interpretazioni di Yoshiyuki Sadamoto, character designer tra i più
abili, la cui carriera offre originali
esempi di stilizzazione di personaggi miopi che hanno poi contagiato
l'immaginario degli anime in modo
a dir poco radicale.
Il Ramus di Lunar, ad esempio, è
doppiamente tarato dagli occhiali e
dal suo sovrappeso, ma è un personaggio solare e in più di un caso è
quello che prende le redini del
gruppo: nonostante abbia tutte le
carte in regola per essere un escluso da antologia, rappresenta invece
una figura positiva e di comando.
Una caratterizzazione molto curiosa
per il periodo, in cui le "spalle" munite di lenti da vista occupavano la
classica funzione che potremmo definire, con un sostantivo volontariamente comico, dello "spiegatore": il personaggio che mentre l'eroe fa a botte col cattivo o calcia un
"missile" in porta, sta in disparte a
commentare le mosse e le tecniche
utilizzate. Categoria che rispecchia
proprio l'elevato indice di maniacalità degli otaku, spesso fisicamente
inermi ma al contempo depositari di
conoscenze insolitamente approfondite per l'età che possiedono.
A Ramus seguono poi Kensuke di
Evangelion e il Jean de Il mistero
della pietra azzura, ispirati al Tonbo
di Kiki's delivery service (lungometraggio di Hayao Miyazaki). Grazie a
Sadamoto l'archetipo del personaggio miope compie la sua evoluzione
conclusiva, consegnando finalmente
alla storia dell'animazione due quattrocchi con tutte le qualità per essere protagonisti: socievoli quanto
istruiti, il loro ruolo entusiasta e vivace non è più quello accessorio dei
cartoni di un tempo ma diventa anzi
quello fondamentale dei personaggi
che con la loro positività guidano i
protagonisti delle storie (Shinji un
in caso, Nadia nell'altro) a migliorarsi e a maturare.
Buffo come oggi sembra non ci
sia niente di più cool che tenere un
paio di lenti calate sul naso...
Simon Harvard
Basara
Auron
All'ombra di Gundam
Shadow red è uno dei personaggi
più riusciti del cast di Kikaioo, anche se il mistero che lo circonda si
dissolve in fretta: è il padre di Junpei, e l'epigono, ovviamente, è
Darth Vader.
Ora, tracciare una mappa delle figure narrative ispirate all'irascibile
sith ideato da Lucas è impossibile,
tuttavia se si limita lo spettro d'analisi al cosmo delle produzioni giapponesi il cerchio si stringe. Non solo, trascurando l'elemento di parentela tra Shadow red e il protagonista del gioco, quello che rimane è
un aspetto esteriore che sembra
parodizzare il Sephiroth di Yoshita-
ka Amano. In questo caso però si
sminuirebbe l'ispirazione di Kawamori: il "cattivo" bello e con spada
a tracolla è un'icona ben più radicata nell'immaginario nipponico. La
19
sua "bellezza", fatta di un viso privo di cicatrici, di occhi felini con
lunghe sopracciglia, e di capelli lunghi dalle tinte insolite (biondi o argentei o bianchi, cioè innaturali per
un giapponese qualsiasi) è infatti un
connotato negativo, è assoluta come il male che la nemesi esercita.
Shadow red non ispira antipatia: è
morale, è forte, è sicuro di sé, è un
ideale maschile; eppure allo stesso
tempo rappresenta lo sbugiardamento del pregiudizio estetico secondo cui l'aspetto è la chiave dell'accettazione e della superiorità,
perché attraverso questa icona la
bellezza esteriore e quella interiore
:INDEPTH:
vengono rese chiaramente distinte.
La katana in spalla è invece tributo
ad un altro parco dell'immaginario,
cioè quello delle serie cosiddette
sentai, le produzioni televisive giapponesi che noi conosciamo come
Power Rangers, o Spectreman, o
Megaloman. In queste opere caratterizzate da una capillare frequenza
di scontri a mani nude, non di rado
sono presenti nelle fazioni dei cattivi personaggi molto simili a samurai
medievali dotati di una forza superiore a quella di chiunque altro. In
loro ricorre l'equipaggiamento della
spada, per due motivi: il primo è il
simbolo della loro scorrettezza (un
arma bianca contro i semplici pugni), il secondo è l'ideale di onore e
coraggio che il loro aspetto cavalle-
Ring#11
resco richiama, un ideale che viene
corrotto dalle forze negative a cui
viene prestato fino a conferire dignità e tragicità alla nemesi. Tale
caratterizzazione contraddittoria è
classica nel fantastico giapponese a
cartoni quanto in quello a fumetti,
proprio perché entrambi figli di una
cultura segnata da una millenaria
matrice scintoista, in cui bene e
male non sono concetti assoluti ma
compenetranti.
Un personaggio che è l'esempio più
riuscito di questo modello è Char
Aznable, apparso nel leggendario
Kidoo Senshi Gundam. Bello e abile,
Char è allo stesso tempo un traditore (si arruola nell'esercito di Zion
per ucciderne i leader, mandanti
dell'omicidio del padre) e un ufficia-
le con uno spiccato senso di cameratismo; è innamorato perdutamente della sua donna (che arriva persino a definire come colei "che
avrebbe potuto essere una madre
per me"), ma non esita a sacrificarla per i propri scopi di vendetta.
Doppiato da Shuichi Ikeda e contraddistinto dalla predilezione per il
rosso (colorazione che ricorre in
tutti i mech che pilota), Char è stata una figura talmente cardinale e
memorabile nell'animazione nipponica che Kawamori non ha potuto
fare altro se non renderlo la matrice
principale dell'affabile Shadow Red.
Il risultato è una nemesi tra le più
riuscite nella storia dei picchiaduro
Capcom, che condivide lo stesso
doppiatore di Char Aznable. Sarà un
caso?
Non è tutto Horus quel che luccica
Alma e Nakato (foto in basso) sono
forse i personaggi ideati con meno
fantasia di tutti, nel cast di Kikaioo.
I loro assurdi nomi sono un tributo alle opere di Yoshiyuki Tomino, in
cui i protagonisti delle storie hanno
identità esotiche o inesistenti3 connotate al background narrativo
(spazio o universi paralleli). In esse
Tomino inscena la sua personale
visione della natura umana, mostrando come anche ad anni luce di
distanza o in realtà alternative questa sia comunque caratterizzata da
una drammatica inclinazione alla
guerra. I "buoni" delle sue storie
non sono mai impeccabili eroi dalla
rigorosa condotta morale, né i suoi
"cattivi" dei semplici tiranni assetati
di sangue. Allo stesso modo non
sono mai due soli personaggi a darsi battaglia ma bensì schieramenti
opposti, che traboccano di casi umani di ogni tipo e pongono lo spettatore di fronte ad uno scenario in
cui l'integrità e la dissoluzione non
sono direttamente legate ad uno o
l'altra fazione.
È per questo motivo che sia Alma
che Nakato non offrono alcun elemento estetico distintivo, perché
nelle produzioni di Tomino le figure
narrative principali sono sempre
inizialmente neutre, ingenue, incontaminate. Sono gli eventi e gli incontri che affrontano a portarli a
maturare nelle attitudini e nella
sensibilità (o a indurire i loro cuori),
senza mai rivelarsi dei "semplici"
superuomini capaci di salvare il
mondo con l'aiuto di un robot. Non
è un caso che entrambe le storyline di Alma e Nakato siano separate dal cosmo di Kikaioo, quasi come se Kawamori li avesse ritratti
per concedere un atto di presenza
ad un'interpretazione estetica e
comportamentale con cui probabilmente non si trova a suo agio, ma
che pure riconosce come tipica e
vivida nei cartoni robotici. Il celebre
autore è da sempre stato legato a
caratterizzazioni più cool, affini a
quelle che popolano i vari Macross
in cui i piloti sono sempre spacconi,
spavaldi e perché no anche un filino
antipatici. È quindi probabile che
abbia trovato varie difficoltà a gestire due personaggi tanto distanti dal
suo gusto.
Non è raro che una stessa saga
presenti caratterizzazioni (grafiche
e attitudinali) dei personaggi ben
diverse da una serie all'altra, basti
pensare ad un altro esemplare titolo
ispirato ai robot giganti: Zone of
the Enders.
Come nella maggior parte dei capitoli di Gundam ad essere protagonista del primo capitolo è un ragazzino, Leo. Nelle intenzioni dell'autore originale lo svolgimento
della serie di Z.O.E. avrebbe seguito la crescita di Leo da adolescente
inoffensivo fino alla sua maturazione in qualità di veterano, partecipe
20
di una guerra che l'ha coinvolto suo
malgrado, lungo un iter piuttosto
simile a quello che Amuro Rei compie attraverso la lunga epopea di
Gundam. È non è un caso che il
character designer del primo Z.O.E.
fosse lo stesso di Gundam X, cartone in cui il protagonista Garold deve, oltre a salvare il mondo, mettere in salvo l'indifesa Tifa4. Z.O.E.
presenta tutti gli elementi distintivi
di questo tipo di racconto animato,
senza però negare aggiunte proprie
come l'origine del metatron, Leo
che per la codardia è l'indiretta causa della morte degli amici, i capi
dell'esercito che non esitano a
sfruttare Leo per le sue capacità, o
ancora come la instabilità emotiva
di Viola.
Diversi elementi già visti, ma
proposti in una soluzione inedita.
Tuttavia, con l'avvicendamento alla
direzione della serie, le premesse
tipicamente "tominoidi" di Z.O.E.
sono state sostituite da un protagonista tamarro (capelli bianchi, uniforme nera, atteggiamento sprezzante) più in linea con l'estetica di
Macross che quella di Gundam, devastando così il già non proprio originalissimo background del predecessore. Rimossa la riluttanza all'assassinio di Leo, tolto l'unico
elemento di contrasto con il clima
cupo e bellico (la purezza di Ceres),
privato il Baphram di qualsiasi elemento umano (Noman sembra ormai semplicemente spalleggiato da
un esercito di mech automatizzati)
quello che resta è un one-man
show che si risparmia interrogativi e
conflitti etici. E Leo è ormai già cresciuto, i suoi contrasti interiori risolti probabilmente da lungo tempo.
Avvincente comunque, ma che
spreco.
:INDEPTH:
Ring#11
Dianaaaaa Flash!
Nella storia giapponese le donne
hanno sempre assunto dei ruoli
piuttosto insoliti per l'ottica occidentale: le prime fondamentali opere
letterarie sono state composte dalle
cortigiane dell'imperatore, molti
fantasmi della tradizione sono di
sesso femminile (si veda l'interessante Fatal Frame) e molti governi
sono stati condotti all'ombra di
donne che riuscivano a manipolare
il volere dei reggenti con il metodo
più vecchio del mondo.
Ma quello che è veramente strano
è il superomismo "in rosa".
In Giappone esiste tutto un filone
di personagg"esse" ispirate alla Cutie Honey di Go Nagai, che combattono le forze del male sostituendo
al dinamismo muscolare l'impiego
delle proprie traballanti grazie. La
scintilla scoccata dal papà di Devilman ha acceso un focolaio di imitazioni che nel tempo hanno sostituito
all'ironico spirito dell'eroina nagaiana, diretto a sbeffeggiare il machismo imperante nei manga anni '70,
una corposa cifra soft-core. Reika
Amamiya, alter-ego umano di Diana
17, non è infatti altro che una delle
tante wonder-woman nipponiche a
occupare l'immaginario del pubblico
maschile sentimentalmente e psicologicamente meno sano. Un'atipica
cosmogonia di cui fanno parte le
Knight Sabers di Bubble Gum Crisis
[foto a destra], le sette agenti di
Silent Moebius, la protagonista di
Moldiver, la smutandatissima Aika
(protagonista dell'omonimo cartone
animato) e tante altre.
Ma non è di queste che vogliamo
occuparci, nonostante ad alcuni di
voi farebbe sicuramente piacere.
Piuttosto è interessante evidenziare le tracce che un simile filone
ha lasciato nel mercato videoludico.
Basti pensare al recente Final Fantasy X-2, in cui per la prima volta
nella storia della serie il protagonista principale non è un eroe maschile bensì tre ragazze, che guardacaso dispongono del potere di
cambiare d'abito come, per l'appunto, Cutie Honey (o la più conosciuta
Sailormoon, a sua volta ispirata anche lei al fumetto di Nagai). Possibile che il pubblico odierno preferisca
ad un coetaneo in cui riconoscersi,
l'immedesimazione con la donna
che si vorrebbe trombare? Chi scrive ha sempre adocchiato con un
certo sospetto quei giocatori che nei
picchiaduro selezionano personaggi
femminili, ma perlomeno in quel
caso si deve tenere conto che un
utente si possa trovare a proprio
agio con un determinato set di colpi
associato alla Chun-li di turno. A
questo punto però come affrontare
l'aberrante Asuka 120% pubblicato su PlayStation [foto sotto]?
E tuttavia le prosperose atlete di
Asuka 120% non sono che la mera propaggine di un grottesco trend
inerpicatosi dal Pc-Engine Duo5 fino
al mercato odierno, esteso come un
edera e tenace come la gramigna.
Grazie all'avanguardistico supporto ottico in un epoca dove era la
cartuccia a troneggiare, la console
di Nec aveva battezzato un numero
imprecisato di nuovi generi e sottogeneri. Tra questi facevano bella
mostra le simulazioni d'appuntamento, prosperate grazie alla possibilità di campionare decine di minuti di doppiaggio e di filmati sui
compact disc. Generalmente si trattava di ordinari platform in cui a
interpretare il ruolo di protagoniste
erano eroine con una ricorrente
doppia identità di liceali in uniforme
e di guerriere in armatura, ma col
tempo molti altri generi sono stati
pornografati a dovere. Nel corso
degli anni queste improbabili ragazzine superdotate non solo continuarono a far mostra di sé nel genere
platform, ma invasero anche le terre dello shoot-em-up (Galaxy Fraulien Yuna, Musha Aleste) e dell'RPG (Megami Tengoku, Dragon
Half). E vendevano! la serie di Valis raggiunse persino il quarto capitolo, ripartito su Pc-Engine, Megadrive e Super Famicom, mentre il
mondo degli anime si popolava rapidamente di personaggi a loro vol-
21
ta ispirati da questi videogiochi,
come ad esempio quel Genmu Senki Leda visto anche in Italia.
Chi volesse saggiare il grado di
follia raggiunto da queste produzioni potrà agevolmente farlo procurandosi un paio di titoli: Wonder
Momo per Pc-Engine e Mugenshi
Valis per Duo. Quest'ultima in particolare era divenuta nel tempo una
saga "storica" a tutti gli effetti, tanto da continuare a sfornare a ripetizione nuovi capitoli sull'elitaria console di Nec. Due erano le principali
attrattive per il pubblico: la difficoltà della impresa ludica e tinte voyeuristiche sempre più audaci. Mugenshi Valis non era solo un prodotto settario nella sua ostilità al
completamento ma anche nel fascino della sua protagonista Yuko, che
mostrava le sue "arrapantissime"
mutandine bianche al momento di
saltare o di scivolare, che poteva
cambiare fino a otto abiti, e che offriva allo schermo un bel paio di
chiappe budinose durante i segmenti animati.
La cosa preoccupante è che fino a
poco tempo fa questa sindrome affliggeva solo i giovani nipponici che,
si sa, sono un popolo non esattamente canonico. Ma se pensate che
gli occidentali siano immuni al pericoloso trend delle uber-woman, fate
un attimo un pensierino a Lara
Croft...
:INDEPTH:
Ring#11
Colpevoli senza volto
L'acefalo Wiseduck con la sua troupe di ben sei piloti riporta invece
alla mente un altro noto filone robotico giapponese, quello realistico
inaugurato da Ryosuke Takahashi
con Soko Kihei Votoms (Votoms Cavalleria armata) in cui ancor più
delle vicende dei singoli piloti o delle prodezze di titanici mech antropomorfi a venire esaltata è la "natura" della guerra.
Ancora più che nelle serie di
Yoshiyuki Tomino, ugualmente
attinente a tematiche militariste, Takahashi priva i robot
delle sue storie di qualsiasi
parvenza umana: tanto le armature corazzate di Votoms
quanto i mech del recente Gasaraki si distinguono per la loro estrema funzionalità, privi
di colori appariscenti o "visi"
che richiamano alla memoria i
barocchi elmi giapponesi. In
questo senso Takahashi non
ha ispirato solo altri autori del
mondo dell'animazione ma anche e soprattutto gli autori di
Front Mission, serie di videogiochi in cui tanto la fantapolitica (genere carissimo al
regista) quanto la caratteristi-
ca struttura "funzionale" dei mech
giocano a favore di un ambientazione che ambisce a ricreare un conflitto credibile. Svicolando l'attenzione dello spettatore dai mech e
dalle loro perfomance, Takahashi dà
risalto alla realtà della guerra con
amici che finiscono nel trovarsi su
fronti opposti, dove i buoni e i cattivi riconoscono di somigliarsi più
profondamente di quanto non si aspettassero, dove sono messe in
scena le crudeltà estreme che i conflitti causano e allo stesso tempo
giustificano.
Non è un caso se tanto nel primo
Front Mission (ma solo nella recente riedizione per PlayStation)
quanto nel terzo, il giocatore è
chiamato a prendere le parti di due
diversi personaggi che militano
in fronti opposti e calato in un
contesto ove gli è permesso assistere concretamente alle tante
assurdità della macchina bellica.
Un po' come avviene nello
story-mode del Wiseduck, in cui
il protagonista Alvin si deve
scontrare con una realtà che lo
mette di fronte a scelte che non
vorrebbe fare ma è costretto a
compiere pur di sopravvivere.
Tant'è che due sono i finali possibili: uno con la pace raggiunta
a costo del sacrificio di una
bambina che il protagonista fa
di tutto per salvare, e l'altro che
vede salva la bambina ma Alvin
morto, con i compagni persi a
ricordarlo puro e idealista, forse
un po' cambiati dall'averlo incontrato.
Che il machismo di tanti eroi dei
cartoni robotici anni settanta sia
stato abbandonato in favore di caratterizzazioni più originali e meno
"appetibili", è un aspetto della produzione attuale che va lodato, tanto
che gli esempi iconoclasti risultano
sempre più frequenti.
Tuttavia non si può fare a meno
di notare il limite di assurdità a cui
si è giunti: in Betterman, recente
cartone Sunrise, il protagonista Keita è il primo pilota nella storia dell'animazione robotica a portare occhiali grossi come finestre [foto di
Keita]. D'accordo la diversità, ma
questo proliferare di complessati e
piagnucoloni è disarmante. "Dove
andremo a finire...", disse il contadino giapponese di 75 anni, mentre
si scaccolava con una mano e raccoglieva il riso con l'altra....
Note
[1] Chi ha dubbi in proposito potrebbe concedere un occhiata allo
scopiazzatissimo War of the Monsters. Persino il personaggio principale è identico.
COSPLAY!
È con malcelata rigogliosità che
inauguriamo in questa sede una
nuova rubrica tappabuchi.
Cosplay!
Ami travestirti come il tuo eroe
(o eroina, quella ne serve tanta)
preferito per poi magari compiere
lunghe passeggiate sui viali? Scrivi a [email protected] inviando un’immagine del tuo travestitismo videoludico-molesto.
Tra un anno, il cosplayer più simpatico/malato di mente riceverà
un premio di qualche tipo.
Frattanto godetevi questa splendida principessa Zelda. Non sarà
Uma Thurman, ma almeno è resistente alle carestie…
[2] Conosciuto in occidente come
Robotech
[3] O peggio ancora involontariamente ridicoli. Char Aznable, in incognito nella serie di Z Gundam,
assumerà il nome di Quatro Vagina
[4] E non solo in Gundam X. Un simile casting era stato escogitato già
in Gundam Victory.
[5] Esiste una quantità incommensurabile di versioni dell'accoppiata
Pc-engine+lettore cd. Qui ne abbiamo riportata una a scelta a caso.
22
:RECENSIONI:
Ring#11
Sulle Montagne d’Autunno
[Ninja Gaiden]
de L’Esorciccio
Travestito interprete di un epigono di Double Dragon dall’inusitato grado di interazione con l’ambiente e di tre acclamati action game per NES, Ryu Hayabusa torna per
rivendicare la paternità della camminata verticale sul muro, con il pretesto di una spada sottratta alla sua dinastia.
E se non si può elogiarne il
tempismo, ché durante il
periodo di maternità, i muri sono divenuti una superficie comunemente praticata dai personaggi dei videogiochi, sarà senz’altro la foggia a
restituire a Ninja Gaiden il trono degli
Action Game: genere che armonizza platform con shoot/beat em up; corrente la
cui portata, massima negli anni 90, è
andata progressivamente assottigliandosi a causa, forse, dell’inadeguatezza di
un’acerba tecnologia tridimensionale. Fra
picchiaduro e action game sono sedici
anni che Ryu cammina sui muri; permetterete che vi dia una lezione di knowhow.
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Ninjutsu
Tecmo
Team Ninja
Xbox
2004
1
USA
Capitolo I – Il sentiero in 2D
~
L’ Irrefutabile prefazione
~
Nessuno si chiede perché l’architetto che
ha progettato il castello di Dracula abbia
previsto piattaforme fluttuanti. Né come,
in effetti, sia riuscito a implementarle.
Nessuno mette in discussione il principio per il quale Belmont trarrebbe giovamento dal vandalizzare le proprietà del Vampiro a scudisciate.
Pochi si chiedono perché nel
corso di una partita tipo, dalle
finestre di Castlevania si alternino raffigurazioni della luna in
almeno 5 diverse fasi, a una distanza dall’orbe terracqueo variabile dagli usuali 384.000 Km
di media a “impatto con il pianeta terra in 14 secondi”.
È anche per questo che i videogiochi 2D funzionano: perché non pretendono d’essere altro se non “giochi“, con regole che non
hanno l’ambizione di essere traduzione
in chiave ludica di leggi fisiche o d’altra
specie.
D’altronde, se non si può razionalmente giustificare il fatto che il nostro
personaggio possa muoversi solo in linea
retta, tanto vale.
conseguenza logica dover ricercare una
corrispondente verosimiglianza narrativa, strutturale, perseguita fin nelle possibilità atletiche dei protagonisti.
Ora. Ninja Gaiden non è un’esperienza a tratti interattiva, non è un’opera
d’intrattenimento elettronico. Sebbene
suggestivo e considerevolmente coreografico, non dilata le tempistiche con
pause ad effetto o primi piani teatrali.
O meglio, questi ultimi sono presenti,
ma imputabili all’imperizia del cameraman, che provvederemo ad oltraggiare
più avanti.
Ninja Gaiden è un videogioco, nel
senso classico e più elementare del termine, e suggestione e sospensione di incredulità non sono le sue priorità.
Non domandatevi perché il leggendario fabbro, l’anziano Muramasa, abbia
già visitato ogni dannatissima locazione
del gioco per erigervi statue di sé medesimo, che fungono da succursali in franchising del suo negozio a Tairon.
È un mio sacrosanto diritto di videogiocatore avere la possibilità di fare spese prima dello scontro con un boss, e
per non obbligarmi a ripercorrere a ritroso monasteri, cripte, laghi di magma e
caverne di ghiaccio per tornare giù in
città dove upgradare la spada, ecco che
il centenario esercente ha precauzionalmente installato, in ogni un angolo, un
distributore automatico di pozioni, armi
e accessori.
La credibilità di questa trovata è discutibile, l’efficacia ludica, no.
Allo stesso modo, non chiedetevi perché Ryu Hayabusa abbia bisogno di un
biglietto per la festa che si tiene all’Han’s
Bar di Pleasure Street, e non indagate
sulla verosimiglianza della legge fisica che consente a Rachel
di camminare in posizione eretta. Sarebbe come chiedersi
perché, quando sul tavolo ci sono regio, tre di denari e sette di
bastoni, io che in mano ho il
regio, il regio sono obbligato a
prendere.
Regole del gioco, asservite al
solo valore ludico, escogitate
all’unico fine di renderlo più
appassionante o meno scontato.
Tranne quella cosa del biglietto, in effetti.
Un’immane disgrazia si è abbattuta sugli
action game, provenendo dall’asse Z. Se
questo tipo di rappresentazione grafica
ha consentito un contesto estetico più
verosimile, a certi sviluppatori è parso
23
Capitolo II – Sulle montagne d’autunno
~
C’è uno che percorre il sentiero del Ninja
~
Quella del capitolo primo è una premessa necessaria: Ninja Gaiden rischia di
apparire carente se lo si approccia con
l’aspettativa di essere condotti per mano
e inseriti, pigiati dentro una storia, infilati in un personaggio.
Si inizia l’avventura senza il beneplacito di un FMV che ci spieghi il motivo
per cui Hayabusa si trova ai piedi di una
montagna, con una cascata alle terga e
una parete rocciosa adeguatamente impervia d’innanzi. È l’istinto del giocatore
a spingerlo in alto, e se proprio questo,
sopito da anni di tutorial, viene meno, ci
pensano i messaggi che Ayane ci lancia
da una postazione ignota a suggerire la
via. In dieci metri di ascesa si padroneggiano i rudimenti dell’elaborata componente platform di Ninja Gaiden. Chiaro
che a questo punto entrino in scena, con
conveniente balzo enfatico, i primi Ninja
sui quali saggiare il filo della nostra katana…
Le combinazioni dei 2 tasti di attacco
producono allora un rutilante vorticare di
lame e la pressione del tasto B scaglia
raffiche di shuriken all’indirizzo dei molesti che…
Ahia.
Un attimo.
Pausa.
Menu.
Nel corso del gioco, Tomonobu Itagaki
sembra talora divertirsi a cagionare
l’irrefutabile dipartita del giocatore in
modi creativi, il più ricorrente dei quali è
figlio della filosofia “adesso qui ci mettiamo un boss molto vigoroso, che se
anche il giocatore lo accoppa, poi ne
spunta un altro grande il doppio che così
muore di sicuro”.
Il tutto a chiaro vantaggio del fattore
“Santa Merda!1” e a detrimento del joypad.
Infame eppure equanime, però, Ninja
Gaiden non presenta casi in cui al giocatore non sia concesso di esentarsi dal
morire, quelle circostanze in inglese
chiamate “cheap” nelle quali il designer
si premura di ricordarti che può detrarre
vite a gradimento, a prescindere dal livello di abilità del quale puoi con onore
fregiarti.
Laddove le versioni NES traevano sollazzo dal lanciarti contro un piccione
sbucato dal margine destro dello schermo, nell’esatto momento in cui Hayabusa si librava sopra un baratro infinito,
l’ultimo titolo del Team Ninja rifugge
questo approccio.
Questo è sì un gioco dove un ipotetico
counter delle defezioni del protagonista
potrebbe arrivare a misurare tre cifre
dopo un paio d’ore di svago, ma se è
vero che la difficoltà bastarda soverchia
il giocatore avventizio già al primo boss,
è forse bene informare che, paradossalmente, questa prima malvagità di fine
livello, è assai più perigliosa del confronto finale (un paradosso doppio, ma questa è una sottigliezza che non potete
gradire). Il che, trovando una conveniente scorciatoia fra le perifrasi, significa che è dare la scalata alla curva di apprendimento la parte più malagevole;
ma una volta sulla cima si scende con lo
:RECENSIONI:
slittino, chiaramente prestando attenzione agli alberi.
Certo è che arrivare sulla cima significa diventare atleti del joypad ed è qui
che si apprezza la fulminea ricettività dei
comandi, che permette di realizzare un
movimento nell’istante esatto in cui lo si
pensa. Copula con questa l’efficacia del
tacito e discreto sistema di non-lock on,
che solo nel momento dell’azione indirizza Ryu verso il nemico più prossimo
senza mai male interpretare il nostro
volere.
Non esiste una strategia statica che
permette di affrontare i combattimenti in
relativa tranquillità.
Sebbene il button mashing paia inizialmente una soluzione che garantisce
una resa visiva di decoroso livello, assistere al prodursi in un’enorme gamma di
elaborate evoluzioni gratuite di Ryu per
poi vederlo finire faccia terra con uno
sgambetto, riesce a dissuadere il casual
gamer in tempi brevissimi.
Bisogna essere stilosi ma efficaci, rapidi nel parare i colpi ma senza arroccarsi nella postura tartaruga (ninja), dimentichi che i nostri avversari sono capaci di
prese particolarmente bastarde. Flessibili
e costantemente consapevoli della conformazione del teatro dello scontro.
Per quanto forti siate, per quanto potenziata la vostra lama ed estesa la barra energetica, ogni combattimento è potenzialmente foriero di una spartana
schermata di game over.
Resume Game
Il primo trittico di capitoli perplime per
struttura eccessivamente pretestuosa e
level design troppo evidentemente piegato ad un ruolo introduttivo.
“Carino, però..” si pensa, senza peraltro riuscire a concludere la frase.
Con l’arrivo a Tairon, città imperiale
dei Vigoor (sia in questa sede bastante
segnalarli come i cattivi) Ninja Gaiden
cambia faccia, e non solo perché Hayabusa smette il pigiama da Adam West
per indossare la tuta in lattice con addominali sbalzati in bump mapping di
Michael Keaton.
Pur sempre caldeggiando una struttura
dei livelli predisposta in funzione del
gameplay e non viceversa, Ninja Gaiden intarsia i 12 capitoli successivi in un
mondo maggiormente coerente, ed è
proprio dalla coesione dell’impero Vigoor
che il gioco ricava il senso di immersività
che fa difetto ai primi 3 capitoli e inizia a
convincere e inghiottire l’utente.
Da qui, Ninja Gaiden si sviluppa lungo propaggini di un’unica area centrale:
Tairon diviene l’ideale prateria di Hyrule
di uno Zelda: Ocarina of Time maggiormente votato all’azione.
Nonostante l’estrema difformità delle
molte locazioni presenti, la progressione
è graduale e segue una logica topograficamente plausibile e perfettamente confacente alle priorità ludiche.
I paragrafi si susseguono rinnovandosi. La componente tagliaffetta, predominante ma non isolata, non tedia, sostenuta da un numero di tecniche paragonabile a quella di un beat em up 1
contro 1 (e si ricorda che ognuna delle
armi del gioco ha una nutrita movelist
dedicata). E proprio quando si pensa di
poter prevedere la direzione nella quale
si evolverà il gioco, Ninja Gaiden sor-
Ring#11
prende con sequenze maggiormente adventure, che ora cedono il passo a puzzle (lievemente) più elaborati, tratti che
ricavano il maggior utile dalla possibilità
di utilizzare arco e frecce in prima persona, carezzevoli sciarade di natura piattaformica. Più avanti, il rinvenimento di
specifiche armi e item consentirà, da
tradizione, l’accesso a quelle aree bonus
dinnanzi alle quali siamo transitati più
volte nel corso del gioco. La stessa geometria di Tairon subirà variazioni rilevanti in seguito a particolari eventi della
sceneggiatura.
Fino alla fine il Team Ninja sa miscelare questi elementi per offrire un
bilanciamento diverso, una sfida stimolante, un diversivo, un incentivo.
Capitolo XV – The Core:
Il Team Ninja riesce per primo pienamente a far coesistere immediatezza bidimensionale e suggestione tridimensionale. E se Dante c’era andato vicino,
Ninja Gaiden rappresenta la piena maturità del genere non trascurando alcun
altro aspetto di gioco. O quasi.
Quasi, perché, come accennato, l’azione è purtroppo resa talvolta confusionaria da un cameraman inoperoso e penalizzato da un quoziente di intelligenza
artificiale non particolarmente elevato.
Va riconosciuto, a parziale discolpa
del cineoperatore, che è certamente
compito improbo seguire la lesta azione
di Ryu Hayabusa riuscendo contemporaneamente a includere nell’inquadratura i
numerosi maldisposti che lo circondano.
Nondimeno, alcuni errori potevano e
dovevano essere evitati. Si finisce talvolta per menare precauzionali fendenti a
vuoto o per beccarsi una shuriken sulla
sella del naso, inaspettatamente pervenuta dall’oltreschermo. Rientra comunque nei limiti dell’umano evitarle all’ultimo istante o bloccarle, e mi spingo oltre,
fino a sostenere che riuscire in questa
impresa gratifica ed innalza lo spirito
ninja del giocatore diligente, offrendo al
contempo un’ottima scusa per l’incapacità dell’inadeguato. Non è però un’ottima scusa per il Team Ninja, che nel generale contesto di eccellente lavoro di
cesello, avrebbe dovuto curare maggiormente questo aspetto. In particolare, sono i rapidi spostamenti verticali di
Ryu a causare grattacapi allo scioperato
cameraman che a questo punto ci figuriamo adiposo e sofferente.
Viene in aiuto il tasto R, da premersi
con una frequenza simile a quella del
tasto di attacco, che ha la funzione di
richiamare l’attenzione della regia su di
sé.
I boss, che si inseguono in rutilante
coreografia, potrebbero in alcuni casi
essere supportati da meccaniche di gioco
più creative: in generale, gli scontri più
memorabili sono quelli con altri nerboruti ninja della nostra taglia, che funziona-
24
The Way of the Ninja
Affronta all’arma bianca eserciti di
ninja, samurai e militari, elicotteri,
tank e la più meravigliosa, spaventosa, maestosa e terrificante, parata
di mostri di fine livello nelle cui narici la capace cassa toracica del box
abbia mai soffiato l’alito di vita e
bumpmapping. Maneggia con sapienza varie armi per il corpo a corpo e da lancio, non disdegnando incantesimi di rara possanza visiva.
Ma la dote ginnica più prodigiosa
di Hayabusa è che, in quanto ninja,
non ha bisogno di completare il ciclo
di un’animazione per passare al movimento successivo, non ha bisogno
di poggiare il piede destro sul terreno durante la corsa per spiccare il
salto, non ha bisogno di mostrarci
ogni frame dell’animazione in cui
ripone la spada nel fodero, per aggrapparsi a un cornicione dopo un
aggraziato volteggio. Non ha bisogno che voi veicoliate, tramite pressione di combinazioni di tasti dall’accessibilità opportunamente problematica, il vostro desiderio di camminare su una parete, o attraverso la
prolungata pressione della leva, di
scavalcare un parapetto. Quello che
altri personaggi impiegano alcuni istanti potenzialmente fatali a capire,
Ryu Hayabusa lo intuisce. E con stupefacente precisione lo mette in atto. È forse questo l’aspetto che più
di ogni altro consacra Ninja Gaiden
come la perfetta esecuzione tridimensionale di un classico delle 2D.
no come picchiaduro 1 contro 1 con piena dignità,
Boss più corpulenti sono talvolta collocati in aree troppo anguste per poter
essere affrontati con lucidità. Altri ancora attaccano con pattern fin troppo elaborati e imprevedibili, al punto che un
giocatore meno che orgoglioso, dopo
qualche tentativo infruttuoso, potrebbe
decidere di tornare da Muramasa per
rimpinguare le scorte prontosoccorsiche
e affrontare il mostro caricandolo a testa
bassa e tracannando pozioni curative,
incuranti del suo ostentare atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Si potrebbe anche dire che Ninja
Gaiden ha un valore narrativo prossimo
al nullo e fa poco per sedurci con i suoi
interpreti, se si esclude modellare sul
torace di Rachel un robusto paio di gigantiche tette, secondo una spensierata
consuetudine della software house nipponica. Ma non possiamo dire di essere
innamorati del personaggio; al più, si
può ipotizzare con lei del ragguardevole
sesso senza amore.
Questi sono i principali deterrenti al
debutto della S ringhica, per quanto effettivamente, Ninja Gaiden tracci con
netto taglio di katana la proverbiale linea
di demarcazione, lasciandosi d’un volteggio la concorrenza alle terga prima di
un teatrale ninja vanish.
:RECENSIONI:
Ring#11
L’Attacco del Clone
[Onimusha 3]
di Amano76
Delusi. Così si resta
dopo aver completato
Onimusha 3.
La trilogia è diventata
una serie, ma assieme ai tempi
narrativi si è dilatata anche la qualità.
Il genere delle avventure vive del
senso spettacolare che tenta di riprodurre, dell'impatto estetico, dell'attenzione che provoca intorno a
sé con gli screenshot diffusi dalla
stampa. L'unico modo che ha di resistere alla sua fama è mantenere
le promesse, perché non esiste delusione maggiore di un prodotto
che fallisce pur in UNO solo degli
aspetti ove garantiva eccellere.
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Survival Samurai
Capcom
Interno
PS2
2004
1
Giapponese
Viene spontaneo chiedersi come si
possa riuscire ad avere per le mani
il sistema di combattimento di Onimusha 2, non impeccabile ma
comunque gustosamente sfaccettato, e finire con l'edulcorarlo al punto di renderlo monotono e frustrante. Non capita di rado ultimamente:
basta dare un'occhiata alla saga di
Devil May Cry. Ciononostante la
preoccupante piega che ha preso
Capcom nella realizzazione dei suoi
prodotti di grido fa cascare le braccia (e non solo quelle).
In Onimusha 3 non è più possibile sconfiggere un avversario secondo il metodo che si preferisce,
ma si deve anzi categoricamente
ricorrere a tecniche specifiche per
ciascun tipo di nemico. Non viene
concesso spazio all'improvvisazione
e allo stile. L'accento dato all'esecuzione degli Issen (fulminei movimenti della spada che eliminano gli
avversari con un colpo solo) li ha
resi non più risorse da "utente esperto" ma strumenti imprescindibili. Se questo può far sembrare il
gioco più strategico, è però innegabile che spesso mettere a segno gli
Issen si rivela un'impresa condizionata dall'eccessiva quantità di avversari, con il giocatore imprigiona-
to nel mezzo di situazioni ove l'unica garanzia di sopravvivenza è il
ricorso alle super. A ben poco serve
tentare gli Issen a catena (premere
rapidamente il tasto quadrato per
effettuare a ripetizione la tecnica
appena descritta) visto che il tempismo richiesto per metterli a segno
risulta ancor più inaccessibile di
quello per le Chain di Vagrant
Story.
In definitiva il non poter gestire
autonomamente le strategie d'attacco impedisce di acquisire la piena padronanza del sistema di combattimento, lasciando in bocca il
sapore amaro dell'umiliazione.
Intanto lo sguardo corre alla confezione di Viewtiful Joe: la tentazione di afferrarla diventa sempre
più grande...
È cambiato qualcosa, con il tanto
sbandierato passaggio alle tre dimensioni?
Bah, qualche sporadico accorgimento è stato effettuato, ma niente
che abbia a che fare con una rinnovata interpretazione dello spazio
ludico. A spiccare è il debutto della
tengu1 Akon, che permette di ovviare ad uno dei problemi "storici"
di questo genere di avventure
(quelle a inquadratura fissa) poiché
la petulante fatina si dirige automaticamente verso gli avversari nelle
vicinanze, scongiurando situazioni
di attacchi inaspettati. Sempre ad
Akon è stato demandato l'incarico
che in passato era affidato a talismani e collane, cioè quello di ripristinare l'energia vitale, diminuire il
consumo di punti magia durante
l'uso delle super o assorbire anime
a una maggiore velocità. Cambiandole l'uniforme (ne possiede sette,
da scovare negli scenari del gioco)
si possono ottenere tutta una serie
di effetti benefici che se usati con
criterio si rivelano particolarmente
agevolanti. Almeno in modalità normal.
Già. Un altro problema di Onimusha 3 è che seppure ci si intorpidisce di Issen, viene comunque
elargita una quantità tale di anime
gialle (ripristino dell'energia vitale)
anime bianche (ripristino punti magia) pozioni e unguenti curativi, che
alla fine persino completare gli
Spazio-tempo demoniaci diventa un
impresa da poco. Un altro palese
25
smacco rispetto al secondo capitolo, dove ne erano presenti ben cinque e tutti sufficientemente proibitivi. Stavolta ce ne sono tre, tutti
brevi e facili da portare a termine.
Considerato che in quanto a strategia gli Spazio-tempo demoniaci erano il fiore all'occhiello della saga,
risulta completamente imperscrutabile la scelta degli autori di semplificarne durata e complessità.
Lo Spazio-tempo demoniaco, una sorta
di dungeon che si estende verticalmente
e dove ogni piano aumenta il grado di
sfida offerto con avversari sempre più
tenaci e numerosi. Almeno così accadeva
nei primi due episodi...
Più di tutto, quello in cui pecca Onimusha 3 è l'atmosfera.
La "giapponesità" dei capitoli
passati, già di per sé contaminata
dalla presenza dell'europeo Reno e
della sua cricca di antipaticissimi
comprimari, è stata annacquata da
una galleria di mostri poco ispirati,
da scenari impersonali (per giunta,
spesso e volentieri, "occidentali")
nonché da "cattivoni" senza spessore. I caratteristici templi buddisti,
i castelli medievali con le loro assi
di legno lucido e con i loro paraventi illustrati, i giardini in perfetto stile Zen, tutto si è volatilizzato per
far spazio a Notre Dame, all'Arco di
Trionfo e alla Torre Eiffel. Fa comunque il suo porco effetto, almeno per chi ha visitato la capitale
francese, ma in qualche modo viene a snaturarsi l'animo orientaleggiante della saga.
A questo c'è da aggiungere una
sceneggiatura elementare che più
elementare non si può, incapace di
concedersi tanto l'ironia (se non
quella involontaria) quanto alcuni
momenti di sana crudeltà visiva. Lo
stesso Reno "interpreta" (interpreta?) un personaggio che non si lascia ricordare per alcun tratto distintivo, alcun conflitto interiore, e
che in conclusione risulta come il
solito prestanome cinematografico
(ricordate One? con la straordinaria
partecipazione di Bruce Willis?).
Samanosuke non rivela altro di
sé che l'intenzione di eliminare definitivamente Nobunaga, senza mai
mostrare alcun rimpianto per gli
affetti che si è lasciato alle spalle
:RECENSIONI:
(Ayame e la principessa Oyuki) o
manifestare una qualsiasi emozione
fuori dalle righe. Di fatto è un personaggio solo, abbandonato, ma
talmente austero e morigerato da
risultare fastidiosamente noioso.
L'unico elemento creativo a restare intatto è il gusto musicale che
ha contraddistinto i capitoli passati,
ma non basta una notevole colonna
sonora a riempire le vuote pretese
cinematografiche di Onimusha 3.
Reno durante un furioso scambio di
complimenti con un genma (i cattivi del
gioco). L’annotazione del numero di
"merde" che pronuncia durante l'avventura richiederebbe l'uso di un pallottoliere.
[SPOILER] Molto divertente la scena
in cui il suo amico gli crepa tra le braccia
mormorando: "Speravo di morire vicino
a mia moglie e mia figlia, invece lo farò
tra le tue braccia. Merde!". Un grande
momento drammatico, non c'è che dire
[/SPOILER].
Onimusha76
Devono essersene accorti PERSINO
i giapponesi. Onimusha, la serie di
punta di Capcom per PS2, è passata
dalla sua media di un milione di
copie a episodio alle quattrocentocinquantamila del terzo2.
Non è la prima volta che succede.
La saga di Resident Evil aveva
subito la stessa sorte all'epoca di
PlayStation, con un primo episodio
venduto in 1'120'000 copie, un secondo che addirittura superò i
2'150'000, e un terzo che ne totalizzò 1'380'000 (tutto questo nel
solo Giappone). Poi Capcom decide
di traslocare Resident Evil su un'altra console: pur essendo uno dei
titoli più venduti del Dreamcast
(400'000 copie circa) Code Veronica non raggiunse né si avvicinò
alle cifre a sei zeri delle puntate
precedenti. Il pubblico si era evidentemente stancato della stessa
formula ripetuta ad libitum, finché
Mikami non ebbe la poco avveduta
idea di pubblicare un remake del
capitolo originale su Gamecube. Il
verdetto del mercato, nonostante
l'eclatante votazione di Famitsu (10,
10, 9, 10) è di 150'000 copie. Bocciato.
E nonostante questo Capcom ha
forse imparato la lezione? stando
alla qualità del gioco appena recensito, si direbbe proprio di no...
Ring#11
Estrema confusione poi nel sistema
di combattimento, che finisce con
lo sballottare il giocatore da un personaggio all'altro, costringendolo a
venire a patti con dei controlli leggermente differenti ad ogni avvicendamento. È vero che l'alternanza di stili era presente anche nel
secondo Onimusha, ma in quel
caso il passaggio da un personaggio all'altro era molto meglio scandito. In più (e viene da dire: oltre
al danno la beffa) il set di armi a
disposizione pecca di sovrapponibilità. Le peculiarità di ciascuna spada o frusta sono ora molto meno
consistenti che in passato, sia per
quanto riguarda la rapidità delle
combo sia per quanto riguarda le
prestazioni coreografiche: le catastrofiche super delle armi precedenti comunicavano mirabilmente
la potenza magica che veniva scatenata, mentre i movimenti che accompagnavano le sequenze di colpi
erano attentamente studiati per
esprimere la leggerezza o la pesantezza dei vari equipaggiamenti.
Ancor più risibile poi il controllo
del terzo personaggio, Michelle (la
concubina di Reno), che in qualità
di variazione sul tema "scontri corpo a corpo" propone l'utilizzo di armi a lungo raggio. Inutile dire che
lo spessore strategico offerto da
mitragliatrici e fucili di precisione è
sottile quanto quello vantato da un
Resident Evil.
Preso come un'opera a sè, il
nuovo Onimusha sarebbe un buon
gioco. Forse.
Ma così, un terzo capitolo inferiore sotto ogni aspetto ai precedenti,
è uno scempio che non può passare
indisturbato. La totale insufficienza
è scongiurata dall'eccellente modalità hard, in cui la difficoltà a procedere non è frutto di uno scarso
numero di oggetti curativi (come
avvenuto nei primi due episodi e
come avviene, da sempre, nella
serie di Resident Evil) ma di un
accorto riposizionamento dei nemici
e dall’inserimento di gruppi di avversari organizzati in modo più eterogeneo. Paradossalmente, invece
di risultare ancor più confusionaria,
quest'opzione garantisce maggiore
libertà strategica e più varietà di
combattimento. Altrimenti nulla avrebbe salvato l'ennesimo sequelciofeca di Capcom dalla temutissima D di Ring.
Ridatemi Jubei.
Note
[1] Uno dei tanti tipi di folletti presenti nei racconti tradizionali giapponesi. Presentano caratteristiche
corvine e amano prendersi gioco
degli umani.
[2] La stima è aggiornata all'ultima
settimana di marzo
26
[Ring è] Il Ritorno del Re
IMO il finale poteva essere molto
migliore, propongo due versioni:
- Alla fine, quando sono a Gondor
e tiran fuori Arwen da dietro il
bandierone, arriva Morgoth a cavallo di un nazgul e porta via la
principessa. Viggo si veste da idraulico e saltella via...
- Finale uguale a quello presente,
con la chiusura sul portoncino di
casa Gamgee. La porta si chiude.
Poi si spalanca e ne esce la mano
pelosa di King Kong.
Nemesis Divina
~
[Ring è] Il gaffiere miope
Domanda: qualcuno ha giocato
Lord of The Rings per SNES? Io
mi sono bloccato dopo 20 minuti
perchè non trovato gli occhiali che
il Gaffiere rivoleva indietro (pensa
te che merda).
Gunny
~
[Ring è] Seminale
Devo riempire un barattolo di
sperma per un'amica che deve
fare la tesi all'accademia delle
Belle Arti. Tesi sull'erotismo nell'arte e fra i progetti tira fuori un
dipinto con tempera mista a
sperma. Che storia. Sarà bello
essere munto a fini artistici ^_^
Nemesis Divina
~
[Ring è] Link a…
www.ntsc-uk.com
Consigliatomi caldamente da Amano, inizialmente mi aveva fatto
un'impressione da worst site ever. In realtà il problema stava
tutto nel fatto che un tale Ollie
Barder ha scritto una recensione
di ZOE2 (voto 5/10) straripante
di vaccate. Tra l'altro lo stesso
tizio ha dato solo 6 a Otogi 2, a
conferma delle giga-aspettative
che nutro verso questo titolo.
Il resto del sito, e soprattutto il
resto dei redattori, mi sembrano
invece piuttosto validi. E per piuttosto validi intendo sorprendentemente buoni per essere su internet. Fatevi un giro, hanno anche la recensione del gioco dello
stercoraro.
Cryu
:RECENSIONI:
Ring#11
La Sirena Suona Sempre due Volte
[Forbidden Siren]
di Hob
«It's been a bad day, please don't take a picture»
R.E.M., "Bad Day"
Introduzione
Forbidden Siren è un
gioco che è partito col
piede sbagliato. All'indomani del suo annuncio, in molti erano ancora dubbiosi per quanto riguarda
il genere di appartenenza: cosa deleteria per un franchise sconosciuto. “È di SCEI, saranno quelli di Ico?”, “l'ho provato, ma non ho mica capito... dove sono i nemici?”,
dubbi legittimi, almeno fino al momento in cui non è stata annunciata
la mente dietro al progetto: Keiichiro Toyama. Direttore dello sviluppo
del primissimo Silent Hill (quello
bello, diranno alcuni) e del presente
Siren, la bontà dei suoi lavori è un
dato di fatto. La sua capacità di
creare autentici "microcosmi horror-ludici" è impareggiabile: mondi
fatti di suggestioni, di scorci di vita
quotidiana che trasfigurano in autentici incubi, alienando i protagonisti delle vicende e con questi l'utente, condotto per mano sull'orlo
di un baratro senza fondo.
E se in un certo senso Silent Hill
può essere considerato un prototipo, ancora legato alla concezione
biohazardica del survival horror,
Siren ne è invece la realizzazione
completa: il survival horror secondo
Toyama. Nessun compromesso,
stavolta.
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Stealth Survival
Sony
SCEI
PS2
2004
1
Italiana
No more Umbrella
La trama è solo il primo dei molteplici aspetti che pone Forbidden
Siren su un piano del tutto diverso
rispetto a quello del canonico survival horror. Articolata lungo tre giorni, la storia narra le vicende di un
gruppo di dieci persone in qualche
modo invischiate con la città di Hanyuda. Gli elementi scatenanti della
narrazione sono una strana cerimonia svolta tra i boschi – accompagnata da una straziante litania in
sottofondo – il suono di una sirena
nella notte e un "mare di sangue"
nel quale sono immersi gli abitanti
della città. Da questo mare di sangue i cittadini Hanyudensi (si dice?)
emergono sensibilmente alterati
nella forma e nel carattere. Sono
adesso Shibito, una sorta di versione “senziente” dello zombie classico, caratterizzati graficamente in
maniera splendida e sensibilmente
differenti l'uno dall'altro: dal poliziotto che alterna tre-quattro diverse smorfie in un secondo, alla bambina che piange e gronda sangue,
passando per molte altre varianti.
Gli Shibito sono il perno intorno
al quale è costruito il gioco. Pur non
essendo fulmini di guerra, hanno
capacità che lo zombie di serie può
solo sognare: aprire le porte, sparare con diversi tipi di armi e, in
particolare, dare la caccia al giocatore in maniera "attiva".
Altro aspetto distintivo del titolo
SCEI è il dipanarsi della narrazione.
Il giocatore si ritroverà più volte nei
panni di ciascuno dei dieci protagonisti, in maniera assolutamente non
lineare, nel tentativo di ricostruire
quello che è realmente accaduto
nel villaggio di Hanyuda. Il gioco
diviso in missioni, ognuna delle
quali prevede il raggiungimento di
uno specifico obiettivo. L'ordine
cronologico delle missioni è all'apparenza scelto a caso, ma in verità
segue un disegno ben preciso. Uno
schema mentale facilitato dal “link
navigator”, una tabella che sintetizza gli accadimenti di ogni singolo
scenario, riportando quale personaggio è stato controllato in un certo lasso di tempo e che cosa è successo in quella particolare missione. Sempre tramite il link navigator
è possibile accedere a nuove fasi di
gioco, previo il completamento di
alcuni quadri chiave che fungono da
requisito, anche narrativo, per la
missione successiva; o anche affrontare nuovamente uno scenario
già completato per raggiungere il
compimento di un obiettivo secondario, la cui importanza diverrà
chiara solo con il proseguire del
gioco.
Similmente al primo Silent Hill,
che poteva finire anche senza spiegare un bel niente, la comprensione
della storia in Forbidden Siren è
proporzionale alla dedizione dell'u-
27
tente. La trama è complessa, convoluta, e si rifiuta di dispiegarsi
completamente. Compito del giocatore è di mettere insieme gli indizi,
i dettagli all'apparenza inutili, collegando i riferimenti nel modo giusto.
Le contraddizioni, in puro stile Toyama, non mancheranno, ad esempio perché gli abitanti escono dalle
acque sotto forma di Shibito? E
come mai Kyoya, il primo dei protagonisti, pur cadendo nel mare di
sangue ferito a morte, ne riemerge
completamente sano? Che significato ha la sirena che ha dato inizio
a quest'incubo? Tante domande,
poche risposte: un lavoraccio, ma
comunque appagante, un segno
distintivo dell'operato di Toyama. E
se proprio non riuscite a comprendere ogni risvolto della trama, ci
penseranno per voi i prossimi indepth di Ring ;)
Kyoya Suda, il primo personaggio che vi
ritroverete a controllare: in questa scena, tratta dall'intro, lo si vede spiare
nella cerimonia religiosa svolta tra i boschi. Una curiosità che si ritroverà ben
presto a ripagare. Interessi compresi.
Somebody save me
Okay, subito con la domanda da un
milione di dollari: Forbidden Siren
fa paura? Sì, sì e sì. Il gioco È terrorizzante. Detto questo, è possibilissimo non entrare nella mentalità
giusta. D'altronde, la paura fa 90,
non 100. Non si tratta di un fattore
oggettivamente discretizzabile: le
esperienze di ognuno in merito
cambiano la propria percezione del
terrore.
Forbidden Siren non tenta la
pugnalata tra le costole, quel colpo
di scena improvviso che, vissuto la
prima volta, è già vecchio: l'atmosfera, la "malattia" e la frustrazione
sono le tematiche centrali dell'esperienza ludica. Siren va vissuto
nel modo giusto, piegandosi alle
nuove leggi dettate da Toyama, e
non cercando di ribellarsi ad esse.
Alcuni potrebbero non gradire tutto
ciò, ma quello che si perdono è
proporzionale alla loro superficialità. Andiamo nel dettaglio…
Abituati al più classico dei survival horror, Siren si rivela inizialmente alienante. Disarmati, inermi,
contro un nemico che ci dà la caccia senza sosta, l'unica vera arma
di cui veniamo dotati è il sightjack.
Si tratta di una facoltà particolare,
comune a tutti i protagonisti del
:RECENSIONI:
gioco, tramite la quale il personaggio può sintonizzarsi, come fosse
una radio, sulle “frequenze” degli
altri esseri, siano umani o Shibito,
permettendo la visione dagli occhi
della creatura. Esperienza genuinamente disturbante, il sightjack è
tutto fuorché mera feature da
sbandierare nel retro della scatola.
Si tratta piuttosto dell'elemento
centrale del gameplay e della sopravvivenza in Siren. Gli Shibito
non sono misericordiosi: quando
vedono il giocatore, lo inseguono, o
peggio, nel caso dei cecchini, lo crivellano di proiettili. E sono sufficienti due colpi per riscoprirsi defunti. No, non ci sono erbette.
È qui che il sightjack entra in azione: la necessità di rimanere celati allo sguardo nemico, evitando il
confronto ogniqualvolta possibile, è
di fatto attuabile prendendo “in
prestito” la vista dei nemici, studiando così il loro pattern di pattugliamento o la zona di appostamento dei cecchini. Ma esistono anche
metodi alternativi di utilizzo del sightjack, che con il proseguire del
gioco stupiscono per la loro genialità nell'implementazione (e non
pensiate che sia utile sightjackare
solo gli Shibito… origliare vi è sempre piaciuto, scommetto... ;)
Tuttavia il sightjack non trasforma il gioco in un banale nascondino: capire dove sono appostati gli
Shibito rimane decisamente arduo,
a meno di conoscere la topografia
di ciascuna zona a menadito. Similmente, la sintonizzazione sulle
“frequenze giuste” è più difficile del
previsto. Il sightjack si attiva premendo L2, per poi ricercare le frequenze visibili lungo un’ipotetica
“banda” rappresentata dai 360°
dello stick analogico – le frequenze
sono però, in genere, stipate in un
intervallo angolare assai stretto,
obbligando a compiere il “giro di
Ring#11
stick” con lentezza e metodo.
Ma non è tutto: altro aspetto fondamentale del gameplay è la mappa. In questa, la posizione del giocatore non è esplicitamente segnata. È però possibile orientarla in
modo da guardare nella direzione in
cui guarda il personaggio, e fornisce una legenda dei landmark più
importanti (case, edifici, ponti, fiumi...), utili per poi cimentarsi in vere e proprie gare di orienteering al
buio, riconoscendo sulla mappa i
vari punti di riferimento: “Ecco la
casa, a destra c'è il ponte, quindi se
scendo da qui arrivo alla cabina?”.
Cosa che, pur complicando la vita
al giocatore, funziona a meraviglia.
Il fatto di non poter esplorare gli
ambienti a propria discrezione, a
causa della “minaccia Shibito", è
comunque degnamente compensato da questo “obbligo”, che costringe ad una pianificazione ragionata
dei sopralluoghi.
Kyoya ha visto giorni migliori, mentre
sullo sfondo Miyako è inerme nel modo
più assoluto. Alcune missioni richiedono
la scorta di alcuni personaggi mediante
semplici ordini da menù del tipo "fermati", "avanza", o "urla" per attirare l'attenzione degli Shibito su di sé e offrire
una chance di fuga al compagno tramite
l'ovvio "scappa!".
Fermi tutti, non è ancora finita: anche la torcia, di cui ognuno dei personaggi è dotato, è finalmente inserita nel contesto di gameplay
giusto. Ricordate il consiglio in Silent Hill di spegnere la torcia per
Hob consiglia...
La struttura ad incastro della trama di Forbidden Siren
ricorda molto da vicino quello che è il miglior esempio di
narrativa a fumetti degli ultimi tempi: 20th Century
Boys, un manga di Naoki Urasawa.
Similmente alle tre giornate di Siren, la trama di
20thCB si dipana lungo diversi periodi storici (guardacaso, tre), ed esattamente come il gioco di Toyama alterna
senza sosta i vari personaggi, creando un mosaico in
continua evoluzione, dove nessun ramo di storia viene
abbandonato, dove nessun dettaglio è inutile o fine a se
stesso e dove niente succede per caso.
Altro aspetto analogo è il fatto che alcune missioni di
Siren impongano al giocatore di fare certe cose pur senza capire bene perché le
si fa (esempio, aprire una porta pur senza doverla attraversare nell'immediato),
cosa che sarà poi evidente con il proseguire delle missioni. Similmente, 20thCB
sfrutta abili giochi di regia facendo sì che a una prima lettura il significato appaia
chiaro, insospettabile nella sua essenza, mentre alla luce della lettura dei volumi
successivi, il tutto si carichi di nuove valenze e significati, fino al momento in cui
si ha la consapevolezza di essere stati sul binario sbagliato per tutto il tempo,
incolpevoli, ma sconfitti da un'organizzazione della trama da premio Nobel.
Un capolavoro assoluto consigliato senza riserve. Se Ring recensisse i manga,
20th Century Boys sarebbe il suo primo S.
28
evitare di essere visti dai nemici? A
che pro, di grazia, quando è sufficiente colpire due o tre volte un
mostro per ucciderlo, o peggio,
dribblarlo con una facilità clamorosa? Bene, benissimo anzi: in Siren
la torcia è finalmente l'arma a doppio taglio che ci si aspetta. Gli Shibito la vedono, e se la vedono, la
vogliono veder spenta. Questo costringe a fare alcuni tratti al buio,
sotto la pioggia, affidandosi unicamente al proprio orientamento, timorosi che accendendo la torcia si
possa essere scovati da un momento all’altro. Cominciate a capire?
Credo di sì. Forbidden Siren è
giocabile in due modi, uno buono e
uno cattivo…
1) il metodo “Trial & Error”, che
alcuni redattori e i più frettolosi tra
i giocatori potrebbero finire per seguire. Non è difficile da spiegarsi, in
quest'ottica, il 54/100 dato a Siren
da CVG, e in generale la mancanza
di voti di fascia media dati al gioco.
O insufficiente, o eccellente. I seguaci del Trial & Error sono rei di
voler imporre a Siren le caratteristiche degli altri survival horror, per
poi rimanere frustrati per l’ennesima morte dovuta alla fretta, alla
noncuranza, ma soprattutto alla
mancanza di immedesimazione, finendo quindi per bollarlo come ingiocabile.
2) il metodo “dello sfigato impaurito”, colui che avanza a carponi, la
torcia spenta, un passo avanti e
due indietro, perché “lì mi sentivo
più sicuro”. Quello che gli Shibito
non li vuole neanche vedere, men
che meno combattere, e che controlla dopo ogni passo col sightjack
di non essersi esposto troppo, consapevole della possibilità di retry in
caso di morte, ma che ciononostante non vuole morire. Ogni avvistamento è seguito da un flash rosso,
una veloce visione dagli occhi dello
Shibito e un sussulto sul pad. Panico, spengo la torcia, cerco riparo,
mi accuccio e BLAM! uno sparo nella notte. Mi colpirà? Oppure, raggiungendo il personaggio che mi ha
fatto da guida, lei mi guarda e dice:
“attento, ce l'abbiamo alle costole”,
mi volto e vedo la luce di una torcia
poco più in là, e si avvicina... E ancora, l'inizio della terza missione,
con uno Shibito cecchino sulla casa
vicino al ponte, che obbliga a cercare una via di fuga sul letto del
fiume, cercando copertura sotto al
ponte, per poi procedere nuovamente nella pioggia, a torcia spenta
per non essere visto... Fuggire, io
voglio SOLO fuggire...
Morale della favola, con il secondo metodo si finisce per giocare avvertendo una tensione che è dai
tempi del primo Silent Hill che non
si provava. Ma laddove in SH era
:RECENSIONI:
una tensione “tarocca”, in gran parte frutto della capacità di autosuggestione del giocatore, in Siren la
minaccia c'è, ed è tangibile. Gli Shibito fan paura. Non solo il design è
azzeccatissimo, ma avere nemici
intelligenti, tra l'umano e il demoniaco, che mugugnano, parlottano,
che si trovano lì proprio per dare la
caccia al giocatore e che NON si
possono uccidere (qualche personaggio ha con sé un'arma, ma è
comunque consigliabile di non abusarne: il munizionamento è alquanto ridotto) finalmente impone di
giocare ad un survival horror consapevoli della situazione disperata
che vivono i protagonisti, condividendo con loro l'angoscia del non
essere visti e del non voler vedere.
L’impossibilità
silenthilliana
del
“gioco di corsa per vedere cosa c'è
dopo” è pertanto ineludibile. Le regole di Toyama non si spezzano, né
si piegano. Non c'è una via di mezzo, questa volta il male è più forte
del bene. Al giocatore il decidere o
meno se stare al gioco.
Cielo rosso sangue, torcia accesa, Shibito in marcia. Welcome to Hanyuda :)
Like this, like that
Graficamente, il titolo è apparentemente grezzo, non presenta vette
di indicibile splendore visivo, è talvolta approssimativo, ma rimane
coerente nelle scelte artistiche, arricchite da un lavoro di ricerca a
livello simbolico e iconografico che
ha del miracoloso. Lavoro che fa
trasparire in pieno la potenza di
suggestione dell’opera di Toyama.
Ring#11
I personaggi, in primis, sono stati
texturizzati avendo come base le
persone vere. Nessun superfigo o
aspirante idol di sorta, quanto persone normalissime, talvolta persino
bruttine: veri e propri attori sul palcoscenico di un incubo.
In alcune situazioni la scelta si rivela fin troppo ambiziosa. Il motore
grafico non tiene certo dietro ad
esigenze di fotorealismo, rendendo
alcune scene più brutte a vedersi di
quanto fosse lecito aspettarsi, soprattutto a causa di espressioni
“falsate”, animate con pochi frame,
senza contare il lip-sync fuori tempo, a tratti imbarazzante. Ma sono
peccati veniali e non compromettenti.
Gli scenari, pur non presentando
moli poligonali ninjagaideniane, si
difendono benissimo. Il gioco è articolato in dieci maxi-zone, all'interno delle quali non vi sono caricamenti (niente porte, niente “now
loading”): fattore fondamentale per
aumentare l'immersione dell'utente. Al di là di ogni disquisizione tecnica, l'atmosfera che si respira è
proprio quella di una tipica località
giapponese di montagna. Un villaggio rurale che versa in un male apparentemente incurabile, dilaniato
dalla pioggia e avvolto da un buio
opprimente. Bellissimo.
Infine il sonoro: il gioco non è accompagnato da alcuna melodia,
bensì dal semplice audio ambientale, molto buono nel complesso ma
che non raggiunge i fasti di quanto
ideato per i vari Silent Hill da Akira Yamaoka, musicista e “rumorista” di Konami Tyo, il cui lavoro rimane su vette di eccellenza insuperate. Inoltre, disgraziatamente Sony ha optato per il doppiaggio in
italiano, tutto sommato decente,
ma che di fatto smorza il feel così
marcatamente giapponese del gioco. Voci jap e sottotitoli sarebbero
stati – molto – ben accetti.
Capostipite
Toyama si dimostra, per la seconda
volta, un autentico mostro di bravura. Questa volta però senza fare
l'occhiolino a tutti. Forbidden Siren è difficile ai limiti del frustrante, mentalmente gravoso e da esaurimento fisico. Un titolo malato
sin dalla sua prima concezione, un
titolo non certo per chiunque in
quanto non concede mezze misure,
non scende a compromessi. Come i
grandi capolavori, ha il coraggio di
fare delle scelte, e di rimanere coerente con esse fino in fondo.
Venderà pochissimo, ma farà parlare di sé. È un titolo importante
quanto atipico, un taglio netto col
passato, con la vecchia concezione
del survival horror, un titolo ricercato, studiato a tavolino nei cinque
anni di silenzio di Toyama.
L'abbandono della barca del Biohazard “classico” da parte di Mikami e soci non sorprende alla luce
di quello che Siren rappresenta: il
nuovo capostipite nel genere dei
survival horror.
:SMS-RECENSIONI:
Speciale Game Boy Advance
di Pocket Sator
Flop of the PoP
[Prince of Persia: LSdT]
Il principe non corre sui muri.
Lasciate perdere.
~
Pandora Bauli
[Splinter Cell: Pandora Tom.]
È Super Mario stealth con un sacco
di azioni eseguibili.
Tutte noiose.
~
The Blair Siren Project
Molti di voi ricorderanno il caso mediatico
della strega di Blair, quella compenetrazione tra diversi media, la generazione
incontrollata di suggestioni sul pubblico,
tanto da portare a pensare che fosse realmente una storia vera. Siren, nel suo
piccolo, prova a fare altrettanto. Nel corso
del gioco, si trovano numerosissimi documenti (i classici "files" di Resident Evil),
che contengono, tra le altre cose, elementi apparentemente extra-ludici. Un semplice esempio, un file nel gioco contiene il
link ad un sito, www.shibito.com. Il sito esiste realmente. E non solo, a quanto pare
anche la città di Hanyuda esiste veramente, e guardacaso dopo la pubblicazione del
gioco sono iniziate a girare strane voci che fosse una città fantasma, una leggenda
di cui si preferisce non parlare: secondo queste voci, in una notte tutte le persone
del villaggio sarebbero morte in seguito alla diffusione di una “bolla di gas” dovuta a
uno smottamento della crosta terrestre. Bullshit? Verità? Resta il fatto che la città di
Hanyuda esiste, ci sono le coordinate, si trova in qualsiasi atlante del Giappone. È
scritta con kanji diversi rispetto a quella del gioco, ma...
29
Pop of the Prot
[Pop Idol]
Un rhythm game in
cui i tasti non vanno premuti seguendo un ritmo? Ma che bella
pensata!
~
Nemo Remigi
[Alla Ricerca di Nemo]
A mia sorella fa
cagare.
:RECENSIONI:
Ring#11
Have a nice stay, forever
[Gregory Horror Show]
di Gatsu
È facile confondersi…
Gregory Horror Show è il
gioco che non ti aspetti.
Primo perché con un titolo
così l’unica cosa che ti viene in mente è che si tratti di un tie-in di
The Rocky Horror Picture Show, secondo
perché dagli screenshots è sostanzialmente impossibile capire come diavolo
possa essere impostato il gameplay. Un
po’ come per Animal Crossing, con cui
il titolo Capcom spartisce tra l’altro uno
stile grafico originale e vagamente allucinato.
GHS, sviluppato da Production Studio
3, ha inoltre il grosso pregio di inserirsi
in quel filone di titoli made in Capcom
caratterizzati da una forte volontà di
apparire “innovativi” (Viewtiful Joe,
Killer7, Resident Evil 4…), pur essendo basato su un cartoon giapponese
misconosciuto dalle nostre parti. E se
stile grafico e trama sono forse più
adatti ad un pubblico di giovanissimi, la
meccanica di gioco stupisce per quantità
di idee, per non parlare degli squilibrati
personaggi con cui il nostro avatar si
troverà ad interagire.
Benvenuti nell’hotel di Gregory…
.:scheda:.
Survival demential
stealth horror
Etichetta
Capcom
Sviluppatore
Production S. 3
Sistema
PS2
Anno
2003
Giocatori
1
Versione
Europea
Genere
…Quando hai un cubo al posto
della testa
Il nostro alter ego virtuale non ha un
nome. Giusto per fare un dispetto a
Sator, lo chiameremo Oppipop. Di Oppipop noi non sappiamo un bel niente: né
da dove viene, né perché abbia la testa
così grossa. Il gioco inizia di fronte al
Gregory’s Hotel: Oppipop ci si ritrova per
errore dopo aver vagato inutilmente per
la foresta-piena-di-nebbia. Il fatto che il
Gregory’s Hotel sia in un’altra dimensione non intacca più di tanto la credibilità
dell’intreccio, anche se viene naturale
domandarsi cosa diavolo abbia combinato Oppipop per meritarsi una punizione
simile.
Alla porta arriva lui, protagonista
assoluto del cartoon (chiaramente sto
improvvisando): Gregory, un vecchio topo strabico dalla risata sardonica. Felice
come una pasqua di ricevere un nuovo
ospite, Gregory ci guida verso una
stanza che sarà poi punto di partenza e
base operativa del nostro Oppipop lungo
tutto il corso del gioco. Prima di cominciare, una allegra Morte di origini
presumibilmente scandinave (la Nera
Signora indossa infatti un cappello a
foggia di bandiera svedese, per motivi a
me ignoti…) ci compare in sogno, informandoci che l’unico modo per ritrovare
la strada di casa è sottrarre le anime agli
altri ospiti dell’albergo e consegnarle a
lei. Dopo questo rassicurante incipit
l’hotel è a nostra disposizione: tramite la
mappa del piano terra che Gregory ci ha
fornito Oppipop può girovagare per le
stanze, iniziando a conoscere alcuni dei
personaggi con cui si troverà ad interagire (16 in totale) e cercando di capire
come funziona questa cosa del “fregare
le anime”. La meccanica di gioco è
abbastanza semplice: Oppipop può svolgere sostanzialmente una manciata di
azioni (bussare alle porte, spiare dalle
serrature, origliare i discorsi altrui, raccogliere/usare item, parlare con gli ospiti
dell’albergo e leggere libri), tramite le
quali deve riuscire a carpire i punti deboli degli ospiti in maniera da coglierli di
sorpresa e costringerli a cedere l’anima.
Il tempo di gioco è diviso in capitoli,
durante i quali Oppipop fa la conoscenza, generalmente, di 3 ospiti per volta.
Allo scopo di facilitare la risoluzione degli
enigmi, ad Oppipop è concesso di tenere
una sorta di taccuino, dove può annotare, ora per ora, le occupazioni della vittima designata. A complicare la faccenda,
oltre alla esuberante personalità degli
ospiti, concorre la furia di quelli a cui
l’anima è già stata sottratta, che non
perdono occasione di rincorrere Oppipop
per fargliela pagare (anche a causa di
questa particolarità, il gioco inizia a diventare tosto solo verso la fine, quando
l’albergo è pieno di ospiti tutti tendenzialmente incazzati). Giusto per fare
qualche esempio senza rivelare troppo,
vi troverete alle prese con personaggi
come James (diabolico nipote di Gregory, un incrocio fra Bart Simpson e il mefistofelico neonato dei Griffin), Catherine
(un’infermiera maliziosa come una pornostar pronta a prelevare il vostro sangue con una siringa enorme), Hell’s Chef
(un cuoco violento e puntiglioso), Neko
Cat (un gatto a cui sono stati cuciti occhi
e bocca, perennemente affamato) o
Mummy Papa & Mummy Dog (una coppia di cani che si lamentano dei loro
dolori, deambulando con armi conficcate
in testa e bende e ferite dappertutto).
Non tutti i personaggi sono ugualmente
godibili da “sconfiggere”, perché molto
spesso è fin troppo facile capire come
rubar loro l’anima (in un paio di casi mi
sono bastati pochi minuti di gioco).
Nonostante questo, alcuni degli ospiti
sono davvero spassosi, e tre o quattro di
loro richiedono anche un certo impegno
(in particolare Clock Master & My Son,
Cactus Gunman e Hell’s Chef). Menzione
d’onore va a Lost Doll, una versione
“bambolosa” della protagonista de L’E-
30
sorcista, alla quale è sostanzialmente
impossibile sfuggire.
Farsi cogliere di sorpresa dagli ospiti
furiosi comporta sempre una riduzione
sostanziosa della Salute Mentale di Oppipop, nonché spesso l’aggiunta di qualche
status negativo (mal di testa, nervosismo, malinconia, confusione), elementi
che complicano un po’ la vita del giocatore con effetti grafici stile “sbornia”,
inversione dei controlli o emorragiche
perdite di sanità mentale. Inutile dirlo, il
riposo e la lettura di qualche buon libro
consentono a Oppipop di ripristinare/potenziare la Mental Gauge.
Time for juuuuudgment!
Tecnicamente il gioco è meglio di quanto
sarebbe lecito aspettarsi: dotato di
supporto per i 60hz, Gregory Horror
Show è fluido e piacevole alla vista, pur
non presentando grande complessità poligonale o effetti grafici da urlo (interessante la nebbia). Mediocri i filmati in
CG, anche se moderatamente divertenti.
Il sonoro è adatto all’atmosfera semiseria del gioco, così come gli effetti sonori
e le brevi parti di parlato (da oscar il
doppiatore di Judgment Boy).
Strepitoso il finale, che si prende terribilmente sul serio facendo contemporaneamente il verso a saghe “adulte” come
Silent Hill.
I punti in cui Gregory Horror Show
pecca sono purtroppo l’eccessiva facilità
degli enigmi (sarebbe stato auspicabile
un approccio più “laterale” a certe
quest), una sostanziale impossibilità di
affrontare le situazioni secondo pattern
alternativi (in alcuni casi si arriva ad un
paio di possibilità, comunque troppo
poco) e una certa frustrazione che subentra nelle fasi finali del gioco quando
tutti gli ospiti della casa ci vogliono
morti: altro che Grande Fratello!
Deprecabile, infine, che Oppipop sia
praticamente inerme di fronte agli ospiti,
anche se questa incapacità di difendersi
dà luogo ad un confronto con il boss
finale dallo svolgimento quantomeno
insolito…
Ad ogni modo GHS è uno dei titoli più
originali apparsi sul mercato ultimamente, e a mio avviso va assolutamente
premiato, pazienza se garantisce solo 10
ore di divertimento…o preferite passarne
100 a fare scontri casuali?
PS: vi faccio notare, senza fare nomi,
che in rete potete trovare GHS nuovo a
circa 25 euro…
:RECENSIONI:
Ring#11
Sonica
[Sonic Heroes]
di Federico Res
Sonic Heroes è privo di
compromessi. È un gioco di
Sonic Team, col talento di
Sonic Team, e i difetti di
Sonic Team. Ha un sistema di telecamere irrispettoso del giocatore, restio a
slegarsi dalle routine di base per offrire
una visuale di gioco degna di tale nome.
Ha un sistema di controllo tendenzialmente schizofrenico, sempre pronto a
sfuggir di mano come un’anguilla tarantolata. Ti asseconda finché fai il suo gioco, ti deride se fai di testa tua: a interrompere l’azione e tornare indietro si
guadagnano visuali sbilenche, scorrette.
A ballar la rumba sulle piattaforme
sospese si casca immancabilmente di
sotto. Sonic Heroes ti mette davanti a
corse forsennate, ma si dimentica di
registrarti i freni. A quel punto puoi
decidere: mantenere il controllo e continuare a correre, o saltar fuori e gridare
allo scandalo. Il che equivale a chiedersi: Sonic Heroes è il risultato di arguzie
di game design partorite da giapponesi
anarchici fatti di cocaina, o la conseguenza di tempi di produzione incompatibili con un sano periodo di debug?
.:scheda:.
Genere
Speed Platform
Etichetta
Sega
Sviluppatore
Sonic Team
GameCube, PS2, Xbox
Sistema
Anno
2004
Giocatori
1-2
Versione
Europea
Qualunque sia la risposta (che trovate
da qualche parte in fondo all’articolo)
Sonic Heroes resta un container di divertimento misto a grappoli di invettive.
Il gameplay è quello dei vecchi capolavori per Mega Drive, il level design cita i
due Sonic Adventure usciti su Dreamcast. Da quei titoli, SEGA ha estirpato
tutto ciò che non costituiva corse mozzafiato lungo ambienti lineari e verticali.
Tutto ciò, in pratica, che ai fan dell’istrice non è mai andato giù. Sonic Heroes
è Sonic al 100%. Niente divagazioni
nell’adventure, niente crociate in stile
shooter. In una progressione lineare,
affrontiamo una serie di quattordici livelli
disegnati esplicitamente per esaltare le
velocità assurde del porcospino. Le citazioni ai trascorsi della saga sono innumerevoli: SH straborda di loop, salti
improbabili, voli funambolici, binari sospesi e aggrovigliati da grindare. Non
mancano le centinaia di anelli d’oro,
disseminate per ogni dove, come unica
fonte di energia (Sonic resta in vita
finché possiede almeno un anello, muore
se viene colpito quando l’apposito indicatore scende a zero). I pattern si
affidano al modello “da A a C passando
per B”: dove A è una piattaforma, C
un’isoletta e B una molla in grado di
proiettare Sonic verso il disgregamento
del muro del suono. La presenza nemica,
dal canto suo, è solo il pretesto per
nuove evoluzioni. Un tocco al tasto A fa
saltare Sonic, un secondo tocco lo trasforma in una meteora diretta verso il
nemico più prossimo. Dopo il primo attacco, un rapido tapping produce attacchi a raffica che Sonic indirizza verso
qualsiasi cosa gli stia vicino. Il risultato è
la distruzione orgiastica di plotoni interi
di nemici in tempi che rasentano il motoneurale. E se la strategia latita, l’esaltazione scalpita: specie quando il ponte
teso tra A (piattaforma) e C (isoletta)
non è più una molla ma una serie di
droidi volanti da travolgere a mezz’aria…
Ad aumentare la longevità del titolo
contribuiscono le modalità multiplayer e
sfida. All’interno di quest’ultima è possibile rigiocare i livelli già completati, alla
ricerca della votazione più alta (espressa
in lettere) o di nuovi emblemi da collezionare. A minacciare la longevità del
titolo, d’altra parte, ci si mette la colonna sonora. I brani di Sonic Heroes non
si discostano molto dal trash-rock già
sentito nei due Sonic Adventure, e solo
qualche lodevole divagazione elettro-pop
(come la traccia abbinata a Casino Park)
migliora un approccio musicale sinceramente discutibile…
Ma il vero quid, il cuore dell’opera SEGA
è il nuovo Team Battle. Sonic Heroes si
affronta ai comandi di un team di tre
elementi. Scelto il proprio team preferito
tra una rosa di quattro (Team Sonic,
Team Dark, Team Rose e Team Chaotix)
si apprende la prima regola del Team
Battle, Un tocco ai tasti X e Y è il ‘gimme
five’ per un istantaneo cambio di leadership. Calati nell’azione, è immediatamente chiara la seconda: Ogni cosa in
Sonic Heroes è modellata secondo le
abilità dei protagonisti. Tempo pochi
istanti e ci si ritrova vittime di un
meccanismo convulso. Il loop all’orizzonte reclama la velocità esclusiva di Sonic
(e dei personaggi degli altri team dotati
di medesime abilità). Il giocatore sbircia
l’angolo ALTO/DESTRA per aver chiaro lo
schema del team, quindi sceglie il tasto
da premere per ottenere il controllo di
Sonic. Passato il loop, una serie di macigni blocca la via: il giocatore sceglie il
controllo di Knuckles e abbatte gli
ostacoli a suon di pestoni. Spazzati via i
macigni, fa la sua comparsa uno stra-
31
piombo: il giocatore richiama Tails e spicca il volo, trascinando gli altri
teammates, verso l’apice
del dislivello. In quel momento è chiara la terza
regola: Alle azioni semplici conseguono quelle
composte. Premendo B
durante il volo, Tails si
produce in un poderoso
colpo di reni e scaraventa
i compagni – provvidenzialmente chiusi
a palla – contro i droidi che stazionano
fuori portata (Thunder Shoot). Knuckles,
riavutosi dall’impatto, assume il comando e scatena il Fire Dunk (salto + B):
sospeso a mezz’aria, fa roteare i compagni, divenuti sfere di fuoco, scagliandoli
violentemente contro i droidi in precedenza storditi da Tails. Infine Sonic,
sfruttando il Tornado Spin Attack (salto
+ B) rovescia i droidi e li colpisce a tradimento, mentre si agitano a terra impotenti…
Azioni semplici/azioni composte: l’obiettivo è la prestazione perfetta, la
partita priva di punti morti, dove ogni
componente del team svolge la sua
funzione in armonia con i compagni.
Aiutano in ciò i character gates, pietre
miliari che indicano la formazione migliore per superare un passaggio o cedono
automaticamente il comando al personaggio più indicato.
Aiuta il campo visivo splendidamente
ampio, garante di una rapida e infallibile
decifrazione dell’environment. Ma più
che altro, aiuta scendere a patti con
l’ultima regola di Sonic Heroes: Ogni
azione, semplice o composta, si compie
a velocità ciclonevrotica. Dove “ciclonevrotica” evoca la metafora di un giapponese anarchico, fatto di cocaina, alle
prese con un monociclo sistemato sul
cocuzzolo del K2…
Sonic Heroes è la risultante di arguzie di game design, e, parallelamente,
la conseguenza di tempi di produzione
incompatibili con un sano periodo di debug. È un meccanismo imperfetto, che
richiede al giocatore lo sforzo di adattarsi alle sue mancanze (telecamere e
relativa imprecisione dei controlli in
primis) e lo ripaga rimanendo sempre
uguale a se stesso. Ciò significa, per
chiunque non sia insensibile alla semplicità, una grossa coppa di gelato alla crema con scaglie di cioccolato amaro. Per
tutti gli altri, un titolo da evitare. Un
prodotto che invano prova a cogliere lo
spirito dei tempi, proponendo una longevità robusta (per finire realmente il gioco
è necessario completare i 14 stage con
tutti i team), un aspetto grafico solido
(di cui si apprezzano i 60 fps e alcuni
effetti di luce) e la solita infarinatura di
“stylish”, che Sonic per primo ha introdotto nell’universo dei videogiochi. Un
prodotto che arranca privo del free
roaming, o di sostanziali stimoli alla
rigiocabilità (presenti solo per i veri fan
del porcospino). Un prodotto che vorrebbe avere un posto nel mercato odierno
ma che, intimamente, del mercato odierno se ne frega. E allora la tenzone è
tutta tra gioco e giocatore, con quest’ultimo da identificarsi nel fan SEGA di
vecchia data. La contesa è nello stabilire
quanto siamo incapaci noi e quanto è
imperfetto il gioco. Non si giunge mai a
capirlo davvero, ma nel mentre ci si
diverte una cifra…
:RECENSIONI:
Ring#11
La Casa degli Spiriti
[Fatal Frame 2: Crimsom Butterfly]
di Teokrazia
Orrore: “Sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele,
ripugnante, in senso fisico o morale”
Terrore: “Sentimento di forte sgomento, di intensa paura”
Stringiculo: “Glaciale contrazione dello sfintere anale indotta da una fruizione notturna
di Fatal Frame”
È facile confondersi…
I luoghi comuni mi stanno
sul cazzo, c'è poco da fare.
E quando si parla di Fatal
Frame (Project Zero in
Europa) il luogo comune è in agguato.
L'utenza si dimostra infatti propensa ad
etichettare il titolo come semplice epigono di Silent Hill, inserendolo nel filone
"psicologico" del survival horror, dietro
al best seller targato Konami e chiudendo qualsiasi altro discorso in merito.
E ciò, in quanto luogo comune, mi sta
piuttosto sul cazzo. E a ragione, dico io,
perché ad un esame più attento i meccanismi della paura alla base dei due titoli
mostrano ben poco in comune, oltre al
fatto di porsi ambedue in aperta antitesi
all'approccio splatter/finestra_rotta_dai_
cani di Resident Evil…
Mentre Silent Hill conduce ad una
lenta e inesorabile macerazione interiore, andando a rovistare in zone dell'animo dove albergano sensi di colpa e
paure primordiali, e sfalsando le capacità
cognitive del giocatore allo scopo di metterne in dubbio identità e ruolo, Fatal
Frame opera all'opposto: mantenendo
integro l'assetto emotivo dell'utente.
Quanto più è lucido il giocatore, mentre
attraversa le fatiscenti stanze di questo
Giappone maledetto, e tanto più l'ansiogena coltre d'angoscia che innerva il
titolo Tecmo si consolida, concretizzando
la sensazione d'essere costantemente
osservati da qualcuno… qualcosa, che
potrebbe tornare dal mondo dei morti da
un momento all'altro.
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Terrore Agghiaccante
Tecmo
Interno
PS2
2003
1
Europea
Sebbene coinvolga tematiche tanto care
alla serie di Konami (il senso di colpa e il
dolore della separazione) e nonostante
sia interessato da inedite occasioni di
pausa, temporaneo riparo dallo stato di
tensione altrimenti perenne (il cosiddetto "stringiculo" di cui parlano i dizionari di italiano più raffinati), Crimson
Butterfly ribadisce e rafforza l'autonomia del modello horrorifico della serie di
appartenenza, risolvendosi in un'agghia-
cciante incursione all'interno di un mondo crudele e disincantato, che di magico
ha ben poco.
La storia, che anticipa quella narrata
nel primo episodio di trent'anni, segue le
vicende delle gemelle Mio e Mayu, attratte all'interno di un villaggio che non
dovrebbe esistere e in lotta contro un
destino che le vuole protagoniste di un
antico rito fratricida. Il rapporto fraterno,
in particolar modo quello fra gemelli, è il
leit motiv del titolo e viene sviscerato
con eleganza dal comparto narrativo
rendendo ancor più devastanti ed incomprensibili gli orrori che attendono le due
ragazze, facendo così da cassa di risonanza emotiva al potenziale terrorifico
dell'esperienza.
Come e più del prequel, Crimson
Butterfly trova infatti una delle sue
maggiori ragioni di fascino in questa
capacità di sposare l'orrore al dramma,
perché dietro ad ogni raccapricciante
apparizione spettrale che si para di
fronte a Mio (la sorella controllata dall'utente) c'è una vita spezzata, delle cui
vicissitudini si viene resi partecipi tramite i documenti (diari e lettere) e le testimonianze audio disseminati lungo le
aree di gioco, nonché attraverso coinvolgenti flashback. Il copioso avvicendarsi
di cut-scene ed eventi in tempo reale,
assieme ai repentini cambi d'inquadratura e alle incursioni di un lirico bianco e
nero, assicurano un senso di continuità
tra "narrato" e "giocato", difficilmente
riconoscibile nelle produzioni concorrenti, e che contribuisce in maniera insostituibile all'edificazione di un'atmosfera
spiazzante, in continuo fermento, sulla
quale germoglia una sensazione di pericolo imminente che aggredisce il giocatore, già destabilizzato da uno sviluppo
della vicenda che offre ben pochi punti di
riferimento.
Strutturalmente, Crimson Butterfly
eredita in toto l'impostazione del progenitore, immergendo l'utente in ambienti
interamente poligonali, ritratti alternando con equilibrio angoli di ripresa fissi e
telecamere mobili, e ricorrendo poi agli
strumenti tradizionali del genere d'appartenenza: esplorazione, enigmistica e
combattimento.
Purtroppo, non tutti gli elementi posti
a fondamento del gameplay sono sviluppati con perizia, andando ad incidere
negativamente sulla godibilità complessiva. L'attività esplorativa, incentrata
come di consueto sulla ricognizione delle
aree di gioco alla ricerca di indizi, esige
di premere meccanicamente il tasto
Azione su ogni centimetro dello scenario,
questo perché il luccichio, pensato per
far risaltare gli oggetti con cui interagire,
è applicato ad una scarsa percentuale di
essi e non elimina quindi la necessità di
perlustrare affannosamente stanze, corridoi e strade per evitare di mancare
l'oggettistica non segnalata.
Una dinamica di questo tipo, che si
trascina in maniera farraginosa ormai da
tempo immemore, oltre a portare all'erosione dell'abusato tasto X, appesantisce tangibilmente il fluire dell'azione e avvelena l'immedesimazione nel
contesto, poiché ad ogni ingresso in una
nuova locazione si deve pagar pegno,
ripetendo il rito propiziatorio della pulizia
a testa bassa, con buona pace della
sospensione dell'incredulità. Una gestione più intelligente e snella di questo
aspetto avrebbe generato effetti benefici
sulla fruizione e avrebbe certamente
evitato l'occorrenza di alcuni casi al limite del paradossale, quando si è impossibilitati a proseguire e quindi costretti a
girare a vuoto per aver mancato, magari
di pochi centimetri, l'attivazione di una
cut-scene risolutiva…
Delude anche il puzzle solving, il
quale si adegua al generale livellamento
verso il basso della sfida, offrendo enigmi semplici e ripetitivi (fortunatamente
senza mai raggiungere i livelli offensivi
di un Resident Evil).
A concedere maggiore respiro agli
aspetti di matrice squisitamente avventurosa, ridestando l'interesse altrimenti
sopito, interviene l'utilizzo della Camera
Obscura, una misteriosa macchina fotografica in grado di percepire la presenza
di manifestazioni ultraterrene, siano
esse rappresentate da malefici spettri,
innocue anime in pena o banali campi di
energia mistica. Grazie alla Camera
Obscura è possibile vedere cose celate
all'occhio umano e rinvenire indizi e
oggetti altrimenti imperscrutabili, intuire
il nesso intercorrente tra determinate
locazioni o, più semplicemente, prendere
delle istantanee degli spiriti erranti che
infestano il villaggio (pratica che ha un
suo perché, come vedremo…).
Lo spostamento della visuale dalla
terza persona alla soggettiva provocato
Il legame tra Mio e Mayu, piuttosto che rimandare al rapporto
per eccellenza di questa generazione a 128 bit, ovvero quello
tra Ico e Yorda, richiama invece
più propriamente, nei modi e nel
profilo psicologico di ciascuna,
quello intercorrente tra Michele
e Filippo, protagonisti dello sple
ndido Io Non Ho Paura di Gabriele Salvatores, tratto dall'omonimo libro di Niccolò
Ammaniti (2001 Einaudi, 220 pagine, 9 Euro). Che il producer Keisuke Kikuchi sia
un appassionato di cinema e letteratura italiana?
32
:RECENSIONI:
dall'impiego della Camera Obscura, aggiunge un surplus non indifferente all'alimentazione della tensione, perché non
contento di aver imbastito un climax
terrorifico all'ennesima potenza, Fatal
Frame si spinge oltre, imponendo all'utente di sondare l'ignoto con fare da
voyeur, con la consapevolezza che il
rischio di trovarsi faccia a faccia con il
terrore è tutt'altro che remoto. Il lavoro
d'indagine, alla cui base ci sono esigenze
di game design, ma anche il semplice
cazzeggio fine a se stesso, acquisiscono
in questo modo un'attrattiva non indifferente.
Ring#11
scura (dimensioni e sensibilità dell'obiettivo, massimo accumulo energetico),
nonché interessanti funzioni supplementari come lo zoom, la possibilità di
evadere gli attacchi, quella di rallentare
o rendere maggiormente visibili i fantasmi e quella di sferrare colpi devastanti (lo "Zero Shot").
Il ventaglio di possibilità offerte, unito
all'esigenza di gestire con intelligenza le
risorse disponibili (pellicole e punti
esperienza), elevano ad un livello superiore lo spessore e il potenziale strategico degli scontri. Il senso di gratificazione viene poi alimentato dall'ottimo
lavoro di caratterizzazione dei numerosi
fantasmi, ciascuno dei quali vanta pattern comportamentali e attitudinali ben
differenzianti, richiedendo di essere
ingaggiato privilegiando di volta in volta
particolari condotte, fatto che viene
valorizzato negli scontri a più avversari,
disseminati con maggiore frequenza e
complessità rispetto al prequel.
zione degli item"), lasciano emergere la
voglia di fondo di accontentarsi e di
accontentare, di preferire il consolidamento del franchise piuttosto che ricercare con maggiore coraggio una sua
evoluzione sostanziale.
In questo senso, la natura ibrida di
Crimson Butterfly (visto e rivisto a
livello esplorativo, fresco e dinamico nei
combattimenti), potrebbe rivelarsi controproducente, specie di fronte all'avanzata di titoli come Forbidden Siren,
Silent Hill 4 e il prossimo Biohazard
che promettono di condurre il survival
horror ad una nuova era, relegando ai
musei tutto ciò che possa apparire anche
solo lontanamente old school…
>> Stop’n’Go >>
10 secondi al box
~
Localizza Questo!
~
Il corredo di extra offerti, oltre alla possibilità di creare ed editare il proprio album fotografico (con un ingombro di
spazio su memory card dimezzato rispetto al primo capitolo) e di ammirare
trailer e gallerie d'immagini, incentiva
discretamente la rigiocabilità. Nuovi livelli di difficoltà si sbloccano man mano
che il gioco viene terminato, rendendo
disponibili nuovi finali, nuovi fantasmi da
catturare, alcune funzioni extra della
Camera Obscura e, in pura tradizione
Tecmo, nuovi costumi e accessori per
vestire le due protagoniste. Il Mission
Mode, già incontrato nel prequel, si rivela un gradevole diversivo confermando
al contempo la bontà del sistema di
combattimento.
Ma la Camera Obscura è principalmente
uno strumento d'offesa, l'unico a disposizione di Mio, per tenere testa e debellare i fantasmi che attentano all'integrità
sua e, in alcuni passaggi dell'avventura,
della sorella. Per sconfiggere il nemico è
necessario sottrargli energia scattando
delle foto al suo indirizzo, fino a farlo
scomparire. Il combat system, dotato di
una certa sofisticazione e ben bilanciato
già nel prequel, ha beneficiato di miglioramenti sia a livello quantitativo che
qualitativo, confermandosi come l'elemento più rappresentativo e riuscito
del gameplay.
L'efficacia di ogni singolo scatto
dipende da una serie di fattori, primo fra
tutti il tipo di pellicola impiegata, ciascuno dei quali (a partire dal "Type 7"
blando ma dal munizionamento infinito,
fino ad arrivare al devastante ma raro
"Type Zero") ha un potere esorcizzante
e tempi di ricarica differenti. A seconda
della distanza, della precisione e del
momento in cui viene sferrato il colpo, si
ottengono effetti diversi, infierendo più o
meno danno, guadagnando la possibilità
di concatenare scatti consecutivi senza
sottostare ai canonici tempi di ricarica o
portare addirittura all'uccisione istantanea dell'avversario. Tutte queste variabili incidono inoltre sui punti esperienza
attribuiti a ciascuno scatto, il cui accumulo consente di acquisire, previo l'ottenimento di specifici item, incrementi
delle caratteristiche della Camera Ob-
Si giocava a Final Fantasy
Christal Cronicles.
A livello tecnico i miglioramenti più
evidenti riguardano i modelli poligonali,
decisamente più morbidi e verosimili, la
qualità e il numero delle animazioni e la
resa degli effetti speciali. Gli esterni e le
texture sono invece curati in maniera
altalenante, mentre le cut-scene e il
doppiaggio denotano pregevole fattura.
Una menzione d'onore spetta all'eccellente gestione delle vibrazioni del pad,
fra le migliori in assoluto su PlayStation
2.
Crimson Butterfly rende onore alla
giovane tradizione di Tecmo in fatto di
survival horror e offre un'esperienza
ricercata nei modi che, grazie alla sapienti scelte tecniche e stilistiche, all'efficace comparto narrativo e all'intrigante
uso della Camera Obscura, gli permettono di segnalarsi, al pari del prequel e
del poco considerato The Thing, come
uno dei tentativi più riusciti di rinfrescare
un panorama dove regnano speculazione
e conservatorismo. Sebbene raggiunga
meno assiduamente le vette d'insostenibilità toccate dal predecessore, Fatal Frame 2 si consegna a noi come una
delle più alte traduzioni in videogioco di
concetti quali "terrore" e "spavento",
stagliandosi, sotto il punto di vista meramente emozionale, ai vertici della categoria.
Ci sono però aspetti che detestano
perplessità e ne ridimensionano la caratura, proiettando contestualmente qualche dubbio sulle intenzioni dei programmatori. L'accondiscendenza con cui il
gioco si lascia consumare anche se affrontato a livelli come "Normal" e "Hard"
e l'ostinazione con cui è stato rispettato
un modo ormai obsoleto di intendere il
genere (consultare alla voce "acquisi-
33
Allora io longilineo mago, il
mio amico nanetto-guerriero
(chi ha il gioco capisce) e la
sua ragazza che ci fa da guaritrice/guerriera (abbiamo inventato il chierico anche se
nel gioco non c'è ). Con i nostri tre gba stiamo giocando a
questo fantastico gioco quando arriva una carovana (uno
dei tanti mini eventi).
«Attenzione» ci fa il tipo,
«Siamo stati attaccati da un
mostro orrendo!»
Noi pensiamo: "fico mo ci
parla di qualche quest cassuta".
«Si, state attenti anche voi al
terribile BUDINO NERO»
Le nostre facce o_O
Mentre già pensavamo di dover affrontare un tremendo
crem caramel gigante ci ripigliamo dal mal di stomaco
causato dalle risate e entriamo in una missione…
Dopo vari pestamenti osservo
il mio display che mi indica la
forza dei mostri e scopro l'arcano
Signori, la professionalissima
squaresoft ha tradotto SLIME
in BUDINO
:|
Austin Punisher
da it.comp.console
:RECENSIONI:
Ring#11
Vae Victus
[Legacy of Kain: Defiance]
di Nemesis Divina
Il Videogioco è uno
strumento di narrazione.
D’altra parte, sono in
molti a reclamare la legittima affermazione della narrativa
ludica, ossia quel flusso coerente
che nasce e cresce aderendo alla
nostra prestazione su schermo e
che, meglio di qualunque altro artificio, dovrebbe definire la particolarità del videogioco.
Se di questa narrazione ludica coerente abbiamo solo rari esempi
(qualcuno cita l’armoniosa solitudine del cammino di ICO oppure la
forsennata ed estatica danza di
Dante, in Devil May Cry), molto
più di sovente ci imbattiamo nel
Grande Inganno: il cinema travestito da videogioco, in un rincorrersi
di cut scene e filmati.
Croce nel fianco degli studiosi del
medium videoludico, l’ingombrante
intromissione dell’intermezzo e del
FMV ha sino ad oggi dettato il primo mezzo di trasmissione della
narrazione, e se da una parte esistono esempi che offrono scampoli
decisionali o situazioni da “interpretare”, più in generale l’equazione
universale è: Gioco+FMV=Buon VG.
E questo Legacy of Kain: Defiance si guarda bene dal dirottare
strade tanto battute e ben collaudate…
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Action
Eidos
Crystal Dynamics
PS2, Xbox
2004
1
USA
Da sempre forte di un costrutto
narrativo di prima grandezza, la
saga di Nosgoth continua il suo
percorso all’ombra dei Pilastri, in
cerca di colui che riporterà l’Equilibrio. Un percorso che trova in
LoK:Defiance un atto conclusivo,
a chiusura della contesa che da
cinque capitoli trascina i destini di
Kain l’Eletto e dello spettrale Raziel.
La Storia è ragione principale e
portante di questo episodio della
saga e richiama a sé gli intrecci dipanati negli episodi precedenti, riunendo i protagonisti nel medesimo
luogo e nel medesimo tempo. Dobbiamo quindi ribadire come Defiance si profili quale acquisto imprescindibile per tutti i fan delle vicende di Nosgoth.
Per tutti gli altri giocatori, la narrazione non perde di fascino: la
cronologia è agevolmente riassunta
con video e testi, ed è pur vero che
la storia di questo capitolo mantiene un’aspetto autonomo a sufficienza, il che rende la trama apprezzabile anche per il neofita della
serie (anzi, LoK:Defiance può essere sfruttato come testa di ponte,
sebbene riveli il finale, per scoprire
o approfondire fatti e personaggi
della saga).
Gli scenari di LoK:Defiance si estendono in buona misura, con dislivelli e svariati accessi a nuove
locazioni. Alcuni di questi accessi
risultano irraggiungibili in ragione
di futuri upgrade delle capacità dei
protagonisti, ma anche a causa della natura duplice dell’avventura:
Kain e Raziel, infatti, ripercorrono
talvolta i passi l’uno dell’altro, incappando in porte e passaggi esclusivi dell’altro personaggio.
Per quanto eccella nell’offrire lo
snudamento delle trame di Nosgoth, LoK:Defiance non può certo rinnegare la propria natura di
videogioco, né ignorare la figura del
videogiocatore. La propensione alla
narrazione della saga, però, si fa
ben sentire nei ritmi di gioco, mai
frustranti né lenti o troppo impegnativi, come poteva succedere nei
precedenti due Soul Reaver. A differenza dei passati capitoli, e più in
linea con lo spin-off Blood Omen
2, l’azione di gioco si sposta infatti
dalla risoluzione degli enigmi a
quella dei combattimenti, rinne-
34
gando quasi del tutto il backtracking: un modo efficace per concentrare l’attenzione sullo svolgersi
degli eventi e sottolineare il ruolo di
protagonisti e comprimari.
Percorrendo i capitoli, alternativamente nei panni di Raziel e di
Kain, si massacrano legioni di cacciatori di vampiri o spiriti inquieti o
guardiani fantasma o non-morti. I
combattimenti risultano poi meno
evitabili che in passato, dove l’evasione della lotta era privilegiata,
tant’è che ora numerose aree aprono i loro accessi solo dopo aver debellato ogni forma ostile in esse
presenti.
Dettando il ritmo di gioco a suon
di scontri, Crystal Dynamics si è
dovuta premurare di offrire un battle system appagante e godibile. Il
risultato è un successo solo parziale. Decisamente il migliore fra i sistemi adottati nel corso della serie,
LoK:Defiance offre comandi semplici ma versatili: due attacchi di
media e grande entità, un attacco
telecinetico (utile per scaraventare i
nemici in profondi baratri, o infilzarli sulle lame che adornano le pareti) e la classica abilità del salto.
Varie combinazioni si sbloccano
proseguendo nel gioco e risultando
invariabilmente in nuove e più letali
forme di combattimento. Nettamente migliorato il sistema di lock
on, ora più affidabile rispetto al
precedente Soul Reaver 2, mentre
subisce un assottigliamento il carnet di poteri di ambo i personaggi i
quali, in ragione di una maggiore
intuitività, presentano controlli sostanzialmente identici (per quanto
Kain si avvantaggi di una maggiore
potenza sul campo e Raziel mostri
maggior affidabilità nelle fasi platform). Abbandonata l’idea delle
armi intercambiabili nativa di Soul
Reaver 2, il nuovo capitolo si basa
esclusivamente sulla Mietitrice (in
possesso di Kain) e sullo spirito della stessa (la lama fantasma brandita da Raziel). Al di là delle azioni di
schermaglia, le spade possono essere infuse di essenze elementali
liberando le quali si possono azionare poteri secondari che, in maggior numero, si presentano come
attacchi devastanti a base di fulmine, fuoco, ghiaccio, ecc..
Se la lama di Kain ha sviluppi esclusivamente bellici, quella di Raziel piega i suoi poteri anche alla
risoluzione degli enigmi, disegnando nuovi percorsi fra i livelli, azionando appositi interruttori o agendo con le proprie caratteristiche distintive (l’Elemento della Terra
permette di camminare sott’acqua
e creare piattaforme, l’Elemento
dell’Acqua congela le cascate tramutandole
in
pareti
scalabili,
ecc…).
:RECENSIONI:
L’Intelligenza Artificiale esita a stupirci. Sono rare le occasioni in cui si
è messi in difficoltà dai nemici, anche quando essi ci assalgono in
gran numero. Le grosse statue alate armate di spada, ad esempio,
sono così goffe e lente che il modo
migliore per sbarazzarsene è fare in
modo che si colpiscano fra di loro,
con le grosse armi.
Sempre in considerazione di un limitato coinvolgimento ludico del
giocatore (per renderlo al meglio
spettatore), quest’ultimo capitolo
della saga tralascia la caratteristica
che, prima fra tutte, aveva decretato il successo di Soul Reaver: il
passaggio di Raziel, dal piano materiale a quello spettrale e viceversa.
Nei precedenti capitoli dedicati a
Raziel, infatti, il protagonista poteva trascorrere fra i due piani di esistenza. Il reiterato passaggio era
indispensabile per porre soluzione
agli enigmi o per ripristinare la barra d’energia nutrendosi delle anime
erranti. In LoK:Defiance questa
particolarità non è persa, ma
senz’altro molto ridimensionata. Più
in generale, le risposte agli enigmi
ambientali non tardano a venire e
nella grande maggioranza dei casi
la strada da percorrere è univoca;
trovarsi nel dubbio sul da farsi è
occasione remota e la via si srotola
davanti a noi con disarmante scioltezza.
Ed è pur vero che, come detto in
apertura, LoK:Defiance è una sinfonia lineare ma non per questo
dissonante. Numerosi invece i dettagli che rendono palpabile lo sforzo profuso dai creatori del gioco, a
partire dalle architetture ardite che
ornano i livelli sino a giungere ai
bei dialoghi, efficacemente recitati
nella versione inglese dagli attori
storici della serie.
Più in generale, ogni livello di gioco si distingue per un’ambientazione curata e visivamente godibile: l’evocativo cimitero da cui dipartono i nostri passi, la sontuosa magione del vampiro Vorador, la Fortezza dei Saraphan, gli Abissi e così
via. Ogni stage assume forme distintive e lussuose, rivestite di tes-
Ring#11
suti che tradiscono la proprio natura digitale solo sulla brevissima distanza e che scorrono sotto i nostri
occhi con una fluidità che invoglia
l’osservazione.
Non da meno l’effettistica di contorno, che al di là di effetti di luce,
trasparenze e distorsioni, acquista
un valore aggiunto nell’ispirata interpretazione
della
Dimensione
Spettrale: i toni cromatici mutano
in sfumature verde/blu e, mentre in
sottofondo grida e lamenti ci distraggono, le immagini si vestono
di un blur evanescente e conturbante.
E d’altra parte l’impatto visivo è
degno sposo della manifesta teatralità dell’opera, la cui storia si sviluppa con misurati colpi di scena ed
un’anamnesi rarefatta che prende
spunto dai numerosi affreschi disseminati lungo il percorso, ritraenti
le varie fasi della Profezia di cui noi
ci scopriamo man mano protagonisti.
>> Stop & Go >>
Videogiochi nei romanzi
- Scc, sto giocando, - le dico.
- Yoshi si è mangiato quattro
monete d'oro e sta cercando
di trovare la quinta. Mi devo
concentrare.
- Oddio, chi cazzo se ne frega, - sospira Alison, - di un
nanerottolo grasso a cavallo
di un dinosauro che salva la
fidanzata da un gorilla incazzato? Victor, siamo seri.
- Non è la fidanzata. È la principessa Daisy. E non è un gorilla, - insisto. – È Lemmy Koopa del malvagio clan dei Koopa. E come al solito, bella,
non cogli il senso.
- Illuminami, per favore.
- Il senso di tutta la storia è
che Super Mario Bros rispecchia la vita.
- Ti seguo -. Alison si osserva
le unghie. - Dio solo sa perché.
- Uccidere o essere uccisi.
- Mmmm
- Il tempo sta per scadere.
- Capisco.
- E alla fine, bella... rimani...
sola.
da Glamorama
~
Con l’eccezione della porzione finale
di gioco, LoK:Defiance è avaro di
scontri epici e memorabili. Scarseggiano infatti i boss, e quelli presenti non eccedono in dimensioni o
potere offensivo. Un vero peccato,
specie in memoria degli enormi e
pittoreschi avversari del primo capitolo della saga.
E di Legacy of Kain: Defiance,
non resta infine che il ricordo di
una vicenda epica. Non del gioco o
delle musiche o dei combattimenti
o degli enigmi
Sotto il profilo ludico, l’opera di
Crystal Dynamic offre poco e quello
che c’è lesina in novità e fulgore.
Essenzialmente pretestuoso, il girovagare fra gli scenari è dettato
dalla meraviglia visiva ispirata dagli
ambienti e dal desiderio di conoscere gli sviluppi della trama, ottimamente orchestrata dalla penna di
Amy Henning.
Non ci si aspetti, dunque, nulla
più di questo.
Ma non ci si aspetti, neppure, che
ciò sia poco.
35
E per chiudere in bellezza,
una foto di Arwen (Liv Tyler)
in safficissimo atteggiamento
con la un tempo fredda
Èowyn (Miranda Otto)…
Quindi la conclusione del
triangolo amoroso della Trilogia mette incredibilmente fuori gioco il barbuto re Aragorn
figlio di Arathorn, forse impegnato col suo nuovo amore:
Hidalgo.
:RECENSIONI:
Ring#11
La Mappa dei Sentimenti
[Astroboy]
di Amano76
Un gioco nato per essere coperto di alloro, Astroboy.
Voluto da Sega, prodotto da Treasure, realizzato da un cast di veterani della
produzione a 16-bit (tra i quali Tomoharu Saito, autore del cult Bishoku sentai barayaro1, presto
recensito su queste pagine) e tratto
dall'opera di Osamu Tezuka per eccellenza: Tetsuwan Atom.
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Traduzione Completa
Sega
Treasure
GBA
2004
1
Giapponese
Per gli ingordi di grafica bidimensionale come il sottoscritto il GBA si
è rivelato una vera e propria manna dal cielo. Titoli come Black Matrix Advance, Summon night,
Rockman Zero o Golden Sun
hanno dimostrato che il 2D è un
linguaggio impeccabile nell'esprimere l'iconografia di un tie-in, o
comunque di giochi ove il richiamo
al mondo del manga e dell'animazione sia eclatante.
Tuttavia il paffuto motore grafico
di Astroboy non è che un barlume
di fronte al raggiante game design
ideato dal suo autore Tetsu Zorgel.
Il primo e forse il fondamentale
merito che va riconosciuto a questo
titolo è infatti di essere quanto il
dott. Bonora definiva in Licenza da
uccidere [cfr. Ring 6] una "traduzione completa".
Prendendo spunto dal Pinocchio
disneyano, Tezuka tratteggiò in Astroboy la maturazione sentimentale di un robot-bambino, nato dal
desiderio insieme folle ed egoista di
uno scienziato che non era riuscito
a rinunciare al giovane figlio morto.
Come nel manga, anche nel gioco
Treasure il candido automa ha la
necessità di imparare tutto quello
che può sulla condizione umana,
assimilando il significato di gioia e
dolore, amore e odio, vendetta e
misericordia dalle persone che incontra durante le sue mille avventure. Questo aspetto del fumetto di
Tezuka si traduce nella necessità
per il giocatore di rintracciare i quaranta e più personaggi presenti nel-
l'avventura, alcuni dei quali diabolicamente nascosti. Incontrandoli,
Atom riceve la possibilità di potenziare le sue capacità robotiche e
d'attacco, garantendosi così la sopravvivenza negli scontri con i coriacei avversari del gioco, altrimenti
insormontabili (letteralmente insormontabili). Ciascun personaggio
viene poi catalogato in un'esauriente enciclopedia, visualizzabile a mo'
di pianta esagonale. Questa mappa
rappresenta l'animo di Atom: ospita
i "cuori" delle persone che ha conosciuto, delle vittime che ha salvato,
dei nemici che ha sconfitto, insomma di tutti quelli in cui si è imbattuto e che lo hanno cambiato o, più
precisamente, fatto evolvere. Il
giocatore può liberalmente scegliere se complicarsi la vita tentando di
sbaragliare le difese avversarie con
uno sparuto mucchio di upgrade,
oppure setacciare meticolosamente
ogni fondale alla ricerca di nuovi
personaggi per garantirsi una cospicua quantità di potenziamenti.
L'animo di Atom. Nei punti cardinali
sono distribuiti i valori assoluti (l'Amore, l'Odio, la Giustizia etc.) incarnati dai personaggi più importanti, al centro quelli secondari;
ognuno è corredato di informazioni
e curiosità che lo riguardano. Valore enciclopedico a parte la mappa è
la risorsa prima di indizi per completare l'avventura, in quanto non
tutti i membri del cast sono "capiti"
da Atom al primo incontro. Alcuni
devono essere affrontati più volte e
quindi cercati negli stage dove
hanno fatto la loro entrata in scena
o dove si sono nascosti: un segnalino grigio sta a significare che Atom non ha ancora compreso l'indole di un determinato personaggio, mentre una casella oscurata da
un punto interrogativo indica gli
incontri necessari a proseguire nella
storia.
36
Osamu Tezuka
Conosciuto anche come Dio dei
Manga, ha plasmato non solo
l'immaginario dei lettori della
sua generazione ma anche
quello delle successive, grazie a
capolavori senza tempo come
Jungle Taitei (Kimba il leone
bianco), Dororo, Ribbon no kishi
(la Principessa Zaffiro), Black
jack e tanti altri. Curioso per
natura, colto (si laureò in medicina senza però esercitare mai
la professione) la sua frenesia
per il raccontare si è estinta solo con l'inevitabile morte, che lo
colse durante il completamento
del mastodontico Hi no Tori, un
manga incentrato sull'eterno
ciclo della reincarnazione.
Che l'aspetto esplorativo e quello
strategico siano così intrecciati tra
loro non è una novità per il mondo
dei videogiochi. Di certo lo è per un
tie-in: raramente sono apparsi prodotti capaci di proporre in chiave
ludica quello che un'opera originale
propone in chiave narrativa. Ma
neanche questo esaurisce i meriti
del lavoro di Treasure, perché oltre
alla felice intuizione del suo regista,
Astroboy possiede anche meccaniche di combattimento di grande
valore.
Una sostanziosa varietà di attacchi, un apprezzabile ritmo di gioco
bilanciato tra momenti frenetici e
altri pacati, boss che hanno da due
fino a sei tecniche aggressive, un
convincente sistema di canceling
(interrompere una sequenza di colpi con una super-mossa)... C'è di
che far impallidire tanti altri prodotti dello stesso genere per la console
portatile di Nintendo. Titoli come
Gekido, Rockman zero, Spiderman o Iron-man, tutti comunque
bellissimi (ne parliamo un'altra volta) tutti comunque privi di altrettanta profondità nella struttura ludica.
Purtroppo gli autori si sono dati
spontaneamente
la
proverbiale
zappa sui piedi con il motore grafico, carico all'inverosimile di effetti
ottici, sprite su schermo e sfondi in
parallasse. Se siete di quelli che
amano perdere una partita per colpa di un rallentamento, be’, qui ce
n'è per tutti i gusti.
C'è chi dice si tratti di casi sporadici. Non credetegli: molti boss
hanno attacchi letali che oltre ad
essere pressoché ineludibili fanno
arrancare il frame rate fino ad aggravare ulteriormente la difficoltà di
sfida. Come se non bastasse poi
abbondano i passaggi colmi di avversari, alcuni dei quali in grado di
occupare tutto lo schermo o addirit-
:RECENSIONI:
tura di fuoriuscirne, causando situazioni dove si verificano rallentamenti degni di un'erosione geologica.
Difetti del genere sono la morte
per un gioco d'azione ed è scoraggiante che una simile, basilare
grammatica sia sfuggita a dei veterani come gli autori di Treasure2.
Altro passo falso, per quanto irrisorio, è l'epilettico andirivieni da un
sistema di controllo all'altro, alternando sezioni di volo ad altre a terra, ad altre ancora in sospensione a
mezz'aria. Il gioco costringe a leggere modifiche dei comandi a disposizione mischiando continuamente le carte in tavola. Un fattore
trascurabile, se non fosse che in
coppia ai rallentamenti il danno
causato in termini strategici diventa
piuttosto cospicuo.
Atom alle prese con uno degli svariati boss del gioco. La foto è stata
scattata poco prima che lo schermo
cominciasse a rallentare.
L'acconciatura del protagonista è
ispirata a quella di Tezuka stesso,
che l'autore si ritrovava al mattino
appena alzato. Il titolo del manga,
tradotto letteralmente, è: Atom,
Braccio di ferro.
Ring#11
Un prodotto colto che brilla tanto
per l'idea su carta quanto per la
professionale realizzazione, dove
Treasure cita (l'universo fumettistico di Tezuka) e si cita (meccaniche
a parte, in uno degli stage scorre il
tema di Gunstar Heroes). Un paradossale esempio di gioco dalla
difficoltà adulta ma con protagonista un bambino, in un mercato di
giochi dalla difficoltà infantile ma
con protagonisti adulti....
Note
[1] Gioco splendidamente nonsense dove le meccaniche del picchiaduro si fondono con quelle della
simulazione culinaria, ritratte da un
design grottesco ed eccessivo. Ogni
stage vede i protagonisti superare
una sezione di combattimento dove
oltre a pestare gli avversari si raccolgono gli ingredienti che lasciano
cadere una volta battuti. A questa
parte segue una schermata conclusiva in cui si possono combinare gli
ingredienti ottenuti in cibi che potenzino le capacità dei personaggi.
[2] Va detto, comunque, che nell'intervista pubblicata sul sito giapponese di Sega, il capo-programmatore del gioco, il fantomatico
Yaiman, ha apertamente ammesso
che sin dall'inizio aveva fatto presente al regista i limiti imposti dalla
ridotta memoria del GBA.
Doppio finale carpiato (spoiler warning)
Astroboy regala grandi momenti di
gioco e grandi momenti di commozione. Non risparmia neanche i colpi di
scena: l'avventura si interrompe improvvisamente quando Atom affronta il
cattivo della storia e sconfiggendolo
mette in moto una serie di eventi che
portano alla fine dell'universo.
Ma non appena il giocatore pensa di dover ripetere tutto il tragitto sinora
compiuto alla ricerca dell'errore che gli è stato fatale, ecco la Fenice che
restituisce una nuova vita ad Atom e gli dona la possibilità di tornare indietro nel passato per rettificare quanto andato storto.
L'avventura ricomincia: attraverso una modalità di selezione degli stage
il protagonista può viaggiare nel tempo, recuperare indizi vitali, battere
nemici già sconfitti ma ora più forti di prima, e giungere infine al segreto
dell'esistenza (la sua). Sublime.
37
[Ring è] Gustosi spaccati di vita
redazionale che in paragone
TGM è il Sole 24 ore…
Come aveva saggiamente previsto
Gatsu, la mia proposta ha suscitato
il bordello nucleare.
Allora, chiariamo, la mia idea era di
ospitare quanti si muovessero già
giovedì in modo che si guadagnasse un giorno assieme. Poi venerdì
sera ci si sarebbe trovati a BG come previsto.
Fatto sta che escludevo a priori i
trevigiani che avrebbero dovuto
venire in macchina. Cosa che non
fanno più.
Purtroppo casa mia è piccina e
oltre i quattro posti letto la cosa si
fa drammatica. Ora ho la conferma
di Amano (che arriva a BS per suo
conto alle 21.30) e i trevigiani che
arrivano ad orario consono a quello
amanico.
Non ho invece capito quando arriveranno, in Padania, Paolo e Res
(Amano mi ha dato sabato come
possibile data di entrambi...). A sto
punto io sarei per chiudere le frontiere di casa mia ad ulteriori arrivi
prima di sforare la portata massima
del pavimento.. al che sarebbe forse saggio che gli altri (che non ho
capito quando cacchio si possono
muovere) si trovassero direttamente da Ema. Sempre se Ema può
tenervi a casa sua mentre lui è via
a lavoro (io ho già anticipato ad
Amano che mentre sono a lavoro
potrà gioiosamente passare lo
spazzettone per terra...). Grande
sarebbe che vi muoveste con la
macchina di Cryu (se può) così dividete le spese (e al ritorno c'è anche Amano) e ci si muove più agevolmente.
Ah, sabato forse fa una capatina
anche DH (che però si volatilizza in
nottata).
Al max potrei tirar fuori un ulteriore posto a casa mia, ma sia chiaro che io per terra non ci dormo (a
casa mia, a casa di Ema no prob).
A proposito, se qualcuno di voi
può portare una sarcazz di pompa
per il materasso ad aria faccia un
fischio che la mia è rotta (alla peggio vado a comprarla venerdì sera
quando si viene a BG, ma non vorrei trovar tutto chiuso...).
NOTA: non tollererò osservazioni
su casa mia tipo: "cazzo, ma sono
due anni che vivi qui e ancora hai
le lampadine con i fili che escono
dal muro", "ma in frigo non c'è
niente?", "nello sgabuzzino deve
esserci sepolto un cadavere..", "hai
il rumore video alle finestre", "ma
cazzo, non hai il tavolo da pranzo?!", "se è vero che i morti si trasformano in polvere, allora sotto il
tuo letto c'è un distaccamento di
Auschwitz",
regolatevi
Nemesis Divina
:RECENSIONI:
Ring#11
The Light of Samus Aran
[Metroid Zero Mission]
di Federico Res
Metroid: Zero Mission è
quel tipo di prodotto che
rende il GBA anacronistico,
e fottutamente indispensabile.
Difficile non inquadrarlo come la solita
smaliziata manovra commerciale: si
tratta di un remake, l’ultimo di una lunga serie (che annovera Yoshi’s Island,
Zelda: Link to the Past e Secret of
Mana); difficile non vederlo come esponente di quel revival tecnoludico su cui
la macchina Nintendo naviga a vele spiegate. Anacronistico: non stravolge il format della serie, non vi apporta modifiche
né va alla ricerca di monoliti alieni, che
conducano il franchise verso stadi evolutivi inediti. Zero Mission è il solito Metroid. Ma c’è qualcosa, nel suo codice
binario, che lo rende indispensabile. Fottutamente indispensabile. C’è qualcosa
che costringe a pensare al GBA come ad
una piccola meraviglia, piuttosto che come ad un emulatore portatile di Super
Nintendo. Zero Mission è il solito,
splendido Metroid. Remake ufficiale
della prima avventura di Samus – datata
1986 su NES –, erede ideale della magia
di Super Metroid…
Genere
Etichetta
Sviluppatore
Sistema
Anno
Giocatori
Versione
.:scheda:.
Metroid
Nintendo
Interno
GBA
2004
1
Americana
Descrivere Metroid sarebbe ridondante.
La sua struttura ibrida, che sfrutta elementi RPG e shooter impiantandoli in un
format propriamente adventure, è rimasta la stessa dal primo, remoto capitolo
per NES. Ciò non è un male, beninteso:
attraverso gli anni, attraverso i seguiti –
attualmente sei – Metroid ha saputo
conservare i propri punti di forza senza
scordarsi di guardare al futuro. Super
Metroid ha rielaborato in modo geniale i
presupposti originali, esibiti in Metroid e
Metroid II: Return of Samus. Metroid Prime ha condotto Samus nella
terza dimensione, ridefinendo il concetto
di immedesimazione tramite una trovata
insieme banale e formidabile, la soggettiva. Metroid Fusion ha ‘spezzato’ la
tradizione facendo delle avventure di
Samus una successione di mini-task, e
di conseguenza perdendo buona parte
del fascino della serie: tuttavia, ha saputo adattare Metroid alla pratica fugace
del gioco portatile. Ora è il turno di Zero
Mission. Il giocatore che ha esperienza
del mondo non può fare a meno di chiedersi: in che modo Zero Mission soddisfa le istanze della serie?
Zero Mission risponde: imbrogliando
il giocatore.
Se ammettiamo che il fulcro di Metroid
è l’esplorazione – con l’uso ragionato di
strumenti e abilità – vien da sé il modo
truffaldino in cui il gioco Nintendo esercita il suo fascino. Col presupposto di un
mondo variegato, multiforme, complesso, Metroid trascina in un gameplay
dallo schema elementare. Uno schema
che prevede il rinvenimento di particolari
abilità – mine, super missili, ipersalto,
ipervelocità – e il loro utilizzo nel superamento degli ostacoli del level design.
Ma se ogni strumento ottenuto spalanca
al giocatore svariate porte, quasi sempre
è soltanto una la via che gratifica con un
reale progresso nel gioco: lo strumento
A apre il passaggio B, l’abilità X dà accesso al percorso Y. Non c’è libertà di
movimento, in Metroid. C’è però un
meccanismo – quasi perfetto – che costringe ad un metodico lavoro di perlustrazione. La rete di cloache e budelli di
Zebes mostra i propri varchi solo a chi
ne sonda ogni anfratto. Esplorare ogni
percorso apparentemente agibile è l’unico modo – unito a memoria e intuito – di
rivelare la vera via per l’avanzamento.
Questo è l’inganno di Metroid. Ogni edizione del frainchise ne ha proposto una
propria variante: il primo Metroid ne ha
fornito la versione più convincente, tramite un environment sterminato e la
totale assenza di save point. Metroid II
e Super Metroid non sono stati da meno, e anzi hanno scongiurato la dispersività che talvolta intaccava il prequel.
Metroid Prime, facendo i conti con il
tridimensionale, ha perso complessità e
rivelato maggiormente la linearità di
fondo. Metroid Fusion, pecora nera, ha
costretto l’avventura in un sistema di
micro-missioni, facendo della linearità il
proprio vessillo. Alla luce di ciò, è lecito
chiedersi: [1] l’inganno di Metroid è
legittimo? [2] La libertà simulata di Metroid è un reale limite alla sua giocabilità? [3] Un ambiente vasto e liberamente
esplorabile, che preveda decine di percorsi per il raggiungimento di un unico
obiettivo, gioverebbe alla serie?
Le strategie di attacco dei boss – specie
nei casi di Kraid e Ridley – rimandano fin
troppo a quanto visto in Super Metroid.
Tuttavia, la presenza di alcuni boss opzionali e di un nemico finale nuovo, lima
efficacemente il senso di dejà vu
38
A queste domande Zero Mission risponde: forse. Che significa si, ma anche
no. Si, perché ZM, se rapportato al suo
vero ispiratore (Metroid 3) non regge il
confronto. La sua struttura è più semplice, più intelligibile, meno cervellotica. Il
numero di aree esplorabili è minore, la
diffusione generosa di save point (si
tratta pur sempre un gioco per GBA)
giova alla rapida memorizzazione degli
ambienti, spoglia Zebes di buona parte
del suo fascino alieno. Il sistema di suggerimenti, pur essendo decisamente
meno invadente di quello impiegato in
Metroid Fusion, non fa che tirare a galla
la linearità del gameplay, agevolando
l’esperienza ai neofiti. Per tutti questi
motivi (e per la banalità delle fasi finali,
costruite su meccaniche stealth fin troppo basiche) Zero Mission meriterebbe
un environment più ampio, liberamente
esplorabile, privo di limiti.
Ma anche no. Perché Zero Mission è
ben lontano dai rigidi schemi di Metroid
Fusion. Laddove MF tradiva l’atmosfera
e il feeling della saga, Zero Mission è
un possente ritorno alle origini. Spariscono trama, mini-task, computer. Spariscono i fiumi di testo a video vomitati
dalle Navigation Room. Sparisce l’azione
guidata, il gameplay telefonato. Resta
Zebes, col suo ventre malato e la sua
superficie spazzata dai venti. Resta Samus, con la sua tuta prodigiosa e la sua
caccia solitaria al Mother Brain. Restano
le idee e le invenzioni che hanno fatto
grande la saga. Ancora una volta la morfologia del pianeta è la sfida più grande.
Vincere gli ostacoli apparentemente impossibili, che il level design semina in
ogni anfratto, è la prima fonte di soddisfazione. Quando i rebus di Zebes ridestano il Mc Gyver nascosto nel nostro
cervello, stimolando l’uso creativo e
combinato degli strumenti, la soddisfazione sale di livello. E quando sperimentiamo la perfezione del sistema di controllo, l’eleganza delle movenze di Samus, la soddisfazione cresce ancora.
Cresce così tanto da somigliare a un metroid, accucciato sulla nostra testa e intento a succhiarci l’energia vitale. A quel
punto, l’unico modo di staccarsi da Zero
Mission è portarlo a compimento. Cosa
a dir vero non troppo problematica (almeno ai primi due livelli di difficoltà), e
curiosamente poco dispendiosa in termini di tempo: dopo l’ultimo scontro e la
fuga in extremis, il contatore segna appena quattro ore. E anche se il tempo di
gioco reale è maggiore (poco meno del
doppio), Zero Mission non fa mistero
della propria brevità. Ma come dice il
saggio candela che arde col doppio dello
splendore brucia per metà tempo. E Zero Mission è il solito, splendido Metroid. Anacronistico, fottutamente indispensabile…
:RECENSIONI:
>> Stop’n’Go >>
Driv3r: Hands on, jaws off
di Cryu
Il 3/3/2004 a Milano si è tenuta l’anteprima italiana di Driv3r presentato alla
stampa da Martin Edmondson, presidente di Reflections.
«Ok, Stuntman era una sola e là fuori
c’è la serie di GTA che fa sfracelli, per
cui caro Martin sai già che questa volta
non puoi toppare». Se il palestrato Martin sapesse leggere il pensiero altrui, alla
vigilia dello show case milanese di Driv3r sulla mia fronte avrebbe letto qualcosa del genere.
Rinomata per la sua puntualità, Ring
tiene fede alla sua fama arrivando sul
luogo dell’evento munita di copioso ritardo d’ordinanza. Il placido Martin ha
già iniziato ad illustrare lo scheletro di
quello che costituirà il gioco finale: sistema di controllo, inquadrature, fisica
delle vetture e degli oggetti, ambienti e
modalità di customizzazione dei replay.
Un primo istantaneo caricamento (lo
streaming pare una delle doti più eccezionali di questo Driv3r) dà modo a
Martin di offrirci un giro turistico per l’esotica Istambul. Di fronte al dettaglio
degli ambienti, allo sviluppo verticale
della città e alla bontà del frame rate
l’inviato ringhico esprime un commento
tecnico poco decifrabile ai non addetti ai
lavori: “porco cazzo!” Perché dopo anni
di stitichezza renderwariana, il ricordo
delle stentate performance degli engine
di GTA e GTA:VC cede il passo alla godutissima fluidità del motore di Driv3r.
Miami, Nizza e Istambul si lasciano percorrere che è una bellezza, con le loro
150 miglia di strade e 30.000 edifici più
o meno fedeli alle loro controparti reali.
Ok, c’è il solito aliasing rompicoglioni,
qualche texture meno bella di altre (ma
con i titoli Rockstar non c’è davvero paragone) e qualche lieve problema di
pop-up che coinvolge non tanto l’orizzonte visivo (v-a-s-t-o) quanto alcuni
dettagli (siepi, muretti, ecc.) a bordo
carreggiata che spuntano fuori dal nulla
a 100 m dalla propria vettura. Davvero
poca cosa rispetto alla solidità ostentata
da ambienti di gioco minuziosamente
caratterizzati nel look e nel design. Se
siete quelli per cui le dimensioni contano
vi farà piacere che la sola Miami vanta
dimensioni (e conformazione) assimilabili alla famosa Vice City. Ma al di là della
prestanza scenografica degli ambienti,
Martin pone in risalto a più riprese le sofisticate routine fisiche implementate:
Esce dalla sua vettura e prende a crivellarla di colpi fino a farla esplodere. A
seguito di una spettacolare fiammata gli
pneumatici abbandonano la carcassa
dell’automobile rotolando un po’ qua e
un po’ là. Martin passa alla visuale in
soggettiva e prende di mira una gomma
che rotola lentamente. La colpisce una,
due volte accelerandone la rotazione,
dopodiché la colpisce una volta sul lato
provocandone la caduta. «Non serve a
niente ai fini del gioco», precisa consapevole Martin «ma il coinvolgimento ne
guadagna». Se ancora una volta potesse
scrutarmi nella mente, l’affascinante
Martin leggerebbe «quoto».
Pausa. Restart game. Martin riprende
a sparare come un assatanato alla sua
Ring#11
vettura: i proiettili bucano la carrozzeria,
i vetri si infrangono, le gomme esplodono e il peso della vettura si sposta sulla
ruota sabotata.
Pausa. Restart game. «Stavolta prendo la moto». Martin fa fiero sfoggio delle
routine tese a simulare la distribuzione
del carico su 2 sospensioni. “Se mi sposto in avanti, la sospensione anteriore si
comprime, se mi sposto indietro, la moto
si inclina di conseguenza”. Segue una
dimostrazione di manovre maranza (impennate anteriori e posteriori, burnout
vari, ecc.) durante le quali non viene
mai nominato GTA:VC, ma che vogliono
chiaramente dimostrare che sotto questo
profilo Driv3r non abbia davvero nulla di
meno. Ok, ok, io intanto apprezzo il selfshading sulla moto, cui Martin accennerà
tra qualche minuto.
Pausa. Restart game. Martin risalta in
macchina e inizia a seminare il panico
per le strade di Nizza. “Non c’è sangue
nel gioco” precisa mentre falcia una
manciata di ignari pedoni e fa saltare il
cranio a un paio di malcapitati poliziotti.
Meno male, penso io, visto che il look
realistico del gioco avrebbe conferito a
queste scene una crudezza spropositata.
Intanto ci mostra come negli inseguimenti giochino un ruolo fondamentale le
sparatorie da gestire contemporaneamente alla guida. Giunto in prossimità di
un ponteggio Martin frena, derapa in
inversione a U falciando col retrotreno
una delle gambe della struttura. Il ponteggio collassa su se stesso mentre ciascuna delle sue (tante) parti reagiscono
coerentemente alla demolizione della
gamba colpita. Purtroppo ancora una
volta Martin si ritrova sprovvisto di facoltà paranormali, altrimenti non gli sarebbe stato difficile leggermi nella mentre 3
semplici parole: Half Life 2. Un paragone certamente esagerato, ma routine
fisiche di questo tipo le avevo apprezzate solo in quel famigerato filmato E3.
Pausa. Restart game. «Prendo l’autoarticolato.» Martin salta su un 18 wheeler per bazzicare pachidermico per la
periferia di Miami. Ok, buffo, ma da guidare non dev’essere uno sballo, penso
io. Ed è qui che Martin illustra una feature di rara golosità. La motrice può staccarsi in qualsiasi momento dal rimorchio
mediante pressione dell’apposito tasto.
Questo comporta che impostando una
curva è possibile effettuare una svolta
rilasciando nel mentre il carico, che invece prosegue in rettilineo investendo
tutto ciò che si trovi lungo la sua traiettoria. Il concetto è simile al tuffo da auto
in corsa già presente nei vari GTA (comunque implementato anche in Driv3r),
con la differenza che così non si rimane
col culo sull’asfalto, e che il rimorchio di
un autoarticolato provoca danni ben più
spettacolari rispetto a un’ordinaria vettura.
Pausa. Restart game. Martin punta
un’incolpevole vettura e inizia a tamponarla sadicamente fino a spingerla contro una struttura. L’incolpevole vetturetta viene letteralmente pressata contro la
parete. Cose belle.
Martin conclude la presentazione illustrando come editare i replay delle proprie imprese: tutto molto intuitivo e versatile.
Bottom line: capolavoro all’orizzonte?
Diavolo di un Martin, pensavi di fregarmi? Tu non saprai leggere nel pensiero, ma io sì, MUAHAHAHAHAHA. Lo so io
39
che cos’avevi in mente: «gli faccio vedere la graficona, tanti begli incidentoni, la
fisica sborona e un po’ di violenza gratuita che male non fa (ehr…), così sono
tutti contenti e intanto del gameplay
vero e proprio non gli faccio vedere una
cippa.»
Canaglia di un Martin, ci hai mostrato
quella che è l’intelaiatura del gioco: il
motore grafico, la fisica, il city design…
ma solo un paio di spicciole missioni (tra
cui quella che ho avuto modo di giocare
personalmente). Morale? La base del
gioco c’è tutta, ma le sue effettive qualità ricreative sono ancora tutte da verificare. Perché precisiamolo: Driv3r NON
è un GTA. Driv3r è innanzitutto un gioco di guida, e laddove nella serie RockStar la componente racing è solo uno
dei tanti elementi che costituiscono l’esperienza di gioco, in Driv3r la guida è
l’anima del gioco: gli inseguimenti, le
derapate, gli spostamenti di carico, i peli
alle architetture che incombono sul marciapiede. Lo spessore del modello di guida pare buono, sufficientemente profondo (inutile dire che tra tutti i convenuti il
sottoscritto sia l’unico ad essere riuscito
a completare una missione :-p), le città
sono splendide ma… ma quanto testato
non è davvero abbastanza per azzardare
un giudizio. Il buon racing game si misura sulla distanza, sulla varietà, sulla longevità. Il primo Driver ha segnato un’epoca. Al momento non è ancora chiaro
se Driv3r sia solo Driver aggiornato al
2004 o se si tratti effettivamente di un
racing game moderno e completo. Inoltre non si sa nulla di come le sezioni a
piedi verranno integrate a quelle in auto.
Finora ho visto il protagonista Tanner
uscire da una macchina solo per rubarne
un’altra, oltre che per esplorare gli interni. Già gli interni, è qui che lo streaming da DVD mostra i muscoli. Nessun
caricamento interrompe l’esplorazione
delle strade e l’ingresso di un bar in cui
Martin fa un casino pazzesco freddando
il barman e sbriciolando tutte le bottiglie
sul banco.
Ricapitolando. Le premesse ci sono, il
gioco non ancora. Ci si vede a giugno
Martin.
Backstage
Si dice il peccato ma non il peccatore. È
con malcelata malizia e fittizia signorilità
che riporto, senza esplicitare i nomi dei
responsabili, un paio di affermazioni espresse durante il pranzo da qualcuno
dei colleghi convenuti:
«Ma ‘sti giochi son tutti troppo difficili. Io
vorrei anche riuscire ad andare avanti.»
«D’altronde è ovvio che se non ti inviano
il gioco la recensione te la devi inventare»
:TESORI SEPOLTI:
Ring#11
Gli Occhi dello Scoiattolo
[Conker’s Bad Fur Day]
di Sator the Mighty Poo
Visualizzate un recinto.
Al suo interno, alcune fette di formaggio pascolano e intrattengono una vita
sociale di tutto rispetto.
Lo scoiattolo fa il suo ingresso nel recinto.
Le fette di formaggio notano subito lo
scoiattolo e gridano dal terrore, poi, in
branco, iniziano una fuga scomposta. Lo
scoiattolo, le mani protese innanzi, insegue il branco di latticini, ne isola uno più
lento e si concentra su di esso, come i
documentari insegnano.
Il formaggio scappa disperato, ma
una padellata ben assestata lo sbatte a
terra. Lo scoiattolo raccoglie il latticino,
il quale, riprendendo i sensi, si rende
conto di dove sta per essere condotto:
dal topo col meteorismo. Grida di terrore
fuoriescono dalla sua bocca pastorizzata.
Gli occhi disegnano una disperazione a
lunga conservazione. Lacrime cagliate
scorgano copiose. E quando il topo è
ormai vicino, la disperazione muta in
isteria: il formaggio si agita, strilla, piange, è fuori di sé. Ma non serve a niente:
lo scoiattolo getta la sua preda nella
bocca del ratto scoreggiante. Che gradisce.
In tutta questa operazione, gli occhi
dello scoiattolo non hanno lasciato trapelare malvagità, né sadismo. È stata la
curiosità a muovere il rosso caudato, e
lo sarà per tutto il gioco. La curiosità di
vedere cosa può accadere ingozzando un
topo fino a farlo esplodere; la curiosità
di visitare l’interno di una mucca affetta
da diarrea; la curiosità di spiare un ingranaggio-femmina eseguire una fellatio
ad un ingranaggio-maschio; la curiosità
di sbirciare le felliniane tette di una margherita; la curiosità di orinare addosso a
delle pietre ballerine in una discoteca per
pietre ballerine.
Possiamo veramente biasimarlo?
.:scheda:.
Genere
Tutti
Etichetta
Nintendo
Sviluppatore
Rare
Sistema
Nintendo 64
Anno
2000
Giocatori
1-4
Versione
Europea
probabile pronuncia teteska, capisce che
il problema consiste nel fatto che – reggetevi forte – al tavolino manca una
gamba! Per aggiustarlo è necessario trovare qualcosa o qualcuno da inchiodare
al posto dell’arto mancante. Un approfondito studio rivela che uno scoiattolo
rosso sarebbe perfetto per lo scopo.
Nel frattempo Conker, uno scoiattolo
rosso dall’irresistibile parlantina, è al pub
con gli amici, ubriaco come tre irlandesi
(ubriachi). La serata volge al termine e
Conker esce dal locale con l’andatura
sinusoidale di un cirrotico. Un’epica vomitata non migliora le cose.
Compito iniziale del giocatore è di
condurre il collassato Conker a casa, dalla sua amata coniglietta Berri, ma non
dimentichiamoci del problema sollevato
dal malvagio panther-like king: quel tavolino di certo non si aggiusterà da solo,
e a Conker capita di essere sia scoiattolo
che rosso. Una brutta scoiattola da pelare.
Inoltre, che cosa sta tramando il Dottor Stranamore-like tizio? Chi ha rubato
l’alveare dell’ape regina? Con chi la sta
tradendo suo marito? Chi sono i Tediz?
Perché stanno organizzando un’invasione? Quale innominabile creatura della
notte si nasconde nella villa antistante il
cimitero? Come si alleva un dinosauro?
Ma soprattutto: che cos’è tutta questa
puzza di merda?
È bene poi precisare che Conker’s
Bad Fur Day inizia dalla fine, con un
Conker che, dopo mille peripezie, è diventato “king of all the land”. Ma che
fine ha fatto il precedente regnante?
Perché uno scoiattolo tanto in gamba,
una volta divenuto re, si è circondato di
idioti come il topo scoreggiante, gli ingranaggi pompinari e il forcone suicida?
E Berri? Dove si trova l’unica persona
che Conker vorrebbe avere al suo fianco?
Per scoprirlo, non resta che premere
start…
Ze milk is on ze table
La trama di Conker’s Bad Fur Day è
estremamente semplice nella sua drammaticità. Il malvagio panther-like king
ama appoggiare il suo quotidiano bicchiere di latte sul regale tavolino a
fianco del regale trono. Purtroppo una
congiura del destino provoca ogni volta
la caduta del summenzionato bicchiere,
e quindi la perdita del liquido ricco di
calcio. Perché?
Interrogato sulla questione, una specie di ratto/Dottor Stranamore dalla im-
Questa immagine è talmente eloquente
da non necessitare di commenti. Ci limitiamo a dire che il T-Rex che Conker sta
cavalcando non è il primo che incontrerà
nel gioco. Lo scoiattolo infatti avrà il privilegio di covare un uovo di T-Rex, allevando poi l’animale appena nato e fresco
di imprinting. Stendiamo un velo di silenzio sul destino di tale creatura...
40
It happens to be a platform
Sì, Conker’s Bad Fur Day è in linea di
massima un platform: un genere che su
Nintendo 64 non ha mai avuto molto
seguito (sarcasmo). Ma vi prego, non
giudicatelo male solo perché è un platform. E in fondo, siamo proprio sicuri
che si tratti di un platform?
La pubblica accusa potrebbe produrre
un impianto probatorio fondato su elementi come il fatto che, tramite pressione del tasto A, lo scoiattolo spicca un bel
salto e, con un’ulteriore pressione dello
stesso, questi rimane sospeso in aria
grazie alla coda-rotore di tailsiana memoria. Ma una simile accusa di fatto non
sussiste, perché nel corso del gioco i
salti che Conker si troverà ad eseguire
da una piattaforma a un'altra sono pochissimi. All’incirca ventitré. E del resto
sono totalmente assenti gli oggetti di
scena tipici del genere: niente piattaforme semoventi, pericolanti, roteanti,
spunzecchianti, altalenanti o lampeggianti.
Quali sono i due film degli anni ’90 maggiormente impressi nell’immaginario collettivo? Sicuramente Pulp Fiction e The
Matrix. In questa geniale sequenza Conker riesce a citarli entrambi in un colpo
solo. E considerando il destinatario di
quella katana, possiamo aggiungere una
ulteriore citazione da un classico della
fantascienza, che non riveliamo in quanto trattasi dell’ultimo boss.
Conker’s Bad Fur Day è un videogioco
contenitore. Un po’ come Domenica In.
Il suo gameplay ad assetto variabile
scava nei generi e produce in uscita una
sommatoria di stili di gioco. Il titolo Rare
inizia appunto assumendo i connotati di
platform (giusto per rendere omaggio
alla macchina su cui gira), ma ben presto muta, e confluisce nel ricco filone
degli arcade-adventure, con ascendente
puzzle-oriented. Un po’ Zelda, un po’
Tomb Raider, Conker procede nella
sua decostruzione dei generi divenendo
volta volta racing game, survival horror,
FPS, stylish shooter (con tanto di bullettime) etc. Tutto ciò mentre i controlli del
joypad si adattano al gameplay on screen. Ad esempio se nelle fasi platform i
tasti C servono a ruotare la telecamera,
nella sezione survival horror – tra l’altro
molto più divertente di un certo titolo
Capcom – gestiscono lo strafe laterale.
Ma non è tutto. Un’approfondita modalità multiplayer a quattro giocatori
assicura un’elevata rigiocabilità grazie a
deathmatch à la Quake, contest basati
sullo sbarco in Normandia (!) e corse in
hoverboard. Cooool!
Tutto questo couscous ludico ha però
un rovescio di medaglia: Conker non
innova praticamente in nessuno dei generi riprodotti, anzi, è finanche semplicistico nell’uso delle zone contestuali per
la risoluzione di molti enigmi (non tutti).
:TESORI SEPOLTI:
Le zone context sensitive sono cerchi nel
terreno al cui interno è disegnata una B.
Se Conker transita sopra uno di essi,
una lampadina compare sulla sua testa.
Una pressione del tasto B farà a quel
punto scattare un’azione prestabilita (ma
è tutto spiegato meglio dallo spaventapasseri beone all’inizio del gioco), utile
per superare il puzzle o il boss che si
trova nelle immediate vicinanze.
Un simile impianto provoca giocoforza
un’impoverimento della strategia di gioco. Viene infatti meno gran parte dell’analisi dello scenario e delle caratteristiche del nemico, magari con un’attenta
valutazione degli oggetti in inventario. In
Conker’s Bad Fur Day quello che si fa
la maggior parte delle volte è di recarsi
nella context area più vicina, premere B
e vedere che cosa succede. A quel punto
l’enigma lascia ben poco all’immaginazione.
Si tratta quindi di un videogioco che
guarda al passato prossimo e al presente, ma che non pensa al futuro. Niente di
male in tutto ciò, visto che il 90% dei
giochi in commercio fa altrettanto. Anche perché Conker’s Bad Fur Day, nella sua imperfezione originale, è un gioco
praticamente perfetto…
Le migliori musiche mai udite in un
platform accompagnano un’azione varia
e divertente, ambientata in un mondo
treddì che tutto è fuorché frutto dei calcoli in virgola mobile del 64 bit Nintendo.
Mentre giocate provate a mettere in
pausa e a dare un’occhiata ai fili dietro
alla console. Controllate che un cavo
malandrino non se ne sia uscito dal nintendozzo per attaccarsi tipo al frullatore
in cucina, sottraendogli potenza computazionale. No perché altrimenti non si
spiegano quelle texture, quella complessità poligonale, quello sfoggio di effetti
come gli schizzi di sangue e diarrea…
Quando si dice il parto di una mente malata: questo boss è interamente fatto di
merda e assalirà Conker lanciandogli
parti di sé. Ma l’aspetto assolutamente
rotfl è la canzone che questi accompagna al suo pattern d’attacco: “I AM THE
MIGHTY POO AND I’LL THROW THE SHIT
AT YOU!”. La vera difficoltà di questo
boss è di trattenere le risa mentre cerchiamo di scaricarlo là dove la cacca in
genere va a finire.
C’è un qualcosa di perfetto in Conker.
C’è la sazietà di un pranzo talmente ricco che a nessuno verrebbe in mente di
chiedere altro. Una sazietà che non deriva solo dal gioco, ma anche dal geniale
umorismo che non abbandona mai la
scena, dalla sensazionale abilità nell’inserire citazioni, dalla capacità di raccontare con intelligenza, dal modo in cui un
gioco Nintendo, su una piattaforma Nintendo, riesce a prendere bonariamente
per il culo Nintendo.
Conker’s Bad Fur Day è un cavallo
di Troia, anzi, un cavallo di Nintendo,
costruito dall’Odisseo Chris Seavor.
Ring#11
Chris Seavor, chi era costui?
Lasciando ad uno dei prossimi People il
racconto dell’infanzia di Chris Seavor e
delle sue polluzioni notturne, basti in
questa sede sapere che si tratta della
mente dietro a Conker’s Bad Fur Day.
I titoli di coda dicono di lui che ne è stato sia project leader che game designer.
Ha inoltre dato il suo contributo come
background artist, ha curato la sceneggiatura e – punto esclamativo! – ha
doppiato praticamente tutti i personaggi
eccetto Berri e il fiore con le tette. Sì, ha
doppiato pure la mucca con l’accento
inglese. Non sappiamo se ci sia il suo
zampino anche dietro ai servizi di catering durante lo sviluppo del gioco. Mobygames al riguardo non conferma né
smentisce.
Maligne voci di corridoio rivelano che
Conker non è stato apprezzato da Nintendo a causa dei suoi contenuti “blasfemi”, e che le ragioni dell’insuccesso
commerciale siano da ricercarsi in un
boicottaggio della casa madre, oltre che
nella pubblicazione tardiva. Fantagiornalismo. Quello che è sicuro è che la cattiveria con cui Conker schernisce Nintendo (basti pensare che invece di stelle o
monete, lo scoiattolo recupera pacchi di
verdi bigliettoni, i quali hanno bel gridare per farsi notare dal giocatore) è solo
di facciata. Un esame approfondito rivela
infatti un profondo rispetto per la big N.
Un indizio al riguardo sono gli special
thanks a Hiroshi Yamauchi, oppure la
strategia per uccidere l’ultimo boss, che
oltre a riprendere un’epico finale cinematografico, è anche uno dei più sinceri
omaggi al fondamentale Mario 64.
Ma Conker non copia. Conker usa
piuttosto la potente arma della citazione
per fare satira cinematografica e videoludica. È principalmente il Cinema ad
essere saccheggiato: Dracula, Matrix, Il
Padrino, Salvate il Soldato Ryan, Le Iene, Pulp Fiction, Il Dottor Stranamore,
Lo Squalo e molti altri. C’è una clamorosa “passion” cinefila in questi omaggi.
Non si tratta solamente di inserzioni easy volte a strappare il sorriso. La regola
fondamentale, per quanto riguarda l’inserimento di citazioni nella narrazione, è
di non arrendersi ad esse. Mai accontentarsi dell’ammiccamento fine a se stesso. La citazione deve essere uno spunto
da arricchire poi con un’aggiunta originale che dia dignità all’operazione, magari
ribaltandone le premesse o la conclusione (giocando così con le aspettative del
pubblico), oppure inserendo battute che
ironizzino sul film o sul genere citato.
Seavor riesce magnificamente in questo,
quadagnandosi a mani basse l’appellativo di Autore.
Se la comicità di Ron Gilbert si basa
sulla battuta intelligente e il dialogo brillante à la Woody Allen, Chris Seavor trae
linfa dall’umorismo volgare. Ma attenzione: non una volgarità stupida tipo
Vanzina, quanto piuttosto una volgarità
colta, riconducibile ai Monty Python e a
Kevin Smith.
In conclusione, Conker’s Bad Fur
Day è un titolo dall’importanza sperminale. Amare i videogiochi e non aver
giocato a Conker equivale un po’ ad
amare il Cinema e non aver visto Il Sentiero del sultano grigio, oppure amare i
libri e non aver letto The chessroom.
Più che un Tesoro Sepolto, un’Arca
dell’Alleanza che contiene il Sacro Graal
che contiene l’Unico Anello.
41
Command & Conker: Red
Squirrel
Il nemico è alle porte. Il regno di
cui Conker fa parte si imbarca in
una guerra preventiva contro i terribili Tediz: orsacchiotti di peluche
dagli occhi talmente malvagi da
disturbare anche il giocatore più
incline alla violenza.
Lo scoiattolo in realtà non aveva
intenzione di partecipare alla guerra: in effetti si è arruolato attratto
dalla possibilità di applicare zainidinamite ad ignari soldati kamikaze. Ma con l’inganno si troverà in
una delle imbarcazioni che si apprestano a sbarcare sulla spiaggia
nemica. Guardate i suoi occhi dopo
che hanno visto l’orrore della guerra in una sequenza circa tre volte
più emozionanate di tutto Medal of
Honor…
Ecco il messaggio del gioco: l’assurdità della guerra va oltre la cartoonesca malvagità da videogame.
Non ha niente a che fare con una
mucca sventrata, uno zombie aperto in due o un latticino mangiato
vivo. Qui la gente muore sul serio.
Conker si è imbattuto in qualcosa
di realmente cattivo, e ha capito al
tempo stesso di non essere il simpatico anti-eroe di un videogioco
anti-nintendiano, ma solo un’inutile
pedina come tante altre che i generali hanno mandato a morte sicura
(cfr. “BOOM BOOM”, a pagina 3).
Quegli occhi tristi, quello sguardo
chino mentre tutto intorno i soldati
vengono macellati è una delle immagini pacifiste più forti mai espresse da un videogame.
Ma, ehi, Conker è uno che sa
adattarsi alla situazione. È uno che
ci sta dentro! Infatti poco dopo…
Guardate i suoi occhi, guardate con
che ritrovata sicumera impugna i
mitra di ordinanza e fuma il sigaro
di ordinanza. Lo scoiattolo ritorna
nel suo personaggio e si prepara ad
assaltare i bunker che si affacciano
sulla spiaggia. Ci sono dei compagni da vendicare. Ci sono dei pupazzi di pezza da massacrare, e
Conker non ha intenzione di ritornare dalla sua Berri prima di aver
cavato tutta l’imbottitura da questi
orsacchiotti nazisti-comunisti-terroristi. Fa lo stesso.
:PEOPLE:
Ring#11
L’icaro impunito
[Yu Suzuki]
di Amano76
«Se si facesse una media tra tutti i
dipendenti Sega delle ore di straordinario compiute, io arriverei primo»
Yu Suzuki, l'uomo che non riesce a
produrre un gioco se non può costruire un cabinato da 5 euro a gettone. L'uomo che non si cimenta in
nulla che costi meno di un Titanic.
Colui il quale se decide di realizzare una simulazione di guida dedicata all'ultimo modello Ferrari, deve
fare uno schermo a tre pannelli
perché sennò l'immagine non è intellegibile.
Dategli un paio di miliardi e lui ve
li spenderà tutti. Tanto è un genio.
«Non gioco, di solito. I miei titoli
sono influenzati da altre cose come
i film, andare a San Francisco, visitare la Napa Valley, e comprare vino [ride]»
C'è dell'ironia nel fatto che un autore di VG con il cognome identico a
quello di una nota marca di veicoli
a due ruote, sia giunto alle luci della ribalta con una simulazione motociclistica.
Un segno del destino, quasi.
Ma se è vero che c'è del talento
in Yu Suzuki, i primi a riconoscerglielo sono stati i dirigenti di Sega.
Hang-on fu infatti un incarico piovuto dal cielo poco dopo lo scoccare
del secondo anno di arruolamento
nella compagnia, a testimonianza
della fiducia che in così breve tempo Suzuki era riuscito a guadagnare. Faccendiero, socievole, interessato a tutto, la personalità dell'autore si fece subito distinguere, e
maggiore credito (in entrambi i
sensi) gli venne conferito quando il
giovane produttore colse al volo il
progetto Hang-on, trasformandolo
in un cabinato di grande successo
tanto in patria quanto all'estero.
Forte di un team di programmatori di tutto rispetto, Suzuki ebbe
l'idea di abbinare alle qualità grafiche della System 8 (una storica
scheda arcade di Sega che consen-
tiva di "scalare" le dimensioni delle
immagini per dare un effetto tridimensionale) un controller completo
di tutto: volante, carrozzeria, ruote,
e un impianto meccanico per simulare l'inclinazione del mezzo al momento di affrontare una curva.
È il suo primo prodotto, ma già il
successo gli permette di investire in
altri titoli dello stesso genere. Nascono così Afterburner, Space
Harrier, e Out-run. Tre progetti
che non brillano certo per complessità strategica, ma che pur sempre
risultano riusciti sotto ogni aspetto
e capaci di regalare sensazioni memorabili con i loro giganteschi cabinati semoventi.
Nonostante l'appariscenza esteriore, però, Suzuki dimostrò comunque intuizioni non da poco nella struttura ludica. Come si può idealmente accomunare Out-run ad
Hang-on per le tinte "arcade" del
metodo di guida, altrettanto gli F16 di Afterburner (o il suo sequel/epigono R360) e il biondone
con tuta da motociclista di Space
Harrier sono legati dall'acuta intuizione di Suzuki di un equipaggiamento con proiettili a ricerca. In
questo modo l'autore ha potuto
cambiare l'asse di scorrimento dello
schermo da quello x a quello z, lasciando inalterata la proverbiale velocità degli sparatutto senza dover
rallentare l'azione per rendere possibile la mira degli obiettivi, altrimenti impossibile a causa delle ridotte dimensioni degli avversari
quando apparivano all'orizzonte.
Non fu un caso se successivamente
ognuno dei suddetti titoli venne poi
trasposto su console, dove nonostante il mancato plus-valore garantito dai cabinati, comunque il
giocatore poteva assaporare meccaniche soddisfacenti e frenetiche
come quelle provate in sala.
«Negli ultimi cinque anni ho costantemente studiato il cinema. Ho accumulato più di 500 Dvd. [...] Le
grandi produzioni hollywoodiane
sono difficili da analizzare. Sembra-
42
no troppo perfette per essere
studiate. Sono molto più utili i film
di seconda categoria che provengono da Hong Kong, che mostrano
cosa NON si deve fare»
Per capire Virtua Fighter e Shenmue, è molto utile rovistare nel
passato di Suzuki.
Nasce a Iwate nel 1958, una località rurale dove il lavoro fisico è
all'ordine del giorno. Si aiuta nei
campi, si aiuta a sbrigliare e svuotare le reti da pesca: si può dire
che la fatica e la fisicità sono i due
aspetti della vita con cui Suzuki ha
a che fare più frequentemente.
L'autore era tuttavia profondamente legato anche all'arte. Con
padre e madre docenti di musica
classica (chitarra acustica uno, piano l'altra) appena iscritto al liceo
formò subito un proprio gruppo. Fu
in quel periodo che il giovane Yu
decise di mirare al successo musicale, ma la realtà, che ancora una
volta era venuta a cercarlo, lo colpì
dove fa più male quando un suo
caro amico, reduce dal tentativo di
sfondare a Tokyo, tornò portando
cattive notizie: campare di musica
non è un obiettivo che ci si poteva
concedere in una metropoli come la
capitale.
A scuoterlo definitivamente contribuì una delusione d'amore, al seguito della quale Suzuki tentò invano di trovare una risposta alle sue
sofferenze in libri come Il rosso e il
nero di Stendhal o Metamorfosi di
Kafka.
Durante le sue peripezie sentimentali giunge allora alla definitiva
conclusione che le sue profonde riflessioni non l'avrebbero mai portato da nessuna parte. Doveva agire.
Forte della sua personalità aperta
e spontanea (la militanza in un
gruppo musicale gli aveva insegnato cosa significasse il contatto con il
pubblico) Suzuki impiegò ben poco
tempo a trovare spazio in Sega,
società che come tante altre nello
stesso periodo si trovava a dover
gestire un guadagno crescente
(quello dell'industria arcade) senza
però detenere il numero di risorse
umane necessario a espandere le
sue attività.
Privo di alcuna nozione in materia di linguaggio macchina, Suzuki
si dimostrò subito ricettivo e disposto a lavorare sodo. Senza mai lamentarsi si assunse tutti gli impegni che gli venivano offerti. Questo,
più la sua carismatica socievolezza,
lo fecero prendere in simpatia dai
superiori, che in breve cominciarono a privilegiarlo e a prestare attenzione alle sue idee.
In due anni lo scaricatore di porto di Iwate era già diventato uno
degli autori di punta di Sega.
:PEOPLE:
«A dire la verità il Gamecube è la
migliore piattaforma su cui sviluppare. L'Xbox è a metà tra le altre
due, essendo un hardware discreto,
mentre la Ps2 è la più difficile da
gestire»
Nel 1992 Suzuki scopre il poligono.
Affascinato dalle meccaniche tridimensionali, suo chiodo fisso sin
dai tempi di Space Harrier e Afterburner, l'autore tenta un primo
approccio con il genere forse a lui
più congeniale: la simulazione di
guida.
Pur mantenendo un taglio smaccatamente arcade, Virtua Racing
propone numerose innovazioni grazie alla nuova confezione poligonale, ma non si rivela un punto di rottura quanto il successivo Virtua
Fighter.
Constantemente teso a nuove
esperienze, Suzuki resta profondamente colpito in questo periodo
dalle arti marziali. Studia tecniche
di combattimento da maestri cinesi,
diventa un atleta a tutto tondo e
l'anno seguente si lancia nell'impresa che lo consegnerà all'immortalità.
Convinto che i picchiaduro del
periodo puntino eccessivamente alla spettacolarizzazione senza riuscire a comunicare al giocatore la vera
essenza delle arti marziali, Suzuki
costringe i componenti del suo
team a intense sessioni di pratica al
combattimento, badando che acquisiscano coscienza della forza
sprigionata da un singolo pugno o
da un singolo calcio. Quando Virtua Fighter esce nel 1993 nessuno
si aspetta un titolo dove non solo
l'avanzata grafica poligonale riproduce con movimenti fluidi i colpi
delle tante tecniche riprodotte, ma
propone anche per la prima volta
un sistema di combattimento condizionato dal tempismo, dove ogni
singolo colpo può risultare fatale.
Niente più sequenze di combo da
imparare, niente più supermosse
che proiettano un personaggio da
un lato all'altro dello schermo, ma
un mondo virtuale gestito da una
fisica credibile.
È tuttavia il secondo capitolo a
segnare l'effettivo boom di popolarità del gioco, quando Sega propone il nuovo Virtua Fighter sia per
il domestico Saturn che per le sale
arcade sparse in tutto il paese. Un
successo talmente vasto da raggiungere persino l'Occidente, mercato ove, ancor meno che in Giappone, il Saturn non se la passa al
meglio.
«Utilizzando i film in qualità di termine di paragone, Shenmue non è
come Guerre Stellari ma come Ro-
Ring#11
cky... insomma, vita quotidiana ma
eccitante»
Dopo tre sequel di successo, riconoscimenti ovunque (Virtua fighter è l'unico coin-op presente allo
Smithsonian Institute di Washington) e strette di mano ricevute da
pubblico e critica, Suzuki decide
che è ora di sperperare quattrini in
un progetto più ambizioso di qualsiasi altro tentato finora. Cresciuto
a riso e giochi per PC (quei pochi
con cui confessa di aver avuto a
che fare, come Wizardry e Ultima) decide che nel piattume di
Dragon Quest e Final Fantasy
c'è bisogno di un rpg più raffinato
nella forma e nel contenuto.
Nasce Shenmue. In esso Suzuki
riversa tutto se stesso, tanto dal
punto di vista creativo che emotivo.
Un'interazione palpabile con i personaggi non giocanti, un sistema di
combattimento non a turni ma in
tempo reale, estrema cura per dettaglio e realismo, più l'immancabile
lezione ai giovani di oggi (volete la
paghetta? guadagnatevela come facevo io). Tutto nel gioco rispecchia
l'animo e le esperienze dell'autore.
450'000 copie vendute in giappone, grandi apprezzamenti dalla
critica d'oltreoceano, ma qualcosa
non funziona. A fronte delle spese
sostenute, Shenmue non si rivela
il successo che l'autore prospettava. Per la prima volta Suzuki si
controlla le tasche e le trova miseramente vuote.
Esce Virtua Fighter 4. Poi Virtua Fighter 4 Evolution. A breve
uscirà Virtua Fighter 4 Final Tuned. Poi il colpo di grazia: Virtua
Fighter Quest, sottotitolo “Lo
sputtanamento finale”.
Costretto a rimettersi in piedi da
una caduta forse rovinosa (di sicuro
umiliante) Suzuki porta al macello
Virtua Fighter 4, ora più popolare
che mai, rivendendo il motore grafico di Shenmue quando capita e
producendo versioni edited del suo
pupillo picchiaduro.
Un esempio plateale della piega
assunta dalla storica serie di Sega è
stata l'aggiunta, nel capitolo Evolution, di Brad Burns e Go. A prima
vista tutto in ordine, se non fosse
che analizzando il sistema di combattimento di Vanessa [foto in alto]
con quello dei due nuovi arrivati ci
si accorge di come la lottatrice di
colore sia stata saccheggiata e suddivisa nella creazione di Burns, con
postura e movenze da kick boxing
praticamente identiche a quelle di
Vanessa, e di Go, con posture e
movenze che saranno pure ispirate
al judo, ma che somigliano un po'
troppo a quelle della succitata fanciulla. Delusione e raccapriccio.
43
Non è tanto la gioia nel trovare un'incrinatura in Virtua Fighter ad
essere qui proposta, quanto il
rammarico nel constatare quanto e
fino a che punto sia giunta la caduta libera economica che Sega sta
affrontando negli ultimi anni.
Viene allora spontaneo chiedersi
perché Suzuki, pur occupando una
posizione di spicco nella compagnia, a oggi non sia ancora riuscito
a trovare i fondi per Shenmue 3 e
non abbia ancora annunciato nessun progetto inedito.
Brutta cosa non poter più fare
coin-op con quattro schermi, un
cabinato fornito di triclinio, una
procace hostess che passa i gettoni
e un motore poligonale che riproduce una ruota panoramica a dieci
chilometri di distanza dalla pista di
guida…
Videografia
1985 Hang-on, arcade
1985 Space Harrier, arcade
1987 Afterburner,arcade
1988 Powerdrift, arcade
1989 R-360, arcade
1992 Virtua Racing, arcade
1993 Virtua Fighter, arcade
1994 Virtua Fighter 2, arcade
1996 Virtua Fighter 3, arcade
1997 Amuro Namie - Digital
Mix, Saturn
1999 F-355 Challenge, arcade
1999 Shen mue, Dreamcast
2001 Shen mue 2, Dremcast
2002 Virtua Fighter 4, arcade
2003 Virtua Fighter 4 Evolution,
arcade
:RUBRICHE:
Ring#11
Nonline[Me Nintendo #11]
Di Gatsu
La politica online di Nintendo è
nota a tutti, perché, semplicemente, non
esiste. Sussistono solo un paio di titoli
che supportano il collegamento in rete
su Gamecube (uno è Phantasy Star
Online, l’altro mi sfugge) e tutto il resto
è lasciato all’intraprendenza degli utenti
smanettoni che in modi anche poco ortodossi sono riusciti a far girare online
roba tipo Mario Kart Double Dash
tramite improbabili connessioni artigianali e programmi selfmade.
Ora, la situazione non è certo delle
più rosee e molti sviluppatori se ne sono
accorti, riservando i costosi supporti online a servizi già avviati come Xbox Live!
o al network Sony relativo a PS2.
E’ nuovamente una di quelle situazioni
in cui Nintendo vacilla, dimostrando di
non saper più capire cosa davvero desiderino gli utenti?
No. E adesso vi spiego anche il perché.
Di fronte al buon successo dei servizi
concorrenti, viene naturale pensare che
la politica di Nintendo sia semplicemente
troppo conservatrice e ancorata ad una
“vecchia concezione” del videogame.
Proviamo però a scavare un po’ in profondità, per vedere se la valutazione
negativa del gioco online da parte della
casa di Kyoto non sia invece basata su
qualche analisi relativa al lungo periodo…
Dave Jones, la mente dietro al sempreverde Lemmings, ha dichiarato nella
intervista pubblicata su Videogiochi 005
(Febbraio 2004): “…un gioco [online]
deve avere qualcosa di speciale per convincere la gente a spostarsi da un titolo
all’altro, abbandonando la propria comunità e gli amici, e a starci. E’ una sfida
completamente nuova per l’industria. In
passato quando usciva un gioco massiccio la gente ci giocava per un mese o
due, lo finiva e poi diceva ‘ok, sotto con
il prossimo’. Con i titoli online la gente
gioca mese dopo mese dopo mese,
quindi quando lanci un gioco online non
ti devi limitare al marketing passivo:
devi letteralmente strappare i giocatori
dai titoli a cui stanno già giocando. Ci
vuole una strategia di vendita completamente nuova e sarà piuttosto difficile
metterla in atto. Ci sono anche altre implicazioni: attualmente i giocatori comprano quattro o cinque titoli all’anno, ma
con la penetrazione dei titoli online nel
mass market sarei sorpreso se la gente
comprasse più di due titoli all’anno”. Dite
la verità, quanti di voi hanno avuto modo di discutere con appassionati di Ultima OnLine o Starcraft? Quelli che
hanno alzato la mano, sapranno allora
certamente che gli aficionados dei titoli
Origin e Blizzard sono praticamente fossilizzati su quegli unici due titoli. Non nel
senso che dall’uscita dei giochi suddetti
non hanno provato altro, ma nel senso
che una volta entrati a far parte della
comunità relativa non ci si schiodano
nemmeno morti, non importa quanti altri
MMORPG o strategici il mercato proponga loro. E, mi sembra evidente, nessuno
di questi giocatori sarà disposto a pagare più di un abbonamento o due al mese
per giocare… quindi, a farla semplice, il
rischio concreto nel proporre tutti questi
giochi incentrati sull’online è di vedere
utenti che per mesi di dilettano solo con
un paio di titoli, ignorando bellamente
tutto il resto. Questo significa calo delle
vendite, a casa mia.
Esistesse almeno un modello economico
universalmente funzionante. Io non conosco una singola persona che per giocare ad Ultima OnLine paghi un regolare abbonamento: tutti si affidano a
server amatoriali scansando del tutto
qualsiasi ricarico pecuniario. Pensate
davvero che tutto questo sia irrealizzabile su console, alla luce di gente che riesce a far girare online titoli NON pensati
per l’online (vedi l’esempio di Mario
Kart Double Dash riportato in apertura), che monta chip per qualsiasi esigenza, che installa Linux su una console
Microsoft?
Inoltre, pensiamoci bene. Per giocare
a Final Fantasy XI è necessario: acquistare PS2 e relativi accessori, possedere
il broadband adapter e l’hard disk, acquistare il gioco, installarsi una linea
ADSL e, in più, pagare un abbonamento
mensile, con l’aggravante che fra qualche anno Final Fantasy XI non sarà più
supportato da nessun server sul pianeta,
diventando, sostanzialmente, inutilizzabile. Proprio non capisco, ma come fanno a convincervi?
Diamo per scontato che le prossime
generazioni avranno il modem integrato
e anche in Italia l’ADSL diventi lo standard (non improbabile, visto il tasso di
crescita dei contratti): resta il problema
degli abbonamenti, per me fattore determinante nella scelta di un giocatore
nel non-abbandono di un titolo sul quale
magari ha speso una fortuna (già me lo
vedo: “perché dovrei cambiare gioco?
Qui ormai sono una divinità e tutti si
inchinano al mio passaggio, chi me lo fa
fare di ricominciare da capo, soprattutto
dopo che per gli abbonamenti a CiccioPasticcio Online ho ormai speso l’equivalente di tre stipendi?”).
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Perfino Microsoft, forte dei successi di
Xbox Live! (nonostante le tensioni con
EA proprio a riguardo del modello economico), ha deciso di ridimensionare i
suoi impegni online sul fronte PC, piattaforma da anni abituata al gioco online:
"Il nostro obbiettivo con Mythica era
quello di creare un MMORPG realmente
innovativo. Ma se il gioco sembrava in
grado di presentare elementi originali
nel genere, dopo un'attenta valutazione
del panorama MMORPG Microsoft ha deciso di ridimensionare i suoi progetti,
procedendo a investimenti minori nel
campo”.
E che dire della cessione di Asheron’s Call, pezzo forte dei MMORPG by
Microsoft, o della rinuncia di Ubisoft a
pubblicare il sicuro hit The Matrix Online?
The Matrix Online, un gioco in rete dove
il giocatore impersona un tizio imprigionato in una rete, che però deve svegliarsi. O una cosa del genere. Ubisoft ha
rinunciato alla pubblicazione di un hit
sicuro per un solo motivo: il gioco online
si sta dimostrando poco vantaggioso dal
punto di vista economico. Che sia colpa
dell’architetto?
Insomma, il problema inizia a farsi sentire e Nintendo ha fatto una scelta saggia
nel tenersi in disparte. Oltre alla carenza
di infrastrutture, senza un modello economico VANTAGGIOSO per l’utente, in
grado di favorire il passaggio da un titolo
all’altro senza costi aggiuntivi e senza
traumi eccessivi (compreso l’acquisto di
periferiche specifiche, che necessariamente devono essere già incluse nella
console), il business del gioco online rischia di rivelarsi un clamoroso flop, un
po’ come la new economy: finché erano
in pochi funzionava, quando ci si sono
buttati cani e porci c’è stato un drastico
ridimensionamento. Il fenomeno raggiungerà quasi sicuramente la saturazione nel giro di pochi anni e porterà alla
paralisi totale un mercato che incrementa costantemente l’offerta senza preoccuparsi affatto delle conseguenze… Oppure credete che l’insistenza di Nintendo
sulla connettività sia casuale?
:RUBRICHE:
Ring#11
[The Ivory Tower]
Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research
Association), una associazione che riunisce studiosi e critici del
videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue
riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell’industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per
arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi.
La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e
proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre
pagine siano degne della passione che la IGDA nutre per il proprio lavoro.
Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti presenti nei
testi originali ad autori mai citati nelle nostre pagine.
Questo mese ospitiamo uno scritto di Jonathan Sykes, studioso presso l’eMotion Laboratory della Caledonian University
di Glasgow. Sykes si occupa delle relazioni tra le moderne tecnologie e le emozioni dei fruitori. Un sentiero ancora molto poco
approfondito che potrebbe in futuro fornire spunti rivoluzionari
per i videogiochi. Basti pensare alle prime applicazioni che Sykes sta sperimentando, illustrate in questo articolo. Che stia per
finire un’era? È presto per dirlo, ma di certo le opportunità che
si celano dietro questi studi potrebbero cambiare il nostro modo
di giocare. Per ora alla pressione di un tasto corrisponde un
movimento su schermo, cosa potrebbe accadere se, con la stessa fatica, si potessero suscitare infinite emozioni? E cosa se,
abbandonando i bottoni, si passasse ad un controllo basato sul
pensiero, che reagisca direttamente alle nostre sensazioni?
Siamo vicini ad una svolta?
Affective gaming
di Jonathan Sykes
Shigeru Miyamoto, il padre dei franchise di Mario e Zelda, sostiene di progettare i suoi giochi partendo da una
serie di particolari esperienze emotive.
Sony, produttrice di console, ha battezzato la CPU di Playstaion2 “Emotion Engine”. Ovviamente la comunità dei giocatori percepisce l’importanza delle emozioni all’interno dei giochi, ma allora
perché molti videogiochi offrono una
esperienza così leggera dal punto di vista emotivo?
La ragione è per lo più imputabile alla
relativa immaturità dell’industria. Laddove l’industria cinematografica si riferisce
a dei testi sicuri e consolidati per gli autori che vogliono suscitare la commozione nel pubblico, l’industria dei giochi
digitali non ha ancora finito di redigere il
primo capitolo del manuale d’istruzioni.
Considerato che i videogiochi sono un
medium visivo, ci si aspetterebbe che sia
possibile trasferire degli altri media le
tecniche per suscitare emozioni. Sfortunatamente, non è proprio così. Il regista
di un film ha il controllo completo sulla
immagine che appare sullo schermo –
l’angolatura, l’ordine sequenziale di ogni
scena e il suo ritmo. Al contrario, il game designer affida il controllo di questi
elementi al giocatore. Il giocatore sceglierà l’angolatura della telecamera ideale per far passare Mario sulla fune, così
come la direzione e la velocità con cui il
gioco procede.
I media interattivi devono ancora trovare le loro regole per suscitare emozioni, ma conoscono già qualche trucchetto…
Provocare una risposta emotiva
nel giocatore
La natura interattiva dei giochi digitali
permette soluzioni nuove e davvero originali per suscitare emozioni. Mentre chi
guarda un film assiste immobile allo
schiudersi del mondo narrativo, il videogiocatore deve interagire con questo ed
ogni contesto ha il potere di evocare una
risposta emotiva differente. Per esempio, una grande torre dai pilastri di
marmo è generalmente considerata più
imponente, ci fa sentire più piccoli e a
disagio rispetto a una piccola stanza con
un divano e un camino scoppiettante.
Alla Caledonian University di Glasgow
stiamo studiando alcuni ambienti rino-
mati per essere fonte di esperienze soprannaturali. Modellando e adattando
alcuni luoghi di Edimburgo ritenuti infestati, siamo riusciti a costruire degli ambienti di gioco capaci di produrre la sensazione di presenze spettrali nel 60%
delle persone che li hanno provati. Tra le
esperienze raccolte c’era chi sentiva un
fantasma respirare dietro la propria nuca, chi avvertiva una presenza nel mondo virtuale rabbrividendo all’ingresso di
alcune stanze, sentendo e provando cose non programmate in quell’ambiente.
Riconoscere lo stato emotivo
del giocatore
Ci sono vari strumenti che possono essere usati per riconoscere lo stato emotivo
del videogiocatore. Dei ricercatori al MIT
di Dublino hanno esplorato gli utilizzi del
Galvanic Skin Response (GSR) per determinare lo stato di allerta del giocatore. “Relax-to-Win” è un gioco terapeutico in cui il livello di tranquillità del giocatore determina la velocità di un mezzo
da corsa.
All’Interactive Institute di Stoccolma
per il gioco “Brainball” misuriamo l’attività cerebrale di due giocatori con un elettroencefalogramma (EEG). I due devono
controllare una pallina di ferro il cui movimento è determinato dalla loro capacità di meditazione.
Un metodo alternativo per misurare le
emozioni usando l’apparecchiatura delle
normali console viene studiato alla Caledonian University di Glasgow. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che lo stato
emotivo del giocatore può essere controllato dal modo con cui usano il
controller. Non solo la maggiore o minore pressione dei bottoni può indicare lo
stato di allerta, ma anche la frequenza
con cui vengono premuti e rilasciati indica l’emozione provata dal player.
Ci sono tre grandi vantaggi che possono
derivare dalla conoscenza delle emozioni
del giocatore.
1) Contenuti dinamici
Come il buon vecchio cantastorie adatta
il suo racconto agli ascoltatori riuniti attorno al falò, così il game designer potrebbe cucire i contenuti del gioco in
modo che calzino a pennello ai suoi giocatori e alle loro emozioni. In particolare
45
è rilevante il momento in cui si mette in
pausa il gioco per andare a mangiare,
rispondere al telefono, dormire ecc.
Quando torna il giocatore difficilmente
sarà nelle stesse condizioni emotive di
quando ha fermato il gioco, e quindi non
gusterà appieno la paura suscitata
dall’apparizione improvvisa di uno zombie che irrompe attraverso il vetro colorato della finestra. Invece monitorando
le emozioni del player il game designer
può ristabilire il percorso di ogni climax.
Questo significa che il giocatore si potrebbe trovare sempre nelle condizioni
ottimali per godere appieno dei contenuti. Per fargli gustare al massimo la comparsa improvvisa di uno zombie si potrebbe ricostruire la suspense e attendere che si raggiunga un sufficiente livello
di terrore.
2) Comunicare a terzi lo stato emotivo
Il rapporto con l’avversario gioca una
parte fondamentale. Per esempio, è molto più piacevole battere un avversario
soddisfatto di sé e fiducioso che un nervoso newbie senza la minima idea di
come si controlli il suo avatar. Con l’arrivo dell’online gaming ci si è trovati di
fronte alla possibilità che l’avversario
non sia più fisicamente presente, annacquando l’esperienza sociale tipica delle
sessioni multiplayer. Ma se il software è
in grado di determinare la condizione
emotiva del giocatore si potrebbe mettere su schermo un personaggio che vi si
adatti e la rispecchi.
3) Meccaniche di gioco emotive
Conoscere le emozioni del giocatore
permetterebbe di costruire nuove meccaniche di gioco basate sulle stesse emozioni. Un esempio dato da Zen Warriors, un gioco in fase di pre-produzione
alla Caledonian University di Glasgow.
Zen Warrior è un gioco di combattimento
in cui, per fare l’ultima mossa, il giocatore deve passare da uno stato di aggressione controllata ad una interiore calma
Zen.
Sono tempi entusiasmanti. I videogiochi
hanno compiuto il grande passaggio estetico dalle due alla tre dimensioni. Il
prossimo passaggio sarà quello di suscitare emozioni più profonde e varie, e
stiamo scrivendo solo il primo capitolo
del manuale d’istruzioni.
:RUBRICHE:
Ring#11
Stage 2: le periferiche
[Arena: opinioni in multiplayer]
Perifericonvergenza
di Gatsu
La situazione attuale delle periferiche dedicate ai videogiochi è molto diversa rispetto a qualche anno fa. Ad esclusione dei classici pad, gli unici controller in grado di imporsi ad
una fetta significativa d’utenza sembrano essere quelli relativi
ai rythm game (tappetini, tastiere musicali, tamburi, maracas
and so on), ai giochi di guida (volanti di varia foggia, quasi
sempre compatibili solo con una fascia di software molto ristretta) e agli shooter in stile Point Blanck/House Of The
Dead (Guncon et similia).
Ogni periferica di altro tipo è sostanzialmente scomparsa,
sia relativa al software (pensate solo alla quantità di joystick
che accompagnavano l’uscita dei picchiaduro 2D qualche anno
fa, alle canne da pesca, a paccottiglia stile Power Glove…), che
all’hardware (adattatori, lettori di dischi…). Una parte della
responsabilità l’hanno avuta i controller di nuova generazione,
adatti a quasi tutti gli stili di gioco, il resto dipende più che
altro da un calo di interesse degli utenti per le periferiche più
strampalate, che il più delle volte risultano inutilizzabili se non
con uno specifico gioco (il controller del simulatore di treni
Densha de Go! per dirne uno).
E poi c’è la questione costi: inutile sottolineare che ben pochi sono disposti a sborsare denaro aggiuntivo per portarsi a
casa hard disk di dubbia utilità (PS2), modem sottosfruttati
(Gamecube) o controller elefanteschi (XBox – Tekki). E’ però
fuori discussione il fatto che alcune delle recenti comparse nel
mercato delle periferiche sembrino studiate appositamente per
un utilizzo più generico, in grado tra l’altro di aumentare di
molto il coinvolgimento di un gioco. Mi riferisco nello specifico
all’introduzione dell’accoppiata cuffie+microfono, ad EyeToy,
ed estendendo un attimo il significato di periferica, alle console
portatili di Nintendo e Sony (GBA/DS/PSP) in grado di interfacciarsi alle loro sorelle maggiori.
Ora, mi sembra un dato di fatto che l’integrazione dell’hard
disk nella console Microsoft sia stata una buona idea, perlomeno dal punto di vista di utenti e sviluppatori: i primi hanno
avuto la possibilità di giocare a titoli preclusi alle console concorrenti proprio a causa dell’assenza del disco fisso, i secondi
hanno battuto strade inedite per il pubblico abituato a macchine dall’impostazione più classica. Il fatto che in termini economici sia stato sconveniente per Microsoft offrire un hard
disk, non intacca minimamente l’esito positivo dell’esperimento.
Quello che intendo dire è che le periferiche, per trovare oggi
una ragione d’esistere, devono necessariamente essere fornite
insieme alla macchina a cui sono destinate. Chiaro che questo
non è immediatamente conveniente da un punto di vista economico, ma sul lungo periodo questa potrebbe essere la strada
giusta, tra l’altro già intrapresa da Sony che ha annunciato
una PS3 con una sorta di EyeToy integrata. Inoltre, mi sembra un grosso sbaglio la decisione di Microsoft di rimuovere
l’hard disk in favore delle classiche e certamente più remunerative memory card per il successore di Xbox: l’obiettivo deve
essere quello di “offrire il più possibile in un colpo solo”, non il
contrario.
E’ praticamente dimostrato che periferiche e add-on non garantiscono MAI una buona base installata (a meno che non
siano indispensabili), tale da giustificare grossi investimenti
nello sviluppo di giochi dedicati.
La mia speranza è quindi quella di vedere, nella prossima
generazione di console, oltre ai tanto agognati controller wireless, cavi di collegamento GBA/DS/GC – PSP/PS3 inclusi nelle
confezioni, telecamere incastonate nello chassis e/o all’occorrenza rimovibili, cuffie fornite di default, supporti di memoria
di serie…Si tratterebbe certamente di sopportare una spesa
iniziale maggiore, ma a tutto vantaggio dell’offerta ludica conseguente. E se da qualche parte c’è da tagliare, che si sopprimano quelle feature extraludiche non più fondamentali come
la lettura dei CD/DVD o il pratico tostapane integrato…Siamo
qui per giocare, o sbaglio?
No More Mr. Nice Guy
di Nemesis Divina
L’idea che l’epoca d’oro delle periferiche sia trascorsa,
perduta nel mar morto della memoria, è singolare. Al contrario, oggi assistiamo alla legittimazione della periferica, l’elevazione del suo significato, l’attestazione della sua validità intrinseca.
Qualcuno manda i ricordi al passato e rievoca un’epoca fatta
di controller bizzarri, sempre tesi a (cercare di) offrire nuove e
coinvolgenti esperienze extrasensoriali. Ricordiamo vibropack
da applicare al torso per percepire i colpi subiti, compagni di
gioco elettronici, guanti per la realtà virtuale, pistole, fucili,
bazooka. Molte di queste periferiche presero a nascere allorquando Nintendo dominava, quando Nintendo era ancora saldamente al comando ed al comando della quale sedeva implacabile Hiroshi Yamauchi, un vero squalo degli affari che, tenendo fede al motto guerriero che i samurai avevano tramandato all’industria giapponese, manovrava ogni situazione
commerciale come una vera e propria guerra, tesa all’annientamento dell’avversario.
Ed ecco dunque che a fianco di una produzione ludica ineccepibile, nasceva tutto un proliferare di pretesti tecnologici. In
piena fascinazione da ‘realtà virtuale’ e sviluppo tecnico accelerato, il giocatore ambiva nuove esperienze e Nintendo (ed
altre con essa) era pronta ad offrirne. Ma si trattava di pretesti, appunto. Raramente una periferica offriva un che di indispensabile o comunque valido. Il Power Giove è una delle produzioni che maggiormente rasentano il truffaldino, cavalcando
l’onda della VR e offrendo un guanto da indossare con ‘ricamato’ indosso un normalissimo pad, con tasti e bottoni ancora da
pigiare.
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Il miraggio di palpare un paio di seni sodi sul ponte ologrammi resta distante per un poco ancora…
È invece in questa generazione che la periferica guadagna
totalmente senso, motivando in sé la validità del proprio acquisto. EyeToy è la prima periferica che va nominata, che ad
un prezzo accessibile offre una tecnologia efficiente, un gioco e
una serie di applicazioni possibili alternative. Non è un caso
che EyeToy sia divenuto in breve tempo un million seller, traguardo raggiunto oggi a fatica dai giochi stessi.
Ma l’EyeToy non viaggia da solo. Sony per prima ha inaugurato con SOCOM la funzionalità dell’headset che abilita alla
comunicazione vocale. Strumenti semplici e noti come cuffie e
microfono contribuiscono a rinnovare l’esperienza ludica. Da
una parte, online, l’insulto scorre nel doppino telefonico in
tempo reale (lag permettendo), aumentando la partecipazione
dell’utenza. Ma ancora, in SOCOM offline il microfono permette di impartire semplici ordini, funzione estremizzata in Life
Line (PS2, Konami 2003/2004), titolo mediocre ma controllato
al 90% dai comandi impartiti vocalmente. In futuro tutti gli
action game militari (MGS, Splinter Cell) potrebbero implementare quetsa funzione, offrendo briefing in game da ascoltare nelle cuffie, durante l’azione di gioco a pieno vantaggio
del coinvolgimento.
Sempre il microfono è protagonista dell’exploit dei rythm
game vocali, dove la CPU rileva e riconosce l’intonazione del
cantato, fungendo quindi da ‘tappetino’ del terzo millennio. Il
modem stesso è una periferica la cui utilità è da anni testata e
garantita su PC e che anche su console, compatibilmente alla
propria linea telefonica, sta riscuotendo un ragionevole successo.
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Ring#11
Senza dubbio, il limite maggiore della periferica è esser tale,
ossia venduta fuori dalla console. Eppure, come intelligentemente sta dimostrando EyeToy, è possibile spingere i compratori ad interessarsi ad un prodotto, se questo si offre come
alternativa all’acquisto di un altro gioco e permette, esso stesso, di giocare (ecco perché ogni periferica necessita di una
killer application fornita in bundle a prezzo credibile).
E Sony, finanziando EyeToy, ha continuato a percorrere la
propria strada di sempre: offrire il videogioco anche a chi non
è così interessato al VG. EyeToy ha spopolato fra i casual gamer, mentre è stato accolto con freddezza dagli appassionati.
Ed è questo il centro focale, la periferica va oggi intesa come
quid extraludico per extragiocatori. Chi ama e conosce il videogioco da molto tempo, deve trovare le proprie emozioni dentro lo schermo, senza invocare il miraggio di una periferica
totale, senza reclamare il vero virtuale o altro.
Le periferiche sono effetti speciali, indubbiamente efficienti
ed efficaci. Ma il videogioco è e resta altro.
Sony al volante, pericolo costante
di Cryu
Il controller è la porta per il videomondo. Senza controller
non si gioca. Senza controller c’è solo il rolling demo. Il
controller è il fulcro della leva dell’interazione: da una parte il
gioco, dal-l’altra il giocatore, al centro il controller. Parrebbe
una questione di importanza secondaria, dopotutto siamo abituati a considerare la piattaforma hardware e il software quali
unici fattori decisivi di un’esperienza di gioco. Eppure, caso
strano, l’accoppiata mouse+tastiera ha relegato per anni gli
FPS al solo ambito PC, la bassa risoluzione dei TV rispetto ai
monitor e la scarsa diffusione dei mouse per console hanno
sempre tenuto avventure grafiche e strategici alla larga da
Playstation & Nintendi vari. Poi c’è Tekki, con quel bestione di
controller da 45 comandi. Solo per accendere il mech occorre
attivare sette stick e premere due pulsanti. In Tekki il gioco è
il controller, la soddisfazione di domare due cloche, una decina
di stick e una trentina di bottoni contemporaneamente. Infine
ci sono i racing game, e qui non ci sono santi: per godere davvero di un’esperienza di guida simulata è imprescindibile un
volante con pedaliera. Con force feedback e cambio a cloche,
se possibile. Pensatela come vi pare, ma la periferica di controllo, in un racing game, è responsabile di almeno il 30% del
divertimento. Sega Rally, Daytona USA: indimenticabili le
emozioni trasmesse dalla tecnologia idraulica di questi cabinati. Poi un bel giorno esce Gran Turismo, il miglior gioco di
guida mai realizzato; ma non esce in salagiochi, esce su PlayStation, e scusate tanto, ma io voglio giocarlo con un volante.
È a questo punto che inizia il dramma della mia vita…
A quei tempi Mad Catz aveva appena prodotto un ottimo volante analogico compatibile un po' con tutti i racing game per
PlayStation, munito di una robusta pedaliera e di un’onesta
leva di cambio. È il primo volante console della storia a restituire un buon feeling di guida. Tra Gran Turismo e Colin
McRae inizio a macinare migliaia di chilometri. Sono un videoguidatore felice. Ma non per molto…
Molti sviluppatori si rendono conto che il pad analogico di
PlayStation non è affatto preciso (quelli di DC e N64 lo erano
infinitamente di più). Pertanto in un racing game può capitare
di rilasciare lo stick dopo una curva senza che questo torni in
posizione perfettamente neutra. Per ovviare a questo problema la successiva generazione di giochi di guida (Driver, Gran
Turismo 2, Colin 2) implementa una zona morta: se rilasciando lo stick questo non torna perfettamente al centro, fa
nulla, la macchina procede comunque diritta, perché i programmatori hanno inserito un margine entro il quale lo stick
può muoversi senza influire sulla direzione della vettura. Pro-
blema risolto? Per i giocatori via pad sì, per gli amanti del volante è l’inizio del calvario. Quel piccolo margine, impercettibile
giocando col pad, riprodotto su un volante dal diametro di
30cm significa un angolo morto di circa 20 gradi. Sterzo leggermente a destra, sterzo leggermente a sinistra, ma la macchina non curva. Risultato? Tutta una generazione di racing
game ingiocabili con qualsiasi volante, anche i più lussuosi
(neppure il bellissimo Guillemot con licenza Ferrari).
Infine esce Gran Turismo 3, ed esce accompagnato da un
fiammante volantone blu firmato Logitech. Da allora questo
volante ha settato un semi-standard, nel senso che tutti gli
sviluppatori sanno che il volante più o meno "ufficiale" di PS2 è
quello. Pertanto i vari WRCII e 3 funzionano egregiamente.
Già, se però chi sviluppa non si cura di rendere il suo simulatore giocabile con questo volante, non è detto che alla fine sarà
possibile utilizzarlo. Pochi giorni fa è uscito il nuovissimo volante Logitech dedicato a Gran Turismo 4: 149 euro di solido
metallo e parti mobili squisitamente rifinite. Guidarci GT4 sarà
fantastico. Ma sarà fantastico anche per i possessori del precedente volante Logitech? Ma soprattutto, a giugno esce
Driv3r, che personalmente attendo con ancora maggiore ansia di GT4; i Reflections non hanno mai dimostrato grande
interesse per volanti (il primo Driver e il Mad Catz erano nemici giurati), pertanto chi lo sa se il prossimo Driv3r sarà
compatibile? Io sono praticamente certo di no, anche in virtù
del fatto che le fasi a piedi sarebbero improponibili via volante.
Certo, si potrebbe facilmente ovviare al problema tramite riconoscimento di un pad inserito nella porta 2, ma qualcosa mi
dice che nessuno ci penserà. Morale: tra qualche mese potrei
avere in casa il miglior gioco di guida urbana di sempre, un
volante da mille e una notte… e non poterli utilizzare insieme!
No, non andiamo bene. Urge uno standard ufficialissimo,
urge una direttiva Sony. Oggi come oggi rischi di comprarti un
volante da 150 euro senza nessuna garanzia che ti funzioni
con i tuoi giochi di guida preferiti. E quindi... e quindi non lo
compri, a meno che tu non sia schifosamente ricco o perdutamente appassionato (per un autentico cultore dei motori rimango dell’idea che giocare a GT4 via pad sia una bestemmia). Ci vorrebbe che Sony si prendesse la briga di imprimere
il suo marchio sul volante Logitech e di dire "questo È il volante PS2, se volete fare un gioco di guida per PS2 deve essere
compatibile, altrimenti niente licenza".
Facciamo finta di sperarci. Dopotutto sperare costa meno di
qualsiasi periferica.
Le periferiche che non dovrebbero mancare nel “Mighty Buco di Merda” di ogni lettore di Ring…
Molto probabilmente Onimusha 3 non sarebbe così
deludente senza l’imprescindibile joypad-katana di
ordinanza. Una periferica
con un taglio tutto suo…
Come non ricordare il grandioso rabbit-pad di Philips
Cucina? L’unica periferica
premiata da Famitsu sia per
l’ergonomicità che per il character design.
Direttamente dai contenuti
extra del prossimo blockbuster Metal Gear Solid: Philantropy, un fucile che rende il
quotidiano sgominare di terroristi un lavoro per docili
pensionate. La periferica preferita dai portalettere americani.
Ed ora lei. La periferica definitiva. Il telecomando di
PS2! Con questo superbo
prodotto potremo fruire della funzionalità più importante della console Sony, la
visione dei DVD, senza più
far inciampare nostra madre
sul filo del joypad.
Approvato dal MOIGE.
47
:RUBRICHE:
Ring#11
CHAINMAIL 3.0
[[email protected]]
Chissà cosa c'è dietro!? Si domanda
qualcuno. Dietro ci sono i cereali, risponderebbe il filosofo. Ma anche delle
persone, aggiunse Marcello Cangiatosi in
quel di Ring#10. Dietro a che cosa? Ma
ai videogiochi, naturalmente. I videogiochi rimangono l'espressione della creatività dell'uomo
di cui oggigiorno viene meno valorizzata la paternità
creativa. Se si dice canzone, si pensa subito al cantan-
te, se si dice film, si pensa subito al regista, se si dice
videogioco si pensa subito… ehr, a che si pensa? Alla
softco? Se va bene, altrimenti non si pensa a nulla, al
massimo al prezzo. Ed è qui che interviene il sanguinario Marcello, a proporre la messa in risalto degli autori
del videogioco in prospettiva di una sua definitiva emancipazione espressiva. "Firmiamo i videogiochi" è
l'imperativo caldeggiato. Ma la questione è complessa… a voi la parola.
Caro Marcello,
non credi sia forse un po' azzardato definire Toyama
"il creatore di Silent Hill"?
L'industria videoludica sembra affamata di autori,
tanto che serie storiche nate nell'anonimato si affrettano a darsene uno (Castlevania Igarashi, Contra
Nakazato), ma sembra più una mossa da press release
che altro [...]. Silent Hill è il prodotto di un team di
persone. Lo scenario writer Hiroyuki Owaku, il musicista Akira Yamaoka, l'art director Masahiro Ito, Takayoshi Sato per i filmati in CG; sono tutte persone che vi
hanno lavorato dal primo episodio ad oggi. Il director è
invece cambiato ad ogni episodio: Keiichiro Toyama,
Masashi Tsuboyama, Kazuhide Nakazawa... [...]
Mi aspetto molto da Siren1. In effetti, posso anche
convenire che il primo Silent Hill resta ineguagliato in
quanto a effetto terrorizzante... [...]
Per ipotesi, conveniamo che Toyama sia il miglior
director che SH abbia avuto [...] ora, se Siren spaventa come promesso, sarà facile banalizzare il tutto:
Toyama è un genio, Silent Hill "orfana" di Lui non vale una cicca.
La stampa specializzata dovrebbe andarci piano con
la "politica degli autori", ne è passata di acqua sotto i
ponti da quando Truffaut scriveva per i Cahiers du Cinema. L'idea stessa che un gioco sia il prodotto di un
unico uomo, il Regista, è una deformazione. Da quel
poco che posso capire Konami si avvicina di più come
metodo di produzione allo studio system hollywoodiano. [...]
Spero vivamente di non dover assistere al propagarsi dell'ennesima leggenda metropolitana. Quella che
vede il leggendario Toyama lasciare Silent Hill, serie
ormai troppo commerciale, per perseguire i suoi ideali
in fatto di horror. [...]
Per tornare on-topic; certo, l'industria del videogame non ha ancora assimilato del tutto la strategia dei
nomi di richiamo, una cosa a cui i comic book sono arrivati da tempo. Non è incredibilmente in ritardo come
sembri voler dire, comunque. Ormai sono anni che ogni fan Nintendo conosce il nome di Miyamoto, molti si
stupirebbero vedendo quanto sia corta la lista di giochi
di cui è stato personalmente "director" negli ultimi anni. Mi sembra che il buon Takashi Tezuka abbia diretto
Zelda sin da Link's Awakening, e parliamo del
1993... Già, ma chi lo conosce? Un effetto collaterale
del catalizzare l'attenzione del pubblico su un nome di
richiamo è appunto questo.
Il caso di Kojima è ancora diverso, in quanto è Kojima stesso a proporsi come un regista, inteso in senso
cinematografico... In effetti, è uno dei pochi a cui sia
stata concessa finora una ampia libertà ma sopratutto
uno stretto controllo sui propri progetti. Ad analizzare
anche superficialmente le tematiche di Snatcher e
Policenauts fino a Sons of Liberty, c'è da stupirsi
dell'incredibile coesione tematica. Sarebbe interessan-
te capire quanto dell'approccio autoriale che Kojima ha
assunto sia una diretta conseguenza del suo pensare il
videogioco in termini cinematografici (non è una critica, ci mancherebbe). Ad ogni modo, il nome di Kojima
è servito da chiaro richiamo pubblicitario per la saga di
ZOE. Ma al di là della fanfara, Kojima non ha certo lavorato su ZOE quanto su MGS. Il suo coinvolgimento
potrebbe dirsi analogo per proporzioni a quello che Miyamoto ha ipoteticamente in Twin Snakes... Ma forse
è proprio questo il punto; forse quando vedremo "Keiichiro Toyama Presents" a caratteri cubitali sulla confezione di un gioco, potremo affermare con una certa
sicurezza che Toyama è assurto a etichetta da p.r. e il
gioco è nelle mani del suo team... [...]
Chi posta su GameFAQs è gia abituato a classificare
gli rpg in base al compositore: Uematsu, Mitsuda, Sakimoto, Iwadare, Sakuraba e compagnia...
Ricordo che Star Gladiator fu commercializzato in
italia con il bollino: "dagli autori di Resident Evil". In
questo senso non drammatizzerei troppo il caso Siren.
[...] Le sue sorti dipendono dal nome di Toyama in copertina in minima parte. È un titolo di notevoli qualità,
sarà accolto come lo fu Silent Hill all'epoca, che era
realizzato da perfetti sconosciuti. [...]
Ancora non sono arrivato al nocciolo della faccenda.
Uno dei modi di pubblicizzare è appunto quello di
sbandierare nomi di richiamo. Siamo d'accordo, però
precisiamo bene: è pubblicità, non informazione. Attorno ad un nome si crea un'aura mitica, e si è visto
che ciò fa bene alle vendite dei comic book, ad esempio. Quindi, dalla furba copertina del gioco non mi aspetto altro in futuro che strilloni di questo tipo. Mikami!! Miyamoto!! Kojima!! (tranquillo, il nome è riportato anche sull'edizione europea di Sons Of Liberty).
[...]
E per finire, la proposta provocatoria ^_^ E se invece del modello cinema si approdasse al modello libro?
Cover di Siren assolutamente spoglia sul davanti:
l'acquirente gira il box e in basso scorge una piccola
foto in bianco e nero e una noticina: "Keiichiro Toyama, 30 anni si è laureato in bla bla... Fra i suoi lavori,
la direzione di Silent Hill...Vive in una tranquilla periferia con i suoi tre adorabili gattini...".
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Setzer
[1] Hai notato che Siren (sa - i - re - n) in katakana si
legge e scrive esattamente come i primi quattro ideogrammi di Sa - i - re - n - to - Hi - ru, Silent Hill? Con
un po' di immaginazione questo titolo, troncone mozzo
di Silent Hill, potrebbe significare la volontà di un ritorno alle origini. In effetti, nel primo Silent Hill più
che negli altri l'enfasi era sulla fuga...
:STORY-TELLING:
Ring#11
[Vox Mundi]
Column 03: Out Soon!
di Gunny
A qualcuno doveva essere sembrata una buona idea. Geniale, perfino. Ed il fatto che ‘Loro’ sconsigliassero vivamente di attuarla, non
faceva che rendere l’opzione più attraente.
Il virus SEAL fu caricato in dosi massicce sulla Vecchia Linea il 14
Dicembre 2109 e con iniezioni mirate nella Seconda Internet che,
nessuno riusciva ancora a capire come, i digitali di Nu Gea erano
riusciti ad intaccare, questo sebbene fra i due web non esistessero
ponti telematici né tantomeno strutturali.
Per ogni quartiere formattato sulla Vecchia Linea, un nuovo settore
virtuale della Seconda Internet veniva convertito al dominio dei digitali, che semplicemente replicavano i dati rimossi dalle allocazioni
precedenti, senza tuttavia occupare uno spazio maggiore.
Come il SEAL si trasmise all’uomo, resta però un mistero. Il più
nefando che l’Uomo ebbe la sfortuna di incontrare.
Aaran Bolqvuist sbuffò una voluta di fumo convulsa.
Che si fottessero. Che se ne andassero, la coda fra le gambe. Il
SEAL era una brutta bestia, attaccava a livello genetico, qualcosa di
mai visto. Ma nemmeno Kalì in persona, con un M60 tenuto in ognuna delle molte braccia, gli avrebbe fatto muovere il culo dal suo
studio di Roma. Con tutta la fatica che aveva fatto per arrivarci e i
piedi che aveva pestato e i culi che aveva baciato.
Aaran Bolqvuist morì solo qualche mese dopo, di SEAL, come sembrava succedere a tutti quelli che non si digitalizzavano nel web.
Ma quel giorno aveva ancora abbastanza boria e potere e orgoglio
da infischiarsene del richiamo medico e, con i piedi sulla scrivania,
sfogliava una rivista. Un allegato, una qualche ristampa anastatica
di una qualche rivista di inizio millennio.
Senza nemmeno pensarci concatenò le prime parole della pagina,
e poi lesse:
ELECTRONIC ENTERTAINMENT EXPO, 2011
Scrivere una preview è un po’ come giocare d’azzardo: mai fidarsi
delle dichiarazioni, delle prime impressioni, di ciò che appare manifesto.
Il volume d’affari spinge programmatori e produttori a convogliare
tutto il loro sforzo nella presentazione di videogiochi che spesso,
poi, si rivelano totali delusioni ma che comunque riescono a racimolare una quantità sufficiente di scaricamenti, a causa dell’hype creato.
Ring è tornato da centinaia di fiere, dopo migliaia di interviste altisonanti e con in saccoccia milioni di rumorosi press kit.
Ring è più diffidente di un gatto selvatico, quando sente pronunciare la parola ‘rivoluzione’.
Ma ogni tanto dei rischi bisogna saperseli prendere.
Chi scrive ricorda ancora il piacere della scommessa vinta con
Reporter, e prima di lui con Blood on the Tracks e con Fahrenheit.
Sapete anche, cari lettori, che chi scrive non scommette mai, se
non si sente assolutamente sicuro di fare la cosa giusta.
49
:STORY-TELLING:
Ring#11
E quindi si: a tre di distanza da Reporter, Ring ha l’impressione di
percepire nuovamente l’atmosfera elettrica della rivoluzione.
Lo stand non era dei più grandi, in questo E3 dominato dalla sfida
tra la piattaforma proposta dall’asse Mac/Sony e l’agguerrita DigiTouch della Repubblica Popolare Cinese.
Il videogioco in questione si chiama The World, ed è presentato
da un team scozzese, i Dirty Days. La compagnia in questione conta
solo 19 associati, e ha sede a Glasgow.
Di passaggio verso prodotti e palchi più ricchi e luminosi, Ring lancia un’occhiata di striscio verso il Dirty Stand, e nota la scritta RealLife MMORPG.
Ring sbuffa, si mette le mani in tasca e si appresta a tirare dritto:
Ring non ne può più di MMORPG, stantii parchi giochi interessati da
evoluzioni meramente tecniche e numeriche, e gestiti da giostrai estremamente rumorosi nel ribadire pregi esclusivi che di esclusivo
hanno davvero poco
Ma poi Ring rimane fermo, con la coda dell’occhio sempre puntata
sul Dirty Stand: i Dirty Days, nota Ring, se ne stanno fermi.
Non schiamazzano, non infastidiscono i passanti.
Se ne stanno seduti tranquilli, con un sorriso a metà tra l’idiota e il
diabolico.
Hanno un’aria da ‘un giorno tutto il mondo vedrà…’.
Ormai colma di curiosità verso mammiferi di tale interesse scientifico, Ring si avvicina ai videoschermi di The World.
Nota elementi di ambientazione urbana.
Nota un uso quasi amatoriale del motore di Quake4 su licenza.
Ring sa cosa il nostro lettore starà pensando; ed è d’accordo. Sì,
uno sfruttamento amatoriale di un motore già di per sé vetusto non
è un buon biglietto da visita nell’era del raggiunto fotorealismo.
Ring nota anche la scarsa quantità di NPG rappresentati.
E nota subito un microfono, appoggiato accanto a uno degli
schermi al plasma.
«What’s the microphone for? » chiede Ring al Dirty Day più vicino.
«Give it a try…» risponde l’individuo con fare vermilinguoso, sguardo alla Jack Nicholson.
«E che cazzo di risposta sarebbe?» mormora in italiano strettissimo Ring, mentre, infastidita, da le spalle allo spocchioso
Verminicholson.
«Mi scusi, anche lei parla italiano?»
…
Ring compie una rivoluzione di 180° in senso orario, per procedere
alle prime stime della figura di merda rimediata.
Ma poi si accorge che Verminicholson non sta guardando, parla
invece al telefonino con qualcuno, in scozzese. Non può aver pronunciato quelle parole.
Ring non capisce.
«Non desidera parlare con me? Beh, non importa, scusi il disturbo.
Buona giornata!»
…
Ring compie una rivoluzione di 90° in senso antiorario, fissando
ora lo schermo di The World. Un signore di circa 50 anni, un po’
stempiato, ci guarda per una frazione di secondo, poi si gira e comincia a passeggiare sul marciapiede.
Con un lungo, profondo brivido che le attraversa la schiena, Ring,
afferra il controller e si avvicina al soggetto.
Il passante sembra accorgersi del movimento e si gira con aria interrogativa.
Ring, assuefatta a secolari abitudini, preme il tasto azione, tentando un’interazione.
Un uppercut stende il posato signore, mentre il Doh! di Ring rieccheggia nel centro conferenze di los Angeles.
«Ma è impazzito? Qualcuno mi aiuti!» prende a gridare il posato
signore.
50
:STORY-TELLING:
Ring#11
Un vigile accorre dalla strada propinqua, mentre Ring, rendendosi
per la prima volta conto di avere un microfono in mano, comincia a
capire il da farsi.
«Mi scusi, non volevo!» tenta Ring senza troppa convinzione.
«Ma come non voleva! Mi ha steso!» protesta il posato signore.
«What’s going on?» tuona il vigile, sorprendentemente simile a
Bud Spencer.
«Non l’ho fatto di proposito! Ah, sorry…it wasn’t my intention! I’ve
just…»
Un secondo Doh!, più interiore e raccolto, rieccheggia nel centro
conferenze di Los Angeles. Come spiegare alla creatura digitale
l’errore nell’utilizzo del controller?
«Stay quiet and follow me. The police station’s just behind the corner. Don’t try anything odd…» prosegue il sempre più innervosito
vigile Spencer, mentre il signore sembra ancora incapace di metabolizzare l’accaduto.
Ma Ring non cede. Ring, tra tutte le riviste presenti all’E3, ha una
particolarità. È una rivista italiana.
«Signore, la prego! Convinca questo vigile a non denunciarmi, a
non farmi del male. L’ho colpita, guardi, non so nemmeno io perché!
Poveraccio sono! Malato diventato! Mio figlio, piccinino, è morto
l’altro ieri in culla. Mia moglie è impazzita, e lavoro per pagarle le
cure. Manco io so da dove ripartire! È colpa di me, individuale tapino, o è il mondo che è spietato, e non lascia respirare un cuore sensibile?! Io non sono cattivo! Mi disegnano così!»
Finito il piagnisteo, Ring si accorge di essere circondato dai rappresentanti di almeno altre 20 testate giornalistiche. Nessuno di loro sa
ancora se scoppiare a ridere o se chiamare il servizio d’ordine.
Nel videoschermo, il signore pare commuoversi, e fa cenno a Bud
Spencer di lasciar perdere.
«Stia attento, poteva farmi davvero male» mormora prima di riprendere la sua passeggiata. La videoludovita cittadina riprende indisturbata.
Ring si volta lentamente, di 90°, stavolta in senso antiorario.
Verminicholson la sta guardando, con un’espressione che dice
«Puoi chiamarmi…Joker.»
Ring ricambia elevando un sopracciglio ad altezza inumana, quasi
ancelottiana.
Ring poi compie un’ampia panoramica oculare sulla massa umana
che ormai popola il Dirty Stand. Lo massa umana, silenziosa ma
concupiscente, sta guardando Ring, con un’espressione da «fai pure, ma sbrigati che poi tocca a noi.»
Ed è così che Ring, coltello tra i denti, si avventa su Verminicholson con l’atavico obbiettivo di ogni giornalista: strappare un servizio
su un evento rivoluzionario.
Servizio che troverete a pagina 14 di questo stesso numero di
Ring.
Sanguine 01: Carnivorous Wind
di Nemesis Divina
14/12/2174
03:34 a.m.
PRIMA:
«La sai una cosa? Fai schifo. Tu, piccolo uomo… sei viscido. Dì la verità, tuo padre è italiano? Li detesto, sono dei sudici… oppure hai sangue
negro nelle vene, uh? Dì un po’, non sarai mica ebreo? O arabo? Peggio, americano?! Irlandese!! Oh, l’importante è che tu non sia una
qualche specie di frocio… flaccidi molluschi.»
51
:STORY-TELLING:
Ring#11
No, Fabian Himmler non era una cattiva persona, solo che quando
apriva bocca cercava di discriminare quante più categorie umane possibile. Non che i rimasti al Mondo (quello Vero) meritassero maggior
considerazione...
Fabian era un tipo… come dire… originale.
Se ne stava là, seduto su un trono ghigeriano, pantaloni in lattex nero aderenti alle cosce, petto nudo e due bretelle che gli rigavano il torso. La pelle era sbiancata chirurgicamente, tanto che l’epidermide appariva lattiginosa e si scorgevano al di sotto i tortuosi condotti sanguigni. Aveva i capelli d’un giallo accesso, pettinati indietro e un naso
nobilmente adunco incorniciato da un viso rigoroso, eppur bello. Gli
occhi erano modificati, con iride bianca e cornea d’un nero opaco,
mentre lungo le braccia risaltavano gli impianti sottocutanei: biglie e
ganci di metallo innestati sotto la pelle, per dare luogo a «protuberanze esteticamente rilevanti», avrebbe detto lui.
Il periodo in cui il Post_Gothik prese piede, nessuno se lo ricorda più.
Quando in molti, dopo il SEAL, migrarono verso i confini digitali di Nu
Gea, la feccia venne a galla e i Goth non erano nemmeno l’aspetto
peggiore del Mondo. Idolatri della carne, anticonformisti, nichilisti, edonisti…
Due Cagne si baciavano ai piedi di Fabian.
Cosa spingesse un umano a scendere alla condizione di Cane, neanche Will Padner riusciva a spiegarselo. Dai bracciali che Fabian indossava, dipartivano sottili catene dorate che terminavano appese ai collari di due ragazze, nude, con gli arti mutilati all’altezza di gomiti e ginocchia. Will, che pure non era esempio di virtù, stentava ad accettare
una tale sottomissione volontaria. Ma questo era un posto strano, un
posto di mostri. E dove andare sennò, per comprare mostruosità?
Fabian trasse dal fianco una sottile custodia, di pochi centimetri di
lato, e la porse sorridendo a Will.
«Digitale o digitalizzato?» chiese il ragazzo, assestando tremante gli
occhialini tondi.
«Digitale» sibilò Fabian.
«Eheh» ridacchiò nervoso «bene. Sono più… veri. Più sensibili…»
Fabian lo guardava dall’alto in basso, con sguardo furioso ed un sottile elettrico divertimento in fondo agli occhi. Poi sorrise tagliente.
«Dammi i soldi, vattene e divertiti. Ha dodici anni, fai del tuo peggio...»
Will prese il datapad dalla tasca e accreditò nervoso la somma pattuita, poi prese la custodia con il disco e si allontanò dopo un cenno di
saluto e uno sguardo inquieto ad una delle Cagne, che mugugnava
languida.
«Will Padner! Tu sei uno schifoso pervertito e perirai nella fiamma!!»
gli giunse teatrale da dietro le spalle, ma era già oltre la soglia e non
esitò a richiudere la porta dietro di sè.
14/12/74
Ore 22:21 p.m
DOPO:
«Non lo so… non va niente bene.»
Passeggiava nervosamente, con la giacca in raso grigio. Una cravatta
nera sul campo chiaro della camicia, pantaloni stirati a puntino e un
orologio di pregio. Per quanto il mondo respirasse ormai una boccata
d’aria e due di merda, gli avvocati continuavano a vestirsi come ai bei
tempi. Se mai ce ne furono; nessuno comunque li ricordava… questo
era certo.
Joshua Spada si grattò il collo, poco sotto l’orecchio. Poi passò la
mano fra i capelli castani e ben pettinati. Mulinava nell’aria una cartella
porta-appunti mentre borbottava, annuiva e dissentiva fra sé. Poi diede una pacca alla cartella con il dorso della mano e con aria sconsolata
affondò nella sedia davanti a Will Padner.
52
:STORY-TELLING:
Ring#11
Will si massaggiava ambo le cosce… l’opera di ricostruzione dei tessuti era rapida e indolore ma lasciava un formicolio fastidioso. Una vetrata opaca nascondeva gli agenti di polizia mentre un neon diffondeva
luce artica nella stanza.
«Un digitale… non è un bell’affare. Lo sai questo, Will?» ma nessuno
rispose.
«Fosse stato un digitalizzato… lo sai. Qui le cose si dimenticano, il
Mondo non ha più memoria e a nessuno interessa d’averne. Ma Loro
ricordano. Tutto.» L’avvocato Spada si lasciò cadere verso il duro
schienale.
«Non dimenticano mai. Sei fottuto, ragazzo. Uno Snuffer fottuto.»
14/12/74
Ore 16:04 p.m.
DURANTE:
Fu un tonfo sordo, probabilmente diminuito da un insonorizzatore
Sydney-Hwang. La porta cedette di schianto. Will si ruotò rapido sulla
sedia, completamente nudo come ogni volta che “operava”, e non ebbe tempo nemmeno per maledire gli dèi. Uno schiocco rotondo si espanse per la stanza, piccola e zeppa di colonne di cianfrusaglie tecnologiche, poi la sua coscia destra gorgogliò.
Will vide il femore luccicante, rigato di rosso, mentre un quadricipite
penzolava molle, adagiandosi al pavimento. Il resto della coscia era finita sul tavolo con i suoi tre computer. Will si mosse d’istinto nel tentativo di cancellare i dati del programma e, girando sulla sedia, la rotula
esposta fece un lamento, poi cedette, lasciando cadere a terra la porzione inferiore della gamba.
«Schifoso…» le parole gli si strozzavano in gola, mentre il calcio del
fucile dell’agente Rico Schmidt affondava alla base della nuca di Will
Padner, mandandolo steso a terra.
«Rico, calmati…» impose il comandante Thorvald. «Chang, dai
un’occhiata a questa roba, guarda se è quello che cerchiamo. Rico, tu
allontanati… ho detto ALLONTANATI CAZZO!!»
Rico si ritrasse verso una finestra, dalla quale attinse l’aria fredda di
Berlino. Si levò il casco da incursione e si massaggiò il viso, disperato.
Will Padner guardava in su, mente un induttore gravitazionale veniva
puntato alla sua gamba sana. Sorrise all’agente che lo teneva sotto
mira, costatando come la propria erezione fosse ancora vistosa.
Rudolph Chang digitava veloce sulla tastiera, richiamando i dati nascosti e gli ultimi utilizzi del processore. Will era un ottimo programamtore e sapeva il fatto suo, ma aveva avuto solo pochi secondi e
non era riuscito ad attivare l’intera macro di copertura dati. Chang esultò e Will socchiuse gli occhi lasciandosi andare nel torpore della
sconfitta.
Chang portò alla bocca il microfono e chiese se ci fosse qualcuno nella stanza visualizzata a schermo. Silenzio. Poi una voce flebile rispose.
Una voce di bambina.
«Vieni avanti piccola, non avere paura. Siamo agenti della WOA, non
ti faremo del male. Vieni avanti, se esci possiamo uploadarti a Nu Gea
non appena troviamo un server disposto ad accoglierti, lì sarai al sicuro. Lì starai bene…»
E si fece avanti.
Chang si ritrasse d’istinto, sulla sedia.
Ad uno degli agenti vicino allo schermo scivolò l’arma di mano mentre il comandante strinse le labbra, poi si voltò poi verso il sottoposto
con il graviton e annuì senza parlare.
Uno schiocco pieno si produsse e muscoli e ossa si sparpagliarono
per la stanza, mentre Will urlava.
Rico, con la città morta che si stendeva fino all’orizzonte, osservava
fra i singhiozzi le proprie lacrime, che precipitavano giù, verso l’inferno
in strada.
53
:STORY-TELLING:
Ring#11
Davide Return!!!1
(Davide Reborn parte 2 di 2)
[Il Davide Videoludico UNDICI]
di Sator Egidio
«Nemesis posso dividere in due parti il racconto del Davide
Videoludico che sto scrivendo? Ho una mezza intenzione di
portare la seconda parte al festival di Cannes…»
Sator Egidio
NELL’EPISODIO PRECEDENTE…
Un insolitamente lucido Davide Videoludico maleinterpreta un versetto del Ring
Forum e decide di piantarla coi videogiochi. PER SEMPRE! Con l’abnegazione di
un kamikaze della NATO, il Davide produce scatoloni su scatoloni di paccottiglia
videoludovoluminosa e li regala ai vicini, una famiglia di albanesi. Poi, sentendosi improvvisamente svuotato, prende a vagare per la notturna città. Durante
questo free roaming, il Davide viene raggiunto da una coppia di picciotti dalle
non ottime intenzioni. Costoro lo conducono dal boss della Mafia-Yakuza, il quale giustamente intende assassinare il Davide reo di essersi unsubscritto da Xbox
Live. Sfruttando un punto debole dei siciliani, il Davide fugge, ma è presto inseguito da una masnada di mafiosi. Maximo cum sedere, egli trova rifugio nel negozio del Bitte, ma un picciotto con un buon algoritmo di pathfinding riesce a
seguirlo fino a ivi. Scoppia tra i due una rissa molto poco cattolica, interrotta
dal Bitte stesso e dal calcio del suo fucile. L’alquanto dinamico duo si risveglia
nel sottoscala di Bitpower e si scopre legato a delle sedie discretamente ergonomiche. Il Bitte espone i suoi motivi di risentimento verso i compari di sventura, e alla fine le ragioni paiono tutte dalla sua; poi seleziona il picciotto per intrattenere… pubbliche relazioni. Mentre i due si conoscono meglio, il Davide riesce a fuggire per meriti assolutamente non suoi, e correndo correndo correndo
raggiunge la piazza senza nome della città senza nome (dove anche i migliori
tassisti gettano la spugna). Quando tutto sembra andare per il meglio, una
Honda S2000 si mette sulle tracce davidee, e fa per investire il Nostro, incurante del sistema di danneggiamento…
Il brum brum della Honda, coadiuvato dal boom boom della marmitta, macinava implacabile i suoi giri al minuto in direzione di un imbe(ci)lle Davide Videoludico. Il quale aveva ormai accettato l’idea di cessare la propria esistenza di lì a
poco. Presto avrebbe abbandonato questa valle di mafie e commercianti di sesso per andare in un posto migliore: a cavalcare rigogliosi canguri lungo le saltellanti steppe dei Campi Elisi. Ma giusto a ridosso dell’inevitabile impatto, un
paracadute sortì fuori dal popò della Honda e verosimili routine fisiche arrestarono l’automobile nipponica a poche unità di misura dagli umidicci pantaloni del
volenteroso Davide.
Niente Campi Elisi per il Nostro. Per adesso.
Si udì un click mefistofelico (per quanto mefistofelico possa essere un click) e
la portiera si aprì. Un fumo rosso demoniaco (per quanto demoniaco possa essere un fumo rosso) si propagò dall’interno dell’auto, poi, dopo pochi istanti di
suspense, una figura si disegnò stilosamente fuor dall’abitacolo.
E il Davide cadde in ginocchio.
«Oh. Mio. Dio.» fece con le lagrime avviluppanti i buchi per li occhi. «Kazunori Yamauchi!»
«Ma icché dici, viso di curignolo?» commentò un extracomunitario lì nelle vicinanze impegnato nell’atto di scassinare un parchimetro (mostrando tra l’altro
una notevole padronanza dello slang del basso grossetano). «Quello è Simone
Crosignani!»
«Oh. Mio. Dio. Il_Simon!» si corresse Il_Davide che, camminando come Voldo, si avvicinò al megaredattore naturale con il proposito di rinnovare il Sacro
Rito della Lavanda dei Piedi.
Apriamo una parente.
CONCERNING IL SACRO RITO DELLA LAVANDA DEI PIEDI
Fu questa una manifestazione che si ritagliò il suo decimo di secondo di notorietà verso il finire degli anni ’90. Le cronache dell’epoca raccontano di un sogget-
54
:STORY-TELLING:
Ring#11
to, convenzionalmente chiamato “il Davide”, che durante l’annuale manifestazione SMAU si esibiva in un rituale di passaggio appunto detto della Lavanda dei
Piedi. A vedersi i peduli nettati era ogni anno la personalità videoludica maggiormente di spicco presente alla fiera.
Iniziato nel 1996 con Marco Auletta, il Sacro Rito della Lavanda dei Piedi proseguì l’anno successivo ai danni di Rhona Mitre – la prima Lara Croft – che per
l’occasione evitò la doccia nelle quattordici settimane antecedenti il rito. Molti
individuano in questo il motivo principale per cui Eidos la licenziò.
Nel 1998 i piedi accuratamente insalivati furono quelli di Stefano, PR di Ubi
Soft. Nel 1999 toccò invece a Francesco Carlà, mentre nel 2000 il rituale raggiunse il suo momento di massimo fulgore con la politura pedestre di un tipo
vagamente rassomigliante a Peter Molyneux.
Poi, ahinoi, Il Davide prese la mononucleosi, e le autorità decisero di sospendere la rassegna fino a data da definirsi. Il Nostro non affrontò sportivamente la
cosa, e tentò di intrufolarsi nella manifestazione successiva indossando un completino stealth da tartaruga ningia. Fu trovato settimane dopo il termine della
fiera con il guscio incastrato in un cunicolo dell’impianto d’areazione. In condizioni di grave denutrizione. Per questo motivo una sentenza della Corte di Cassazione del 2002 “impone al soggetto Videoludico Davide di tenersi ad una distanza di almeno duecentocinquanta chilometri da Milano Fiera e da qualsivoglia luogo di aggregazione a fini di promozione videoludico-gastronomica”.
Chiudiamo una parente.
«Oh, capitano mio capitano!» recitò in ginocchio Il Davide al suo capitano Crosignani. «Sono tuo fan di lungherrima data! Conobbiti nelle pagine della rivista
dal nome onomatopeico e seguibbiti dappertuttissimamente! Ah, quanto appassionante fu il tuo editoriale contro i giocatori hardcore e che invidia per i tuoi
racconti da snowboarder alticcio!»
Come il lettore avrà intuito, al_Davide era partito il proverbiale boccino, ed
era già tutto salivante sui sandali simoniaci quando si ricordò della decisione
presa durante la scorsa puntata.
«Ehi aspetta un attimo. Mi sono ricordato della decisione presa durante la
scorsa puntata. Io coi videogiochi ho chiuso, e non ho intenzione di farmi convincere né da te, né dalla Mafia né dal Bitte e né tantomeno da Antonella Clerici
(questo lo dico perché spero nel prossimo incontro)».
«Ero al corrente di questa tua decisione» commentò il Simon con voce giovannipaolosecondica. «Il reparto abbonamenti di Videogiochi mi ha segnalato
pochi minuti or sono la tua disdetta. Devo dire che sono rimasto molto deluso.
Deluso da te, Davide, perché è per persone come te che abbiamo creato Videogiochi e le sue cover in rilievo. Non puoi neanche immaginare lo sconforto che
mi ha preso quando ho saputo che lasciavi il giro. E per giunta senza farne parola con me, che ti ho pure dimostrato amicizia accettando i tuoi consigli sulle
copertine numero tre e quattro. Ora, a causa di questa tua disdetta, siamo costretti a diventare bimestrali. Ti rendi o non ti rendi conto delle conseg…»
«LE FIRME!» fece di botto il Davide con voce secolare e dito manzonianamente puntato in direzione crosignanica. «Non avete voluto inserire le firme in Videogiochi? Adesso ne pagate le conseguenze! Dovete capire che voi giornalisti
videoludici ci appartenete! Noi videogiocatori non abbiamo una personalità personale, e siamo troppo presi dagli attacchi epilettici per sviluppare uno spirto
critico videolucido (sic). È per questo che viviamo in funzione di gente come
voi. Abbiamo bisogno di te, Raffo, PBS, Auletta, Gallarini, Bittanti, Bonaventura
di Bello, Silvestri, Ualone, Avecone, Ravanelli, i fratelli Ravetto, Berzi, Maderna,
Calcaterra, Minini Saldini, Ziello, Bovabyte, Il Pastore, Il Pupazzo, Il Paglianti,
Albini, Fulco, Cangialosi, Cinquemani, Teokrazia!
«Questa è gente che scrive sulle riviste, quindi È MIGLIORE di noi stupidi giocatori che giochiamo senza essere pagati milioni per farlo! È solo grazie a questa gente che noi giocatori capiamo che PES è meglio di FIFA o che i Tomb Raider sono tutti uguali. Ecco perché abbiamo il sacrosanto diritto di amarvi, di
scrivervi lettere anonime, di dedicarvi messaggi ricolmi di piaggeria su forum
tipo TFP, oppure carichi d’odio come su ICC. Perché abbiamo anche il diritto di
odiarvi, di invidiare il vostro status privilegiato e i vostri viaggi a Los Angeles.
«Con la decisione di omettere le firme ci avete tolto questo sacrosanto diritto
all’adorazione. Avete rifiutato il vostro rango di neo-divinità pagane! Per me,
quello è stato l’inizio della fine. Ma se la mia disaffezione è iniziata da codella
vostra inusitata scelta, poi si è propagata, e ormai non ne ho più per niente e
nessuno. Odio questo ambiente così violento, così sessualmente esplicito, così
volgarmente privo di cultura, così lontano dai romanzieri russi del secolo scorso. Quindi vaffanculo tutto. Sì, vaffanculo anche tu» sentenziò infine il Davide
indicando non Il Simon, come potevasi pensare, bensì il se stesso riflesso nella
pozzanghera ai suoi piedi. (Un geniale richiamo all’episodio precedente, tra l’altro.)
55
:STORY-TELLING:
Ring#11
«Affanculo io? Vacci tu!» rispose incredibilmente il Davide Videoludico riflesso
nella pozzanghera. «Tu e tutta questa merda di settore dei videogames e chi ci
sguazza. No, no, no, no, no. In culo ai PCisti, che fanno finta di divertirsi a giocare a l’ennesimo effepiesse premendo F5 prima di svoltare ogni angolo. Smettetela, tanto lo sanno tutti che l’unica cosa che vi fa godere è aggiornare i componenti ogni quarto d’ora per fare il top-score al 3D Mark. In culo ai consollari,
che non sanno nemmeno eseguire un doppio click su setup.exe e addirittura se
ne vantano. Giocate pure coi vostri marii e i vostri granturismi, ma scordatevi i
mod, scordatevi le skin aggiornabili, scordatevi i giochi pornografici. Rimarrete
sfigati per tutta la vita! In culo ai sonyani e a tutti i vostri giochi smasterizzati.
Quanto vi piace vedere la pleistescio vendere milioni e regalare miliardi a una
multinazione del cazzo e alla criminalità organizzata. In culo ai nintendari, a
Mario, a Peach, a Yoshi e ai centocinquantamila Pokemon. Acchiappateli tutti e
mandateli al rogo, insieme ai rincoglioniti che ci giocano. Ragazzi, crescete una
volta per tutte! In culo agli xboxari, che smanettano per leggere divx su una
console che non è altro che un PC travestito creato da un travestito come Guglielmo Cancelli, che dopo aver rovinato il mercato del software, vuole affondare le sue unte manacce nei videogames. Fateci caso xboxari: siete tutti brutti.
Ci sarà un motivo!
«In culo ai retrogamers, che rompono coi loro giochi vecchi del cazzo e cercano di convincerci che quegli ammassi informi di pixel con tre colori in croce
sono migliori dei giochi di oggi. Si stava meglio quando si stava peggio, eh? E
allora andateci nel passato. Mangiatevi un burrito vecchio di sei anni, così tornerete indietro nel tempo, e quando sarete nel passato, vedete di restarci! In
culo agli online players. Guardatevi: vi riunite in clan per giocare a prodotti reazionari come America’s Army, e mentre combattete, vi date pure del lei in cuffia. Siete da ricovero! E in culo pure a voi cheaters. Ce la mettete tutta per rovinare le partite, per ottenere cosa? La vostra piccola vittoria domestica contro
il sistema? Ma andate a farvi massacrare dai celerini! In culo a quelli che giocano coi simulatori d’appuntamento importati dal Giappone. Siete per caso giapponesi? E allora smettetela di giocare a prodotti che non sono fatti per voi e
trovatevi una donna vera! In culo ai pirati. Avete fatto fallire software house
come Cinemaware, che pubblicava giochi graficamente fichissimi e quasi completamente privi d’interazione, precorrendo quindi i tempi.
«In culo alle software house che pretendono il Nove a giochi vergognosi come
E**** T** M***** minacciando altrimenti boicottaggi, e in culo alle riviste che
le accontentano. State disonorando la memoria del signor Pulitzer! In culo a
Edge, la madre dei magazine snob del cazzo che sparano voti a casaccio perché
così fanno tendenza. Quattro a ZOE2? Ma andate a lavorare! In culo a Famitsu
e ai suoi redattori rincoglioniti. Non vedete che il Giappone è economicamente
con le pezze al culo? Vi decidete o no a cercare un lavoro serio e fare quindi
qualcosa per aiutare il vostro Paese? In culo a Nextshame e ai suoi articoli scritti da cani. Le virgole le hanno inventate 500 anni fa. È tempo di imparare come
si usano! E la recensione di The Hobbit l’avete scritta o l’avete defecata? In culo
a tutte le decine di siti di videogiochi, tutti uguali, tutti fatti con PHP Nuke, tutti
pieni di redattori incapaci che bramano i giochini gratis, copiano le recensioni
dai siti stranieri, non hanno il minimo gusto videoludico e giudicano in base alla
loro console preferita. In culo a tutti quelli che scrivono “videoludico”. Chi vi
credete di essere, il fottuto Marshal McLuhan? Cercate di collegare il cervello
con il culo per una volta e rendetevi conto che non siete dei massmediologi del
cazzo!
«In culo a Ring e ai suoi atteggiamenti da dito in culo dell’editoria. Amici, non
ci crede nessuno a questa cosa. Smettete di fare gli intellettualini usciti dal
Dams, piantatela di mettere gli uni in fondo ai punti esclamativi e vedete di non
adoperare parole che non conoscete, né di inventarne di nuove. Non avete visto
quante pagine ha già il dizionario? Siete la danzante merda del settore. Prima
ve ne renderete conto, meglio sarà per voi.
«Ma soprattutto in culo a Osama Bin Laden, a Al Qaeda e a quei cavernicoli
retrogradi dei fondamentalisti di tutto il mondo: avete rovinato il finale di
MGS2! Dovete crepare bastonati da settanta vergini stufe di essere maltrattate
da sudici stronzi come voi!»
David e Simon si trovarono entrambi esterrefatti nell’osservare esterrefatti
questa pozzanghera. Non ne avevano mai conosciuta una così polemica. Probabilmente era una sorta di pozzanghera telepate che leggeva il subconscio della
gente che vi si rifletteva e tramutava in panda chiunque vi si tuffasse.
«Ehm, scusate. Credo di avervi interrotto» disse la pozzanghera per porre
termine all’imbarazzante silenzio venutosi a creare. «Quando mi faccio prendere la mano tendo a diventare oltremodo invadente. Vi chiedo ancora perdono.»
Sia il Davide che il Simon accettarono di buon grado le scuse della pozzanghera, e si trovarono tacitamente d’accordo nel dimenticare il di lei sproloquio.
Cosa che dovreste fare anche voi lettori.
56
:STORY-TELLING:
Ring#11
Il Simon stava per riprendere in mano il copione quando notò delle onde concentriche prodursi nella un tempo ciarliera pozza d’acqua. Qualcosa fece TUTUM CLANG!
E poi lo fece un’altra volta.
E poi un’altra volta ancora.
E così via discorrendo.
«Che cos’è questo suono come di passi metallici?» chiese un Davide poco avvezzo ai rumori non prodotti dal proprio corpo.
TU-TUM CLANG!
«Non ci posso credere, lo hanno messo in funzione. Pazzi, pazzi furiosi!»
TU-TUM CLANG!
«Voglio subito sapere il soggetto e il complemento oggetto della tua frase!»
TU-TUM CLANG!
«L’Ordigno Fine di Mondo: Il Metal Gear Turiddu! Si tratta di un terribile progetto bellico sviluppato in gran segreto dal NA.P.S. Team per conto della…»
Il Simon si interruppe.
Seguì un intensissimo TU-TUM CLANG.
Zoom sui suoi occhi sbarrati.
«Per conto di chi?» gridò isterico il Davide strattonando il Simon per la collana in oro massiccio. «Mi serve la fine dell’aneddoto!»
Ma il Simon era ormai completamente uscito dal personaggio. Grazie ad una
counter, si divincolò dalla presa davidea, poi indietreggiando celermente disse:
«Be’ allora io qui avrei finito. Ah, e non ti porto nessunissimo rancore per quella
cosa di Videogiochi, caro Davide, anzi, ti ufficio l’estrema unz… ti rinnovo volentieri la mia amicizia. Chissà: forse dalla bimestralità nascerà qualcosa di buono.
Cerchiamo di rimanere in contatto, okay?» Poi il Simon si allontanò di gran carriera dalla piazza senza nome, trovando rifugio nei pressi dello scassinatore extracomunitario poch’anzi intervenuto, con il quale si intrattenne a ragionare di
musica rap e delle differenze stilistiche tra east coast e west coast, old school e
new school. Una conversazione vieppiù dottissima di cui forse un giorno vi metteremo a parte.
I TU-TUM CLANG erano oramai sì forti e sì vicini che le budella videoludiche
del Davide Videoludico sobbalzavano a ritmo dance. Si udì a quel punto un gran
fragore, e gli edifici che davano su un lato della piazza andarono a terra come
le mutande di una squillo, che se l’undici settembre fosse stato in Italia col cavolo che avremmo potuto raccontare questa scena, anzi, molto probabilmente
saremmo subito passati al paragrafo in cui il Nemesis canta la sua canzone videoludica. Ma stiamo divagando pericolosamente e spoilerando altresì.
Ritorniamo a bomba. Annunciato dal Simon, il Metal Gear Turiddu si palesò
sulla piazza senza nome dopo aver fatto ceneri di alcuni bellissimi palazzi neonascimentali e un cartellone della birra moretti. Il Davide si trovò al cospetto di
questa potente arma bellica finanziata forse dai fondi della P2, di Gladio, dello
stalliere Mangano e… DELUSIONE!
Il Metal Gear Turiddu, l’Ordigno Fine di Mondo, era una tremenda schifezza!
Oltre a presentare un mech design più retrogrado dei robotti di Go Nagai,
MGT era stato assemblato con materiali di scarto di materiali di scarto. Copertoni di TIR impilati andavano a formare due gambe tozze poco saldamente appiccicate a due autoscontro del luna park, facenti le veci dei piedi. Il TU-TUM
CLANG non era prodotto da queste innocue macchinine, ma veniva bensì emulato da un subwoofer rubato dal Festival de L’Unità di Asciano Pisano e posto
all’altezza dell’inguine. Il busto del robot era stato messo insieme alla bellemmeglio unendo pezzi di cucina Berloni con il davanti di una 127, il tutto abbellito
da decorazioni natalizie di qualche lustro addietro. Due braccia idrauliche sottratte a scavatrici della ditta “Calabrese” permettevano sganassoni dalla direzione prevedibile nonché la possibilità di creare le fondamenta di un edificio in
poche ore. La testa non c’era, o meglio, al posto della testa si trovava il sedile
di un DC-9 dell’Alitalia, sopra il quale stazionava nientepopodimeno che… Be’,
Salvatore “Vlad” Takeda, il Parrino della Mafia-Yakuza, in un tentativo poco velato di riciclaggio di boss.
Il Davide si ritrovò al cospetto della sua nemesi della puntata precedente.
Adesso è veramente la fine, pensò. Prestò deraperò con la mia lambretta
lungo le desertiche pinete dei Campi Elisi.
«Bella merda il tuo mech!» chiosò una voce da in cima il campanile della
chiesa senza nome, proprio di fronte all’innominabile municipio. «D’altronde che
altro potevamo aspettarci da quei terroni dei NA.P.S.?»
«Chi osò chiosare una simil cosa?» fece il Davide, vieppiù ammirato da sittanta sfrontatezza. «Se è il Bittanti devo ricordarmi di chiedergli il significato di
cronotopo.»
«Cu fu a dicere accussì?» gridò adirato il Parrino. «Cu c’este drassupra?
Scenni drabbascio figghiebbottana!»
«Ohi ohi. Qui si iniziano a offendere le madri: significa che stiamo entrando in
un climax» commentò il Davide con l’aria di chi la sa lunga.
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:STORY-TELLING:
Ring#11
I fari della 127, posti all’altezza dei capezzoli del Metal Gear Turiddu, illuminarono il cucuzzolo del campanile rivelando una figura nera impermeabilizzata.
Questa approfittò del fatto che noi tutti la stavamo guardando per spiccare un
doppio salto, a cui fece seguire un numero inquantificabile di capriole. Poi
l’uomo in nero prese a discendere a corsa il muro del campanile fino a giungere
sulla piazza senza nome, esattamente tra il Davide e il Turiddu.
Il Davide inforcò gli occhiali a fondo di bottiglia di cocacola e osservò tale raminga figura…
La lunga chioma, i pantaloni in pelle, la camicia viola, gli stivali con gli speroni, il medaglione a forma di Playstation, gli orecchini raffiguranti Jak & Daxter.
«Ma tu sei… sei… il Negoziatore… MARCELLO CANGIALOSI!» declamò un Davide
in estasi e non senza la saliva che già principiava a fremere altresì. La figura
misteriosa, alle parole del Davide, si tolse il neropastrano, rivelando due fasce
di pelle poste sugli avambracci. Una recava la scritta “NEMESIS”. L’altra concludeva con un “DIVINA”.
«Marcello, stai facendo il cosplayer di Nemesis Divina?»
«No, io sono il signore Dio tuo. Io ti ho creato. Io sono il tuo Architetto.»
«Eh già, quella è proprio la risposta del Nemesis per tutto!» rise il Davide.
«Voglio farti i miei complimenti per il tuo articolo su Il Negoziatore, caro Marcello. Condivido ogni parola: è proprio un’ingiustizia che il nome di Peter Jackson
compaia sulla locandina di Bad Taste…»
«Tu, Nemesisse, picché stai ccà? Chisto non este lo territorio tuo. Risponnimi!» disse il Parrino che nel mentre era sceso dal MGT e si era avvicinato al
Nemesis per un tremendo faccia a faccia.
«Quest’uomo mi appartiene» rispose il Nemesis in dotta citazione bramstokeriana, «pertanto ti sollecito a non arrecare lui danno alcuno.»
«Chisto impussibbile è. ‘U picciotteddru mancò de rispetto a Microsoft, e pe’
chisto merita di murire. Nienti di personale: ieo te rispetto, Nemesisse, ma una
quistione di bisinisse è.»
«Il rispetto è assolutamente reciproco, ma ho paura che la Mafia dovrà riconsiderare le sue priorità affaristiche. Ché il Davide non si tocca.»
«Nemesisse, ieo nun vulìa de sciarriarmi co’ tia, ma este mio dovere avvisarriti che assai periculoso pozzo diventari…»
«Caro Parrino, lei non mi spaventa per nulla.»
«Male faciste a dicere accussì. Tu non canusci lo putere mio e de lu Metal
Ghiar.»
«Non lo conosco e non m’importa. Vede Parrino, a me basta sapere che lei è
un boss della malavita. E come tutti i boss, può sembrare inizialmente imbattibile, ma mi dia il tempo di memorizzare i suoi due o tre pattern e infilerò la sua
colonna vertebrale su per il suo colon anale mentre mi gratto lo scroto con il
braccio del merdal gear.»
Senza rispondere il Parrino, che evidentemente controllava il magnetismo,
lievitò in sella al Metal Gear Turiddu. Inserì la chiavetta e fece per rimetterlo in
moto ma… Niente! Riprovò ancora, poi ancora, poi tirò l’aria e fece pressione
sul pedale… Ancora niente.
«Non fare così che lo ingolfi» si premurò di dire il Davide, «l’hai messa la miscela al duepercento?»
Il Nemesis si diresse verso il Parrino per eseguire una stanca fatality.
«Statti fermo Nemesisse, che ancora vinto non sugno… Picciotto Portaborse,
ieo scelgo a tiaaa!» E così profferendo il Parrino scagliò una pokeball davanti al
Nemesis, dalla quale si materializzò il Picciotto Portaborse, già incontrato di
sfuggita al porto. Costui aveva lineamenti vagamente oriental-partenopei e
un’espressione a metà strada tra uno shibito e un promoter di telemarketing.
«Ishimori, accidi a chisto fitusu!»
Nemesis Divina strinse la mano destra a pugno, poi allungò il pollice e il mignolo ottenendo la forma di un cellulare, che si portò all’orecchio. «Gunny? Per
favore teletrasportami il ferro due.» E come per magia tra le mani del Nemesis
comparve una scimitarra lunga due metri.
Il Picciotto Portaborse non si scompose di fronte a questa apparizione, e tirò
fuori un coltellino dell’esercito svizzero.
Il Versus stava per principiare.
Ne seguì un duello fatto di movimenti talmente rapidi che non si capiva un
tubo, allora entrambi rallentarono i loro pattern. Il Picciotto Portaborse aveva
dalla sua la velocità e le skill di una Taki, mentre il Nemesis rispondeva con l’estetica di un Sigfried. Tuttavia ad un certo punto il lungochiomato si stufò di
questo combattimento accademico e disse: «Ehi, guarda ai tuoi piedi… le mutande di una sedicenne che non se la lava da sei settimane!»
Per una frazione di secondo il Picciotto Portaborse perse il suo vigile aplomb.
Il Nemesis approfittò di questa distrazione per mandare a segno due roteanti
colpi verticali di scimitarra, che mozzarono le braccia del Picciotto.
«Adesso non sarai più in grado di portare le borse. Questa è la punizione che
ti meriti. Ho parlato.»
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:STORY-TELLING:
Ring#11
In lacrime, il Picciotto Portaborse tornò all’interno della pokeball. «E adesso si
prepari al decesso, Parrino!» dichiarò il Nemesis. La lama puntata.
Ma il Parrino non si preparò per niente a decedere, anzi, emanò una grassa
risata.
«Marcello, guarda là… Un gatto nero… Stanno cambiando qualcosa!» gridò il
Davide che per la paura era montato sulle spalle del Nemesis già da alcuni minuti. E infatti una colonna di luci motorizzate fece ingresso nella piazza senza
nome. La Mafia-Yakuza era intervenuta in gran numero, con decine di picciotti a
bordo di pick-up, armati di forconi, picconi, pietre, catene e assi con ciodi. I
pick-up si disposero in circolo come le carovane del far west, individuando nel
sistema Davide-Nemesis il loro centro di massa. Poi scesero dalle auto e circondarono i Nostri ad armi slabbrate. Il quale Davide, oramai si era rassegnato alla
morte. A breve avrebbe guidato il suo scoreggiante ATV per la glabra tundra dei
Campi Elisi.
«Nun pienzavi mica che fusse facile accussì?» fece il Parrino.
«Certo che lo pensavo. Non sono mica il Bonora!»
«Chisti fussero ‘a mea guardia privata. Te presento li 88 picciotti!»
«…ottantasei ottantasette ottantotto. Marcello, sta dicendo la verità!» chiosò
il Davide.
«Parrino, io le giuro non capisco. Ha mobilitato la sua squadra d’elite solo per
un nerd che vuole smettere di videogiocare?» si interrogò il Nemesis.
«I videoggioghi me fatturano chiù dilla droga che venno alle star de lu cinematografo. Però te debbo confessari che stanco sugno de dover dipendere da
chisti laidi nicareddri che nun sapeno fari altro che starrese davanti a nu televisori e lamentarrese pi’ colpa di nu’gioghino picché nun este come vulevano iddri. Chista gente schifo me face, quinni, dopo lu Davide, i miei picciotti accideranno a tutti li hardecore ghemers della Terra. MUHAHAHAH!»
«Non vi conviene, non lo permetterete. Gli hardcore gamers vi servono per
sopravvivere.»
«Ci stanno livelli de sopravvivenza che simmo preparati ad accettari. Ieppoi
sono i casual ghemers chilli che mannano avanti lu bisinisse. Gli hardecore ghemers nun cuntano ‘na minchia…»
«Non permetterò mai che gli stronzi che giocano a FIFA abbiano il sopravvento sul mondo dei videogiochi!» e così dicendo, un Nemesis Divina in berserk roteò orizzontalmente la scimitarra facendo volare via le teste di quattro picciotti.
Gli 84 rimanenti gridarono una bestemmia in giapponese, assunsero all’unisono
la posizione del loto e si scagliarono in direzione nemesis-davidea. Più arrabbiato di barbalbero, il Nemesis mutilava arti con la sua scimitarra come un contadino falcia le messi, quindi scagliava nemici in aria con un calcio, capriolava
all’indietro sui picciotti che cercavano di attaccarlo alle spalle, tagliava loro lo
scalpo, saltava e in volo divideva in piccole parti eguali con una segreta tecnica
Nanto i picciotti precedentemente lanciati in aria, quindi tirava gli scalpi precedentemene raccolti contro i nemici sul suolo.
Awesome!
Passarono secondi di inraccontabile massacro, mentre il subwoofer del Metal
Gear Turiddu suonava un pezzo di Luciano Ligabue.
«NOOO BASTA!» gridò ad un certo punto il Davide ancora ancorato alle spalle
nemesiache. «Non ne posso più di questa carneficina! Mi sento impotente! Mi
sento come se stessi sprecando un’occasione! Perché? Che cos’è questa sensazione che ho dentro di me e che vuol venir fuori?»
Sia il Nemesis che i picciotti sopravviventi si fermarono.
«Credo di sapere cos’hai» disse il Nemesis con understatement dopo essersi
scrollato dalle spalle il suo fardello. «Davide, anche se tenti in tutti i modi di
negarlo, dentro di te TU sei un videogiocatore e, come tutti i videogiocatori,
senti il bisogno di interazione violenta. Nel profondo del tuo cuore tu desideri
uccidere orde di persone così come faccio io. Non possedendo però il physique
du role, devi accontentarti della carneficina simulata dei videogames. Sono molte le persone che nutrono le tue stesse pulsioni. È per questo che i Patriots
hanno inventato i videogiochi. Tu sei destinato a video(il)luderti.»
«Non è vero! Io non voglio ammazzare nessuno: desidero solo vivere una vita tranquilla, magari in campagna! Voglio allevare la terra e coltivare le bestie,
ecco cosa voglio fare…» Il Davide si lasciò cadere al suolo, poi frignò: «Vorrei
solo che il Videogioco non si fosse mai preso la mia vita.»
«Molti di quelli che vivono una vita normale meritano di videogiocare, e nessun videogiocatore merita una vita normale. Non spetta a gente come te decidere. Quello che potete fare è obbedire al meglio agli ordini che vi vengono imposti. Ma se me lo permetti vorrei provare a convincerti con una canzone.»
A queste parole il Metal Gear Turiddu iniziò a suonare una base melodica di
Tiziano Ferro, mentre il Simon, l’extracomunitario mariuolo, gli accorrenti Bitte
e il picciotto invertito, più i picciotti sopravvissuti degli 88, l’ex-portaborse e il
Parrino stesso iniziarono un balletto di accompagnamento a metà strada tra la
danza moderna, la polka e gli attacchi di diarrea.
Ma ascoltiamo la canzone del Nemesis…
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:STORY-TELLING:
Ring#11
Lo abbandon de la machina iocosa
lo sacro pad, la levetta tua sposa
la carta di memoria el cavo scart
il bel tasto select e lo amico start,
tale è il destino che placido vuoi
di vita vissuta senza un EyeToy?
Fu sì malsano codesto Ikaruga
da farti desiar patetica fuga?
E qual futur scontato e banale
attende chi sceglie lo mondo reale?
Un gran malesser dimolto tremendo
spetta a colui che tralascia Nintendo.
E rimpiangerai la vita di prima
ad ogni nuova del divin Kojima.
Perderai Zelda, el gioco del Pingu
lo Viutiful Giò, la mitica Ringu
i giochi hardcore e i grandi affanni
o l’ultimo special di Dan e Gunny.
E Gran Turismo, e tal Ninja Gay
o’l feticismo de Uinning Elev’n 6.
Qual Davide tristo e mesta ragione
fu quella che omise il tondo gettone
dal vaginal foro, che non puote senza.
Tuo è’l destino de’ giovani brutti:
fatti non foste a viver come tutti
ma per giocar altrui videoesperienza
E il Davide pianse. Si accasciò a terra e pianse; pianse come mai aveva pianto
in vita sua dai tempi di Titanic. Pianse perché non capì assolutamente nulla delle parole del Nemesis. E quando non capisce, il Davide in genere piange.
Le lacrime davidee commossero i presenti, che cessarono di ballare e presero
ad abbracciarsi e a scambiarsi segni di pace. E chi aveva perso le braccia buttava bacini ai poveretti che non avevano più la mascella.
«Voi picciotti ancora vivi, annatevinne dalle vostre famigghie e date loro nu
bacio da parte mia!» disse un Parrino commosso e straziato anch’egli dalle lacrime. «Ma lassate ccà i brazza e i gambe che perdeste, che aggiu fatto n’accordo co’ Mecchedonalds Italia.»
«Adesso so cosa fare» disse il Davide non appena si riprese dal pianto. «È solo che…»
«Che cosa, mio caro Davide?» chiese il Nemesis, apprensivo.
«Se ritorno ad essere un videogiocatore, la mia vita assomiglierà pericolosamente a quella dei personaggi dei fumetti. Ogni loro saga promette chissa quali
stravolgimenti, con tanto di claim: “e dopo niente sarà come prima!”, mentre
poi alla fine non cambia mai un bel nulla…»
«Fammi capire» fece il Nemesis. «Tu accetti di ritornare un videoplayer a patto che la tua vita subisca un qualche cambiamento?»
«Esattamente!»
«Che ne dici se ti dò dieci euro? Ti sembra un cambiamento adeguato?»
«Non scherziamo!» rispose il Davide, che non aveva da fare il resto. «Ehi,
che te ne pare se divento un game designer, eh? Sarebbe fichissimo! Sarei al
tempo stesso più gagliardo di Jason Rubin e più effeminato di Miyamoto. Farei
giochi commerciali ma al tempo stesso anti mass-market. Ad esempio ho questa idea di un gioco di basket ambientato durante le ore d’aria delle carceri di
massima sicurezza: possiamo commettere i falli più clamorosi e le difese più
scorrette, inoltre una sezione manageriale permetterà al giocatore di assoldare
di nuovi condannati anche per mezzo della coercizione mediante saponetta nella doccia. Eppoi potremmo acquistare la licenza di Kobe Bryant, se lo condannano…»
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:STORY-TELLING:
Ring#11
«Uhm, no. Spiacente ma non posso permetterti di diventare game designer»
disse il Nemesis. «Sei patetico, certo, ma non sei sufficientemente patetico per
essere credibile in quel ruolo. Ehi, ti piacerebbe scrivere per Ring?»
Il Davide ebbe un mezzo collasso.
«S-stai dicendo che io, Davide Videoludico, potrò far parte della redazione
della rivista che nuclearizza quotidianamente Edge? MA QUESTA È UNA COSA
STREPITOSA! Finalmente diventerò anche io un giornalista di videogiochi! Finalmente verrò pagato per giocare! Finalmente potrò farmi adorare da quei
perdenti dei videogiocatori! Sarò un Dio tra gli uomini! Accetto accetto! Ho già
un mente un casino di articoli: uno special sull’omosessualità nei personaggi dei
giochi Square, un frame sull’igiene dei videogiocatori, un tesoro sepolto dedicato a Poker Ladies (il mio most pleied di sempre)…»
«Veramente io pensavo più a farti scrivere qualche tappabuco per il pdf.»
Il Davide rimase un attimo interdetto. «Mi stai dicendo che non potrò scrivere
altro che i tappabuchi?»
«Esattamente.»
«Ma questo è un grandissimo onore! Grazie! Non deluderò la vostra fiducia!»
Scoppiò un sentito applauso. Tutti i personaggi di questa fantastica storia acclamarono la suisuoipassica decisione davidea.
«Bravu lu picciriddru!» disse il Parrino.
«Grande Davide!» gridò il Bitte. «Domani ti rinnovo l’ordine dei Tokimeki
Memorial!»
«Respect bro» disse il Simon.
«DA-VI-DE! DA-VI-DE!» fece la pozzanghera.
«Ce l’hai fatta Shinji!» disse il Picciotto Portaborse, che evidentemente aveva
perduto troppo sangue.
Poi tutti fecero la ola. Il Metal Gear Turiddu suonò una cover metal di Should
I stay or should I go e tutti presero a pogare e a bere drink offerti dal frigorifero
Berloni. Il Davide si mise un attimo in disparte. «Un telefono che non squilla»
parve dire fra sé e stesso mirando il cellulare.
No, aspetta.
«Una squillo che non telefona» precisò fra sé e stesso mirando il cellulare e
pensando alla Silvia, che santo cielo era quasi mattina e non si preoccupava di
dove fosse il marito? Poi compose il 112.
«Pronto, carabinieri?»
Nel mentre il Nemesis e il Parrino si stringevano la mano mentre sorseggiavano un grappino.
«’U maiale turnò nell’uvile!»
«Nel porcile, Parrino, i maiali vanno nei porcili.»
«E che aggiu detto ieo?»
«Sono contento che sia andato tutto secondo i piani. Mi dispiace solo di aver
tolto la vita a tanti suoi stipendiati, Parrino. Ma spero che questo non pregiudichi i nostri rapporti di buon vicinato…»
«Non ci pienzare nemmeno! E che sarà mai quacche picciotto muortammazzato! Un onore fu pe’ mia lavorari cu’ tia. Ehi, chenne dici di ‘na collaborazione
tra voi di Ring e noi bravi ragazzi?»
«Sta parlando di uno scambio di banner?»
«E picché no quacche scambio d’articuli? Teniamo ‘u gazzettino d’u mafiusu
che schifio facesse videoggioghicamente…»
«Parliamone davanti a un bel piatto di pasta con le sarde.»
Il Davide Videoludico non rimase alla festa. Non era in vena di festeggiare. Se
ne andò senza salutare nessuno perché aveva fretta di riprendersi la propria vita. Arrivato sulla soglia di casa, scorse gli abbaglianti delle gazzelle dei carabinieri parcheggiate davanti all’abitazione dei vicini e andò a vedere che succedeva.
«Una telefonata anonima ci ha rivelato il covo di questa banda di topi d’appartamento» disse al Davide un carabiniere mentre arrestava la famiglia di albanesi – madre, padre e tre bambini. «Tra l’altro tali soggetti avevano ancora
con sé la refurtiva dell’ultimo colpo, che a quanto dicono le etichette delle scatole è avvenuto proprio a casa sua, signor Videoludico.»
«Oh cielo, la mia collezione di videogames!» barrì il Davide. «Per fortuna
l’avete trovata! È il mio tesoro! Grazie carabinieri! Spero ve la caviate in quel
processo del G8!»
«Facciamo solo il nostro dovere, anzi, ci dispiace della noia che questi immigrati le hanno causato.»
«Eh, cosa ci vuole fare. Dopotutto sono albanesi.»
«Vedrà che passerà loro la voglia di rubare alla gente che lavora: li manderemo in un campo di concentramento a Guantanamo.»
Il Davide strinse la mano a tutti i carabinieri, poi si riappropriò della sua collezione videogiochica, salutò tutti e fece finalmente ritorno alla sua abitazione,
e più precisamente al suo Mighty Buco di Merda.
Egli trasse un profondo respiro. «Sono tornato», disse.
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