Dorsino e San Lorenzo in Banale: come vestivano i nostri

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Dorsino e San Lorenzo in Banale: come vestivano i nostri
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Dorsino e San Lorenzo in Banale:
come vestivano i nostri nonni
Una ricerca per salvare dall’oblìo il dialetto di questi due paesi.
Cominciamo dai capi d’abbigliamento
iriam Sottovia
sta lavorando
al “salvataggio”
di parole che un tempo facevano parte del dialetto di
Dorsino e San Lorenzo in
Banale, due villaggi delle
Giudicarie Esteriori che
hanno in comune la storia e
la stessa matrice culturale e
che hanno visto partire, alcuni decenni fa, molti dei
loro figli in cerca di fortuna
verso terre più generose.
Miriam Sottovia chiede
aiuto in questo lavoro. Sa
che molti, pur lontani dal
Trentino, parlano ancora
in dialetto. Cerca parole che
indicavano oggetti, parti
degli stessi, il loro uso, lavori, giochi, ambienti… purché il vocabolo sia accompagnato da una spiegazione, o
da una frase nella quale la
parola veniva impiegata.
Riportiamo di seguito una
piccola parte di questo vocabolario. Sono vocaboli che
rappresentano capi di vestiario o completamenti
dell’abbigliamento.
M
Le budànde
Erano le nostre mutande.
Pare che le budande siano
state importate… dall’A-
adeguarono con maggior
fatica all’uso delle budande e, per convincerli, l’argomento che più ha fatto
presa è stato quello di un
valido riparo contro il
freddo, secondo qualche
testimonianza.
Solo qualche paio di antiche budande si sono salvate dalla distruzione. Po-
merica, quasi come i pomodori o il cacao.
Una donna di San Lorenzo che era stata in
America all’inizio del
Novecento le aveva conosciute lì. Le ha adottate e
ne ha diffuso l’uso in paese dopo il suo ritorno. O
almeno le ha fatte indossare ai suoi figli.
È stata però la scuola serale, attivata tra il 1925 e
il 1926 per le ragazze oltre i 14 anni, che ha ufficialmente affrontato e risolto il problema di
vestire di budande il paese.
Le maestre insegnavano
l’uso delle mutande e a
cucirle. Le giovani ne furono presto conquistate e
hanno impegnato abilità
e pazienza nel ricamarle,
nell’eseguire gli orli a
giorno, nel rifinirle col
punto smerlo.
Piccoli (ma non tanto,
perché le dimensioni erano sempre e per tutti
quelle della taglia che
adesso diciamo extra large) capolavori che finivano sotto tutto il resto: la
camicia, gli abiti lunghi e
spessi, i grembiuli.
Gli adulti e i vecchi si
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che paia ma sufficienti
per sapere com’erano.
Forse si può dire che erano unisex, ma quelle da
donna avevano pizzi e
merletti che mancavano
alle budande degli uomini. Per il resto: erano alte
in vita, avevano un pezzo
di gamba che arrivava fino al ginocchio e, parti-
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TRENTINO
EMIGRAZIONE
colare davvero curioso,
erano dotate di un’apertura che da circa metà
pancia arrivava al punto
corrispondente dietro…
Per facilitare l’esecuzione
dei só misteri, senza abbassarle. In pratica el cavalét era del tutto… libero. Capirete: il passaggio
alle mutande quali noi
usiamo non poteva avvenire in maniera traumatica. Ci voleva un modello
che consentisse di mantenere, per chi lo desiderava, la possibilità de nar de
corp senza troppo lavoro.
La camìsa
Quella di cui parlo qui è
la camicia da giorno. Ma
forse, meglio, una camicia
tuttofare che veniva sfilata solo per essere lavata.
Era una camicia bianca
lunga almeno fino al ginocchio, con maniche
lunghe; un pizzo senza
pretese, quando c’era, al
collo e ai polsi. Un taglio
che nulla conosceva dell’anatomia e per nulla
aiutava, con il giusto verso della pezza, i gesti di
giornate faticose.
Tutte le donne dei nostri
paesi, fino a una ottantina
di anni fa, avevano solo
lei sotto il vestito anzi la
camicia era un elemento
costitutivo del vestito
stesso, formandone le
maniche. Se c’era qualcos’altro però era peggio
perché si trattava di una
fascia che le donne più
formose dovevano portare per appiattire il seno.
Di lana d’inverno, di cotone d’estate hanno coperto, cancellandone ogni
segno di femminilità, le
gambe di innumerevoli
generazioni di donne.
Quando poi, riparati alla
meglio gli squarci prodotti dalla Seconda
Guerra Mondiale, il
mondo s’è messo a camminare veloce, nuove industrie dell’abbigliamento hanno adocchiato
anche le gambe delle
donne per camminare
con loro, con rapidi, reciproci benefici.
Hanno cominciato a produrre calze di nylon a
prezzi via via più popolari. Erano calze da sogno
che presto ogni ragazza
poté comperare. Anche
da noi.
Le gambe che cominciavano a lasciarsi vedere
sotto gonne più corte che
nel passato, apparivano
velate, di un colore meglio di quello naturale,
troppo bianco, e mascheravano qualche imperfezione.
Le macchine facevano
miracoli con quei fili impalpabili, le mani ruvide
disastri: da un filo tirato
partiva, a nord e a sud, na
scorléra, una smagliatura,
che rovinava la giornata...
E i giornali femminili
dell’epoca, che sapevano
delle mani ruvide e dell’imperizia delle donne, le
consigliavano di calzare i
guanti per infilare quelle
calze!
Molte calze degli anni
Non c’erano maglie o canottiere, neanche le budande.
La camicia è rimasta sotto il vestito almeno fino
agli anni Cinquanta, ma
ha subìto nel tempo un’evoluzione. Anzitutto ha
dovuto cominciare a dividere lo spazio, che aveva
fino ad allora invaso da
sola, con le prime flanele e
le budande; e le une e le
altre non scherzavano in
quanto a dimensioni.
Contemporaneamente ha
dovuto prendere atto della progressiva riduzione
delle misure dei vestiti e
adattarsi riducendo anche
se stessa.
E allora la camicia ha iniziato a presentarsi più
leggera, con lo scollo un
po’ più ampio, senza maniche. E qui una piccola
parentesi. Sulla spalla larga due bottoncini invece
della cucitura consentivano di aprire con poche
manovre un varco per allattare al seno. Impegno
frequente.
E queste nuove camicie
hanno accolto ricami anche preziosi. Belli soprattutto quelli ad intaglio
con innocenti giochi di
minuscoli vedo - non vedo. Anzi, continuo a vedere niente.
Le calze
Quelle classiche, cioè
consacrate dalla nostra
più antica tradizione, erano lavorate ai ferri a maglia rasata, ma anche due
dritti, due rovesci, nere.
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Cinquanta avevano la riga dorsale o perché erano
tagliate o perché non prodotte da macchine circolari come quelle attuali.
Erano calze venate di una
certa suggestione sexi.
Di questo non erano
ignare neppure le ragazze
di allora. Tant’è vero che
alcune, che non potevano
spendere in calze, si disegnavano direttamente
sulle gambe nude due
lunghe e dritte righe scure con matite del tipo copiativo!
Ora calze ce ne sono per
tutti i gusti, per ogni occasione, ma chissà perché
a molte donne suggeriscono l’idea di arretratezza culturale e per mesi ne
abbandonano l’uso.
Le sgàrmere
Calzature che in luogo
della suola hanno un legno incavato che si adatta al piede.
Nar su co le sgarmere
espressione che si diceva
di chi moriva e nella sua
vita aveva sofferto e sopportato ogni sorta di
dolori
e
disgrazie.
Espressione nella quale
mancano molte parole,
ma il concetto risultava
chiaro lo stesso: nar su era
in paradiso, dove ogni
torto sarebbe stato ripagato; co le sgarmere così
come uno era morto, cioè
senza neanche un piccolo
periodo di espiazione.
Quella l’aveva già anticipata.
Na sgarmera e ‘n zopel si
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dice quando gli oggetti, i
mobili che costituiscono
l’arredamento di una casa
o di un locale sono mal
accostati, come sarebbero
na sgarmera e ‘n zopel, differenti tra loro, ma usati
insieme.
I spalàzi
Sorta di larghe bretelle
(che si incrociavano sulla
schiena per non cadere
dalle spalle) che avevano
alcuni indumenti femminili come i grembiuli da
donna con la petoèla e le
gonne delle bambine, per
le quali non c’era, o non si
impiegava, l’elastico in
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vita. Erano gonne che si
potrebbero
definire
“ascellari” in quanto, da
nuove, arrivavano poco
sotto le ascelle in… prospettiva di abbondanti
aumenti di statura della
bambina.
I spalazi di cui erano fornite le gonne in questione
erano visibili in piccola
parte e cioè quella al di
sopra del cinturino, al
quale erano fissati con
una cucitura. Il resto, ed
era molto, restava all’interno della gonna. A mano a mano che la bambina cresceva (in pratica ad
ogni stagione) i spalazi
venivano allungati, attingendo alla riserva invisibile e la gonna diventava
via via meno ascellare.
Dopo quattro-cinque anni, se non si era strappata
o logorata troppo, vestiva
in maniera adeguata la
povera ragazzina che ormai non ne poteva più di
quella gonna infanziagiovinezza.
Le tiràche
Le bretelle. Servivano per
sorreggere i pantaloni. E i
pantaloni erano da uomo
o da maschietto. Niente
pari opportunità.
Parlando, l’uso era al plu-
rale e si diceva en par de
tirache. E si capisce: per en
par de braghe, en par de tirache.
Le tirache, chiara l’etimologia, “tiravano” tenendo
su. Erano costituite da
due strisce di tessuto resistente ed elastico, incrociate a X a circa un terzo
della loro lunghezza e ivi
fermate da un rinforzo o,
in quelle più moderne, da
un ferretto che consentiva
lo scorrere dell’incrocio
più avanti o più indietro
in rapporto alla statura di
chi le doveva usare.
Ad ogni estremità le tirache si dividevano in due
parti terminando con un
occhiello, per un totale di
otto, quindi. E potevano
svolgere la loro funzione
se in ogni occhiello veniva inserito uno dei bottoni che erano sistemati all’uopo all’interno del
cinturino di ogni paio di
pantaloni, nella posizione
giusta. Metti che i bottoni fossero attaccati senza
collo, cioè troppo vicino
al tessuto, che gli occhielli fossero nuovi e perciò
ancora mezzi chiusi, che
il padrone delle braghe
avesse i dedi en poch zonfi,
ce n’era per andare in bestia e maledire braghe, tirache e tutto quanto. Allora hanno inventato le
cinture.
Per comunicazioni pubblichiamo l’indirizzo di Miriam Sottovia – via Prato
13/B – 38078 San Lorenzo
in Banale (Trento) Italia