Dorsino e San Lorenzo in Banale: come vestivano i nostri
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Dorsino e San Lorenzo in Banale: come vestivano i nostri
TN emigrazione 36 21-03-2007 11:38 Pagina 29 Dorsino e San Lorenzo in Banale: come vestivano i nostri nonni Una ricerca per salvare dall’oblìo il dialetto di questi due paesi. Cominciamo dai capi d’abbigliamento iriam Sottovia sta lavorando al “salvataggio” di parole che un tempo facevano parte del dialetto di Dorsino e San Lorenzo in Banale, due villaggi delle Giudicarie Esteriori che hanno in comune la storia e la stessa matrice culturale e che hanno visto partire, alcuni decenni fa, molti dei loro figli in cerca di fortuna verso terre più generose. Miriam Sottovia chiede aiuto in questo lavoro. Sa che molti, pur lontani dal Trentino, parlano ancora in dialetto. Cerca parole che indicavano oggetti, parti degli stessi, il loro uso, lavori, giochi, ambienti… purché il vocabolo sia accompagnato da una spiegazione, o da una frase nella quale la parola veniva impiegata. Riportiamo di seguito una piccola parte di questo vocabolario. Sono vocaboli che rappresentano capi di vestiario o completamenti dell’abbigliamento. M Le budànde Erano le nostre mutande. Pare che le budande siano state importate… dall’A- adeguarono con maggior fatica all’uso delle budande e, per convincerli, l’argomento che più ha fatto presa è stato quello di un valido riparo contro il freddo, secondo qualche testimonianza. Solo qualche paio di antiche budande si sono salvate dalla distruzione. Po- merica, quasi come i pomodori o il cacao. Una donna di San Lorenzo che era stata in America all’inizio del Novecento le aveva conosciute lì. Le ha adottate e ne ha diffuso l’uso in paese dopo il suo ritorno. O almeno le ha fatte indossare ai suoi figli. È stata però la scuola serale, attivata tra il 1925 e il 1926 per le ragazze oltre i 14 anni, che ha ufficialmente affrontato e risolto il problema di vestire di budande il paese. Le maestre insegnavano l’uso delle mutande e a cucirle. Le giovani ne furono presto conquistate e hanno impegnato abilità e pazienza nel ricamarle, nell’eseguire gli orli a giorno, nel rifinirle col punto smerlo. Piccoli (ma non tanto, perché le dimensioni erano sempre e per tutti quelle della taglia che adesso diciamo extra large) capolavori che finivano sotto tutto il resto: la camicia, gli abiti lunghi e spessi, i grembiuli. Gli adulti e i vecchi si 29 che paia ma sufficienti per sapere com’erano. Forse si può dire che erano unisex, ma quelle da donna avevano pizzi e merletti che mancavano alle budande degli uomini. Per il resto: erano alte in vita, avevano un pezzo di gamba che arrivava fino al ginocchio e, parti- TN emigrazione 36 21-03-2007 11:38 Pagina 30 TRENTINO EMIGRAZIONE colare davvero curioso, erano dotate di un’apertura che da circa metà pancia arrivava al punto corrispondente dietro… Per facilitare l’esecuzione dei só misteri, senza abbassarle. In pratica el cavalét era del tutto… libero. Capirete: il passaggio alle mutande quali noi usiamo non poteva avvenire in maniera traumatica. Ci voleva un modello che consentisse di mantenere, per chi lo desiderava, la possibilità de nar de corp senza troppo lavoro. La camìsa Quella di cui parlo qui è la camicia da giorno. Ma forse, meglio, una camicia tuttofare che veniva sfilata solo per essere lavata. Era una camicia bianca lunga almeno fino al ginocchio, con maniche lunghe; un pizzo senza pretese, quando c’era, al collo e ai polsi. Un taglio che nulla conosceva dell’anatomia e per nulla aiutava, con il giusto verso della pezza, i gesti di giornate faticose. Tutte le donne dei nostri paesi, fino a una ottantina di anni fa, avevano solo lei sotto il vestito anzi la camicia era un elemento costitutivo del vestito stesso, formandone le maniche. Se c’era qualcos’altro però era peggio perché si trattava di una fascia che le donne più formose dovevano portare per appiattire il seno. Di lana d’inverno, di cotone d’estate hanno coperto, cancellandone ogni segno di femminilità, le gambe di innumerevoli generazioni di donne. Quando poi, riparati alla meglio gli squarci prodotti dalla Seconda Guerra Mondiale, il mondo s’è messo a camminare veloce, nuove industrie dell’abbigliamento hanno adocchiato anche le gambe delle donne per camminare con loro, con rapidi, reciproci benefici. Hanno cominciato a produrre calze di nylon a prezzi via via più popolari. Erano calze da sogno che presto ogni ragazza poté comperare. Anche da noi. Le gambe che cominciavano a lasciarsi vedere sotto gonne più corte che nel passato, apparivano velate, di un colore meglio di quello naturale, troppo bianco, e mascheravano qualche imperfezione. Le macchine facevano miracoli con quei fili impalpabili, le mani ruvide disastri: da un filo tirato partiva, a nord e a sud, na scorléra, una smagliatura, che rovinava la giornata... E i giornali femminili dell’epoca, che sapevano delle mani ruvide e dell’imperizia delle donne, le consigliavano di calzare i guanti per infilare quelle calze! Molte calze degli anni Non c’erano maglie o canottiere, neanche le budande. La camicia è rimasta sotto il vestito almeno fino agli anni Cinquanta, ma ha subìto nel tempo un’evoluzione. Anzitutto ha dovuto cominciare a dividere lo spazio, che aveva fino ad allora invaso da sola, con le prime flanele e le budande; e le une e le altre non scherzavano in quanto a dimensioni. Contemporaneamente ha dovuto prendere atto della progressiva riduzione delle misure dei vestiti e adattarsi riducendo anche se stessa. E allora la camicia ha iniziato a presentarsi più leggera, con lo scollo un po’ più ampio, senza maniche. E qui una piccola parentesi. Sulla spalla larga due bottoncini invece della cucitura consentivano di aprire con poche manovre un varco per allattare al seno. Impegno frequente. E queste nuove camicie hanno accolto ricami anche preziosi. Belli soprattutto quelli ad intaglio con innocenti giochi di minuscoli vedo - non vedo. Anzi, continuo a vedere niente. Le calze Quelle classiche, cioè consacrate dalla nostra più antica tradizione, erano lavorate ai ferri a maglia rasata, ma anche due dritti, due rovesci, nere. 30 Cinquanta avevano la riga dorsale o perché erano tagliate o perché non prodotte da macchine circolari come quelle attuali. Erano calze venate di una certa suggestione sexi. Di questo non erano ignare neppure le ragazze di allora. Tant’è vero che alcune, che non potevano spendere in calze, si disegnavano direttamente sulle gambe nude due lunghe e dritte righe scure con matite del tipo copiativo! Ora calze ce ne sono per tutti i gusti, per ogni occasione, ma chissà perché a molte donne suggeriscono l’idea di arretratezza culturale e per mesi ne abbandonano l’uso. Le sgàrmere Calzature che in luogo della suola hanno un legno incavato che si adatta al piede. Nar su co le sgarmere espressione che si diceva di chi moriva e nella sua vita aveva sofferto e sopportato ogni sorta di dolori e disgrazie. Espressione nella quale mancano molte parole, ma il concetto risultava chiaro lo stesso: nar su era in paradiso, dove ogni torto sarebbe stato ripagato; co le sgarmere così come uno era morto, cioè senza neanche un piccolo periodo di espiazione. Quella l’aveva già anticipata. Na sgarmera e ‘n zopel si TN emigrazione 36 21-03-2007 11:38 dice quando gli oggetti, i mobili che costituiscono l’arredamento di una casa o di un locale sono mal accostati, come sarebbero na sgarmera e ‘n zopel, differenti tra loro, ma usati insieme. I spalàzi Sorta di larghe bretelle (che si incrociavano sulla schiena per non cadere dalle spalle) che avevano alcuni indumenti femminili come i grembiuli da donna con la petoèla e le gonne delle bambine, per le quali non c’era, o non si impiegava, l’elastico in Pagina 31 vita. Erano gonne che si potrebbero definire “ascellari” in quanto, da nuove, arrivavano poco sotto le ascelle in… prospettiva di abbondanti aumenti di statura della bambina. I spalazi di cui erano fornite le gonne in questione erano visibili in piccola parte e cioè quella al di sopra del cinturino, al quale erano fissati con una cucitura. Il resto, ed era molto, restava all’interno della gonna. A mano a mano che la bambina cresceva (in pratica ad ogni stagione) i spalazi venivano allungati, attingendo alla riserva invisibile e la gonna diventava via via meno ascellare. Dopo quattro-cinque anni, se non si era strappata o logorata troppo, vestiva in maniera adeguata la povera ragazzina che ormai non ne poteva più di quella gonna infanziagiovinezza. Le tiràche Le bretelle. Servivano per sorreggere i pantaloni. E i pantaloni erano da uomo o da maschietto. Niente pari opportunità. Parlando, l’uso era al plu- rale e si diceva en par de tirache. E si capisce: per en par de braghe, en par de tirache. Le tirache, chiara l’etimologia, “tiravano” tenendo su. Erano costituite da due strisce di tessuto resistente ed elastico, incrociate a X a circa un terzo della loro lunghezza e ivi fermate da un rinforzo o, in quelle più moderne, da un ferretto che consentiva lo scorrere dell’incrocio più avanti o più indietro in rapporto alla statura di chi le doveva usare. Ad ogni estremità le tirache si dividevano in due parti terminando con un occhiello, per un totale di otto, quindi. E potevano svolgere la loro funzione se in ogni occhiello veniva inserito uno dei bottoni che erano sistemati all’uopo all’interno del cinturino di ogni paio di pantaloni, nella posizione giusta. Metti che i bottoni fossero attaccati senza collo, cioè troppo vicino al tessuto, che gli occhielli fossero nuovi e perciò ancora mezzi chiusi, che il padrone delle braghe avesse i dedi en poch zonfi, ce n’era per andare in bestia e maledire braghe, tirache e tutto quanto. Allora hanno inventato le cinture. Per comunicazioni pubblichiamo l’indirizzo di Miriam Sottovia – via Prato 13/B – 38078 San Lorenzo in Banale (Trento) Italia