Il rapporto fra i linguaggi del cinema e del fumetto

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Il rapporto fra i linguaggi del cinema e del fumetto
Il rapporto fra i linguaggi del cinema e del fumetto
Il cinema, nell’ultimo decennio, si è caratterizzato per interventi sempre più
digitali: animazioni tridimensionali ed effetti speciali permettono di rendere
estremamente realistico ciò che fino a pochi anni fa apparteneva solo al
mondo dell'immaginazione, o che si tentava di simulare con risultati non
sempre di precisa fedeltà.
Se osserviamo produzioni come il "Signore degli anelli" o "Star Wars"
notiamo che buona parte della pellicola è realizzata con un insieme
particolare di riprese video, elementi tridimensionali, pittura, disegno,
animazione e altro. Una specie di “fumetto multimediale animato”. Nel
senso che, almeno a livello ideativo, non c’è più una netta divisione di
generi, quanto piuttosto un confluire d’idee e mezzi. Anche dal punto di
vista del marketing, il plot di base non è pensato per un media e poi
esportato ad altre eventuali applicazioni (ad esempio dal cinema ai fumetti,
alla produzione di gadget e videogiochi, ecc...). Si tende piuttosto sempre
più ad impostare una forte struttura narrativa che possa,
contemporaneamente e parallelamente, essere utilizzata in vari campi.
Software e hardware sono ormai presenti anche nelle produzioni italiane
con altissimi risultati visivi ed espressivi, nonostante i budget contenuti.
Più il mondo fantastico diventa realisticamente rappresentabile, grazie agli
sviluppi tecnologici, più il fumetto (tradizionalmente legato al fantastico) si
avvicina al mondo del cinema. E il cinema, per sua natura traspositore di
riprese “reali” (in quanto processo meccanico di fotografia della realtà), si
accosta nello stesso tempo a quel regno dove tutto è fantasia, tipico proprio
dei fumetti.
Il frequente utilizzo di personaggi dei comics come Batman, Hulk, Asterix,
Uomo Ragno, Devil, ecc, protagonisti delle pellicole, non fa che dimostrare
questa miscela esplosiva.
In realtà, anche il fumetto ha da sempre gettato un occhio al fratello delle
sale cinematografiche, prendendone ritmi narrativi, stili ed inquadrature,
trame ed espedienti.
La vicinanza tra i linguaggi del cinema e del fumetto non risiede unicamente
nello sfruttamento di personaggi e soggetti comuni ad entrambi. Andando
ad analizzare le metodologie professionali che sono alla base di questi due
codici narrativi, ci accorgiamo di affinità stilistiche ed esecutive che
arricchiscono ed evolvono le modalità del narrare verso qualcosa di nuovo
ed estremamente interessante, aprendo orizzonti fino a poco tempo fa
impensabili.
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Grazie ad internet e a programmi di grafica ed animazione vettoriale e
tridimensionale, il linguaggio dei comics si è profondamente trasformato,
commistionandosi con animazione, interattività, suoni, rumori e, di
conseguenza, mutando le strutture della sua formula espressiva.
Marco Feo e Andrea Capone
Questo libro, dal titolo “CINEMA e FUMETTO - verso un nuovo sviluppo
narrativo multimediale “, vuole proporre un approccio d'indagine semplice
e chiaro dei processi operativi di queste due realtà professionali, cercando
di scoprirne e spiegarne le modalità di comunanza e suggerendo una
riflessione sulla trasformazione in atto.
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Composizione e dinamica nei primi autori
Agli inizi del secolo scorso cinema e fumetto avevano da poco fatto la loro
comparsa e dovevano svilupparsi come medium. Gli esempi da cui trarre
spunto, per poi strutturarsi e creare un sistema narrativo proprio, erano per
entrambi inevitabilmente gli stessi: teatro, letteratura, pittura, fotografia,
ecc. I primi pionieristici registi e autori di fumetti costruirono, giorno dopo
giorno, riprendendo, disegnando e girando, due linguaggi che crebbero
uno a fianco dell'altro, guardandosi, aiutandosi e a volte scontrandosi, per
rispondere ad un nuovo e diverso bisogno espressivo dei primi del '900,
quello di un mondo che stava cambiando.
Uno dei primi autori ad animare i propri fumetti fu Winsor McCay, creatore
di “Little Nemo in Slumberland”, che traspose in pellicola il suo
personaggio nel 1910. Egli capisce fin da subito che i principali elementi
che caratterizzano e differenziano il linguaggio del fumetto e quello del
cinema, cioè l'effetto grafico e quello dinamico, si possono coniugare. Nei
fumetti, infatti è la composizione grafica ad integrare la lettura fra disegno e
testo, con l’impaginazione, mentre, nel cinema, il movimento permette di
riprendere le dinamiche dei soggetti spostando la cinepresa, ottenendo
carrellate, zommate, ecc. In entrambi i casi si crea un ritmo narrativo
particolare, che riesce a coinvolgere il fruitore, trascinandolo nella finzione
del racconto.
Fu il regista Georges Meliès (che già aveva rivoluzionato le scenografie
teatrali, inventando le ricostruzioni negli interni dei teatri di posa) ad ideare il
"carrello": trasportando la macchina da presa su rotaie, si poteva seguire
l'azione girando attorno agli attori, anticipandoli o seguendoli sul loro
percorso. Rispetto alla ripresa fissa, tipica del fumetto (o del teatro), il
cinema si avvaleva di un'opportunità in più, che verrà ampliata poco alla
volta. Nei primi film muti infatti le inquadrature spesso sono fisse, giocando
tutta l'azione su rapporti spazio temporali, ottenuti proprio dalle
caratteristiche compositive di ciò che veniva inquadrato. Se da un lato
questo era sintomo di una perizia tecnica ancora poco sviluppata, nello
stesso tempo era un modus narrandi che sfruttava le peculiarità costruttive
e geometriche dell’inquadratura e la composizione grafica dello spazio;
esattamente come si fa all’interno di una tavola a fumetti, dove la forma e la
disposizione degli elementi figurativi e delle vignette è fondamentale sia a
livello percettivo che narrativo.
Per questo motivo possiamo dire che il cinema muto degli anni ‘20 era
molto vicino alla narrazione del fumetto. Nel prossimo capitolo
analizzeremo proprio questa caratteristica.
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© Sergio Bonelli editore
Gabbia strutturale
© Disney - per gentile concessione di The Walt Disney Italia S.p.A.
Claudio Villa, Tex n. 504
Sergio Bonelli editore;
G. Cavazzano, Topolino 2000,
The Walt Disney Italia;
Il movimento di camera, lo zoom, le carrellate e
tutte le modalità di ripresa che nel cinema
prevedono uno spostamento dell’inquadratura,
si possono ottenere nel fumetto solo con delle
vignette in sequenza. Questa fissità, che
apparentemente impoverisce il mezzo, in realtà
permette una lettura più ritmata e scandita,
riflessiva o veloce, in base alle necessità
espressive dell'autore e alla volontà del lettore,
che può tornare indietro e osservare i particolari,
con i tempi di lettura che gli sono più congeniali.
Nel fumetto tradizionale italiano è ormai da
tempo consolidata la gabbia della pagina su una
struttura di sei vignette identiche. Vengono
indicate in sceneggiatura come vignetta 1,
vignetta 2, ecc... La ritroviamo in tutti i fumetti di
Sergio Bonelli editore (Tex, Zagor, Nathan
Never, Martin Myster, ecc...) e infatti viene
solitamente denominata come “gabbia
bonelliana”.
La gabbia si può ampliare passando a due
vignette orizzontali che si fondono in un unica
vignetta (si indicherà allora in sceneggiatura
vignetta 1/2), come nell’esempio tratto da Tex
qui a fianco, disegnato da Claudio Villa; oppure
passando ad un’unica grossa vignetta che
occupa il posto di quattro (vignetta 1/4); ne
potete vedere ad esempio una pagina di
Topolino realizzata da Giorgio Cavazzano.
Questa struttura rigida che non permette
stravolgimenti e impaginazioni grafiche
azzardate della tavola a fumetti, nello stesso
tempo conferisce alla lettura una maggior
regolarità, scandisce un ritmo particolare,
avvicinandosi ai tempi tipici del cinema.
Sfruttando pienamente questo sistema
narrativo, Giancarlo Berardi (autore, fra i vari
personaggi scaturiti dalla sua penna, di “Ken
Parker”) gioca magistralmente con la posizione
fissa della vignetta, proponendo liberamente
campi e controcampi, sequenze mute,
soggettive e ottenendo così un montaggio
cinematografico.
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Ken Parker © Berardi & Milazzo
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Ken Parker, speciale n.1,
“I condannati”,Sergio Bonelli ed.
Analizziamo questa sequenza scritta da
Giancarlo Berardi (da “Ken Parker speciale”
n.1 Sergio Bonelli editore) e disegnata da
Pasquale Frisenda e Laura Zuccheri.
La pagina iniziale della storia è strutturata nelle
classiche sei vignette della “gabbia bonelliana”.
Tutta la tavola a fumetti è composta con la
precisione di un quadro costruttivista. Nella
prima vignetta viene inquadrato il particolare di
un occhio: siamo tanto vicini che quasi non
distinguiamo l’animale a cui appartiene. E’ una
macchia, un gioco compositivo. Nella seconda
vignetta e in quelle successive, allontanandoci
con uno zoom all’indietro, vediamo un pellicano
che plana placido e tranquillo nelle acque
limacciose del fiume sottostante. Il volatile con il
suo volo descrive un cerchio quasi perfetto e
nell’ultima vignetta si butta a capofitto verso
l’acqua. La storia inizia con questa sequenza
muta a volo d’uccello, che, senza temere per il
pesante paragone, potrebbe ricordarci un’altra
classica ed importante apertura, quella che
recita così: “Quel ramo del lago di Como, che
volge a mezzogiorno...”.
La seconda pagina del fumetto si apre con tre
vignette in sequenza attraversate
diagonalmente dal pellicano che si getta in
acqua. La composizione in diagonale da sinistra
verso destra (quindi seguendo il senso di lettura)
e dall’alto verso il basso, unita alle tre vignette
esattamente identiche, se non per la posizione
dell’uccello, caratterizzano il tempo in maniera
fortemente dinamica.
Vignetta successiva: controcampo, particolare
dell’occhio di un coccodrillo, contrapposto
all’occhio del pellicano con cui era iniziata la
sequenza. Di nuovo controcampo e soggettiva
del coccodrillo: il pellicano esce dall’acqua con
un grosso pesce nel becco, la sua preda. Ma il
predatore diventa preda, e nel riquadro che
segue vediamo il coccodrillo tuffarsi in acqua.
Conclude la pagina la vignetta scontornata del
pellicano che si gusta il suo pasto.
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Ken Parker © Berardi & Milazzo
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Ken Parker, speciale n.1,
“I condannati”,Sergio Bonelli ed.
Il ritmo diventa sempre più concitato
raggiungendo nella terza pagina il suo apice. E’
la capacità narrativa, attuata attraverso il
montaggio, di trainare il pathos della sequenza.
L’inquadratura si apre sotto la superficie
dell’acqua: il coccodrillo si avvicina verso di noi,
nuotando. Soggettiva del coccodrillo, sempre
sott’acqua, vediamo le zampe del pellicano che
nuota, galleggiando sulla superficie. Seguono
tre vignette in sequenza, di nuovo un
collegamento a quelle della pagina precedente
per perfezionare il cerchio narrativo. La bocca
del coccodrillo cerca di afferrare il pennuto; sale,
in diagonale opposta rispetto a quella di prima,
da sinistra verso destra e verso l’alto; il pellicano
vola via, si salva per un soffio! Penultima
vignetta il rettile guarda, a bocca vuota, la sua
preda che si allontana in volo... Ma
all’improvviso, da fuori campo un suono, una
sirena! Preannuncia l’arrivo di un ben più
temibile predatore.
La pagina 4 si apre con un volo di fenicotteri che
fuggono, mentre in lontananza avanza un
battello. Il coccodrillo non aveva spaventato gli
abitanti del fiume, l’uomo li costringe alla fuga.
Vignetta 3, il compasso perfetto della sequenza
muta si rompe con l’arrivo dell’essere umano.
Sovrasta la vignetta la scritta onomatopeica del
rumore del battello. L’uomo alla guida
dell’imbarcazione, commenta: “Odio tutti gli
animali, anche quelli con le piume”.
Nella pagina seguente, uno dei soldati che si
trovano sul battello, spara ai fenicotteri. E’ solo
un gioco, un divertimento. La vignetta è
scontornata, come quella di pagina 2. Ma il
pellicano si nutriva, cacciava per sopravvivere,
l’uomo uccide per passare il tempo. Il fenicottero
è colpito e cade nell’acqua del fiume. Il soldato
non lo raccoglie neppure, sarà il coccodrillo ad
averlo in pasto.
La sequenza si chiude con il commento
sarcastico del vecchio marinaio: “A me fa schifo
un’altro genere di animali!... Senza piume!”.
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Copyright © DC Comics - edizione italiana © Play Press Publishing Srl
Frank Miller,
“Il ritorno del cavaliere oscuro”
Play Press Publishing
“Il ritorno del cavalliere oscuro” di Frank Miller
ha trasformato, negli anni ottanta, il modo di
raccontare super-eroi, dando vita al così detto
“Rinascimento americano”. Il fumetto supereroistico è molto diverso rispetto a quello
italiano, a partire dalle sue modalità realizzative:
lo scrittore imposta la trama generica, il
disegnatore liberamente la disegna nelle tavole
e, solo in seguito, verranno definiti i dialoghi
della storia. Frank Miller, curando sia i testi sia i
disegni, riesce a creare una particolare simbiosi
fra gabbia strutturale, disegno e racconto. Nel
primo esempio riportato, il giovane Bruce
Wayne cade nella grotta che sorge sotto la sua
dimora ed incontra il pipistrello, metafora del lato
oscuro del suo carattere che lo trasformerà
nell’uomo pipistrello: BatMan. Le prime due
vignette sono verticali, il bambino cade dall’alto
su un fondo nero, vuoto, colmo solo delle scritte
onomatopeiche, i versi ossessionanti dei
pipistrelli, che si ripetono. La forma verticale,
lunga, accentua il senso della caduta. Il terzo
blocco di vignette rappresenta l’avvicinamento
dell’animale al bambino, fino ad un primissimo
piano, tagliato in quattro, che forma una sola
vignetta. L’ultimo riquadro è completamente
nero, silenzioso; solo due piccoli occhi dal nulla.
Nell’altra pagina l’autore suggerisce che il
Presidente degli Stati Uniti d’America è alla
Casa Bianca e parla con un personaggio
misterioso. Possiamo intuire di chi si tratta
grazie ad un espediente narrativo: le vignette
centrali si stringono sulla bandiera, mentre
leggiamo i dialoghi fra i due personaggi che non
vengono mai mostrati. L’inquadratura è sempre
più vicina, quasi a divenire un quadro
dell’espressionismo astratto americano
(citazione di autori come Roy Lichtenstein,
Jasper Johns, Robert Rauschenberg che nei
loro quadri rielaborano proprio i simboli della
bandiera americana e del fumetto) per
trasformarsi in un’altra famosa icona, il simbolo
di Superman.
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Copyright © Sergio Toppi
Sergio Toppi, “Il Collezionista”
per l’Italia - King Komics
per la Francia - Mosquito
Sergio Toppi è una delle più eleganti ed
apprezzate firme del fumetto italiano. Il segno
grafico e la composizione attentamente studiata
della tavola diventano, in questo caso, il
principale elemento della narrazione. Nella
prima tavola, che abbiamo scelto come
esempio, tratta dal “Collezionista”, uno dei suoi
personaggi più famosi, l’autore vuole
sottolineare la drammaticità di un evento: lo
scontro impari fra i soldati muniti di moderne
armi da fuoco e le popolazioni africane che
tentano di reagire con strumenti rudimentali. La
pagina è divisa in due parti: in alto un’unica
vignetta rappresenta i soldati e la raffica
devastante delle loro armi, un corpo unico con le
scritte onomatopeiche della detonazione, il
fumo della polvere da sparo da cui spuntano e si
notano appena le teste umane. La potenza è
tale che tutto è risolto in un solo istante, quello di
premere un grilletto, disumanizzando l’essere
umano e trasformandolo in una macchina da
guerra. Sotto, scandendo invece ogni singola
ferita mortale, è crudamente rappresentata
l’inevitabile strage, momento per momento, vita
per vita, il dramma di un massacro umano.
Nella seconda tavola il protagonista si perde nel
deserto. Stanco ed assetato, cade ai piedi di una
roccia che assume vaghe sembianze umane. La
forma verticale nera schiaccia la piccola
sagoma del Collezionista, volutamente
collocata fuori vignetta, per rendere il peso
visivo della montagna ancora più opprimente. Il
cerchio dei balloons si rincorre fra le vignette,
accostato alla forma rotonda del sole, fino allo
svenimento in sequenza e al rettangolo buio
completo, all’angolo opposto del bianco
allucinante dell’astro. In altri casi la gabbia si
perde completamente in un rapporto geometrico
ed equilibrato delle forme; la linea del fucile è
parallela all’inclinazione del soldato a cavallo, il
cerchio degli scudi è contrapposto al rettangolo
della didascalia, elemento grafico di pari
importanza agli altri segni della tavola.
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© Mattotti-Kramsky
© Mattotti-Ambrosi
L. Mattotti, “La zona fatua”
Granata Press
© 2002 Igort, Coconino press
L. Mattotti, “L’uomo alla
finestra”, Feltrinelli
Igort, “5 è il numero perfetto”,
Coconino press
Lorenzo Mattotti sfrutta una traccia molto
pittorica, spesso utilizzando pastelli ad olio ed
acrilici, su cromie forti e contrastanti, per
enfatizzare il racconto di atmosfere, sensazioni,
sentimenti. I temi delle sue storie infatti vanno
ad esplorare la sfera più affettiva dell’animo
umano, delle emozioni, degli impulsi più intimi e
privati. Essendo la pittoricità ad avere il ruolo
primario dell’evocazione, la gabbia compositiva,
balloons e didascalie, si semplificano,
riducendosi a semplici ed asettiche forme, per
non interferire con la percezione della tavola.
Altre volte è il segno stesso ad essenzializzarsi,
come ne “L’uomo alla finestra” su testi di Lilia
Ambrosi. La storia è costruita su una gabbia a
croce, sulla quale le quattro vignette si adattano
secondo il bisogno, tanto semplici da essere
quasi il blocco degli schizzi quotidiani, la rubrica
del telefono su cui, meccanicamente,
estrapolare i disegni automatici che si
abbozzano quando stiamo parlando con una
persona cara. E’ una soluzione narrativa
funzionale all’espressività del fumetto.
Igort invece predilige la tecnica della doppia
tinta. Nell’esempio proposto ci racconta
magistralmente il risveglio all’alba, nella città di
Napoli. Nella prima vignetta, grande e
scontornata, il sole ancora candido, scolpisce le
forme delle architetture popolari. Alcuni passeri
cinguettano sui rami. Il loro balloons è quasi una
bolla che scoppia di vita, la nuova vita del
mattino. Una serie di piccoli quadrati, quasi
fotografie istantanee, fototessere del
quotidiano, dettagliano l’interno dove riposano i
protagonisti della storia: la ragazza sotto le
coperte, la sveglia, la caffettiera da cui esce il
rumore in una nuvoletta, quasi a dar voce ai
suoni, il volto addormentato dell’altro
personaggio e, in cucina, la terza figura che si
lava il viso nel lavabo dei piatti. Il balloon della
caffettiera visto prima, entra da fuoricampo. E’ la
grande capacità narrativa con cui l’autore riesce
a cogliere anche i più piccoli e consueti dettagli.
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© Eredi Breccia
Alberto Breccia,
“Mort Cinder”
Alberto Breccia, ha lavorato per quasi tutta la
vita in Argentina, ma i suoi lavori sono conosciuti
in tutto il mondo. E’ un autore completo che ha
saputo sperimentare sempre nuove strade e
rinnovare continuamente il suo stile mettendolo
al servizio dell’espressività e della narrazione. A
fianco dello scrittore Héctor G. Oesterheld ha
dato vita ad alcuni dei fumetti più importanti della
storia dei comics, come “Mort Cinder” e
“L’Eternauta”.
Lo citiamo in questa nostra breve ricerca,
proprio per dimostrare come la scelta
espressiva sia fondamentale all’interno del
meccanismo complesso che si instaura fra
l’autore e il lettore, al fine di raggiungere la
completezza del frasario comunicativo.
Il suo disegno ora diventa macchia, contrasto di
bianchi e di neri, ora sagoma scontornata, o
taglio geometrico equilibrato. Distese fluide e
compatte di nero, lasciano il posto ad arzigogoli
descritti con cura di particolari e dettagli: le
rughe della pelle, le pagine di un vecchio libro, i
ricami di un’antico orologio.
Per raccontarci la crudeltà della guerra, la sua
penna diventa uno stilo graffiante ed acuto,
inclinato a tagliare ferite laceranti come solo il
filo spinato può fare. Sembra quasi che la tavola
sia stata composta direttamente in trincea,
riportandone le scaglie delle granate, il sangue
dei morti innocenti, travolti dall’assurdità della
violenza.
Le scelte delle inquadrature, insolite, deformate,
incarnano un altro suo simbolo stilistico. Nella
vignetta centrale della pagina qui a fianco, la
schiena del protagonista, imponente, diventa il
fulcro bianco attorno al quale ruota la minuzia
ruvida e fastidiosa del dettaglio. E’ la polvere
della guerra che tutto ferisce e rovina.
La pienezza della scuola brecciana, imitata ma
mai eguagliata, proposta sempre con umiltà e
mai autoreferenziale, rende ancor più grande e
fondamentale il lavoro e la ricerca di questo
artista.
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Kenzo Kazanigawa,
“Il cacciatore di demoni”
I manga, ovvero i fumetti giapponesi,
presentano molte differenze rispetto ai cugini
occidentali, a partire dal senso inverso di lettura,
fino alle modalità espositive. Notiamo infatti che
il ritmo dei manga (pur nella molteplicità delle
proposte e delle pubblicazioni che raggiungono
quasi tutti i target d’età), tendenzialmente più
sciolto, si avvicina a quello cinematografico,
staccandosi nettamente dalle tendenze a volte
illustrative di alcuni autori europei. La gabbia
della tavola può mutare liberamente da pagina a
pagina, per adattarsi alla soluzione più idonea
per sottolineare la tensione emotiva della scena
rappresentata. I bordi delle vignette s’inclinano,
assumendo posizioni più dinamiche,
parallelamente l’ampio utilizzo delle linee
cinetiche acuisce visivamente il senso del
movimento e della velocità.
Una caratteristica della metodologia narrativa
delle strisce orientali risiede nella capacità di
sfruttare inquadrature su elementi secondari,
per coinvolgere maggiormente il lettore. In
questo senso il rapporto con il cinema si fa
ancora più stretto: molti registi utilizzano lo
stesso trucco anche con la pellicola. E’ una
specie di “fuori campo logico-figurativo”; ciò che
viene ripreso, pur non essendo l’elemento
principale del racconto, contribuisce
ad
arricchire lo svolgimento della vicenda.
Osserviamo l’esempio riportato qui a fianco: un
samurai attende l’arrivo del suo terribile nemico.
L’attesa è spasmodica ma sembra non aver
effetto sull’animo impassibile del guerriero. Per
sottolineare il momento quasi astratto di quiete
che precede lo scontro, l’autore disegna nella
prima vignetta il piede del protagonista che si
sposta leggermente, poi il riflesso del sole fra le
fronde (tanto concreto da provocare addirittura
un rumore). Segue un piano medio dell’uomo di
spalle, mentre sullo sfondo la sagoma
minacciosa di un’orrenda creatura avanza
velocemente. Il samurai estrae la spada
volteggiandola nell’aria prima dello scontro.
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Copyright © 1999 Kappa Srl, © Seuil per l’edizione originale
© 1999 Guy Delcourt - Trondheim © 2001 ediz. italiana Edizioni BD
Lewis Trondheim,
“La mosca”, Kappa edizioni
© 1998 Trondheim - Le Lezard and Cornelius
Lewis Trondheim,
“Confusione mostruosa”,
Edizioni Bande Dessinée
Lewis Trondheim,
“Monolinguistici e altri
esercizi di stile”,
Rasputin libri
Fra i fumettisti che giocano liberamente con le
possibilità linguistiche offerte da vignette e
balloons, Lewis Trondheim è forse l’autore che
più si diverte a sperimentare trovate simpatiche
e rivoluzionarie. Uno dei suoi volumi più famosi,
da cui è stata tratta anche una serie di cartoni
animati, è “La Mosca”. In questo fumetto,
completamente muto, la gabbia compositiva è
strutturata su nove vignette identiche che si
ripetono per tutta la struttura dell’albo. E’ la storia
di una mosca che nasce in un cestino di rifiuti ed
incomincia ad esplorare il piccolo mondo della
cucina, scoprendo incredibili creature e
divenendo pian piano sempre più grossa fino ad
un esilarante quanto surreale finale.
L’apparente banalità del soggetto, il segno
semplificato tipico di questo autore, la divisione
della pagina senza variazioni, subito si
riscattano (e anzi in qualche modo aumentano la
bellezza percettiva dell’opera) in un ritmo che
Trondheim riesce immediatamente a trasporci,
sfruttando appieno il mezzo fumettistico.
Ogni storia di questo autore svela una nuova
idea geniale. In “Confusione mostruosa” è il
disegno “scarabocchiato” dei bambini a prender
letteralmente vita, grazie alla polverina magica
che i genitori, professionisti fumettari, utilizzano
sui loro lavori per dar vita e tridimensionalità ai
disegni. Solo che, in questo caso, gli
scarabocchi dei bambini diventano mostri
terribili.
In “Monolinguistici e altri esercizi di stile” è il
concetto stesso del disegno ad essere messo in
gioco: non importa la bellezza rappresentativa,
la prospettiva rinascimentale, la cura delle
ombre, la correttezza dell’anatomia o la
perfezione del chiaroscuro. Anzi, ogni vignetta
non è altro che la fotocopia di quella precedente
a cui è stato solo spostato, con una veloce
operazione di sbianchettatura, un particolare
dell’occhio o della bocca. Tutta la lettura si
concentra allora sui dialoghi, devastanti e
surreali quanto basta per stendere un elefante!
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© 2000 Guy Delcourt - Trondheim - Garcia © ediz. Italiana Edizioni Bande Dessinée
“Le tre strade” è un’altro capolavoro di Lewis Trondheim, coaudiuvato in
questo caso da Sergio Garcia. Qui la gabbia e il concetto stesso di
sequenza, inteso come suddivisione e scansione ritmica delle vignette, si
perde completamente. Tutto è basato sul concetto della multilinearità
narrativa. L’albo si legge a doppia pagina. Quattro personaggi (una
bambina che alla mattina si sveglia e aspetta che la nuvola del pane le porti
da mangiare, un robot che ha paura dell’acqua perché lo fa arrugginire, un
avaro e il suo aiutante) camminano su tre strade differenti, con tre storie
differenti. Queste strade si incrociano (non solo narrativamente ma anche
figurativamente) e in questo modo i ruoli, i problemi e le vicende si
intersecano aumentando il ritmo del racconto.
Pur connotandosi come fumetto, gli autori ne hanno eliminato gli elementi
più distintivi: le vignette. Si aprono così a nuove forme dell’immaginario
narrativo, superando le barriere delle etichette verso una volontà di
espressione artistica originale e creativa. Non importa se un prodotto
possa essere catalogato nell’ambito del cinema o del fumetto,
dell’illustrazione o dell’animazione multimediale. Nei linguaggi più
moderni, questi confini diventano sempre più labili, per confluire l’uno
nell’altro, aprire varchi, mostrare nuove vie. Conta piuttosto la volontà e
necessità di raccontare qualcosa, di confrontarsi con l’altro, il lettore,
Lewis Trondheim – Sergio Garcia, “Le tre strade”, Edizioni Bande Dessinée
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Dal fumetto alle riprese: lo storyboard
Marco Feo e Andrea Capone
La vicinanza del fumetto e del cinema si può facilmente notare analizzando
un altro dei passaggi con cui si realizza un film: lo storyboard, cioè una
specie di fumetto, una serie di bozzetti che illustrano le scene principali di
una sequenza filmica, per spiegarne il contenuto. Si tratta di illustrazioni
schizzate più o meno velocemente, che fissano i momenti significativi del
filmato, con l'indicazione, accanto a ciascuna immagine, del relativo audio
(suoni, rumori, musiche, dialoghi) o dei movimenti di camera.
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E' uno strumento tecnico e narrativo molto utile al regista per avere un'idea
visiva iniziale di ciò che dovrà riprendere.
Molti registi come Fellini, ad esempio, realizzavano da soli i propri
storyboard. Grazie a questo documento di lavorazione, registi,
collaboratori e produttori, possono discutere, elaborare, affinare, fino ad
arrivare alla versione definitiva della loro storia.
I tratti che riconosciamo nello storyboard sono quelli tipici del fumetto: le
posture, la recitazione dei personaggi, i tagli e le inquadrature, la
deformazione grafico-espressiva. Infatti, la sua realizzazione è spesso
affidata ad autori di strisce e nuvolette. Realizzare particolari scene o
inquadrature richiede uno studio aggiuntivo ed approfondito: il linguaggio
del fumetto diventa uno strumento fondamentale.
A volte però, un cliente (ad esempio il produttore di un film o il titolare di un
azienda che ha ordinato l'esecuzione di uno spot pubblicitario) non
essendo un addetto ai lavori, potrebbe riscontrare difficoltà a capire il
classico storyboard. Per questo è stato inventato un sistema che si chiama
animatic che consiste nel riprendere con la telecamera i disegni dello
storyboard, magari con qualche movimento di macchina, come una
carrellata o una zummata, arricchendo il tutto con commento musicale e
rumori, oltre che con una versione provvisoria di dialogo. Il risultato si
avvicina molto a quello finale, e può essere capito e valutato anche da chi
non è esperto. Ultimamente gli animatic sono realizzati velocemente e con
sempre maggior impatto, grazie all’utilizzo di programmi di animazione
tridimensionale.
Non è detto che uno storyboard vada realizzato per tutto il film. Storyboard
molto accurati e dettagliati, vengono realizzati soprattutto per quelle
sequenze in cui vi sono degli apporti esterni oltre alla semplice ripresa
cinematografica, come gli effetti speciali realizzati in computer grafica.
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