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INDICE
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Capitolo I: Tracce, pag. 1
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Capitolo II: Il silenzio di Elisa, pag. 15
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Capitolo III: Il perdono, pag. 26
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Capitolo IV: Ritorsione, pag. 32
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Capitolo V: Sindrome Kafkiana, pag. 38
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Capitolo VI: Incontri, pag. 43
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Capitolo VII: Navigando….nel passato, pag. 62
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Capitolo VIII: Improvvisamente la verità scende dal cielo, pag. 69
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Capitolo IX: La notte delle stelle, pag. 78
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Capitolo X: Tracce per sempre, pag. 86
CAPITOLO I
TRACCE
La sabbia scotta sotto ai piedi. E’ vero.....lo spesso strato calloso che li protegge formatosi in chissà quante centinaia di chilometri percorsi senza scarpe - ha assunto ormai
la consistenza di una vera suola di cuoio. Eppure la sabbia scotta. Il sole, alto in mezzo al
cielo, picchia terribilmente, brucia sulla pelle. Saranno le due, massimo le tre del
pomeriggio, di una giornata di piena estate, o estate avanzata. Probabilmente agosto, chi lo
sa ! D’altronde meglio così. I guai veri giungono con la stagione invernale. Anche in questa
indefinita località delle coste mediterranee l’inverno è pur sempre inverno. Pioggia, vento,
freddo, talvolta anche neve. Prima che giunga il prossimo dovrò confezionarmi una
qualche sorta di indumento innanzitutto. Lo scorso inverno avevo ancora addosso qualche
lacero straccio. Ora solo questo straccio rinsecchito e martoriato della mia pelle. E poi la
necessità di un rifugio, un rifugio sicuro che riesca a nascondermi possibilmente per tutta la
stagione fredda, ed efficace a ridurre i rischi di malattie e i disagi di vario tipo. D’estate
sono libero dall’incombenza di questi problemi. E anche la ricerca di cibo è assai meno
difficoltosa : frutta selvatica, radici, erbe in abbondanza, pesci nei fiumi, crostacei e bivalvi
sulle coste, l’intensa vita animale nei boschi e nelle praterie. Di sicuro maggiori e
diversificate opportunità di procacciarsi alimenti. Senza considerare che, durante gli
spostamenti, mi è lecito sperare di trovare i pochi rifugi e i villaggi, un tempo abitati, che
sono scampati al saccheggio o alla distruzione e, quando ho fortuna, posso avvalermi dei
loro depositi di provviste. Certo, questi ritrovamenti stanno diventando sempre più rari, ma
non impossibili.
Il sole oggi, comunque, sta prosciugando le scarse energie fisiche delle quali ancora
dispongo. Il refrigerio prodotto dalle acque marine sulle membra sporche, sudate,
affaticate, ancora mi solletica la mente. Meglio non assecondare la tentazione di tornare a
bagnarmi. Ho già bivaccato abbastanza a lungo sulla costa, nello stesso tratto di litorale.
Bisogna stare attenti a non esagerare. Troppo rischioso. Fermarsi più di qualche giorno in
un posto cosi scoperto e di così facile accesso, equivale a consegnarsi volontariamente
nelle loro mani. LORO non perdonano simili ingenuità. Si spostano di continuo ovunque.
Figuriamoci se non individuerebbero chi ha avuto l’incoscienza di sostare troppo per
godere di confortevoli spazi aperti, che si lasciano perlustrare a vista da chilometri di
distanza. E poi quelle piccole impronte umane, quasi certamente di donna, mi stanno
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ossessionando, non potevano essere impronte di uno di loro. No! Erano impronte di un
essere umano, e anche molto recenti, altrimenti il vento le avrebbe cancellate dalla sabbia.
Quanti mesi, anzi anni, che non ne vedevo ! Quando mi sono imbattuto in quelle impronte
sono rimasto sbigottito, incredulo. Chi non lo sarebbe stato al mio posto ? Ero quasi
rassegnato all’idea di essere l’unico sopravvissuto del pianeta, o almeno di tutta l’area
mediterranea. E invece......no, non posso essermi sbagliato. Qualcuno, forse di sesso
femminile - non certo uno di loro - era passato, da massimo due o tre giorni, di lì. Dovevo
ad ogni costo stabilire un contatto. Dopo anni tornavo a sperare. E così ho tentato di
seguire la direzione di quelle tracce. Ci sono riuscito per un paio di giorni. Poi
d’improvviso più niente, come se l’essere che inseguivo fosse stato un angelo e si fosse
messo a volare. Posso immaginare che quell’essere che le ha lasciate, resosi conto del
pericolo che rappresentavano per la sua vita, abbia usato qualche stratagemma per
cancellarle. Anch’io ho fatto altrettanto, servendomi di un cespuglio di erica a mo’ di scopa
per cancellare le mie. E finché il terreno che sto percorrendo si mantiene di consistenza
così sabbiosa devo continuare a fare altrettanto. Ma... – che strano! - ....come mai
quell’essere non ha cancellato fin da subito le proprie ? Una fortuna per lui che abbia
provveduto a cancellarle io. Fortuna... ? Mah.... ! Potrebbe darsi che non le avesse lasciate
per mera sbadataggine, ma con un preciso intento, quello di trasmettere un segnale a
qualcuno. In questo caso, al contrario, sarebbe una sfortuna per lui che mi ci sia imbattuto
io. O forse il segnale non era diretto specificamente a qualcuno e con qualche preciso
scopo, ed era invece il segnale di sopravvivenza lasciato per eventuali altri esseri umani
ancora in vita ? O forse ho sognato tutto quanto, considerato che sono passati altri due
giorni senza che abbia più potuto trovare alcuna altra traccia, esaurendo nel frattempo le
scorte d’acqua e cibo ?
Il sole scotta tremendamente, mi sento sfinito. I morsi della sete e della fame stanno
sostituendosi alla preoccupazione di ritrovare le tracce dell’essere. Non ho più la capacità
di ragionare, sembra evaporata anche la materia grigia. In quest’area così arida, senza un
briciolo d’ombra per chilometri intorno, mi sto squagliando come una medusa, accasciato
sulla sabbia, con idee improbabili e confuse che frullano per la testa inutilmente. Non
riescono a produrre alcunché di decisivo, di stimolante per attivare le energie residue. La
pelle dei testicoli, così floscia e appiccicosa per il sudore, si è avviluppata di granelli di
sabbia. Una leggera brezza mi solletica tra i peli del petto e del pube, una carezza deliziosa
sulle cosce. Che voglia di carezze ! Che voglia di coccole e di parole calde e amiche ! Che
voglia di qualcuno con cui parlare ! Non so più nemmeno se sono ancora capace di parlare.
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La macchia intricata. I boschi dell’entroterra. Ecco cosa devo fare ! Non posso più
temporeggiare, trastullarmi con la speranza di idilliaci incontri. Devo dirigermi al più
presto tra la folta vegetazione dell’entroterra. All’orizzonte scorgo una linea cupa di tenui
rilievi che contrastano con l’intensa luminosità del cielo. Di sicuro là troverò dei boschi per
nascondermi, e acqua, ombra, frutta, erbe di ogni tipo, e la compagnia di istrici, tassi,
cinghiali, daini....Avverto di nuovo stimoli all’azione, deboli, ma sufficienti. Con le scarse
energie fisiche che mi rimangono e il sostegno della caparbietà, mi rialzo in piedi. Un
senso di vertigine, la nebbia agli occhi. Tutto appare confuso e sbiadito intorno a me. Pochi
attimi….ora sembra di nuovo tutto normale. Un’altra flebile folata di vento scivola sulle
membra sudate, un brivido di frescura, ritrovo un vigore insospettabile. Sono pronto. Punto
con lo sguardo ad ovest, verso i lontani rilievi collinari. Mi attendono dure ore di cammino.
Che stupido trovarmi costretto a intraprenderlo in pieno giorno, sotto questo terribile sole
estivo ! Al diavolo le impronte ! Se non le avessi incontrate ora me ne starei sdraiato
all’ombra di una frondosa quercia, o a respirare l’aroma della resina dei pini. Al diavolo
quelle tracce ! Vada a farsi fottere chi le ha lasciate.
Stringo nella mano destra la scopa di erica. Le mie gambe si mettono in movimento.
Il sole scotta, incendia le spalle scarnite.
Mi trovo a camminare da più di un’ora nel mezzo di una fitta gariga di cespugli,
spesso spinosi. Lo “stracciabrache”, il ginepro “coccolone”, i ramoscelli rigidi della fillirea,
frammisti in associazioni densissime alle varie altre specie di piante mediterranee, mi
flagellano la cute, quando sono costretto a creare dei varchi per continuare nella direzione
prefissata. Se avessi una roncola ! Non esiterei a sacrificare un po’ dell’integrità di questi
luoghi selvaggi. Il sole, per fortuna, è scomparso all’orizzonte e il chiarore serale che
ancora diffonde si accompagna a questa dolce frescura che ha la capacità di rivitalizzare la
mente e il corpo. Ma, non bastassero i dolorosi graffi inferti dai cespugli, ora si
aggiungono, con la consueta esasperante puntualità, le fastidiose punture di orde fameliche
di zanzare. Un’ora di terribili assalti ai quali non sono mai riuscito ad abituarmi. Il verso
del cuculo, che a volte mi giunge da lontano e a volte da vicino, nella sua lenta ripetitività
mi suggerisce che non vale la pena lasciarsi afferrare dalla stizza. Le cose così vanno, da
milioni di anni, così andranno per chi sa quanto ancora.
Le radici che ho succhiato lungo il cammino, le manciate di bacche che ho divorato,
hanno attenuato i morsi della sete, meno quelli della fame. Con il rumore che ho prodotto
attraversando il fitto fogliame, nemmeno una piccola talpa, un moscardino, una tartaruga si
sono lasciati acchiappare alla sprovvista, così da dare un po’ di consistenza alla dieta del
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giorno. Pazienza, probabilmente domani andrà meglio. Poi sento che....qualcosa sta
cambiando. Per quanto il buio stia ormai prendendo il sopravvento e la visibilità si sia
ridotta quasi a zero, ho l’impressione che la macchia si diradi. Si aprono via via spazi più
ampi, piccole radure in cui alloggiano robuste sabine marittime e contorti pini. Addirittura
qualche leccio, di taglia arbustiva più che arborea, ma sono lecci, non mi posso sbagliare.
Gli indizi sono più che sufficienti, per l’esperienza decennale che ho maturato
nascondendomi tra le foreste di ogni latitudine e altitudine. La macchia cespugliosa sembra
cedere il posto ad un vero e proprio bosco, e ciò non può che confortarmi. Potrò esplorarlo
con tutta calma nei giorni seguenti e - perché no ? - se lo trovassi abbastanza accogliente e
sufficientemente esteso da garantire protezione per un lungo periodo, potrei anche
incominciare a pensare ad una sistemazione per la stagione fredda. Meglio pensarci per
tempo, prima che il freddo mi colga impreparato creandomi non poche difficoltà.
D’altronde....il mio programma di impegni per il prossimo futuro non è certo saturo di
priorità irrinunciabili. Bene ! In questo momento l’unica preoccupazione è trovare un
giaciglio comodo per la notte, poi domattina penserò al resto. Là, sotto quella sagoma
ricurva di pino, credo proprio faccia al caso mio. Con il fogliame di lentisco e di quel
piccolo alloro che ho appena strusciato coprirò il corpo. Che notte profumata si prospetta !
Il silenzio è quasi perfetto. Come di consueto, da un po’ di tempo a questa parte, sarà la
rassicurante cantilena dei grilli ad accompagnare la dipartita dalla veglia.
Un grido d’allarme di civetta interrompe il mio sonno, e soprattutto il bellissimo
sogno che stavo facendo : parlavo e parlavo, con logorrea irrefrenabile, ad interlocutori
umani. Non topi e lucertole, serpenti o pettirossi, no, solo uomini, migliaia di uomini
intorno a me, in un turbinio frastornante di inesauribile gioiosità. Parlavo, ridevo, saltavo
da un interlocutore all’altro accarezzando le loro facce sorridenti. Erano donne, uomini,
bambini, anziani, centinaia, migliaia, in una piazza sconfinata, brulicante solo di esseri
umani. L’urlo ha spazzato via tutto. Sollevo il busto. Il cuore tambureggia con violenza nel
petto. Con gesti rapidi della testa mi guardo intorno. Silenzio, buio pesto. Man mano si
delineano le ombre dei cespugli, si ripristinano i contorni delle cose. Trattengo il fiato per
alcuni secondi, per percepire eventuali presenze. Solo il coro di grilli, monotono,
imperturbabile, tranquillizzante. Nient’altro. Ma resto immobile ancora per lunghi minuti,
per prudenza. Una sottovalutazione delle circostanze potrebbe risultarmi fatale. Lo so per
esperienza, anche se fino ad oggi mi è andata sempre bene. Ho corso parecchi rischi in
passato per non aver ponderato a sufficienza gli elementi che mi circondavano in
determinate situazioni. La fortuna mi ha aiutato ad uscirne indenne. Prima o poi potrebbe
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abbandonarmi. Un tenue fruscio proviene da dietro le spalle. Ci siamo. Ho fatto bene a
diffidare. Qualcosa c’è ! Forse uno dei tanti animali notturni in cerca di cibo. Anzi, quasi
sicuramente. Ma debbo verificare. Balzo in piedi e corro alla cieca verso il luogo da dove è
provenuto il rumore. Vado a sbattere contro dei cespugli, cerco convulsamente di
districarmi. Il piede destro inciampa su qualcosa di rigido….per la spinta mi ritrovo a terra
aggrovigliato ancor più tra i cespugli. I graffi mi bruciano sulla pelle, le dita del piede
rimasto impigliato sono doloranti, una certa apprensione mi assale. Per la tensione
psicologica riesco a drizzarmi in piedi con uno scatto felino. Mi immobilizzo. Attendo un
rumore. Se qualcuno c’è e si muove, non può non far rumore. Passano lunghi momenti di
silenzio, durante i quali resto fermo come una statua, trattenendo ancora il respiro.
Maledetto, fatti sentire ! Una goccia di sudore scivola da sotto le ascelle lungo il costato.
Un brivido....ora basta!.
“Chi è là ? Chi sei ? Esci fuori...”
A pochi passi di distanza percepisco un nuovo leggero fruscio. Volto lo sguardo in
quella direzione. Avverto la tensione crescere dentro di me, ma rimango incerto sul da
farsi. Distinguo i contorni frastagliati della sommità di alcuni cespugli che ondeggiano
come mossi da un soffio di vento. Poi un nuovo fruscio, ancora più forte. Poi un altro e un
altro ancora, in un caotico susseguirsi di rumori che progressivamente si allontanano.
Qualcuno sta scappando, ormai è chiaro. MA CHI ? Scarto l’idea di corrergli dietro…a che
servirebbe ? Con questo buio non andrei certo lontano, senza contare che potrebbero
capitarmi sgradevoli eventi. No, ormai è andato, chiunque fosse. Meglio lasciarlo andare. E
poi....chi altro poteva essere se non un animale ? Una volpe, anzi no.... a giudicare dal gran
rumore che ha fatto fuggendo sembrava un animale di taglia più grossa, un cinghiale,
magari un daino. A pensarci bene non ho avvertito quel caratteristico, pesante scalpitio
delle zampe al suolo che di solito si avverte quando un animale fornito di zoccoli scappa
allorché si sente scoperto. E allora... ? Comunque non credo ci sia da preoccuparsi più di
tanto. Se fosse stato qualcuno...qualche animale con capacità e volontà di infierire, ne
avrebbe avuto sicuramente l’opportunità con questo buio, pur considerando il fallimento
del fattore sorpresa. Non tornerà, per questa notte non tornerà. Meglio provare di nuovo a
dormire, restandomene prima acquattato e in allerta per un po’ di tempo. Là dove avevo
improvvisato il giaciglio, recupero le frasche sparpagliate intorno e mi sdraio appoggiando
il mento sulle braccia incrociate. Rimango in ascolto dei più infimi rumori della notte, dei
grilli che non ne vogliono sapere, per fortuna, di tacere, del silenzio, del meraviglioso
silenzio che mi circonda.....
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Il chiarore soffuso del crepuscolo penetra sotto le palpebre. Mi ridesto. Un brivido
di freddo corre sulla pelle, mi raggomitolo tutto abbracciando le ginocchia. Percepisco al
contatto la sottile patina di umidità che si è depositata, durante la notte, sulle membra
intorpidite. Mi coglie un tremito convulso che non riesco a reprimere. Nemmeno riesco a
trattenere violenti impulsi di tosse. Devo alzarmi ! Devo muovermi al più presto per
riattivare la circolazione sanguigna. Dovrò iniziare quanto prima a conservare le pelli degli
animali predati, onde poter confezionare qualche indumento. Sono ormai parecchie mattine
che mi sveglio infreddolito e rischio di prendere qualche malanno. Se potessi trovare
qualche abito umano ! Ma dove ? Neanche più le carogne degli esseri umani si riescono a
trovare !
Sono di nuovo in piedi, inizio a saltellare girando intorno al pino sotto il quale ho
trascorso la notte. Se qualcuno mi vedesse ora, avrebbe di che dubitare della mia sanità
mentale, pensando magari che mi sono immedesimato in un guerriero cheyenne che danza
intorno al fuoco. Ma chi vuoi che mi veda! Sento che tornano a scaldarsi gli arti, a
sciogliersi i muscoli, a riattivarsi le energie. Sento di essere pronto anche per questa
ennesima giornata di solitudine. Ora che ci penso….- il cuore prende a pulsarmi di botto …..stanotte ho avuto visite! La macchia è ancora avvolta nell’ombra, ma non più così tanto
da impedirmi di scrutare nei dintorni per rilevare eventuali impronte lasciate dal visitatore.
Il terreno, per ampi tratti, è morbido, impregnato di componenti sabbiose e
dunque....diamoci da fare! Incomincerò a perlustrare l’area dalla quale durante la notte
erano provenuti i rumori, poi allargherò il raggio di osservazione, percorrendo anelli
concentrici via via sempre più grandi.
Da oltre un’ora sto scrutando ogni angolo, ogni cespuglio, ogni spazio aperto
e....nulla ! Non un ramo spezzato, non una mezza impronta, non una qualsiasi traccia
sospetta. La luce è poi tornata nel frattempo a illuminare anche i luoghi più intricati e
angusti. Non c’è metro quadrato nel raggio di centro metri intorno che non abbia visitato
almeno un paio di volte. Incredibile ! Assurdo ma vero. Nulla di nulla. Ora poi il terreno
risulta in più punti smosso dal continuo andirivieni. Anche ci fosse stata qualche impronta,
sarebbe assai difficile distinguerla con sicurezza dalle mie. Avverto irritazione e
scoramento. Mi appoggio al tronco di un leccio e scruto la vegetazione circostante. Il posto
è incantevole. Ora, in piena luce, riesco ad apprezzarne tutta la bellezza. Una nebbia
leggera l’avvolge completamente e dona ad esso quel fascino così misterioso che, pur già
visto mille volte, non mi lascia mai indifferente. Con lo sguardo cerco di spaziare il più
lontano possibile in direzione opposta a quella della costa che ho lasciato il giorno
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precedente. Come avevo già intuito, l’ambiente va progressivamente assumendo l’aspetto
di una maestosa foresta. I tronchi degli alberi sono sempre più possenti e alti. Almeno in
questo la giornata si prospetta interessante. Credo di aver trovato un degno luogo ove poter
tentare di fissare la mia prossima dimora invernale. E’ ovvio che nei prossimi giorni dovrò
esplorare in largo e lungo la foresta, per saggiarne l’estensione e le risorse potenziali,
sperando che risultino sufficienti a soddisfare le esigenze vitali per un lungo periodo di
tempo. E questa, tutto sommato, è la fase meno sgradevole dei miei continui, interminabili
spostamenti. E’ bene che dia inizio subito, con questa deliziosa frescura mattutina, alla
meticolosa perlustrazione che, è assai probabile, mi terrà occupato non per poco. E allora
forza, coraggio ! In questi momenti sento rinascere il desiderio di continuare a vivere. Se la
vita ha un senso, è in questo desiderio che si nasconde.
Ho percorso poco più di un chilometro, forse due, e un sommesso mormorio,
appena percepibile ma ben definito, mi suscita allegria. So bene a cosa attribuirlo : un
fiume, un torrente, comunque delle acque che scorrono. Difficile decifrarne la portata, ma
mi basta sapere che di sicuro qualcosa del genere troverò. Inizio a correre lungo un pendio
poco scosceso, incurante dei graffi sulla pelle lasciati dagli arbusti di erica, che non posso
evitare di strusciare. Ho la smania di arrivare prima possibile. Non avverto nemmeno il
fastidio sotto ai piedi di spine, ramoscelli appuntiti, aghi di pino o quant’altro mi capiti di
calpestare. La terra frana sotto i miei piedi......splash ! Ci sono già dentro, immerso fino al
collo, col respiro interrotto per l’impatto gelido. Che meraviglia !....brrrrr....che freddo !
Che bella questa violenta sensazione di purificazione ! Che piacere strapparsi di dosso la
sozzura e, per un momento, il peso insopportabile dei pensieri! Tutto sembra riacquistare
significato quando si è colti da improvvisa gioia. Perché c’è gioia se non c’è senso ? Se non
ci fosse un senso di che cosa si dovrebbe gioire ? E’ solo un piccolo fosso, che scorre lento,
quasi lo facesse contro voglia, oltretutto difetta di trasparenza, anzi è quasi torbido.
Eppure....è semplicemente bello trovarcisi dentro. Volteggio, mi immergo, riemergo,
arranco con mani e piedi sul fondo sollevando nugoli melmosi. Allungo le mani fuori
dell’acqua e accarezzo il muschio e le felci che ricoprono alcune rocce. Non ho alcun
motivo di darmi fretta, distendo le membra e le lascio galleggiare. L’odore intenso che
emana dai margini fangosi mi inebria come una droga, ho voglia di mordere qualcosa, e
allora mordo l’acqua, ne ingurgito grosse boccate e con essa le infinite particelle in
sospensione che si sono sollevate dal fondo.
Il sole è già ben visibile tra i rami degli alberi e decido di sollevarmi, infreddolito,
con la pelle d’oca e la tremarella come quando mi sono appena svegliato. Ma quanta
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pacatezza e, allo stesso tempo, vitalità sento dentro ! Vengano ora ad arrostirmi quei raggi
di sole dai quali durante il giorno cerco scampo. Anzi, vado io da loro, ne ho proprio
bisogno. Riprendo a camminare lungo un margine del fosso alla ricerca di uno spiazzo
esposto.
Cosa vedono i miei occhi ! Sono stupito, quasi incredulo, di ciò che appare in un
punto del terriccio umido. Sento crescere un tale entusiasmo che vorrei mettermi a saltare
come un cavallo imbizzarrito. Due, tre, quattro....proietto lo sguardo metro dopo metro
lungo la sponda.....decine e decine di impronte....UMANE ! Le stesse che avevo scoperto
sulla costa. Non sto sognando...allora non avevo sognato ! Preso da febbrile entusiasmo mi
chino ad osservarle una ad una, per accertarmi se siano di uno o più esseri umani. Ad un
primo esame sembrano tutte uguali, di taglia piccola, di almeno due o tre centimetri più
piccola dell’impronta del mio piede. Non ho alcun dubbio....LE STESSE che ho già
incontrato. E poi, una semplice coincidenza di ritrovamenti, cosi poco distanti nel tempo e
nello spazio fra loro, e così somiglianti, sarebbe altamente improbabile. Comunque sia
QUALCUNO C’E’ ed è molto vicino. Queste impronte sono freschissime, di massimo
alcune ore. Non mi deve sfuggire. Ma perché fugge ? Da che cosa fugge se anche lui, o lei,
è un essere umano ? Sono quasi convinto, a questo punto, che sia lo stesso essere che mi ha
fatto visita durante la notte. Ma perché allora è scappato ? Che occasione incredibile di
incontro è sfumata ! Rientro con i piedi nell’acqua per evitare di creare confusione tra le
mie impronte e quelle già impresse sul terreno. Scruto attentamente entrambe le sponde del
fosso per centinaia di metri ed in entrambe le direzioni del fosso. Non riscontro alcun altro
minimo indizio di passaggio, se non quello degli animali più comuni che popolano il
bosco. Ritorno sulla zona del ritrovamento e cerco di dedurre il senso di marcia delle
impronte. Non risulta cosa facile sulle prime. L’area di calpestio si estende per alcune
decine di metri, anche a distanza dal fosso, mostrando varie direzioni di marcia. Come se
l’essere si fosse messo tranquillamente a passeggiare avanti e indietro o a cercare qualcosa
nei dintorni. Poi, dove il terreno acquisisce di nuovo compattezza, le impronte non sono
più rilevabili. Rifletto a lungo e intanto il sole sale, lo sento addosso, dentro di me, con
crescente insofferenza, nonostante la densa protezione fogliare degli alberi. Arrivo ad una
conclusione, l’unica che mi sembri plausibile : l’autore delle impronte è, con molta
probabilità, entrato nel fosso in un punto più a valle del suo corso, molto più indietro del
punto nel quale sono poi entrato io. Vi ha camminato dentro per un lungo tratto in modo da
rendere più difficile ad un eventuale inseguitore - che sarei poi io - il proposito di
rintracciarlo. Quindi,
considerandosi ormai fuori pericolo, ne è uscito e si è persino
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concesso una pausa distensiva prima di continuare il cammino. La zona di ritrovamento
dovrebbe, di conseguenza, essere il punto di uscita dal fosso e non di entrata. Per mia
fortuna ho incrociato il corso d’acqua proprio all’altezza di questo punto. Altrimenti ora
starei girovagando senza un preciso obiettivo. Invece ho ritrovato uno scopo immediato da
perseguire, incontrarmi quanto prima con questo essere umano. Potrebbe rappresentare
una svolta fondamentale per la mia esistenza. Oltre tutto le probabilità che vi riesca sono
decisamente aumentate. Solo poche ore di cammino ci separano l’uno dall’altro ed ho la
certezza della sua vicina presenza. Riprendo di buona lena a camminare all’interno del
bosco, quasi convinto di trovarmi alle spalle della mia più importante preda da alcuni anni
ad oggi. Caccia grossa questa volta. Non tollererei un fallimento, non me lo posso
permettere, sarebbe catastrofico....
Chi l’avrebbe mai detto ! Se per gli uomini è sempre valso il detto che la speranza è
l’ultima cosa a morire, credo di aver imparato a mie spese che nemmeno per lo scoramento
c’è mai fine. Forse non saprò mai quale delle due emozioni abbia più capacità di persistere
e di dir l’ultima parola nella vita di un uomo. Sono passati cinque lunghissimi,
maledettissimi giorni da quando ho lasciato quelle testimonianze silenziose sulla riva del
fosso. Non ne ho più trovata una, nonostante l’attenzione profusa ad indagare anche sui più
piccoli dettagli dell’ambiente boschivo. Non un particolare, non un piccolo ramo spezzato
di recente che potesse lasciar pensare, o quantomeno dubitare, del passaggio di un essere
umano. Ora è notte. Un spicchio di luna è ricomparsa in cielo e getta tenui riflessi sulle
foglie. Le zanzare hanno da poco cessato di compiere il loro abituale, martoriante
punzecchiamento. Io non ho invece ancora cessato di flagellare con le unghie la cute per i
postumi pruriginosi delle loro punture. Non mi trovo in una situazione confortante,
tuttavia.....avverto un vago senso di consolazione. Il bosco è grande, immenso, come mai
mi sarei aspettato ed addirittura augurato di trovare. Questo allevia in parte la frustrazione
prodotta dal mancato incontro. Rimane aperta la possibilità
di poter affrontare con
adeguate risorse la prossima stagione fredda, di poter continuare a vivere in una prospettiva
di minor disagio rispetto ad altri periodi del passato. Non è poco, e finché c’è vita.....Oltre
alla consueta dieta a base di erbe, bacche e radici, in questi cinque giorni non ho trovato
difficoltoso integrare l’alimentazione con più energetici prodotti di carne. Ne hanno fatto le
spese due moscardini e una volpe. Era da settimane che non mangiavo a sazietà. Carne
fresca, cotta. Ma che fatica con quei bastoncini per appiccare il fuoco ! E’ da tanto tempo
che ho esaurito le scorte di fiammiferi rinvenuti nell’ultimo rifugio scoperto. Che ricordo
angoscioso mi è rimasto di quella volta ! E’ come se il puzzo di morte si fosse appiccicato
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alle mucose delle narici. Solo cadaveri incontrai in quell’orribile antro di montagna,
cadaveri in putrefazione, con le membra maciullate e decomposte, ricoperte di vermi e di
topi. Il tanfo aveva saturato i lunghissimi corridoi bui. Con una torcia rinvenuta su una
parete dell’entrata ne esplorai una parte, arraffai tutto quello che di utile trovai sparso qua e
là, fino a che irresistibili conati di vomito mi costrinsero ad andarmene in tutta fretta. Fu
l’ultima volta che vidi esseri umani, o meglio, quello che restava di esseri umani. Non ebbi
il coraggio di appropriarmi dei loro abiti, talmente erano sporchi e puzzolenti. Ora me ne
pento, avrebbero fatto comodo. D’altronde si trattava semplicemente di indossarli dopo
averli lavati con cura nel più vicino ruscello. Non fui così avveduto e lungimirante, tanto
ero preso dal raccapriccio e dalla nausea. Seguì l’istinto di scappare e basta, ma non
proprio a mani vuote. Portai via un discreto bottino che ho saputo ben impiegare per lungo
tempo : torce, alimenti secchi che erano appesi alla volta, fiammiferi, bevande
imbottigliate, corde, persino un pettine e un’ascia. Già, l’ascia. Se avessi ancora
quell’ascia ! Sono stato di un’imperdonabile sbadataggine a smarrirla. Ma ormai è inutile
piangere sul latte versato. Finirò per impazzire se torno sempre a rimuginare sulle
disavventure passate. E’ necessario che pensi al presente, a questo magnifico bosco tutto da
scoprire, a questa luna che si è di nuovo affacciata in cielo e illuminerà le mie prossime
notti, a questa carezzevole frescura che.......forse sto già impazzendo ! Ho la sensazione di
udire il suono di un pianoforte.....persino il ricordo di un pianoforte che suona adesso mi
viene in mente. Sono troppo spossato dalle angosce, dai desideri, da questo senso di
solitudine che mi perseguita da anni, dalle continue frustrazioni. Se non riesco a
concentrarmi sul presente prima o poi vedrò danzare folletti, vedrò.....il pianoforte....IL
PIANOFORTE !
Questo
non
è
un
ricordo,
E’
UN
PIANOFORTE
CHE
SUONA...DAVVERO ! Col palmo delle mani comprimo le orecchie, con forza, per alcuni
secondi. Chiudo gli occhi. Creo il vuoto assoluto tra me e il mondo. Tolgo le mani dalle
orecchie, riapro gli occhi. Una lontana cantilena di grilli, il respiro affannoso, i battiti
veloci del cuore....IL PIANOFORTE ! E’ VERO, AUTENTICO...STA SUONANDO !
Faccio alcuni passi in una direzione qualsiasi e mi fermo. LO SENTO ANCORA,
vagamente, ma lo SENTO. Scatto verso la direzione opposta, correndo percorro poche
decine di metri e mi fermo di nuovo...E’ una MELODIA, percepisco una melodia...non
distinguo quale ma mi sembra di conoscerla. Provo uno struggimento come soltanto la
musica, da piccolo, riusciva a causarmene. Appoggio un braccio al tronco d’albero che è
vicino per concedermi un attimo di riflessione. Che cosa sta suonando...chi è che suona !
Non voglio che sia un sogno, non voglio che cessi di suonare. Ho paura di ritrovarmi solo
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nel silenzio della foresta....non può finire così....e riprendo a correre tra le ombre dei
cespugli, con la voglia di aggrapparmi a quella speranza, di non lasciarla svanire. Corro,
corro evitando di impattare sulle sagome scure che si parano innanzi, appena delineate
dallo scarso chiarore lunare. Corro col cuore in gola, con l’affanno dovuto più all’emozione
che allo sforzo. Il rumore dei cespugli che si aprono al mio passaggio e dei piedi che si
abbattono pesantemente al suolo a ritmo sostenuto, coprono quella melodia, ma so che
proviene da là, davanti a me, e corro per arrivare prima che sparisca, che si dilegui nel
buio. E’ necessaria un’altra verifica. Voglio essere certo di aver sentito ciò che credo di
aver sentito. Arresto di colpo l’andatura, con le labbra aperte, trattengo il respiro che preme
sui polmoni per sprigionarsi con furia, mi sforzo di ammansire le più infime oscillazioni
del corpo, tendo le orecchie in estenuanti attimi di attesa, lunghissimi attimi di tensione
durante i quali bramo di catturare ancora quelle dolcissime vibrazioni sonore, di udirle
fluttuare negli spazi silenziosi della foresta, forti e sconvolgenti come il ruggito di una
tigre......il cuore è uno stantuffo chiassoso che non posso zittire.....e sì che lo vorrei - zitto !
ZITTO ! - ……..
“BEETHOVEN !.....PER ELISA !.....Per Dio, non mi posso sbagliare !”
Se ho invaso i confini della follia, viva la follia ! Che bello lasciarsi dannare
l’anima, lasciarsi avvolgere e travolgere da una sequenza melodiosa di note che sembra
impossibile poter riascoltare, permettere al ricordo di tornare a lacerare il presente con così
carezzevoli bisbigli.
Le gambe riprendono a volare come il vento, il vento sferza le membra, la gioia
impazza e illumina la notte, i rami e le foglie frustano la pelle senza far male, inciampo,
rotolo sulla polvere che si appiccica al corpo sudato, mi rialzo e salto come una gazzella,
corro, corro, tutto l’ossigeno della foresta è mio, i polmoni se ne appropriano senza ritegno
in spasmodica complicità con la natura tutta, che tutto consente, almeno per una volta, al
sogno, alla follia. Cado ancora e ancora, ripetutamente, e sempre mi ritrovo in piedi a
correre con la polvere tra i denti, il corpo imbrattato di humus, l’odore penetrante di
terriccio entro le narici. Il richiamo di quella melodia è ammaliante come quello di una
sirena, ma, allo stesso tempo, straziante per l’assurdo contesto in cui si situa. Sono
frastornato, confuso, dolorosamente felice, felice di esserci per la prima volta dopo quei
terribili giorni dell’immane disgrazia di tanti anni fa. Tutto avrei potuto immaginare, non
certo di trovarmi ad assistere, fuori programma, ad una sonata per pianoforte. E che
sonata ! Le mie orecchie si erano forse dimenticate di quale suono avessero gli strumenti
musicali, ma non la mia anima. Dalla memoria si può cancellare ogni ricordo, ma assai
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difficilmente si possono cancellare quei ricordi che coinvolgono la nostra sensibilità più
profonda, là dove probabilmente solo la musica riesce ad arrivare. E non mi interessa di
sapere se sono vivo, se sono pazzo o se sto delirando. Voglio solo ascoltare ancora.
Sono sicuro di essere prossimo ad una svolta della mia esistenza. Finalmente
un’esperienza davvero significativa mi attende. Devo fare attenzione a non sciupare tutto.
Molta attenzione ! E’ bene che rallenti l’andatura, che proceda con cautela, che eviti di
provocare, con la mia apparizione improvvisa, incontrollabili reazioni di spavento
all’artefice di questo imprevedibile intermezzo musicale.....già ! Chi sarà mai costui....o
costei che suona ? Ma certo ! Lo stesso essere che ha lasciato le impronte, quelle impronte
che mi stanno facendo impazzire ! Ma cosa suona....davvero un pianoforte ? Ho sta
semplicemente ascoltando una riproduzione dell’opera di Beethoven ? Possibile possa
disporre di una fonte di energia e possa ancora conservare incisioni musicali ? Ogni
risposta ha dell’incredibile. Al diavolo questi inutili interrogativi. L’importante è che non
cessi di suonare. Devo far presto, ma con cautela.....devo far presto ! Saranno i miei occhi a
svelare il mistero.
Una casa......una villa. Una villa nel bosco ! La sagoma che si delinea alta tra i fusti
e le chiome degli alberi è precisa e inconfondibile. Lo sbalordimento costituisce solo un
aspetto secondario di ciò che provo in questo momento. La suggestione che mi coglie credo
possa paragonarsi alle emozioni di un bambino completamente perso in un immaginario
fiabesco. Sì....adesso ricordo persino lo straordinario incantesimo in cui riuscivano a
trasportarmi le fiabe più belle che ebbi la fortuna di ascoltare o di leggere da piccolo. Ma
questa che sto vivendo non è una fiaba, io non sono più un bambino, e in quella casa
qualcuno, o qualcosa, sta suonando una melodia di Beethoven. Distinguo un chiarore al suo
interno, una luce fioca.....tremolante....forse una candela. Istintivamente chino la schiena,
poi mi dispongo carponi e procedo con molta circospezione dietro i cespugli, i quali, per
fortuna, abbondano, avvinghiano persino le mura della villa, forse si sono insediati anche
dentro. Grazie allo spicchio di luna che si staglia nel cielo stellato e consente una visibilità,
per quanto difficoltosa, comunque sufficiente, ed anzi, in questo caso, addirittura ideale per
tentare una manovra di accostamento, intravedo la trama reticolare in pietra, corposa,
massiccia, delle mura esterne. Incredibilmente la sua struttura appare integra, constatazione
che accresce in me lo sbigottimento. Come diavolo ha potuto conservarsi fino ad oggi ?
Nonostante mi sforzi di rimandare gli interrogativi a dopo, sempre di nuovi continua ad
affollarsi la mente. Debbo controllare questa impazienza che mi divora. Assolutamente è
necessario conservare freddezza e lucidità se non voglio rovinare tutto. Una parola..... !
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Con questa melodia straziante, poi, meravigliosa, eseguita in modo perfetto, senza
tentennamenti ed errori, a giudicare almeno dalla sua capacità di stravolgere così la mia
anima. Come farò ad entrare là dentro ! Sto di nuovo tremando tutto, e non per il freddo
questa volta. Coraggio....ormai sono vicino ! Sdraiato al suolo continuo ad avanzare
strisciando, con la nuda pelle sulla nuda terra, col bacino sollevato di quel tanto a evitare
dolorosi sfregamenti del pene. Quel che vedo della villa dovrebbe essere la facciata
anteriore. Non distinguo la porta d’entrata, che con molta probabilità è situata nella zona
d’ombra non irradiata dai riflessi lunari, ma solo quella luce fioca che trapela dall’apertura
di una finestra. Aggirerò la villa per cercare un possibile accesso nella sua parte laterale o
posteriore.
Un dolore acuto al palmo della mano destra mi avverte che ho incappato in
qualcosa di tagliente. Mi accorgo in ritardo che sto strisciando su una miriade di frammenti
di vetro. Bestemmio....in silenzio, con la mente, me la prendo con Dio e alcuni santi, i cui
nomi non so come abbiano fatto a riemergere nella memoria. Stringo la mano dolorante,
avverto una fuoriuscita di sangue....cazzo !.....non ci voleva ! Non dispongo di alcunché in
dosso per tamponare la ferita. Poco male, non penso che morirò dissanguato per un
taglietto, e poi......se ci sono vetri in terra, quasi sicuramente c’è una finestra senza vetri
sopra di me ! Saggiando con la massima prudenza il terreno intorno, sollevo piano tutte le
membra e mi riporto in piedi. Mi appoggio alla parete ruvida delle mura, è il lato
dell’edificio nascosto ai raggi lunari. Inizio a palpare con le mani in ogni direzione....ci
siamo ! Un vuoto, la finestra, gli infissi in legno, due ante chiuse senza vetri. Trovo la
maniglia d’apertura ad una certa altezza. Con un po’ di sforzo riesco a girarla.....è fatta. Ora
la musica mi investe in pieno volto, è come se mi trovassi a teatro, su un palchetto centrale
di primo ordine. Spalancate le ante senza fare il benché minimo rumore, appoggio le mani una delle quali dolorante e sanguinante - sul davanzale. Con uno slancio mi sollevo da
terra, appoggio anche le ginocchia sul davanzale....un nuovo dolore acuto, lancinante,
questa volta alla rotula sinistra. Ancora vetri, d’istinto mi rigetto con i piedi fuori e torno
nella posizione iniziale. Mentre i nomi degli stessi santi di prima si ripresentano alla
memoria, a subire i peggiori insulti mentali attinti dal becero inventario giovanile,
accarezzo il ginocchio che fa male...un liquido caldo, ancora sangue. Continuando di
questo passo, suppongo che, alla persona alla quale sto per presentarmi, apparirò non certo
nell’aspetto più tranquillizzante per guadagnarmi un’immediata fiducia. Nella migliore
delle ipotesi sembrerò un disgraziato appena scampato da un’avventura orrorifica. Ma cosa
ci posso fare ? Magari potessi presentarmi come un tempo l’etichetta richiedeva ad un
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invitato di intervenire ad un pranzo di gala ! Bando alle sottigliezze, qui è in gioco tutto il
mio futuro, forse il futuro stesso dell’umanità. Colui che mi troverò davanti farà di sicuro
le medesime considerazioni, capirà, dovrà capire !
Pulisco il davanzale dai residui di vetro che vi sono depositati da chissà quanto
tempo, vi risalgo sopra senza altre conseguenze. Mi calo nella stanza, leggero come una
piuma per non fare rumore e per non ricevere altre “taglienti” sorprese. Scendo in punta di
piedi, avverto altri pezzi di vetro e il parquet del pavimento. Mi dirigo a passi felpati,
nell’oscurità quasi totale, verso il tenue bagliore che si irradia dalla stanza attigua, da dove
prepotente e dolce, inarrestabile e travolgente, proviene il suono melodioso del pianoforte.
Arrivo, mio caro amico ! Se sapessi da quanto tempo ho atteso questo momento !
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CAPITOLO II
IL SILENZIO DI ELISA
Un mondo inverosimile si apre ai miei occhi. Un mondo che credevo potesse far
parte solo dei sogni o di vaghi, lontanissimi ricordi del passato, inimmaginabile per il
presente reale che sto vivendo. Un grande salone immerso nella penombra, con pochi ma
essenziali elementi di arredo in legno che proiettano lunghe ombre sul pavimento.
Un’enorme biblioteca ricolma di libri occupa quasi interamente due pareti del salone, dal
pavimento al soffitto. Al centro un tavolo circolare, sulle gambe del quale riesco a
distinguere, più che altro a dedurre, per via della silhouette non lineare dei loro contorni,
elaborate intarsiature. Intorno ad esso otto sedie con schienali che disegnano curve regolari
e simmetriche ai lati. Una delle due pareti lunghe, quella non occupata dalla biblioteca, è
priva di mobili ma interamente tappezzata di quadri, decine di quadri. In pochissimi
secondi la mia mente elabora le migliaia di informazioni visive, vaghe, confuse, distorte,
ammantate dal velo della penombra, che provengono da quella parete. Impensabile,
semplicemente incredibile, nomi rimasti innominati per chissà quanto tempo, vorrei
d’improvviso poterli urlare come si può urlare la propria gioia irrefrenabile di fronte a una
scoperta sensazionale.....Matisse, Renoir, Klee, Gauguin, Picasso, Kandinsky, Cezanne,
Van Gogh...... e altri....mille altri lottano per uscire fuori, riemergere alla memoria. Sento i
rimproveri di quei fantasmi del passato... “Come puoi dimenticarti di me !”. Sono
riproduzioni di quadri di grandi pittori. Qui tutta l’atmosfera è grandiosa. Sembra di essere
penetrati nel regno della cultura. Di colpo riemergono, non so da dove, risvegliate da
questa miscela gloriosa di elementi - il puzzo antico dei libri, i colori dei quadri, le note di
Beethoven – le esaltanti emozioni che si scatenavano in me, ancora adolescente, durante le
lezioni di filosofia sulla saggezza socratica, il “sapere di non sapere”. Ma allora, adesso lo
so, la comprensione che avevo acquisito di quella filosofia era in verità parziale, era
limitata all’aspetto in positivo della “consapevolezza di non sapere”. In questo momento
credo invece di poterne cogliere il suo aspetto in negativo, quello dell’“ignoranza del
sapere”, del quale la mia stentata e solitaria sopravvivenza ne costituisce la testimonianza
più evidente. E quella esaltazione ritorna dunque solo come un ricordo che si sbriciola
nella vergogna di me stesso.
Non ho il coraggio di guardare in fondo, verso l’ultima parete dell’ampio salone da
dove proviene la fioca e tremolante luce di candele, da dove un mondo di morti è tornato a
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rivivere grazie alle note musicali, fluttuanti nell’aria attraverso i secoli, le pareti e la
foresta, perché non si possono imprigionare entro confini temporali e spaziali. Con la coda
dell’occhio saggio prima quel tanto che basta ad evitare gli effetti devastanti di una
sorpresa consumata tutta d’un botto. Adesso i dettagli, ad uno ad uno, con parsimonia. Una
grande vetrata, di dimensioni quasi pari a quelle dell’intera parete, si intuisce dietro
tendaggi chiari, aperti per una larga fessura al centro, dalla quale si sprigiona la debole luce
che poc’anzi avevo intravisto nell’oscurità della foresta. Di fronte un pianoforte, un VERO
pianoforte, un immenso pianoforte, quello che da dieci minuti appena sta sconvolgendo la
mia esistenza. Sul suo ripiano superiore, ai due angoli estremi, due candele accese, una per
parte, consumate a metà. La cera liquefatta si addensa sulla superficie nera imbrattandola,
sembra far parte integrante di essa, come un’increspatura che ne impreziosisca la fattura
antica. Due mani, due braccia nude, si muovono sulla tastiera con garbo, eleganza,
padronanza. Un corpo nudo, di schiena, sinuoso e carnoso, soprattutto all’altezza dei glutei,
prosperosi ed eccitanti, schiacciati su uno sgabello circolare di legno. Dei capelli ondulati
lunghissimi, neri, raccolti e strozzati in fondo alla schiena da un nastro. Un corpo di
DONNA, bianchissimo, bellissimo, che pur privo di esagerate ridondanze carnose,
richiama alla mia mente certi dipinti rinascimentali. Difficile decifrare il coacervo di
emozioni che si affolla dentro di me. Di sicuro avverto un certo imbarazzo, per la
consapevolezza di aver infranto la purezza di questa intimità sacrale, come se stessi
sfregiando un’opera d’arte. Nel contempo, di sicuro, sono entusiasta di questa scoperta che
rende tangibili i miei sogni. Di sicuro sono preda di un’eccitazione che non ha eguali per
intensità nei ricordi.
Faccio due, tre passi avanti......il parquet scricchiola sotto i piedi, proprio nel
preciso istante in cui si esaurisce l’esecuzione di una scala di note e si interpone una
brevissima pausa prima che l’esecuzione prosegua. Lugubre come il rintocco di campana
nel profondo della notte, sgradevole come una stonatura. La musica accenna a riprendere,
sotto la spinta di un’appassionata concentrazione da parte della sua esecutrice, due tre note
appena, poi cessa, il silenzio si dilata paurosamente. Per alcuni interminabili secondi
restiamo immobili. Le dita delle sue mani sono rimaste pietrificate in strane forme
articolari che trattengono crome e biscrome rimaste incompiute. Ho appena il tempo di
rendermi conto dell’assurda, stupida, imperdonabile modalità di manifestarmi che, tra le
tante possibili, ho finito per attuare. Più idiota di così difficilmente avrei potuto esserlo. La
rigidità delle sue membra è assai eloquente. Vorrei poter rimediare....con una parola.....ma
quale ?.....La sua testa si gira di scatto, i suoi occhi sono già sopra di me. Il leggero bagliore
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laterale delle candele è sufficiente a mostrarne il terrore di cui sono colmi. Due grandi
occhi impauriti, come quelli di un cervo che ha di fronte a se un terribile predatore. E come
il cervo, che dopo aver istantaneamente acquisito coi propri sensi la piena dimensione della
sciagura che sta vivendo, con un balzo repentino e potente tenta di sottrarsi al pericolo e di
dileguarsi, così la donna scatta in piedi facendo rovesciare a terra lo sgabello, e con pochi
abili salti si precipita alla vetrata.......
“NO.....NO....FERMA !”, le grido alle spalle, movendo passi rapidi in avanti.
Allunga un braccio verso la maniglia della portafinestra, probabilmente con
l’intenzione di aprirla e darsi alla fuga, poi ci ripensa, forse perché mi sente troppo vicino,
si volta e appoggia mani e schiena alla vetrata.
Arresto anch’io l’andatura evitando di accostarmi troppo, per non costringerla a
reazioni inconsulte. Impossibile però proibire ai miei occhi un’analisi, per quanto fugace,
delle meravigliose membra che hanno di fronte, così candide e impudiche, così sensuali e
provocanti, nonostante palesemente contratte dalla paura. Ella, forse in ciò con ragione
prevenuta, deve aver avvertito la flessione lussuriosa del mio sguardo, e si porta con gesto
istintivo le mani sul pube.
“Ascolta......- alzo la mano destra in segno di pacificazione - ...non hai nulla da
temere, non ho alcuna intenzione.....”
Inaspettatamente si volta di nuovo verso la maniglia, l’afferra e la gira, tentando di
sfruttare la mia esitazione. D’un lampo vedo sfumare il miraggio rincorso da tanti giorni.
Non posso permetterlo !....Corro disperato verso la donna.
“FERMATI !......FERMATI ! ........”
Ha già spalancato la portafinestra quando riesco ad avvinghiare con le braccia i suoi
fianchi. Lei geme, si divincola per sottrarsi alla presa, ma le mie braccia non mollano. I
nostri corpi sono quasi per intero pressati l’uno contro l’altro, cosce contro cosce, il pene
contro le natiche, il petto contro la schiena. Nonostante la cruenta situazione creatasi tra i
due corpi, l’uno proteso alla fuga l’altro ad impedirla, l’uno proteso a riconquistarsi la
libertà perduta l’altro a negarla, il contatto forzatamente prodottosi accende nei miei sensi
una sublime eccitazione erotica. Il calore, il sudore, l’odore e la morbidezza della sua
carne, mi fanno rammentare, per contrasto, i lunghi anni di privazione che ho dovuto
subire. Le mie braccia stringono ancora più forte, per trattenere più a lungo possibile quella
fonte di piacere della quale avevo quasi perso il ricordo. Un dolore acuto sul muscolo del
braccio destro, i suoi denti tentano di strapparmi la carne di dosso.
“Ma che diavolo stai facendo....FERMA ! Disgraziata.....”
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La collera si fa strada dentro di me, lascio la presa col braccio sinistro e le afferro i
lunghi e folti capelli, li strattono con furore fino a costringerla a staccare i denti dalla carne.
Svincolata parzialmente dalla stretta delle braccia, con un vigore del tutto inatteso, si rigira
frontalmente e conficca tutte le unghia delle sue dieci dita sulle mie gote. Non resisto
nemmeno un secondo a quegli artigli che vogliono devastarmi il volto, emetto un grido e
allontano la testa all’indietro, ma senza riuscire a togliermeli dalla carne. Nello sforzo di
ritrarmi indietro, senza però staccarmi dal suo corpo, viene meno l’equilibrio e precipito di
schiena sul parquet, trascinandomi appresso anche lei. Indomita, a terra sopra di me, ora
cerca persino di tirarmi fuori gli occhi dalle orbite. Sento di aver raggiunto il limite della
pazienza e della capacita di sopportazione del dolore, istintivamente lascio partire un
pugno rabbioso che si abbatte sulla sua mascella. Un tonfo secco, e subito dopo, con mio
gran sollievo, si allenta la morsa tenace al viso. Pervaso da un’ira incontenibile, non conto
più i pugni, di destro e di sinistro, che lascio partire, alcuni dei quali vanno a vuoto, ma la
maggior parte giunge più o meno a segno. Non un solo grido è sfuggito dalle sue labbra. Il
suo corpo è ora abbandonato, immobile, sopra il mio, non mostra alcun segno di reazione.
Credo di averla tramortita. La spingo da una parte appoggiandola sul parquet in posizione
supina. Mi sollevo e mi dispongo in ginocchio accanto a lei. Le sfumature chiaro-scure
prodotte sulle sue membra, finalmente rilassate, dalla luce delle candele, ne evidenziano le
morbide curve e i dolci rilievi dell’addome e dei seni. Il suo volto, reclinato da una parte,
con gli occhi chiusi e le labbra aperte, dalle quali fuoriesce un piccolo rivolo di sangue, mi
appare semplicemente stupendo. Avverto un gran bruciore su tutto il viso e sul muscolo del
braccio destro, vi struscio blandamente le mani sopra, poi guardo le mani, sono sporche di
sangue. Ovunque guardi sul mio corpo scorgo macchie di sangue e anche sul suo. Non
riesco a trattenere un residuo di collera, le mollo un rovescio di sinistro al volto.
“Maledettissima stronza !”
La sua testa, scossa dal colpo, si reclina dalla parte opposta. Non un gemito, non
una parola, non una sillaba. Una vampa di calore mi attraversa tutto, provo
improvvisamente una vergogna indicibile e, allo stesso tempo, una compassione struggente
per quel corpo esanime e indifeso, cosi bello, delicato e ignobilmente maltrattato.
“Perdono....ti chiedo perdono ! Sono un lurido verme, lo confesso. Ho rovinato
tutto....speravo in un incontro amichevole…- intanto con le dita le tolgo delicatamente il
sangue dalla bocca -....e invece ho causato un putiferio. Ho dato per scontato con troppa
facilità che anche tu, nonostante stessi scappando, non so di preciso da cosa, avresti
accettato di buon grado di confrontarti serenamente con me. Ritenevo che avresti dato la
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stessa importanza che do io a questo incontro. In fin dei conti siamo rimasti così pochi, per
quanto mi è possibile capire !”
Le accarezzo le gote che si stanno tumefacendo, il collo, i capelli. Nessuna reazione
da parte sua. E’ in stato di assoluta inerzia, sembra svenuta. Ma il suo respiro è ancora
affannoso per la colluttazione sostenuta.
“Ti prego....dimmi qualcosa, sono anni che non parlo con qualcuno, ho
assolutamente bisogno di sentire la voce di qualcuno, questo puoi comprenderlo, vero ?
Non era affatto nelle mie intenzioni usare violenza nei tuoi confronti. Lo so, ho avuto una
reazione esagerata.....ma era del tutto involontaria, puoi credermi, davvero ! Ho perso la
testa...d’altronde anche tu non scherzavi, mi stavi facendo proprio male...guarda, guarda il
mio viso, ho ancora sangue fresco sulle guance, sulla barba !”
Il suo silenzio è esasperante, la sua passività scoraggiante. Non è svenuta, l’ho
notata deglutire, forse il sangue che le è rimasto in bocca. Ha chiuso anche le labbra. Mi
vuol dimostrare che non vuol proprio parlare con me, che il suo mutismo è volontario.
Apre gli occhi, finalmente. Sono davvero grandi e meravigliosi come quelli di un cerbiatto.
Brillano, forse per delle lacrime incipienti ; le sue pupille scure sembrano muoversi, ma è
solo la luce tremolante delle candele che vi si riflette a dar l’impressione del movimento.
“Dimmi come ti chiami.....dimmi un nome, uno qualsiasi....ti prego, te ne sarò
eternamente grato. Anzi no, non è necessario.... che importanza vuoi che abbia, in questo
contesto, il nome di battesimo. Ti darò un nome io, appropriato a questa situazione, a
suggello del nostro....burrascoso incontro. Sì...lasciati chiamare....Elisa...che ne dici ? E’ un
nome stupendo che tu hai riportato alla mia memoria e dunque.......Dimmi qualcosa,
qualsiasi cosa....ti prego Elisa.....mandami a quel paese ma dimmi qualcosa....”
Il desiderio da troppo tempo represso comanda la mia mano destra che scivola,
avidamente ma delicatamente, sui grandi e morbidi seni. Distendo il palmo e le dita per
contenere il più possibile quelle protuberanze carnose. Le palpo il ventre, le solletico tra i
peli del pube, le accarezzo le cosce lunghe e muscolose. Il pene si erge sfacciato, lo sento
duro come la pietra.
“Va bene ! Se hai proprio deciso di non parlare, se proprio non hai alcuna
intenzione di fraternizzare con me......ebbene......sei libera di andartene o, se preferisci, me
ne andrò via io, come è giusto che sia, dato che sono io l’intruso. A questo puoi rispondere,
dimmi una sola parola, fa un solo cenno e toglierò il disturbo......ma fallo subito, ti
scongiuro, o sarà troppo tardi.”
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I suoi occhi sono fissi nel vuoto. Il suo corpo resta immobile, come abbandonato ad
un ineluttabile destino che deve compiersi. Le sue labbra non accennano a schiudersi.
Nessun gemito, nessun lamento. Ho pochi attimi, soltanto pochi attimi di lealtà e di rispetto
da disporre ancora per lei, ma questi attimi voglio sinceramente concederglieli. Temo il suo
sguardo vitreo, temo si lasci sfuggire un segno di disprezzo e di rifiuto, eppure lo cerco,
debbo concederle una chance, una via di fuga, o so che perderei il rispetto di me stesso. Mi
distendo accanto a lei, accosto vicinissimo il mio volto al suo, alito contro alito, i miei
occhi dentro i suoi, non so se più con la speranza di spezzare la vacua fissità del suo
sguardo o di trovarvi confermata l’ostinata volontà di non comunicare. Non riesco a
leggere la sua anima, ad interpretarla, o non desidero opportunamente di interpretarla. Di
nuovo le accarezzo il volto, con dolcezza, una dolcezza che trattiene a stento l’appetito
vorace del lupo affamato. Ancora un attimo, per sottrarsi al destino, concedo a quegli occhi
grandi di cerbiatto, neri, profondi come la morte, umidi di tristezza.
“Dimmi una parola....solo una parola, Elisa.....”, le sussurro con un filo di voce.
Mi avvicino ancora, col naso sfioro il suo piccolo naso, appoggio le labbra sulle
labbra chiuse, i suoi occhi non mi dicono niente o non voglio che mi dicano niente. Con la
lingua disserro le sue labbra, che non oppongono resistenza, cerco la sua lingua, la trovo,
me ne approprio con un risucchio avido che le sottrae anche il respiro. Chiudo gli occhi,
abbasso il sipario sulle responsabilità. Non percepisco più nulla che non sia parte di
un’estasi illimitata di piacere. Elisa....ti voglio...sei mia.....
Le salgo sopra, con tutta la delicatezza che, preso nella spirale selvaggia della
libido, posso ancora esprimere in un poderoso sforzo di autocontrollo, ammortizzando il
mio peso con le braccia piantate sul parquet.
“Dimmi.....che lo vuoi anche tu......”, in un fil di voce un estremo tentativo, che non
può non apparirmi subito, già nell’attimo stesso che lo compio, del tutto ridicolo, melenso,
ipocrita.
La copro di baci, la inondo di saliva come un cane fa col suo osso, le mordo il collo
e le orecchie, le succhio i capezzoli. Le sollevo una gamba, nessuna resistenza. Le sollevo
l’altra....e niente, come le avessi divaricate a una bambola. L’odore di carne sudata, quello
del sangue, quello della polvere, quello del legno stagionato e dei libri corrosi dal tempo,
quello di cera sciolta; il suo sguardo perso nel vuoto, la mia mente stravolta dalla vertigine
della sessualità. Duro, impietoso, palpitante, il mio membro è già lì a farsi strada, e spingo,
spingo. Lì soltanto, maledizione, la carne è asciutta....e spingo, spingo, con violenza, con
dolore e passione. Le lecco le labbra, le guance, il naso, una lacrima che scende dagli occhi,
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quegli occhi fissi nel vuoto, che non dicono niente, in cui non so leggervi niente. Non un
gemito, non un fremito, quando la penetro fino in fondo, e spingo, spingo come un
forsennato, un pazzo furibondo.
“Elisa....Elisa....amore....”, le urlo con voce strozzata, con affanno, mentre spingo
sempre più forte, a ritmo incalzante.... “vieni con me.....vieni....”
Solo un’altra piccola lacrima scende dai suoi occhi e le scivola sul naso. Il destino
si è compiuto. I nostri corpi sono immersi in un bagno di sudore sporco e puzzolente,
appiccicati l’uno all’altro. Il caldo è asfissiante, le riverso in volto tutto il mio affanno, tutto
il mio alito bollente e una cascata interminabile di baci. Rilasso completamente le membra
sulle sue, la guancia sulla guancia, le labbra a sfiorarle l’orecchio.
“Sei bellissima....ti chiedo scusa....ti chiedo ancora perdono. Ho sbagliato tutto, lo
so ma......vorrei solo un po’ di comprensione....vorrei che tu capissi....quello che cerco da te
non è questo...non è solo questo....” Una piccola smorfia, dischiude le labbra e le sfugge
una sillaba, cerca ossigeno con affanno.
“Hai ragione....mi tolgo subito. Per quanto magro, non sono certo una
piuma....Avrai capito che ho perso dimestichezza con queste cose....” La privo del mio peso
che, evidentemente, le stava divenendo insopportabile. Mi faccio da parte, mi distendo di
nuovo al suo fianco con gli occhi di fronte a suoi, che sono rimasti immobili, di una fissità
sconcertante, tali e quali a come li avevo lasciati pochi minuti prima. Ho voglia di
profonderle un’infinità di tenerezze, di carezze, di parole dolci, ma non so da dove
cominciare, non riesco a infrangere l’imbarazzo, il senso di colpa. Le cerco, le trovo una
mano, che è morta, come uno straccio, ma è calda e morbida e la stringo, fino quasi a farle
male.
“Non ti lascerò più Elisa......ora sono stanco, ma domani....domani forse tu mi
parlerai e sono sicuro che comprenderai.....domani.....”
Quante facce ho di fronte a me, che sorridono, che parlano e parlano, mi guardano e
vogliono che io parli con loro. Una sola, là in fondo, con lo sguardo fisso a terra, triste,
bella, non mi guarda, non mi vuol guardare. Le corro incontro ma non riesco a
raggiungerla, tutti gli altri volti si frappongono sorridenti. Cerco di evitarli per raggiungere
quella faccia triste ma non ci riesco, non ci riesco..... Una lacrima scende da quegli
occhi....non piangere !....Non piangere !......
Un gran dolore alla testa, apro uno spiraglio appena delle palpebre, gli oggetti
intorno si muovono, sembrano cadermi addosso. Richiudo gli occhi, peggio che mai, mi
viene il voltastomaco, provo dolore da per tutto, persino nell’ano e nel pene, una
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sensazione di forte sofferenza generale e la testa sembra che mi scoppi. Sto sognando....è
un incubo ! Ora mi sveglierò, mi devo svegliare !
Questa volta spalanco per intero gli occhi e tento di fissare gli oggetti che mi
circondano, che però continuano a muoversi come fossero animati. Il dolore è più preciso,
netto, localizzato alla testa, allo sfintere, all’organo sessuale, ed avverto come una forza
esterna che voglia strapparmi via le braccia e le gambe dal corpo. Cosa mi sta
succedendo ? Dove mi trovo ? Con grosso sforzo sollevo la testa per rendermi conto della
situazione, ma il movimento del collo è fortemente impacciato e vi riesco solo in modo
molto limitato. Sono piantato con la schiena a terra. Vedo le mie gambe in posizione
divaricata e sollevate verticalmente verso il soffitto. Due corde, legate una per parte alle
caviglie, le tengono a tiro in tale posizione e vanno a fissarsi a qualche non ben definito
oggetto che si trova a ridosso delle due pareti laterali e opposte fra loro. Un’altra più sottile
corda sta incredibilmente strozzando il pene - che mostra un glande gonfio e paonazzo - e
lo tiene anch’esso sollevato a tiro verso l’alto, andandosi ad aggrovigliare su un grande
lampadario che penzola, con mille gocce di cristallo rilucenti, al centro del soffitto. Le
braccia, strette e allungate sopra la testa, sono evidentemente legate ai polsi e fissate a
qualche sostegno che non posso scorgere. Ora tutte le immagini si vanno schiarendo e
definendo....ora comincio a capire.....
“ELISA.....DOVE SEI !......COSA MI HAI FATTO !........”, mi lascio sfuggire
questo grido disperato, e la testa inizia a palpitare con furia, quasi volesse esplodere.
“Ma cosa hai fatto ! Non mi meritavo questo....perché lo hai fatto !” Ho voglia di
piangere come un bambino, l’orgoglio me lo impedisce.
“Slegami, ti prego, discutiamo.....non volevo farti del male.....devi credermi.....”,
una fitta improvvisa all’ano mi costringe ad emettere un grido.
“Maledizione ! Cosa mi hai messo nel sedere....”, ancora una volta la mia voce si
perde nel silenzio della casa, mentre fuori impazzano le voci della foresta. Resto in attesa
di una risposta, tra i mille tormenti che mi affliggono il corpo. Poi...
“ PER DIO ! ....MI VUOI DARE UNA CAZZO DI RISPOSTA ?...mi stai facendo
tribolare come un cane....”
Improvviso un dubbio : è muta ?...o forse parla una lingua diversa dalla mia ?
Già...forse è proprio così, che stupido a non pensarci prima !
“DAMMI UN SEGNO .......FAMMI DEI GESTI.....che cazzo ! Non puoi lasciarmi
in queste condizioni !” Sento crescere l’esasperazione, la rabbia, insieme al dolore fisico, in
particolare all’ano. Nessuna risposta. Un altro dubbio : che si sia voluta vendicare
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lasciandomi qui a crepare lentamente, tra queste sofferenze ?.....quella fottutissima figlia
di puttana ! Non può essere....non ci credo....troppo crudele !
“INSOMMA ....BASTA !”, un’ira feroce esplode dentro di me, in un raptus tento di
strappare via le corde, divincolandomi furiosamente. Un dolore terribile, all’ano, al pene. I
contorni delle cose sfumano, pian piano si dileguano nel buio.
Il caldo è insopportabile, asfissiante, il puzzo del sudore che sale dalle ascelle è
nauseabondo, anche perché frammisto ad esso mi giungono alle narici altri sgradevoli
odori, quello del sangue e di sostanze in putrefazione. Non riesco a trattenere conati di
vomito, i succhi gastrici imbrattano il braccio, il collo, il petto. Il fetore acido si aggiunge
alla già fetida miscela di odori che impregna l’aria. Sto proprio male, sono allo stremo delle
forze, non so come ma credo di capire che la situazione stia precipitando. Questa volta
sono davvero nei guai, per un’ennesima, stupida sottovalutazione delle circostanze. Chi
poteva immaginare che dietro quella faccia d’angelo si nascondesse una belva sanguinaria !
Non ho più energie per tentare una qualsiasi reazione. E d’altronde quale reazione posso
inventare così come sono conciato ? Allora....è giunta per me l’ora di crepare......e in questa
lurida maniera ? Devo ragionare....devo assolutamente ragionare, non lasciarmi sopraffare
dallo sconforto e dal dolore.
Con le membra completamente rilassate, il dolore è più sopportabile. Debbo evitare
sconsiderati atti d’ira, che servono solo a peggiorare le cose. Debbo appurare la solidità
delle legature. Le mie gambe....nemmeno a parlarne. Sono inamovibili, tese come corde di
violino. Le braccia....ecco....le braccia riesco a contrarle, leggermente...e i polsi...i polsi
posso farli scorrere l’uno sull’altro, hanno un certo margine di manovra....bene ! Se riesco a
far scivolare un giro di corda lungo le mani....se non vi fossero nodi......INCREDIBILE ! La
corda si è allentata ! Per mia fortuna quell’idiota non è molto abile nel far prigionieri...le
insegnerò io come si lega una persona a quell’emerita stronza !
Finalmente ! Ho le mani libere. Calmo...ora debbo star calmo. Innanzitutto
riprenderò fiato, sono troppo debole. Mi attende la parte più difficile e delicata, liberare le
caviglie, senza farmi perforare l’intestino da quel coso che sicuramente mi ha infilato nel di
dietro. Sollevo con grande sforzo il torace puntellando i gomiti sul parquet. Il pene....il mio
povero pene ! Nel malessere generale non ne avvertivo più nemmeno la sofferenza...appeso
come un salame, gonfio come una palla da tennis, livido come l’acqua di uno stagno
melmoso. Maledetta ! Come mi hai conciato !
Con la mano destra sciolgo facilmente l’unico nodo che strozzava il glande.
Evidentemente quella disgraziata aveva fretta di andarsene, non ha perso molto tempo nel
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curare i dettagli della sua cinica azione vendicativa. Massaggio con delicatezza il membro
per facilitare la ripresa della circolazione sanguigna. Non lo sento più, è come se stessi
palpando l’aria....spero non sia troppo tardi ! Ho la testa reclinata all’indietro, faccio fatica
a sorreggerla, ho soprattutto paura di guardare ciò che stringo con tanta cura nella mano, e
poi di guardare tra le gambe per scoprire quale terribile corpo estraneo abbia usato per
penetrarmi. Faccio scivolare la mano sotto i testicoli tra le cosce.... un oggetto duro, ligneo,
enorme, grosso all’incirca come un braccio....una sorta di paletto. L’impressione di
spavento mi fa palpitare il cuore con impeto, ora sento palpitare anche il pene.....meno
male....almeno quello sembra tornare a funzionare ! D’istinto stringo forte l’oggetto e, con
il coraggio della disperazione, lo estraggo con estrema cautela, lentamente, ma con
decisione. Attimi interminabili durante i quali il dolore acuto si ravviva e, accompagnato
dall’ansia per l’incertezza dell’esito, sembra divenire atroce e insopportabile. FATTO ! E’
fuori ! Provo un senso di svuotamento, addirittura di purificazione generale, quasi subito
però interrotto dalla nauseante percezione dello sgradevole odore di feci sanguinolente che
sento defluire dall’orifizio anale. Non ho un momento da perdere...debbo al più presto
tamponare l’emorragia. Getto via il paletto che, dopo un tonfo cupo sul pavimento, prende
a ruzzolare fino ad arrestarsi contro il muro. Con uno sforzo disperato sollevo
completamente il busto per afferrare uno dei due cappi che si stringono intorno alle
caviglie e le tengono sollevate in aria. Lo sforzo è accompagnato da una paurosa emissione
sonora del mio di dietro, in preda a una evacuazione liquida irrefrenabile. Sotto le mie
cosce si evidenzia un’enorme chiazza nerastra qua e là sfumata di rosso vivo. Comprendo
che non ho nemmeno il tempo di preoccuparmi, debbo finire al più presto di slegarmi
prima che..... La corda si allenta facilmente, anche in questo caso non riscontro resistenti
legature. I nodi che ho sciolto, al contrario, li avrebbe potuti realizzare un qualsiasi
bambino di dieci anni. A questa assoluta inettitudine in materia dovrò essere riconoscente,
se mai riuscirò a tirare fuori le cuoia da tale situazione. Libero così in un batter d’occhio la
gamba destra - tutta intorpidita e arrossata nel punto della legatura - e con ancor maggiore
facilità riesco a liberare anche l’altra gamba. Ora rimane la parte più difficile : con un
malessere generale che mi stordisce, uno stato di estrema spossatezza e un senso di nausea
che, con un intestino completamente vuoto, trova sfogo solo in vacui, ripetuti, conati di
vomito, debbo alzarmi e cercare qualcosa di adatto a tamponare la perdita di sangue dal
retto. Mi guardo attorno.....la tenda, solo la tenda, per quanto ora alla luce del giorno mi
appaia consunta e sporca - chissà da quante decine d’anni si trova lì appesa - può fare al
caso. Con gli ultimi spiccioli di volontà tento di drizzare le membra le quali, pur ridotte
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alla ben misera consistenza di un mucchio d’ossa, sembrano infarcite di piombo. Le feci
sanguinolente scolano lungo le gambe tremanti, imbrattano cosce e polpacci, mentre
barcollando mi avvicino alla vetrata, attraverso la quale scorgo la luce intensa del sole
inondare la rigogliosa vegetazione della foresta che, di riflesso, mi carica di un coraggio
insperato. Le cose intorno ondeggiano paurosamente ma sento che posso ancora farcela. Mi
aggrappo alla tenda, si sprigiona un nugolo di polvere. La stoffa ha le fibre talmente
deteriorate dal tempo che sembra quasi macerarsi sotto la stretta della mano. Facile ridurla
in brandelli, è sufficiente l’energia residua che posso produrre grazie alla volontà della
disperazione. Ne affagotto alcune strisce formando una sorta di tampone che poi introduco
con molta delicatezza tra i glutei e su fin dove la capacità di sopportazione al dolore mi
consente di spingerlo. La prima fitta acuta mi costringe a desistere dal proseguire nel
tentativo e ad appoggiarmi al pianoforte per non cadere. Ricurvo sulla sua superficie lucida
posso constatare i segni del tempo, dell’incuria, dell’abbandono, nella trama di screpolature
che la disegnano, nelle infinite scrostature, nella sporcizia accumulata in ogni più piccola
fessura. Sembra impossibile che da quella tastiera ingiallita, la notte scorsa, possa essere
uscita una melodia così vibrante e dolce, così pulita e incisiva da commuovermi, così
identica a se stessa nel ricordo che ancora conservavo di essa.
La mia sensibilità visiva e tattile si va attenuando, la capacità uditiva si sta
smorzando, i richiami vivaci della foresta giungono confusi e sbiaditi come se provenissero
da una lontana dimensione. La mia autonomia di coscienza è appesa a uno sforzo di
resistenza che solo l’istinto di sopravvivenza può giustificarne la tenacia. Il divano....dalla
parte
opposta
del
salone.....una
distanza
infinita
mi
separa
da
esso.
Devo
raggiungerlo......aiutandomi con una spinta delle mani sul pianoforte mi slancio in avanti.
Non avverto più il sostegno delle gambe, come se non fossero esse a trascinarmi metro
dopo metro dall’altra parte della stanza. I colori si incupiscono, il divano è sotto di me, vi
urto contro, mi ci lascio cadere sopra.....Elisa !.....perché, Elisa !.........
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CAPITOLO III
IL PERDONO
Nonostante la rabbia che da circa quindici giorni mi porto dentro e che soltanto ora
comincia a stemperarsi, ad affievolire la sua veemenza, nonostante l’odio rancoroso
cumulatosi mi costringa ad aspirare alla vendetta come unico rimedio per riportare serenità
all’esistenza, un dubbio ancor più fastidioso della rabbia stessa si sta progressivamente
imponendo nella riflessione razionale, alla quale giammai ho rinunciato ad affidare le
responsabilità principali della condotta. La vendetta, nient’altro che la vendetta perseguirei
come proposito ad ogni costo, se dovessi dar retta ai miei impulsi. Eppure qualcosa dentro
di me sembra remare contro corrente - e ciò mi infastidisce non poco - mette un bastone tra
le ruote del desiderio, che è un carro colmo di violenza. Qualcosa che fa appello al
tribunale superiore dell’onestà intellettuale, prima solo suggerendo cautela, poi
contrastando apertamente l’isterica brama di rivalsa; qualcosa che avverte che non è
proprio il caso di lasciarsi dominare da un livore ingenuo, infantile. E’ un palese conflitto
quello che si è sviluppato dentro di me, non posso più negarne l’evidenza. E’ emerso poco
alla volta, ad iniziare dal giorno stesso dell’infausto accadimento, a causa di due ovvie
considerazioni che si sono fatte spazio nel pensiero tormentandolo. Poteva uccidermi
durante il sonno, con estrema lucidità e facilità, evitando di infierire, risparmiandomi
crudeli ed inutili torture. E non lo ha fatto. Poteva lasciarmi morire in una lenta agonia, tra
sofferenze fisiche e psicologiche, facendomi rimpiangere il giorno che sono nato, sputare
sangue, bestemmiare e piangere disperato. E non lo ha fatto. Non erano credibili quelle
legature, troppo improbabili per essere vere, per esprimere una sentenza di morte, una
condanna irremovibile. E’ proprio questo il punto : l’orchestrazione della vendetta, che ho
sperimentato sulla mia pelle, non lascia supporre la premeditazione di esiti definitivi. Al
contrario, sembra denotare la volontà di limitarne le conseguenze, o quanto meno, di offrire
una possibilità di scampo. Cosicché, come di fronte ad un bicchiere che contiene una
bevanda solo per metà del suo volume, e che perciò si offre ad un’interpretazione ambigua
(è mezzo pieno o mezzo vuoto?), non riesco a propendere con convinzione per l’una o
l’altra di due ipotesi : quell’apparente angelo è in realtà un perfido demonio senza scrupoli,
che merita solo odio e una giusta punizione, oppure è una povera vittima, che magari ha
dovuto subire non pochi soprusi, oltre a quello che le ho inferto io, dimostrandosi
oltremodo generosa nel risparmiarmi le più tragiche conseguenze del suo atto vendicativo ?
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Questo dilemma mi sta davvero stressando, non riesco ad uscirne con una soluzione
univoca, che sia al tempo stesso emotiva e razionale. Capita che, quando la ragione trova
argomenti per comprendere, giustificare e quindi perdonare, il rancore si presenti ancora
così vivo da invalidarne ogni sforzo e, viceversa, quando una certa pacatezza d’animo mi
consente persino di ammirare la forza e il coraggio di quel meraviglioso essere
improvvisamente apparso e poi scomparso come una meteora dalla mia vita, la ragione
trovi qualcosa da ridire per sminuirne il fascino e per caricarlo di attributi spregiativi.
Bianco e nero, nero e bianco, in un’alternanza continua senza gradazioni intermedie. Per
fortuna ora, in compagnia del dolce crepitio delle fiamme che, come succede ogni volta, ha
la proprietà di incutere serenità anche agli animi più irrequieti - per via del suo intrinseco,
millenario legame con le situazioni di confortevole intimità e raccoglimento - sotto il
manto intensamente stellato di questa ennesima serata di fine estate, consolato, quasi
coccolato, dal consueto, immancabile mormorio dei grilli, rimane sopita questa
conflittualità interiore, sembra aver smorzato la sua carica virulenta. Quei terribili
avvenimenti di due settimane fa appaiono addirittura quasi inverosimili, più vicini al sogno
che alla realtà, sembrano immagini di uno dei tanti incubi dai quali innumerevoli volte mi
sono destato nei trascorsi anni di solitaria esistenza. Alcuni particolari non insignificanti,
ovviamente, mi ricordano che è tutto vero quel che è capitato. Ad iniziare dai dolori all’ano
che, per quanto enormemente attenuatisi, ancora percepisco con un certo fastidio mentre
sto seduto come in questo momento. E’ ancora vivo il ricordo delle sofferenze di qualche
giorno fa quando non riuscivo a defecare senza emettere abbondanti fiotti di sangue. La
febbre mi ha spossato per tutta la prima settimana e non credevo che il mio organismo così
debilitato l’avrebbe infine debellata. Ciò grazie ai continui lavaggi nel fosso e
all’alimentazione cui ho potuto sopperire con i cibi secchi rinvenuti nella villa. Già, anche
il ritrovamento di consistenti quantità di riserve alimentari, in quel ripostiglio non certo
nascosto, sembrerebbe inspiegabile se non alla luce di una volontaria “dimenticanza”. E
che dire poi degli altri graditissimi ritrovamenti in quella misteriosa villa, quali il coltello
da caccia, i fiammiferi, i vestiti, per quanto vecchi e consunti, dei quali ora dispongo con
enorme sollievo per le incombenze quotidiane? Anche queste appaiono dimenticanze
veramente strane, a meno che, appunto, non siano state affatto dimenticanze. Anch’esse, in
effetti, hanno contribuito non poco ad accendere in me dubbi e perplessità sulle reali
intenzioni di quell’enigmatico essere che si è frapposto sulla mia strada.
Pensare che, ad un certo punto, si era spalancata una magnifica quanto insperata
prospettiva di rigenerazione, di rinascita. Dopo lunghi anni di inenarrabili miserie, di
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sconforto e disperazione, di tristezza e angoscia - quante volte mi sono trovato sul punto di
mollare tutto, di lasciarmi andare, di desistere dagli sforzi per sopravvivere, tanto poco
sembrava valerne la pena ! - ero tornato ad assaporare la vita, a dare un senso all’esistenza,
o quanto meno a provare gioia di esserci su questo maledetto pianeta. Dopo quanto è
accaduto, tutto è tornato come prima, peggio di prima. Un drammatico ricordo si è
aggiunto ai precedenti, rinforza la convinzione che non c’è fine al peggio, assottiglia ancor
più il desiderio di restare aggrappati ad una qualsivoglia speranza. Certo, ho anche
aggiunto un bel ricordo alla mia esperienza, soprattutto...l’odore, il sapore, il calore della
carne umana. Ma è solo una goccia d’acqua nel deserto, in quanto si riferisce ad un
episodio così repentino, che non ho avuto il tempo di preparare e consumare con la
necessaria disposizione d’animo, di gustare dopo la sequenza di fasi durante le quali
matura, di consueto, un accoppiamento tra esseri umani, stando almeno alla vaga idea che
di essa ancora conservo e che richiama alla mente la mia prima giovinezza, ossia il periodo
dal quale immediatamente dopo sono sprofondato nell’immane tragedia. Gli sguardi
desiderosi ma fugaci, i primi colloqui imbarazzati ma traboccanti di eccitante aspettativa, i
primi approcci fisici che, lasciando pregustare l’integralità dell’atto sessuale, sono più
piacevoli del primo amplesso che seguirà, e poi la progressiva scoperta della vera carnalità,
dell’erotismo, dei dettagli che contano e che rafforzano l’intesa : niente di tutto questo,
ovviamente, è potuto accadere in quella incredibile notte in cui si sono condensate e
intrecciate, in brevissimo spazio di tempo, la passione, la rabbia, la violenza, l’umiliazione.
Quegli occhi......quegli occhi sì, mi sono rimasti impressi, nella loro tristezza e
rassegnazione, quegli occhi neri e profondi costretti a sopportare la sopraffazione, che di
certo non dimenticherò per il resto dei miei giorni. E quella misteriosa villa, sommersa tra i
rovi e l’edera, che, appena penetratovi all’interno, forse anche per la suggestione prodotta
dalla musica, mi è apparsa come permeata di spiritualità, di solenne austerità, quasi come
mi succedeva da bambino entrando in un museo, in una biblioteca pubblica, all’interno di
un’area archeologica. Non ho potuto evitare l’insorgenza di un senso di colpa per aver
violato quella sorta di sacralità, e non ho avuto più il coraggio di rimanervi a lungo,
nonostante credo si tratti di un ottimo rifugio, e nonostante le mie precarie condizioni
fisiche lo rendessero consigliabile. Era intollerabile la vergogna che provavo. La mia
stupidità non meritava di godere dei vantaggi che essa offriva, troppo forti erano, al suo
interno, i richiami ad una nobiltà d’animo, innanzi ai quali ero rimasto assolutamente sordo
durante la burrascosa notte. Come avrei potuto fissare, anche per pochi attimi, la vita
gioiosa che sprizza dai mille colori di Matisse, o la tragedia che si esprime nella piatta
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uniformità in bianco e nero del Guernica di Picasso, o semplicemente guardare quell’antico
pianoforte, ritornato silenzioso, forse per sempre, per colpa mia ! Sapevo di aver mancato
alle più elementari forme di rispetto della persona umana. E l’eccezionalità dell’evento, la
straordinarietà di un incontro insperato ed estremamente improbabile, costituisce un
attenuante di scarso rilievo sullo svolgersi dei fatti, comunque insufficiente a
deresponsabilizzare il mio comportamento. Eppure, anche avendo ben chiare in mente le
colpe delle quali mi sono macchiato, non riesco a perdonare la spietata conseguenzialità
della vendetta compiuta dalla donna. Al di là degli effetti fisici sul mio corpo, sono stati
catastrofici i suoi effetti psicologici nella mia mente, nella mia anima. Da ora in poi, quei
pur rari segni di vita umana, nei quali sicuramente capiterà di imbattermi, non credo
riusciranno ad entusiasmarmi come fino ad oggi mi era sempre successo. Non avranno più
la capacità di accendere la fiamma della speranza. Quali speranze posso ancora coltivare in
questo ramingo, interminabile girovagare in cui, braccato senza tregua da terribili forze del
male, non posso perseguire altra meta che la mera sopravvivenza fine a se stessa e
nemmeno più quella di poter condividere con un mio simile la disgrazia ? Ecco, sento di
essere precipitato in un totale smarrimento, in una disillusione generale che non offre
appigli di sorta. La tranquillità che ancora ritrovo seduto accanto al fuoco della notte, è
ormai pura rassegnazione. Oh fiori ! Oh alberi ! Oh sole ! Oh mare ! Oh
montagne !....riuscirete ancora a dare un senso alla mia esistenza ?
Sotto la volta stellata del cielo, l’aria, le cose circostanti sono immobili. I contorni
frastagliati dei cespugli e delle fronde degli alberi delineati dal chiarore della fiamma a
contrastare il buio della notte, appaiono di una fissità imperturbabile. L’umidità si è
depositata sulle mie spalle refrigerando tutta la metà posteriore del corpo, che non vuol
saperne di lasciarsi contaminare dal calore ardente che investe invece la metà anteriore.
L’aria calda che sale dal fuoco rende tremuli i cespugli che si trovano al di là di esso in
prospettiva frontale al mio sguardo. Sono tremule le foglie, come percorse da un leggero
alito di vento, che in realtà non c’è. Sembrano persino divaricarsi lentamente per lasciar
passare qualcosa......una sagoma, anch’essa tremolante, cerea, splendente, un corpo umano
dalle linee sinuose e morbide. Qualcosa che ho già rivisto...è come il fantasma della donna
della villa. Un panno scuro le avvolge i fianchi, il pube, la parte superiore delle cosce,
lasciando scoperto il corpo dall’ombelico in su. Mi ricorda il gonnellino di una squaw. I
capelli scuri, gonfi intorno al viso, scompaiono di netto dietro le spalle, minute, non più
larghe dei fianchi. Lo sguardo impavido fisso su di me, ma non minaccioso, anzi dolce,
triste, in approccio conciliante, alla ricerca di un contatto. Vera o falsa che sia
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quell’immagine è nei miei occhi, è dentro di me, nella mia mente, nella mia anima. Sono
come ipnotizzato, incapace di qualsiasi reazione, non solo fisica, ma anche emotiva, mi
sento soltanto irrimediabilmente affascinato. Quella figura tremolante si avvicina a me con
passi timidi e misurati, forse alla ricerca di un consenso, di un permesso per avvicinarsi, di
un guizzo nei miei occhi che dica “sì”. E come potrei dire di no a quel fantasma che da più
di due settimane mi sta tormentando e nei confronti del quale odio e amore si confrontano,
si scontrano, si confondono senza soluzione di continuità ? Fa pure il tuo gioco essere
malefico ed incantevole, saprò accettare, senza opporre alcuna reazione, il destino che mi
riservi, fosse il paradiso oppure l’inferno ! Non ho ragioni sufficienti per contrastarti. A
che pro ? Questa vita che mi è toccata in sorte è dipesa e dipende così poco dai miei
desideri e dalla mia volontà che ogni proposito di azione sembra velleitario. Vieni, angelo
e demonio, sono già carne putrefatta in balia dei vermi.
La carne sana, brillante, quasi folgorante, avanza ora con incedere più deciso, come
se non esistessero ostacoli al suo cammino. Che quel fantasma abbia già letto nei miei
occhi la rassegnazione che alberga nel mio spirito ? Ad ogni passo i seni carnosi e pesanti
vengono percorsi da una tenue scossa, sobbalzando con accennata ma vibrante vitalità. I
fianchi poderosi ondeggiano pretenziosi ma composti, il gonnellino si apre esponendo la
coscia sinistra muscolosa fino all’attaccatura dell’inguine e si richiude al movimento
alternato della coscia destra. Le braccia scendono morbide e inerti lungo i fianchi,
annunciando una volontà imbelle. La mia mente rimane travolta dal fascino di questa
apparizione inattesa, subendo passivamente l’impressione di un fiore che apre i propri
petali ai raggi del sole che si fanno strada in un cielo nuvoloso. Ma se quello che vedo è un
fiore, bello ed eccitante come tutti i fiori che si aprono sotto un imprevedibile cielo
primaverile, io non sono di certo il sole, piuttosto sento di somigliare a quelle nuvole tetre
e minacciose che possono richiudersi in una cappa tenebrosa sulla terra. E allora ? A chi si
schiude quel fiore incosciente ? Non ha paura di rimanere travolto dalla violenza di un
temporale che si scateni senza preavviso ? Ma, forse, la sensibilità millenaria di cui la
natura l’ha dotato, come ne ha dotato ogni altro essere vivente, è assai più potente di
qualsiasi valutazione razionale nel guidarlo in quel suo incedere tranquillo e fiducioso. Le
fiamme del fuoco, di questo fuoco amico di tutti, gli avranno già rivelato la forza
preponderante dell’amore e del desiderio su quella dell’odio e del rancore, che albergano in
dissidio nel profondo delle mie pupille. E soprattutto gli avranno rivelato il malessere
esistenziale, così vicino al limite di sopportazione, che come un virus letale sta ormai
fiaccando ogni qualsiasi pulsione vitale, comprese quelle dell’odio e dell’amore. E infatti
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gli occhi di quel fantasma, ora così vicini sopra di me, che il fuoco amico di tutti rende
perfettamente intelligibili, sembrano addirittura non voler nascondere un’inflessione
pietosa, sembrano voler rivelare il dolore del pentimento, lo strazio della compassione. Sì,
angelo e demonio, perdonami....io ti ho già perdonato !
Il fantasma si ferma, piega le gambe, si inginocchia accanto al fuoco, messaggero
intermediario delle anime, davanti a me. La carne divampa di un candido splendore, le
cosce scoperte e semiaperte, i seni gonfi, pesanti e rigidi, immobili davanti al mio naso,
l’odore penetrante di animale selvatico già dentro le narici. Una carezza appena percepibile
si consuma sui peli ispidi della barba, ove le piccole dita sprigionano un tremito di
incondizionata tenerezza. Quegli occhi grandi, neri e profondi come la morte, sono così
gonfi da non riuscire a trattenere le lacrime e due rivoli aprono solchi nel sudiciume che
ricopre gli zigomi. Come vorrei poterti imitare ! Ma non credo di aver più nemmeno
lacrime per piangere, oh dolce essere ! Il suo viso si congiunge al mio, le sue labbra si
posano sulle mie, le sfiorano, le comprimono delicatamente, e non sembrano chiedere altro
che ciò che sembrano di poter dare, il perdono. Il suo alito caldo e pesante mi inonda le
narici, ed è quanto di più meraviglioso io potessi attendermi da questa milionesima notte
passata sotto le stelle silenziose. Grazie, mio adorato fantasma ! Grazie, notte stellata !
Ancora una cosa voglio chiedere a questa notte....che si porti via solo lentamente, ma molto
lentamente, le stelle, i piccoli rumori del buio, l’alito pesante e il corpo incandescente del
fantasma, il mio sogno stupendo......
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CAPITOLO IV
RITORSIONE
E’ da questa mattina all’alba che sto inseguendo il cervo, un bell’esemplare
maschio con grandi e ramificate corna. Poche volte mi è capitato di inseguirne, e mai di
riuscirne a catturare uno. Se dovessi prima o poi spuntarla, sarebbe davvero un ottimo
colpo, non solo per la gran quantità di carne che mi consentirebbe di conservare, ma anche
per le sue pelli, le sue stesse corna, delle quali potrei fare molteplici usi. Anche se si
creerebbe il problema di dove allocare e conservare i prodotti ricavati, in modo da evitare
che possano diventare facili bocconi per altri predatori. Ma i problemi è meglio affrontarli
uno alla volta. Magari potessi trovarmi nella condizione di dover già affrontare quello di
nascondere e conservare la carne! Ora ho di fronte ancora quello più difficile, ucciderlo.
Purtroppo è una specie di animale che non è facile da avvicinare, e solo disponendo di un
arma per colpire a distanza si può sperare di abbatterne un individuo, soprattutto uno come
quello che mi sta costringendo a un tour de forcing da ore e ore per stargli dietro, così
robusto, agile e scaltro. Solo una volta, alcuni anni fa, trovai un fucile da caccia tra i ruderi
di un casolare, ma senza munizioni; il che mi costrinse, qualche mese dopo, a disfarmi
dell’arnese, che costituiva solo un inutile fardello in più. Un paio di volte ho provato a
costruire un arco con frecce, ma in entrambi i casi mi è mancato il materiale più idoneo per
rendere davvero efficace l’arma, con la quale sono riuscito per lo più solo a spaventare
qualche lepre o fagiano. I migliori risultati nella caccia li ho ottenuti sempre con le armi
bianche, i bastoni, le trappole e tanta astuzia. Questa mattina, scorgendo il grosso cervo,
non ho resistito al desiderio di seguirlo, rimuginando, mentre lo pedinavo da lontano per
evitare di essere fiutato, sul sistema per catturarlo. L’unico mezzo che sono riuscito ad
escogitare per sperare in un risultato positivo, è questa rudimentale lancia di circa tre metri
che ho ricavato da una canna di bambù, tolta da un piccolo canneto probabilmente residuo
di antiche coltivazioni. Durante le lunghe soste che l’erbivoro si è concesso per pascolare,
ho approfittato per levigare l’arma, renderla acuminata. Risulta, è vero, un po’ leggera, ed è
quindi difficile immaginare se possa, una volta lanciata, seguire la traiettoria voluta e,
soprattutto, se risulti capace di trasmettere tutta la potenza del mio braccio e quindi di
infierire un colpo letale. Ho un solo tentativo a disposizione per verificare tutto ciò, e dovrò
pertanto saper valutare accuratamente il momento, il luogo e la posizione adatti per
effettuarlo. Non ho possibilità di appello: se non dovessi colpirlo, oppure se non dovessi
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colpirlo con la giusta efficacia, avrei soltanto sprecato tempo ed energie, perché l’animale
si dileguerebbe in un batter d’occhio senza lasciarmi una seconda possibilità.
Ciò che non comprendo è come mai questo bell’esemplare maschio abbia
girovagato solitario per tutto il giorno, lontano dal branco che, di certo, ha abbandonato da
qualche parte. Cosa sta cercando? Perché si è allontanato dai propri compagni? Ha
percorso, così come io dietro di lui, parecchi chilometri, spostandosi molto dal luogo in cui
lo avevo intravisto questa mattina nella foresta. Ora addirittura mi ha condotto in questa
zona accidentata e rocciosa, che non offre nemmeno ampie zone erbose per il pascolo.
Cosa diavolo ci è venuto a fare? Se non sapessi che, in realtà, non è un animale di grandi
doti di intelligenza, mi verrebbe di pensare che abbia fin da subito fiutato la mia presenza e
mi stia volutamente e astutamente conducendo lontano dai suoi compagni per un
coraggioso senso di altruismo nei confronti dei medesimi. Fatto sta che ha messo a dura
prova la mia pazienza e la mia agilità fisica, costringendomi a ritmi di marcia assai faticosi
per stargli dietro. Ogni volta che sono riuscito ad avvicinarlo abbastanza per tentare di
colpirlo, ha sempre anticipato le mie mosse, come se ne avesse avuto il sentore,
riprendendo il cammino e suscitandomi non poca irritazione. Ora incomincio davvero ad
averne abbastanza, in ogni senso, sia fisico che psicologico. E’ sopraggiunto il tramonto,
scarseggia la visibilità, il percorso si va facendo sempre più difficoltoso e rischioso, ho già
più volte subito delle distorsioni alle caviglie e delle cadute, anche a causa di questo
ingombrante arnese da caccia che mi porto dietro che non mi consente di sfruttare entrambe
le mani durante alcune arrampicate tra le rocce, talvolta impegnative. Se non mi decido al
più presto a tentare il lancio, sarò costretto ad arrendermi senza nemmeno la soddisfazione
di averci provato, con l’amaro in bocca e un inutile sfinimento addosso. Mi sforzerò di
accelerare il passo e quando…..porc…..NO!!…..
Ti ho visto……sì……non mi puoi più scappare…credevi di avermela fatta…ma ti
sbagli di grosso! Sta facendo buio, e la scarsa luce favorisce il mio avvicinamento. Oltre
tutto è così intenta a raccogliere chissà cosa da terra che le sarò addosso prima ancora che
possa rendersi conto del pericolo. Pochi metri….ancora pochi metri, poi con uno scatto le
salterò alle spalle e la immobilizzerò a terra. Era molto tempo che aspettavo una simile
occasione. Finalmente potrò compiere la mia vendetta!….Ecco….è il momento….Esco
fuori da dietro un cespuglio…faccio alcuni rapidi balzi…ho il tempo di vedere la sua faccia
che si volta verso di me….i suoi grandi occhi pieni di terrore…..
“Bene….molto bene…..ora sei mia….”, un urlo soffocato le esce di bocca mentre
sprofonda con il viso a terra sotto il peso del mio corpo. Tenta di rigirarsi puntellando le
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mani al suolo. Le mollo un ceffone sulla guancia visibile….emette un altro urlo, breve ma
acuto, sbatte con la testa violentemente al suolo, la bocca aperta a mangiar la terra.
“Vigliacco…..”, un esile filo di voce le esce dalle labbra, nonostante polvere e ciuffi
d’erba si siano infilati tra i suoi denti.
“Allora parli! Sai parlare….persino la mia stessa lingua!” Scoppio a ridere, con
rabbia, con soddisfazione. “Oh…sì! Va proprio bene! Fammi sentire come parli, grande
figlia di puttana…”, le rifilo un altro potente schiaffo sulla stessa guancia. Questa volta le
sfugge solo un sordo e breve lamento di dolore. Mentre le resto a cavalcioni sulla schiena,
in pochi attimi la sua bocca si riempie di sangue. “Non è ancora niente questo….dovrai
essere molto loquace….e sperare di essere anche molto convincente…..brutta stronza!…”
Le afferro i capelli strattonando il capo verso l’alto. “Tanto per cominciare…dimmi chi
sei…come ti chiami….con chi vivi….dove vivi….”, resto alcuni secondi in ascolto,
tirandole con forza i capelli.
“Non….posso…”, tutta qui la sua risposta, in un alito appena percettibile. Con la
mano libera le scaravento addosso tutta la mia furia con un pugno, sempre sulla stessa
guancia, mollando nel contempo la presa dei capelli. Con un tonfo cupo la sua testa sbatte a
terra. Ora rantola come un moribondo. Quanti moribondi ho incontrato sulla mia strada!
Afferro di nuovo i capelli, strattono ancora il capo all’indietro. La sua faccia è una
maschera di sangue, terra, fili d’erba appiccicati.
“E’ solo l’inizio questo….soltanto l’inizio….chi sei?….” Le sue membra non sono
più rigide e tese, non offrono più alcun tipo di resistenza, come se fosse svenuta. La bocca
aperta e gocciolante di sangue e saliva, gli occhi socchiusi, lo sguardo perso nel vuoto. Una
rabbia indicibile mi assale, lascio partire un pugno, poi un altro, poi un altro….la sua testa
dondola come uno straccio al vento, appesa per i capelli alla mia mano.
“Non posso….non…posso….”, sussurra tra gli sputi di sangue, tramortita, in balia
della mia furia, ma ancora sveglia.
“Non puoi!? NON PUOI!?…” Ancora un sinistro, questa volta al fianco; emette un
grido, accenna ad una reazione cercando di voltarsi, ma così velleitaria da palesare al
contrario un’impotenza senza scampo. “Non credere di cavartela con così poco! Il peggio
deve ancora venire. Non riesci a immaginare cosa?…” Lascio la presa dei capelli alla mano
sinistra e le sferro un cazzotto di destro sull’altro fianco. Un altro grido, ma breve e tenue,
quasi sottovoce, come se non avesse più fiato. La sua resistenza è chiaramente agli
sgoccioli. Con un forte strattone del capo all’indietro la costringo a spalancare gli occhi.
“Non ti permetterò di perdere la coscienza….dovrai essere ben sveglia e consapevole di
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quanto sta per accaderti…non riesci proprio a immaginare cosa?….” Tossisce più volte,
poi un getto di vomito le esce di bocca, schifoso e puzzolente, una miscela immonda di un
pasto non ancora digerito e di sangue. Poi dei rantoli, dei lamenti di dolore e disperazione.
“Bene…cominci ad essere cotta al punto giusto…”, lascio la presa dei capelli e il suo volto
si spiaccica sulla chiazza di rifiuti intestinali. “…E’ il momento della vendetta che ho
perseguito per giorni e giorni….lo sai cosa ho portato con me?…. Sono sicuro che hai già
intuito…”
“Ti…pre…go…”, ancora la sua voce, confusa, come un gorgoglio dello stomaco,
ma la sua voce.
“Stai imparando a parlare, finalmente!….ma è ancora troppo poco….avanti, parla!
Dimmi ancora qualcosa….qualcosa che possa rabbonirmi….quello che voglio sapere…” Il
respiro affannoso, i lamenti, i colpi di tosse.
“Non… pos…so…”
L’ira mi ribolle nel sangue. L’afferro di nuovo per i capelli e le strofino il volto più
volte nella melma schifosa nella quale è già immerso. “Cagna…non puoi eh?… Passiamo
dunque all’atto finale…sai qual’è vero?…Hai capito bene di cosa si tratta….comunque te
ne accorgerai presto…lo SENTIRAI!….”
Mi sollevo dal suo corpo, facendo attenzione ad ogni eventuale cenno di reazione.
Non c’è alcun pericolo, le botte che le ho dato l’hanno resa un agnellino innocuo. L’afferro
per le caviglie e la trascino in direzione di una roccia, che ritengo si presti abbastanza al
mio disegno di vendetta. La sua testa rimbalza ad ogni più piccola asperità del terreno; le
sue mani, istintivamente, ma senza alcuna efficacia, cercano di stringere qualunque
appiglio o sporgenza del suolo. Gemiti rauchi, intervallati da acuti e brevi gridi di dolore,
escono dalla sua bocca, pur colma di terra, sangue ed altri vari elementi. I suoi capelli si
trascinano dietro foglie, ramoscelli e spine. La metà del suo volto rivolta al cielo è ormai
irriconoscibile, per le tumefazioni, i graffi e la sporcizia appiccicata. Giunto accanto alla
roccia le sollevo il corpo, inerte e pesante come il piombo. Lo deposito sopra la roccia,
sempre a faccia in giù, con le gambe sporgenti e penzoloni fuori di essa. Sembra
sufficientemente tramortita, ma non del tutto insensibile, proprio come desideravo che
fosse. Non le voglio risparmiare neanche un po’ delle sofferenze che sto per procurarle. Se
accennasse a perdere i sensi durante la tortura, la sveglierò a suon di ceffoni e, se
necessario, bagnandole la testa con l’acqua della borraccia. Raccolgo il paletto che avevo
lasciato cadere accanto ad un cespuglio prima dell’assalto, LO STESSO paletto con cui la
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cagna aveva flagellato il mio di dietro, e che ho sempre portato con me per una simile
eventualità.
“Bene…molto bene! Non hai proprio voglia di parlare prima che…….?”
“Non…posso….non…..”
“Non mi rimane altro da fare. Lo hai proprio voluto!”
Strappo rabbioso lo straccio che le ricopre il bacino. Il carnoso sedere e le cosce mi
appaiono in tutto il loro seducente biancore, esaltato forse dagli ultimi chiarori crepuscolari
di una giornata che sta ormai volgendo al termine. Pochi secondi….lascio cadere il paletto,
il furore vendicativo sembra eclissarsi con il buio incipiente, sostituito da un inevitabile
turbamento. Sento fermentare a un ritmo vertiginoso le pulsioni primordiali. Sono come
stregato da quelle voluttuose rotondità. Le mie mani, calamitate come per un incantesimo,
vi si posano sopra, le accarezzano, stringono i glutei, cercano, vogliono, penetrano,
divorano la carne fresca. Allargo lo sfintere, infilo un dito, due dita, vorrei entrare con
l’intera mano….E lei zitta! Non parla, non si agita, forse è svenuta. Di nuovo subentra la
rabbia, rimonta subitaneamente un furore cieco.
“NO!..NO!…..non credere di poter dormire, maledetta!…” Uno schiaffo terribile
sulla coscia, cui segue un gridolino sommesso, quasi il vagito di un bambino, che rivela
uno stato di spossatezza, stordimento e sofferenza.
No!…Sarei uno stupido se mi lasciassi andare al desiderio. Avrò vero
appagamento solo quando ti sentirò urlare straziata dal dolore. Raccolgo di nuovo il
paletto e lo appoggio dalla parte appuntita sull’orifizio, scostando di lato una natica.
“Ora mi farai sentire la tua voce, tutta la voce che hai in corpo…oh sì!…non hai
scampo…dovrai parlare….urlare….maledire il giorno in cui sei nata!” Avverto un senso di
attrazione inenarrabile per quello che sto per compiere, una sorta di libidine sadica, una
brama che non ha precedenti. Ho voglia di straziare quelle splendide carni, di sfigurarne la
morbida sinuosità delle linee, di sporcarne il conturbante pallore e, nel contempo, vorrei
potermene appropriare in un modo impossibile, penetrando negli infiniti pori della sua
pelle, degustandone l’odore e il sapore dall’interno delle sue stesse cellule, in una sorta di
fusione integrale che cancelli i confini materiali dei nostri corpi, un’entropia che annulli le
differenze e acquieti per sempre ogni discontinuità energetica. Voglio distruggere
quell’essere e voglio essere tutt’uno con esso, annientarlo per appagarmene senza residui.
Voglio…..
Un dolore acuto alla fronte, il buio improvviso cancella ogni immagine, le tempie
palpitano furiosamente. Poi il buio si trasforma con gradualità in una nebbiolina che lascia
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trasparire i contorni sfumati delle cose, le rocce, gli alberi, il volto sporco di sangue di
Elisa, i suoi occhi carichi di odio e di ferocia, la sua mano che brandisce una grossa pietra.
“Ma…le….detta!…cosa…stai…facendo….”
E’ sopra di me, seduta sul mio stomaco. Sta per sferrare un colpo con la pietra
diretto sul mio viso. I suoi occhi rossi di sangue, di odio…..
“NO!….NO!…..”
La nebbiolina ora si dissolve, sostituita a poco a poco da una luce sempre più
intensa che si diffonde coprendo tutta la prospettiva visuale, si sostituisce alle cose come
se le divorasse. Anche la minacciosa figura che mi sovrastava è scomparsa, più nulla è di
fronte a me, solo una luce abbagliante, accecante. Al centro della visione un cerchio di
un’intensità luminosa intollerabile….il sole! Non può essere che il sole! Il calore che
avverto sul viso, le palpebre che si serrano con un riflesso incondizionato, sembrano
confermarlo. Dove sono? Cosa ci faccio qui con la faccia rivolta al sole? Dov’è
Elisa?…già… Elisa!…Mi volto di lato per evitare l’irradiazione diretta del sole negli occhi.
Di nuovo un dolore lancinante alla fronte…non riesco a trattenere un gemito. Porto la
mano nel punto dolente….riapro gli occhi….tra le dita scorgo ciuffi d’erba e, sullo sfondo,
sagome sfocate di alberi…cespugli…Volto la testa dalla parte opposta….con cautela, per
paura di altre fitte dolorose….ammassi di roccia biancastra…calcarea…Se allungassi una
mano potrei toccare alcune di quelle rocce….SI!!… Ora ricordo!… Il cervo…che stavo
inseguendo!…Con grosso sforzo sollevo il busto, aiutandomi con le braccia. Le tempie
sembrano voler scoppiare. Uno sguardo al palmo della mano con la quale ho appena
accarezzato la fronte dolorante….sangue scuro, rappreso.
“Porc….ora è tutto chiaro! Devo essere caduto da lassù…la sera scorsa. Il sole del
mattino mi ha svegliato…devo aver dormito molto…per fortuna sono ancora vivo!” Tasto
con le mani le gambe, il torace, tutto il corpo. Solo qualche contusione qua e là; quella alla
fronte la più dolorosa, ma nulla di veramente serio o preoccupante, niente di rotto. Potrò
riprendere il cammino….non so per dove, ma lontano da questo posto così aspro, così poco
agevole….fanculo il cervo…fanculo Elisa!…
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CAPITOLO V
SINDROME KAFKIANA
Mille aghi punzecchiano il mio corpo. Li sento dappertutto, sono terribilmente
freddi, anzi gelidi. Una cascata interminabile di aculei si sta rovesciando su di me e non
riesco a sottrarmi al bersagliamento. Sono impietrito, incapace di qualsiasi movimento,
inchiodato supinamente a terra, costretto a sopportare questo intollerabile martirio. Persino
le labbra e le corde vocali sono paralizzate, non ce la faccio ad emettere nemmeno un filo
di voce. Come vorrei gridare ad Elisa di aiutarmi, lei sola può salvarmi ! E’ sdraiata
accanto a me, percepisco distintamente la sua presenza, l’odore del suo corpo, il suo respiro
profondo. Dorme indisturbata e nulla di quello che mi sta capitando sembra coinvolgere la
sua
persona.
Svegliati
Elisa,
ti
scongiuro !
Non
lasciarmi
a
questo
destino......SVEGLIATI ! .....Dorme, è assurdo, sta addirittura russando. Come è possibile
che non ti accorgi di nulla ? SVEGLIATI, ti scongiuro, non abbandonarmi in balia di
questo tormento ! Non riesco a muovere un solo muscolo, non posso voltare gli occhi verso
di lei, ogni mio lamento rimane strozzato in gola. E sento freddo, tanto freddo, sono gelido
come un blocco di marmo. Non potrò resistere a lungo.....DESTATI, amore mio, non
lasciarmi morire !.....
Un rombo spaventoso. Un cielo torvo, paurosamente scuro si apre sopra di me.
Eppure un diffuso tenue chiarore mi dice che non può essere notte, o non ancora notte. Uno
scroscio rumoroso di goccioloni d’acqua mi sta inondando, tanto che solo a intermittenza
posso mantenere socchiuse le palpebre. E’ pioggia . E che pioggia ! Sta inzuppando gli
stracci che ho addosso. Folate impetuose di vento scompigliano gli alberi e gli arbusti,
sollevano polvere e le ceneri ancora fumanti dei resti del fuoco. E’ l’alba, un’alba dai toni
apocalittici, eppur sempre migliore dell’ennesimo incubo dal quale mi ha sottratto. Allungo
la mano destra di lato, sicuro di trovarvi.....
“Elisa....”, volto lo sguardo nella stessa direzione, sollevo il busto di scatto....
“Non è possibile ! Elisa...non eri un sogno...eri qui, accanto a me...abbiamo fatto
l’amore stanotte ! ELISA...ELISA !” Scruto tutto intorno alla ricerca di un indizio, di una
spiegazione. Ed è come se con la pioggia scendessero dal cielo anche quei nuvoloni torvi,
ed avvolgessero tutte le cose. Confusione, incertezza, angoscia, paura di ritrovarmi ancora
solo. Palpo con frenesia il suolo bagnato alla mia destra. E’ ancora caldo, lo sento...o è
un’impressione ?
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“Non è possibile...” Percepisco ora anche l’odore di sperma, l’odore di una notte
d’amore. Infilo una mano nei pantaloni sdruciti, semi calati, e tocco il pene. Poi porto la
mano al naso... “E’ sperma, non ci sono dubbi.” Ma cosa significa ? Può significare tutto o
niente. La pioggia scende sempre più violenta, fa quasi male. Il freddo è insopportabile, ho
la pelle d’oca, comincio a tremare, un impulso di tosse mi assale. Le convulsioni mi
provocano un dolore al petto, mi costringono a raggomitolarmi su me stesso. La solita crisi
mattutina. Prima o poi l’impulso si attenuerà. Devo trovare un riparo e attendere che il
temporale cessi. E magari accendere un fuoco, ne ho proprio bisogno. L’autunno ormai è
alle porte, i problemi seri stanno per tornare.
In questa cavità rocciosa dovrò restare a lungo, a giudicare dalla pioggia che non ne
vuol sapere di smettere e dal cielo così piatto, uniforme nel suo grigiore che non lascia
intravedere il minimo spiraglio di luce. Sono tutto bagnato e infreddolito, nonostante il
fuocherello che ho appiccato. Ho fame e niente da mettere tra i denti, a parte questi
stomachevoli ultimi resti di carne rinsecchita che conviene comunque utilizzare nei
momenti di estrema necessità. E poi.....questo nuovo incredibile dubbio che mi sta
attanagliando. Era con me, stanotte, oppure ho sognato tutto ? Troppo spesso mi appare e
poi scompare. E’ veramente lei o il suo fantasma? La mia immaginazione, spinta da un così
possente desiderio di rivederla, sta prendendo il sopravvento sulla coscienza della realtà ?
Davvero si è così assottigliato, nella mia mente, il confine tra verità e apparenza ? Ma cos’è
poi la verità, ciò che è o ciò che si crede che sia ? Ed è poi importante, al punto in cui è
giunta la mia esistenza, saper distinguere se un evento accade obiettivamente o soltanto per
me ? Ora credo di comprendere il significato e l’importanza della follia : il totale senso di
impotenza e di ripulsa nei confronti degli accadimenti reali si tramuta, ad un certo punto,
nel suo opposto, nel più totale e appassionato godimento di essi, nell’integrale
appropriazione dei risultati rimasti lungamente frustrati. Ora non mi spaventa nemmeno più
tanto varcare la soglia della follia. Potrebbe essere la soluzione di ogni problema.
Basta con questo asfissiante dubbio ! Ho dormito con lei ?...ho fatto l’amore con lei
stanotte ?...è stato uno di quei bellissimi sogni che, di tanto in tanto, si alternano agli incubi
ricorrenti ?...a questo punto ha poca importanza. Il cielo è tenebroso come di peggio è
difficile immaginare, la pioggia scende e sembra quasi impossibile che possa prima o poi
cessare, in questa fredda e umida grotta sono solo, sempre più solo. Eppure...qualcosa mi
tiene in vita, questa assurda, magnifica speranza, questa voglia insopprimibile, l’odore
della sua carne, i suoi occhi neri e profondi come un abisso. Questo è ciò che conta. Di una
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cosa non ho alcun dubbio : quella notte, in quella casa, vicino ad un pianoforte corroso dal
tempo e ai Picasso, ai Matisse appesi alle pareti, l’ho stretta tra le braccia, mi sono bagnato
con il suo sudore, le sue lacrime, la sua paura. Quella casa, già...quella bellissima casa
sommersa dall’edera e dalla vitalba....ecco cosa debbo fare, tornare là, superare
l’imbarazzo per lo spirito dei tempi che vi abita e il ricordo della violenza consumata. Solo
là posso continuare a vivere, a sperare, a desiderare, a sognare, nella realtà di quegli oggetti
antichi e del sapere ingiallito e ammuffito della carta, tra le testimonianze della saggezza e
della follia umane, nella follia del presente e del futuro che mi attende....non importa....non
importa. E’ là che debbo andare.....
Non si è accorto di me. La pioggia incessante - che da più di dieci giorni mi ha fatto
precipitare di colpo nel più triste degli autunni immaginabili, spazzando via persino l’odore
dell’estate - nasconde qualsiasi rumore col tintinnare delle sue gocce sulle cose. Le foglie
secche, ormai in via di marcescenza, non possono più scricchiolare sotto i piedi. Certo che,
adesso, un paio di scarpe mi avrebbe fatto comodo.....sguazzando di continuo tra una pozza
d’acqua e l’altra le dita dei piedi non le sento quasi più....l’umidità sta impregnando anche
le mie ossa....i dolori reumatici che accuso in varie parti del corpo stanno fiaccando
seriamente la mia capacità di resistenza. Ho paura che prima o poi possa esplodermi un
febbrone, contro il quale non saprei davvero cosa fare. Fortunatamente so di essere vicino.
Questi luoghi li riconosco...dovrò soffrire ancora per poco....forse per poche ore. Ecco...è
intento a rosicchiare una piccola preda. Non potevo sorprenderlo in un momento più
propizio....gli rimarrà indigesto questo pasto...il suo ultimo pasto. Sono eccitato...pregusto
già il sapore di carne arrosto, fresca....quella di tasso poi, che ho consumato solo qualche
rara volta, la trovo proprio squisita. La sua pelliccia può tornarmi utile, ne potrò ricavare un
cappello per l’inverno o una borsa da portare a tracolla. Una botta secca, precisa, con
questo duro bastone di frassino, e non avrà scampo, non avrà modo di soffrire. Eppure.....la
consapevolezza di essere così vicino ad arrecare la morte di qualche essere non mi
risparmia mai un senso di inquietudine, magari solo per pochi attimi. Quando poi l’animale
stramazza al suolo, pervaso dagli ultimi sussulti nervosi, sopravviene il senso di colpa. Lo
so...o la pelle sua o la mia. Facile considerazione che sopravvive dalla notte dei tempi.
Eppure ogni volta non riesco a evitare le stesse identiche emozioni. Non so uccidere con
indifferenza. Un giorno mi troverò ancora a pochi attimi dalla morte, magari senza saperlo,
sarà la mia.
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Stecchito. Poveraccio ! Trema più del consueto....doveva avere una forte tempra
vitale....oppure non ho colpito duro. Ma non credo stia soffrendo, sono movimenti
involontari....i suoi occhi sono troppo fissi nel vuoto, non sembrano denunciare coscienza o
sensibilità....speriamo che sia così ! E’ quasi buio e devo ancora trovarmi un riparo per la
notte. Non sarà cosa agevole, oltre tutto, trovare qualcosa da ardere che non sia infarcito
d’acqua. Avrei proprio un gran bisogno di scaldarmi un po’ e di riempirmi la pancia. Ma va
bene così. Ormai sono vicino....tra non molto sarò a destinazione, forse domani stesso....e
allora le cose potranno andare assai meglio.....senz’altro meglio di così......
Bellissima ! Non ebbi modo di goderne la visione in piena luce, quando me ne
andai. Mi sentivo un po’ come un cane bastonato, oltre che fisicamente molto provato. Non
ero dello spirito giusto per abbandonarmi ad osservare ciò che, al contrario, desideravo solo
di lasciarmi alle spalle......e al più presto. Ero amareggiato, disgustato di me stesso e anche
assai deluso. Come avrei potuto preoccuparmi di ammirare questa stupenda costruzione,
già di per sé inverosimile per il contesto così selvaggio in cui si situa, e poi così
incredibilmente articolata nel suo profilo, nelle sue linee, nei dettagli che la compongono !
I comignoli di mattoni sul tetto, le balaustre in legno che recingono il porticato, il grande
balcone ad “L” al piano superiore, gli infissi o quel che rimane degli infissi in legno, le
ampie aperture al piano terra e le finestrelle della mansarda..... Le erbe e le piante che vi
crescono sopra, intorno, tra le crepe dei muri, tra le tegole, al posto delle maioliche divelte
del balcone, che si arrampicano sulle pareti formando a tratti dei tappeti verticali compatti e
impenetrabili, ove si annidano probabilmente piccoli rettili e uccelli.....E il vapore, che sale
lentamente dalla terra, inzuppata di acqua piovana dei giorni precedenti e sferzata dai raggi
del sole ancora caldi che sono tornati ad affacciarsi tra le nuvole e che si fanno strada tra le
alte e fitte fronde della foresta, avvolge di un velo misterioso tutto l’edificio, proprio come
nei castelli delle favole che ci raccontavano o leggevamo dai libri illustrati quando eravamo
bambini. Ho trovato davvero il mio castello fatato...sto vivendo la mia favola, e sento di
nuovo il desiderio di viverla fino in fondo. Non mi rimane altro che questa favola, non
debbo permettere che venga sopraffatta dagli eventi, dal flusso della storia cattiva che mi
ha generato e mi sta trascinando verso un incomprensibile ignoto.
Qualcuno, nei giorni scorsi, è tornato qui alla villa. E vi si è anche soffermato !
Questo libro di Kafka, “Il processo”, aperto a metà sul tavolo della sala della biblioteca,
parla chiaro già da sé, anche fosse l’unico indizio. Non c’era quella notte. Pur con la scarsa
luce delle candele l’avrei visto, ne sono certo. E soprattutto il giorno dopo, o meglio ancora
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il giorno successivo, per quanto preso da tutt’altro tipo di problemi e dal desiderio di
fuggire al più presto da quel luogo, avrei certamente notato un simile particolare. E poi
sono scomparsi.....gli strumenti della tortura....il paletto, le corde che così malamente erano
servite per legarmi. Lasciai tutto sul pavimento, di ciò non ho alcun dubbio. Che fine hanno
fatto ? Chi li ha fatti sparire ? Perlustrando le varie stanze chissà quante altre sorprese mi
attendono ! Già.....Kafka. Come potrei dimenticarmi di quel grande scrittore ! Sembra
quasi che quel libro aperto sul tavolo sia stato messo lì appositamente per sottolineare
l’assurdità e incomprensibilità della situazione che sto vivendo. O forse.....forse.......prima
di abbandonare la villa, preso dallo sconforto, estrassi io stesso quel libro dagli scaffali,
appoggiandolo sul tavolo con l’intenzione di rileggerne alcune pagine, magari per il
bisogno di ritrovarmi in sintonia spirituale con qualcuno, per provare così almeno un
briciolo di sollievo e sentirmi un po’ meno solo? No...non è possibile ! Per quanto
plausibile, considerato lo stato confusionale che attraversai in quei terribili giorni, non
credo proprio che riuscirei a dimenticarmi di aver compiuto un gesto del genere. E’ assai
più plausibile che qualcuno abbia continuato a far visita alla casa, quella donna
fatale...Elisa, o qualcun altro forse.....E qualcuno tornerà, prima o poi, anche questo è
plausibile, devo solo attendere.....Forse è già qui....e mi sta osservando, sta studiando le mie
mosse, sta valutando il grado di pericolosità che può rappresentare la mia presenza qui per
lui...o per lei. Starà meditando se è il caso di tentare un approccio amichevole o, al
contrario, di farmi fuori una volta per tutte ed evitare qualsiasi rischio per la sua
incolumità. E poi ci sono anche LORO ! In questi ultimi tempi, così tormentato da tumulti
emotivi, desideri, rancori, speranze, delusioni, me ne ero quasi dimenticato. Potrebbero
aver scoperto il rifugio ed avermi teso una trappola, fiduciosi che i frequentatori della casa
prima o poi si sarebbero fatti di nuovo vivi. Già, che stupido sono ! Non riesco più ad
azzeccare una mossa giusta. La stanchezza psicologica sta evidentemente fiaccando la
capacità di attenzione, mi ha fatto perdere il senso della prudenza, mi ha condotto al punto
di abbassare la guardia, di abbandonare certi atteggiamenti precauzionali che sono invece
indispensabili per la sopravvivenza. Di questo passo le mie possibilità di vita si riducono in
modo drastico. Forse è già troppo tardi per porvi rimedio. Forse è proprio quello che, tutto
sommato, nell’intimo, nell’inconscio, desideravo....forse....
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CAPITOLO VI
INCONTRI
Le imposte di legno sbattono alle finestre, cigolano, scricchiolano, sembrano
doversi staccare da un momento all’altro dietro la spinta delle folate improvvise di vento.
Chissà come avranno fatto a rimanere al loro posto per tanto tempo, dopo anni e anni di
incuria e sottoposte al rigore delle intemperie e degli elementi ambientali del bosco ! E’
lecito pensare che non vi sia stata un’incuria totale. Qualcuno, abitatore assiduo o casuale
della villa, vi avrà messo mano rinforzandole o aggiustandole, magari per proteggersi dal
freddo, considerato che le vetrate si sono conservate intatte solo nel salone della biblioteca,
grazie alla loro maggior corposa consistenza. L’autunno, impostosi decisamente sugli
ultimi rigurgiti estivi, ha rinfrescato l’aria e sarebbe opportuno, almeno di notte, serrare le
imposte. Ma non riesco a rinunciare al chiarore delle stelle e della luna, quando il cielo lo
consente. Troppo tempo sono rimaste amiche inseparabili del mio vagabondare, ed ora,
dovermene separare, anche solo per una notte chiudendomi nel buio assoluto delle stanze,
mi rende ansioso. D’altronde rimangono ormai solo pochi mozziconi di candela da
utilizzare e solo un paio di litri di petrolio per far funzionare la vecchia lampada che ho
rinvenuto negli scantinati. Ho dovuto rinunciare da parecchi giorni a leggere libri di notte.
La lettura
assorbe quasi tutto il mio tempo diurno, escluso quello necessario per
procacciarmi del cibo fresco. E la notte, prima di addormentarmi, non riesco a fare a meno
di starmene sul balcone o alla finestra a fantasticare mentre osservo le ombre della
vegetazione circostante e i piccoli spazi di sottobosco illuminati dal pallido chiarore
stellare. Non si odono più i ripetitivi versi dei grilli, ma si sente ancora, di tanto in tanto, il
cupo verso del gufo di guardia su qualche ramo alto, o lo stridio del barbagianni in volo. E
poi tanti altri piccoli rumori, a sapere e volere ascoltare, si possono captare, provenienti da
vicini o remoti nascondigli della foresta. Chi vi ha vissuto anche per poco tempo, non si
può stupire dell’immensa vitalità che di notte si sprigiona in essa. E soprattutto non ne ha
più paura, al contrario, non può fare a meno di registrarne anche i segnali meno percettibili,
perché ognuno di essi è testimonianza della vita e della voglia di vivere che è intrinseca
alla natura tutta.
Comunque, non posso più eludere il problema. Ho deciso di restare, accada quel
che accada, e l’inverno è alle porte. Dovrò spendere un po’ di tempo per rendere più
confortevole la villa, per ripulirla e cercare di ripristinarne la funzionalità. Altrimenti non
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avrebbe senso che vi restassi ; dentro e fuori, lasciando inalterate le cose, è la stessa cosa.
Anche i serpenti ho trovato in una delle stanze a piano terra. Innanzitutto perlustrerò di
nuovo molto attentamente stanza per stanza facendo un inventario di dove è necessario
rimettere le mani con urgenza. Più difficile sarà trovare il materiale idoneo per aggiustare o
riassestare alla meglio le parti danneggiate o deteriorate.
Non li avevo mai contati prima d’ora. Ventidue vani. E’ davvero grande la casa,
incredibilmente non me ne ero ancora accorto. Alcune stanze, come la mansarda, sono
proprio belle, direi affascinanti, ricche di oggetti consunti e impolverati che, solo a vederli,
suscitano un desiderio quasi morboso di sapere quante e quali persone ne possano un
tempo aver fatto uso. Qua e là segni inequivocabili di frequentazione recente, come ad
esempio queste evidenti impronte, di sicura origine umana, che interrompono l’uniformità
della coltre polverosa e mi confortano non poco, perché costituiscono una prova ulteriore
che non posso aver solo sognato in questi ultimi mesi. O almeno dimostrano che qualcuno
mi ha preceduto in questa casa e ravvivano la speranza di un possibile incontro. Della
mansarda farò il mio luogo prediletto per passare il tempo e per leggere. Qui mi sento
davvero a mio agio. Dalle finestre si infiltra il fogliame dei cerri,
potrei persino
arrampicarmi nei solidi rami e perdermi tra le loro fronde ancora fitte e verdi, percorrendo
magari chilometri della foresta senza scendere mai a terra. Una possibile via di fuga
d’emergenza...perché no ?...non è da sottovalutare l’ipotesi che si verifichi una situazione
in cui debba allontanarmi frettolosamente trovando però precluse le vie di terra. Potrebbe
essere l’ultima risorsa per scampare da un agguato, vale la pena tenerlo a mente. Inoltre, da
qui, posso usufruire di un accesso immediato al balcone. Il che mi consente non solo di
godere, quando lo desidero, di un contatto più diretto con le stelle, al quale non potrò mai
rinunciare, ma anche di ispezionare dall’alto, comodamente, il versante opposto della villa
e quindi di sorvegliare meglio l’area circostante. Dovrò però, innanzitutto, riparare le
innumerevoli falle che si sono prodotte sul tetto e che lasciano filtrare l’acqua piovana un
po’ dappertutto. Un compito non facile, perché bisognerà trovare materiale adatto per
sostituire le tegole mancanti o rotte. Ma è da qui che devo iniziare, procederò dalla
sommità della casa scendendo di piano in piano fino allo scantinato.
Il tetto è un vero disastro. Molte tegole sono mancanti (vorrei proprio capirne il
perché !), tante altre sono spostate, rotte, addirittura frantumate. Qua e là nidi di rondone o
di chissà quale altro volatile, un po’ ovunque terriccio, fogliame marcescente, ciuffi d’erba,
rami secchi. Alcuni tratti sono ricoperti da intensi grovigli di edera. Per ostruire le falle e
sostituire le tegole mancanti non ho trovato nulla di meglio che la corteccia degli alberi,
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che posso modellare dando ad essa la forma e la grandezza necessarie ad otturare i diversi
buchi e che posso poi rivestire con del vecchio ma sempre resistente nylon recuperato in
cantina.
Una settimana di intenso e duro lavoro mi è costata l’operazione di ripristino del
tetto, ma sono riuscito anche a ripulire le canne fumarie dei camini, che mi saranno
indispensabili per affrontare l’inverno. Per un paio di giorni ho lavorato sotto una
pioggerella insistente che mi ha procurato il primo raffreddore di stagione, ma in compenso
mi ha permesso di individuare con precisione tutti i punti nei quali l’acqua filtrava. Ho
rischiato persino che i travi di sostegno più deteriorati cedessero sotto il mio peso - e
sarebbe stata una complicazione di certo scoraggiante - ma con un po’ di fortuna ho
concluso l’opera nel migliore dei modi possibili. Ora sto già godendo i primi frutti di
questo lavoro di ripristino appena iniziato, appollaiato su un confortevole giaciglio che ho
allestito in un angolo della mansarda, di fronte ad una graziosa finestrella attraverso la
quale mi giungono il fruscio delle foglie e gli intensi odori del bosco. Alla meglio, per ora,
ho sistemato anche gli oggetti sparsi e accatastati intorno alla rinfusa, dando loro un ordine
che non so spiegare razionalmente, ma che mi procura un’appagante sensazione di
tranquillità, quasi avessi da sempre abitato questa stanza e avessi da sempre usufruito di
quegli oggetti. La pesantissima scrivania in noce massello - così almeno sembra - accanto
alla portafinestra che conduce in balcone ; la poltrona in velluto viola ricamata con fiori
nell’angolo di rimpetto alla scrivania ; l’impianto hi-fi nella nicchia a muro, nel posto
stesso dove lo avevo rinvenuto (solo a guardarlo mi frullano alle orecchie i brani musicali
che ascoltavo da giovanissimo, l’ultima vera musica che udirono le mie orecchie....prima
della incredibile notte beethoveniana di pochi mesi fa) con le decine di mini dischi che
giacciono silenziosi accanto ; la piccola biblioteca traballante e tarlata che ho collocato
accanto al giaciglio e dove, quanto prima, trasferirò i libri della grande biblioteca del salone
a piano terra che più bramo di poter leggere nei giorni che verranno; gli innumerevoli
piccoli oggetti sparsi un po’ ovunque come soprammobili, alcuni dei quali sono reperti
archeologici di antiche civiltà, probabilmente sud americane, che non so capire se siano
autentici o soltanto imitazioni verosimili ; i quadri di autori anonimi, almeno per le mie
limitate conoscenze, sicuramente, questi si, autentici, appesi alle pareti, tra i quali ho
cercato di dar risalto a quel tenebroso, scarno, e provocante nudo di donna che mi ricorda
tanto lo stile di Schiele. E’ la prima volta, da quando ero bambino, che riesco a provare una
simile sensazione di benessere, di sicurezza, di agiatezza, sia fisica che mentale. Mi ero, di
fatto, dimenticato di cosa significhi familiarizzarsi in uno spazio, tra oggetti noti, nei
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confronti dei quali si sviluppano comportamenti abituali, gesti standardizzati, azioni
ripetitive di senso scontato, e si nutrono attese altrettanto scontate, preventivate, incapaci di
suscitare dubbi o comunque situazioni di aleatorietà, anche quando poi, in effetti, qualcosa
di imprevisto, un malfunzionamento di un meccanismo o l’imprecisa ripetizione di un
nostro atto vengono di tanto in tanto a “turbare” l’equilibrio solidificato. Non si tratta, in
realtà, di una vera e propria turbativa, giacché il contesto percettivo e cognitivo nel quale
normalmente ci muoviamo, preserva sempre soluzioni di riparo che garantiscono la
permanenza dell’equilibrio originario. Ora comprendo quanto tutto ciò possa essere vero
nell’ambito di un ristretto contesto di vita familiare, all’interno dei limitati spazi che
ospitano l’esistenza quotidiana, almeno fino ad un certo punto e da una prospettiva
meramente esperenziale; ma anche quanto tutto ciò sia altrettanto falso e illusorio se si
allarga la prospettiva ad un contesto relazionale che oltrepassi la semplice sfera domestica.
Ne sanno qualcosa i pochi disgraziati sopravvissuti come me ! Eppure, persino la catastrofe
non intacca il bisogno di potersi ancorare, quando si può, in un angolo qualsiasi, per quanto
infimo, che ci restituisca condizioni di tranquillità, pure se, in ultima analisi,
obiettivamente ingannevoli. Un punto fermo, una stazione in cui il mondo sembri potersi
arrestare al grado di sviluppo cui è giunto. Un illusione, certo, ma il fatto stesso che la
mente riesca, nonostante tutto quanto è precorso fino ad oggi, a ritrovare momenti di
agiatezza tra gli elementi che si interpongono nel suo raggio percettivo, se non in quello
cognitivo, è segno evidente che il bisogno di stabilizzare le proprie relazioni vitali, almeno
il bisogno, non può essere soppresso, nemmeno dalla catastrofe delle catastrofi, e che sono
sufficienti pochi elementi, poche condizioni ambientali per consentirne un accettabile
livello di gratificazione.
Altra cosa è questa struggente malinconia che mi prende soprattutto di notte e
soprattutto d’autunno, quando la pioggia e il vento incalzano e sottolineano, senza
possibilità d’appello, lo stato di solitudine cosmica che da molti anni ormai accompagna la
mia assurda esistenza. In tali frangenti cado in balia di un flusso inarrestabile di immagini
che provengono dal lontano passato, contro cui a poco valgono gli sforzi inibitori per
cancellarle dalla mente. Anche quando riesco, erigendo efficaci meccanismi difensivi, ad
oscurare alcune delle visioni più insopportabili, non c’è modo di sopprimere il sostrato
doloroso e triste che le sostiene. In un frastornante turbinio si succedono, senza soluzione
di continuità, scene della mia infanzia i cui attori principali, ovviamente, sono mia madre,
mio padre e i miei compagni di giochi. Il loro volto appare sfocato, indefinito nei
lineamenti, eppure ben riconoscibile, precisamente identificabile, grazie al desiderio, forse
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autolesionistico, di rintracciarne l’identità nel confuso calderone della memoria. Bramo e
allo stesso tempo non voglio ritrovare quei volti, col risultato di rendere ancor più
straziante il salto involontario nel passato.
Il forte vento di scirocco, così caldo e appiccicoso da rendere l’aria quasi
irrespirabile, mi costringe a tener chiuse le imposte delle finestre, o quel che rimane delle
imposte (il prossimo lavoro di restauro sarà senz’altro rivolto ad esse), precludendomi
l’amato contatto con lo spazio aereo. La volta stellare, è vero, rimane celata dagli immensi
ammassi nuvolosi che, trascinati dalle correnti, si susseguono, si intersecano, si
sovrappongono velocemente l’un l’altro. Ma già il semplice contatto con l’aria esterna
avrebbe impedito l’insorgere di questa vaga e fastidiosa sensazione claustrofobica,
agevolata dall’alto tasso di umidità dell’aria che crea difficoltà alla respirazione. E ciò
nonostante il buon livello di familiarità raggiunto con gli oggetti circostanti, che mi rende
meno ostica la permanenza tra queste mura, restituendomi l’antica tranquillità domestica
dell’infanzia, o meglio, qualcosa che le somiglia molto. Una debole circolazione d’aria
all’interno della stanza solleva di tanto in tanto alcuni fogli di carta ingiallita che ho
deposto sulla scrivania, con l’intento di appuntarvi alcuni pensieri nel caso me ne venisse
voglia, smuove le pagliuzze sporgenti del giaciglio in cui mi trovo accovacciato, fa
ondeggiare la fiammella della candela, uno degli ultimi mozziconi che non ho voluto
risparmiare in una nottata così opprimente, fa vibrare le pagine di Proust che stringo tra le
dita. Rileggendo le intense pagine di questo scrittore, pur nel cupo stato emotivo del
momento, riesco, almeno a sprazzi, a rivivere, con ricchezza di dettagli psicologici, i
personaggi che affollavano i salotti della decadente aristocrazia francese di fine ottocento.
Duchi, marchesi e principesse e sopra a tutti la duchessa di Guermantes, colti durante le ore
trascorse tra raffinate discussioni intellettuali e i capricci, le astuzie, le malignità, la
cordialità formale e l’ironia sottile dei prestigiosi protagonisti. Una mondanità tipicamente
nobile, con sincerità messa a nudo da questo scrittore che la conosceva molto bene. Un
mondo che, dal mio mondo attuale, appare così impossibile, così inverosimile, da farmi
seriamente dubitare che un tempo possa essere stato reale. Come poter credere che Elisa,
l’essere che sfugge al mio desiderio da mesi, qualche altro disgraziato essere vivente che è
possibile immaginare a girovagare senza meta in chissà quale remoto angolo del pianeta, io
stesso così incapace di dare un senso alla mia lunga storia di solitudine e paura, siamo i
discendenti di una specie che amava immergersi quotidianamente in incontri di simile
vitalità e animazione, ove persino il particolare insignificante, l’episodio più banale
assurgevano a motivo di intrattenimento, di sofisticata dissertazione, di discussione
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conviviale in contesti di pomposa cerimonialità ? Per quanto mi sforzi, non riesco a
immaginare Elisa in quegli abiti sontuosi, ornata di preziose collane e gioielli, attraversare
gli immensi saloni affollati dalle più celebri e titolate personalità d’Europa e oltre,
inchinarsi compostamente a salutare i conoscenti, lanciare occhiate suadenti di implicita
intesa o comporre sorrisi sfuggenti e altezzosi a sottintendere distanze incolmabili. Non
riesco che a vederla nella sua nudità, non solo fisica, con la sua vigorosa ed eccitante
vitalità, ma anche interiore, così come traspare dal suo sguardo, inequivocabile espressione
di paura, tragedia e coraggio. Non vi è ombra di ambiguità nel suo essere, caso mai di
enigmaticità, di mistero, un ombra che dice tutto sul passato ma che lascia del tutto
indecifrabili le motivazioni comportamentali del presente e ogni intenzionalità per il
futuro, oltre quella della mera sopravvivenza. Non posso credere, nonostante tutto, che
questa sia rimasta l’unica aspirazione per un essere umano. Cosa stai cercando Elisa?
Perché continui a sfuggirmi? Perché rifiuti di entrare in comunicazione con me? Cosa
cerchi di proteggere, cosa cerchi di evitare?
Dal vano delle scale, che salgono dal piano terra fino alla mansarda, mi giunge uno
scricchiolio del legno dei gradini. Lo scricchiolio si ripete ad intervalli regolari e lo
percepisco, ad ogni replica, sempre più distintamente, sempre più vicino. Un corpo che
sale, che sembra non abbia alcuna intenzione di nascondere il proprio arrivo – sarebbe
d’altronde impossibile su questa vecchia scala, per quanto ancora solida – ma che, con la
sua cadenza niente affatto incerta, non dimostra nemmeno l’intenzione di incutere paura,
anche se è impossibile evitarlo. Passo dopo passo sembra volermi annunciare che sa di
trovare qualcuno al piano superiore e che sta sopraggiungendo senza alcun proposito
minaccioso, solo quello di incontrarmi. Il vento ora soffia ancora più forte, producendo un
sibilo infernale e il frastuono delle fronde degli alberi, che sento ondeggiare sotto la
sferzata di raffiche impetuose. Di nuovo una corrente calda nettamente percepibile,
prodottasi dall’innesto tra i mille spifferi che mi circondano, scivola sopra di me, smuove i
pochi panni appiccicosi che indosso, solleva le pagliuzze del giaciglio, fa girare alcune
pagine di Proust . La fiammella della candela si piega da un lato, sta per spegnersi, e solo il
mio intervento di copertura con il palmo della mano le consente di rimanere accesa. Mentre
tento di fissare i contorni vaghi della ringhiera delle scale nella sua parte terminale che si
immette in mansarda, avvolta nella penombra, alcune gocce di sudore gelide scivolano da
sotto le ascelle sul costato. Di certo queste non sono causate dall’afa insopportabile. Ne ho
la conferma dal brivido che mi coglie, già tante volte sperimentato in frangenti simili, e che
mi fa accapponare la pelle. E’ la paura, una paura che faccio fatica a controllare, che
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somiglia al panico. Distolgo fulmineamente lo sguardo per un attimo, ma solo per un
attimo, dalla ringhiera, posandolo di sfuggita sulle imposte chiuse della finestrella dalla
quale, poche ore prima, potevo affacciarmi sull’intreccio sconfinato dei rami della foresta.
Con un rapido volo della mente sto cercando di calcolare i tempi necessari per una
precipitosa fuga attraverso quella finestrella, unica via di scampo nella stanza, di cui ora mi
risulta più che mai indubitabile l’importanza. Ma non ho solo paura. C’è dell’altro, avverto
un’emozione indefinita frammista ad essa, forse di desiderio, di speranza, che mi tiene
incollato sul pagliericcio impedendomi di saltare su come una molla per spalancare le
imposte. Incalzante lo scricchiolio si fa più vicino. Il fiato mi si ferma in gola. Una sagoma
nera, solo parzialmente delineata, si affaccia in cima alle scale. Esita con la gamba alzata
sull’ultimo gradino. Sembra indecisa sul da farsi, di dover superare il lieve dislivello che la
separa dal vano della mansarda. L’immobilità di quell’ombra, addirittura statuaria, persiste
per alcuni lunghissimi attimi, come a lasciarmi il tempo di mettere a fuoco la visione nella
semioscurità, per tranquillizzarmi sulla sua presenza. E finalmente, come d’incanto, la
paura dilegua, scalzata da una felice quanto agognata presa d’atto. ELISA…! I riccioli, le
morbide ondulazioni dei capelli che scendono fino sopra il ventre, come potrei non
riconoscerle ! Ora sono sciolte, gonfie come una vela al vento, ricoprenti selvaggiamente le
spalle. Ma come non riconoscerle? Vi immersi perdutamente le labbra in quella notte
meravigliosa d’estate.
“Da quanto tempo ti stavo aspettando! Questa volta spero potrai darmi
spiegazioni….spero tu sia venuta per questo. Sono un uomo disperato Elisa, senza meno
l’avrai capito.” Le parole mi escono di bocca non so nemmeno come, producono un effetto
sorprendente in questa notte tempestosa. Stento a riconoscermi in esse, è come se parlasse
un’altra persona. Ella, molto lentamente, si stacca dalla balaustra e si dirige, a passi quasi
impercettibili verso di me, mentre i riflessi della luce della candela, che ancora sto
proteggendo dalle correnti d’aria, producono un fioco scintillio sulle sue cornee, che solo
per contrasto con l’oscurità della stanza si evidenzia. Mi sembra di percepire un’incertezza
nel suo incedere, come se ora fosse lei ad aver paura, a non sentirsi più sicura di presentarsi
così spontaneamente a me, di offrirsi ad un incontro. “Non temere…..non mancherò più di
rispetto in alcun modo alla tua persona. Ho tratto frutto dalla lezione che mi impartisti
dopo il nostro primo incontro; non prenderò mai più iniziative nei tuoi confronti che non
siano volute o comunque condivise da te…” Un battito delle palpebre, che oscura per un
lunghissimo attimo il riflesso di luce sulle sue cornee, sembra tradire, se non la
convinzione, almeno il desiderio di poter credere alle mie parole. Continua ad avvicinarsi
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con apparente maggior disinvoltura. Si arresta di fronte a me e mi scruta impassibile
dall’alto. Sembra voler dimostrare che non ha alcun timore e che è cosciente dei rischi ai
quali si espone. Sotto il peso del suo sguardo intrepido scopro di essere più impacciato di
lei, accovacciato come sono a proteggere, ormai inutilmente, la fiammella della candela
che da un po’ non minaccia più di spegnersi. Con inevitabile goffaggine tento di
riacquistare naturalezza portandomi in posizione seduta. Forse servirebbe più a me un suo
esplicito messaggio distensivo, un cenno, magari finalmente una parola chiara,
inequivocabile, con la quale poter fare i conti senza più dubbi, con la quale potermi
confrontare e poter interrompere un infinito soliloquio intessuto solo di congetture e
illazioni che non trovano mai riscontro. Ma non voglio ancora dar l’impressione di cedere
le redini del gioco, di mostrare arrendevolezza. Recuperato un atteggiamento composto,
sfido il suo sguardo immobile, anche se so in partenza che mi sarà difficile riuscirvi a
lungo. Non tanto perché incapace di sopportare il peso della sua verità, quanto piuttosto
perché incapace di nascondere a lungo quella che cova in me. E già sento che il desiderio
più primordiale vorrebbe costringere i miei occhi a posarsi su qualche altra parte del suo
corpo per cercare stimoli carnali. Resisto. “Elisa…forse già la stupidità di chiamarti con un
nome che non è il tuo ti sarà sembrata una prepotenza, una violenza gratuita….hai ragione.
Basta che tu faccia un cenno di contrarietà per questo nome e sarò ben felice di non usarlo
più. Basta che tu dica una parola, il tuo vero nome, e…..” Per un attimo sfugge il mio
sguardo ai freni inibitori, scivolando fugacemente proprio là dove mi ero proibito dovesse
posarsi, sul bacino, sulle cosce. Quanto basta per rendermi conto con sollievo che una sorta
di saio francescano ricopre il suo corpo fino ai polpacci, occultando ogni minima curva
tentatrice. Certo anche per lei l’estate è ormai finita, ma forse anche una saggia
considerazione sull’opportunità di presentarsi ai miei occhi in aspetto non provocante deve
aver avuto il suo peso nella scelta di indossare un simile abito. “Parla, di’ qualcosa……”,
insisto con voce rassicurante, mentre fisso di nuovo i suoi occhi per nulla spaventati, anzi
forse ora ravvivati da un accenno di bonaria comprensione nei confronti della vogliosa
flessione del mio sguardo, che sembra non esserle sfuggita. “So che è imbarazzante parlarci
dopo quello che è successo, ma siamo pur sempre due esseri umani, scampati non si sa
insieme a quanti pochi altri all’immane disastro……e se sei qui, di tua spontanea volontà,
è perché certamente anche tu comprendi la drammaticità di tale situazione, e stai cercando
qualcosa di più del cibo quotidiano per conservare in forze il tuo organismo, qualcosa che
dia un senso alla tua esistenza. Sei d’accordo con quello che sto dicendo?” Senza
distogliere il suo sguardo dai miei occhi, si abbassa con movimenti tranquilli, portandosi
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seduta a gambe incrociate. Ma non appare ancora desiderosa di profferire parola,
restandosene in silenzio. “Bene….va meglio, sembra tu abbia deciso di concedermi fiducia,
o quanto meno di saper prendere il toro per le corna, come si diceva ai miei tempi…ai
nostri tempi”. Le rivolgo un lieve sorriso, con la consapevolezza che possa tornar utile per
attenuare l’inevitabile tensione che aleggia. E infatti….miracolo! Una leggera piega delle
sue labbra è sufficiente a palesare una volontà distensiva, una disposizione amichevole che,
solo fino a pochi attimi prima, perseguivo come una chimera dal nostro primo tormentato
incontro. Ora, finalmente, ora soltanto, sento di poterle concedere la mia fiducia, sento
fugare ogni residuo dubbio sulla possibilità che, dietro questa inaspettata visita, possa
nascondersi un’insidia, un tranello mortale. Forse per la prima volta, da un tempo così
lontano che si è perso nella memoria, percepisco, con una sensazione di benessere, il venir
meno dell’abitudine di vivere in allerta, di barricare l’esistenza dietro un perenne,
preventivo “chi va là?”. Ella, nel frattempo, reclina la testa e lo sguardo come a
mimetizzare l’imbarazzo per aver risposto impulsivamente ad un richiamo amichevole.
Subito dopo torna a fissarmi con apparente tranquillità. “No…ti prego, non privarmi del
tuo splendido sorriso! Saranno mille anni che non ne vedo uno.” Come per afferrare un
raggio di luce apparso per la prima volta dopo un lungo e cupo inverno, allungo la mano
destra in direzione del suo volto, arrestandone però di botto la corsa a debita distanza, onde
evitare un fraintendimento delle mie intenzioni ed incuterle, senza volerlo, un senso di
pericolo. Per un secondo, forse due, sospendo il gesto impulsivo nel vuoto, studio i suoi
occhi che studiano i miei, non avverto incrinature di paura. Poi, come per rincorrere quel
raggio di luce e trattenerlo il più a lungo possibile ad illuminare le tenebre dell’inverno,
lascio proseguire la corsa alla mia mano, con prudenza, con garbo, fino a lasciarne
impigliare le dita tra le onde dei suoi capelli. “Dobbiamo diventare amici…non credi sia
una cosa saggia? Ma non è soltanto per saggezza che ti chiedo questo, non perché siamo
rimasti solo noi due in questo triste mondo, o almeno in questo angolo di mondo. E non
pensare nemmeno che sia un semplice istinto sessuale che mi spinge a cercare la tua
amicizia. Forse la prima volta, è vero, la tua splendida nudità ha scatenato in me il bisogno
di placare innanzitutto un appetito rimasto represso da tanti anni…”- accenna ancora ad un
lieve ma esplicito sorriso – “…ma poi, nei giorni, nei mesi seguenti, ho avuto modo di
riflettere molto su di me, su di te. Posso assicurarti che l’unica vera preoccupazione è stata
quella di rincontrarti per allacciare un dialogo, sia pure soltanto un dialogo, un amicizia che
ci aiutasse entrambi ad affrontare con più coraggio il tempo che rimane da vivere.
Null’altro che questo, puoi credermi….”Quella dolce piega delle sue labbra resiste, ma ora
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si carica di una sottile vena di amarezza. La mia mano, senza che alcun timore possa più
fermarla, si posa con la delicatezza di una farfalla sulla sua gota pallida, dall’apparenza
quasi emaciata, forse a causa della scarsa luce della candela che lascia in ombra le aree più
incavate del suo volto, nonché a causa della cornice folta e ondulata dei capelli ancor più
nera del buio della notte. L’effetto che ne scaturisce è sublime e si trasmette dall’uno
all’altra come un virus altamente contagioso e con la rapidità di una scossa elettrica. E’
così penetrante e sincero da travolgere le residue, reciproche resistenze interiori,
accomunandoci in un trasporto emotivo di rara intensità. La linea delle sue labbra muta in
una smorfia che le sfregia il volto. La sua testa, riccioluta e scompigliata, si inclina in
avanti trascinata da un impulso a nascondersi, si adagia lateralmente sulla mia mano
premendo la guancia contro i polpastrelli, come ad imprigionare per sempre l’amicizia. Un
furioso sibilo di vento percorre la foresta, avvolge come un infinito grido di dolore il
nostro rifugio nella notte tempestosa senza stelle. Mille correnti d’aria si infiltrano tra le
fessure, si scontrano, confluiscono, rimescolano l’aria afosa della stanza, smorzano la
fiamma ormai piccola della candela. Nel buio assoluto, tra le grandiosi voci della natura,
senza le stelle amiche a farmi compagnia dall’alto dello spazio siderale, scopro una
dimensione della vita di inedita bellezza.
Questa grossa ascia è quanto di meglio avessi potuto sperare di trovare
nell’ammasso caotico e polveroso di cianfrusaglie che invade lo scantinato. Perdendoci
tempo, forse molto tempo, potrei riuscire a rimettere un po’ d’ordine anche nel
seminterrato, e chissà quanti altri oggetti utili potrei rinvenire. D’altronde c’è tutto
l’inverno ancora da trascorrere, non mancherà certo l’occasione di dedicare qualche ora per
rovistare nei suoi angoli bui e umidi. Non sono certo topi, ragni e scorpioni a costituire un
problema. Caso mai dovrò vedermela con la pigrizia. Tanti anni passati ad occuparmi
dell’essenziale per sopravvivere hanno reso superflua e priva di interesse qualsiasi altra
agiatezza non riconducibile ai bisogni del presente immediato. Ho perso ogni stimolo a
migliorare le condizioni di vita o a rincorrere oggetti e obiettivi secondari, che quando ero
bambino probabilmente secondari non erano, anzi assorbivano tutte le energie vitali di cui
disponevo. Solo in situazioni di estrema privazione, ovviamente, si diviene coscienti di ciò
che conta davvero per la vita, e situazioni di tal genere prolungate nel tempo possono
rendere inappetibili scopi che si discostino appena da un’immediata gratificazione
dell’essenziale. E quanto grossolana e fittizia si rivela allora la convinzione stessa, indotta
nella mente fin dalla nascita in forme esplicite e subdole, di una sostanziale differenza fra
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l’uomo e le altre specie viventi! Ora però…..ora sento che qualcosa è cambiato. Non sono
più solo. Elisa tornerà, so che tornerà a farmi visita. Non capisco perché non abbia deciso
di stabilirsi con me in questo rifugio. Probabilmente non si sente ancora tranquilla
dell’ambiente, di me, di qualcos’altro. Più che comprensibile. Ma sicuramente tornerà, e
forse prima o poi deciderà di fermarsi e di condividere con me i suoi giorni. Ora, dunque,
ho qualcosa in più a cui pensare, qualcosa di molto bello che mi suscita un’euforia tutta
speciale. Ho come la sensazione di tornare a rivivere la mia febbricitante adolescenza, i
momenti amorosi che hanno preceduto gli sconvolgimenti del pianeta. Mi sento caricato di
una voglia che non sospettavo nemmeno di poter più estrarre dall’anima, una voglia
incredibile e deliziosa di assaggiare qualcosa in più di quello che mi circonda, di provare,
di fare cose che fino a ieri non destavano in me alcun interesse. Con questa ascia andrò a
tagliare legna per far fronte all’inverno che si avvicina, per riscaldarmi nelle notti gelide
alle quali non potrò sottrarmi; eppure, questa volta, non credo che a spingermi a tale azione
sia soltanto il primitivo istinto di conservazione. C’è qualcosa in più ad invogliarmi, un
desiderio, un piacere per la vita che ritenevo, a torto, estinto da molto tempo.
Una giornata purissima, come non ne vedevo da settimane. Il cielo è di un azzurro
pulito e intenso, senza velature, né nuvole, né pulviscolo che possano anche solo un poco
sminuirne la limpidezza. Forti correnti d’aria da nord-est hanno spazzato via la cappa
grigia che incombeva da alcuni giorni, sostituendosi all’aria umida e appiccicosa che
avvolgeva in una densa foschia tutta la foresta. Il primo freddo pungente della stagione mi
ha costretto ad adattare una macera coperta di lana a mo’ di mantello e a rivestire
accuratamente i piedi con pelli essiccate di martora. L’autunno è ormai inoltrato e già
molte foglie ingiallite o rinsecchite svolazzano per l’aria da un luogo all’altro, andandosi
ad ammucchiare alla base degli alberi e degli arbusti e a riempire gli anfratti e gli
avvallamenti del terreno. Taglierò i tronchi e i rami secchi che troverò lungo il cammino
fino a sera. Ne farò delle cataste di pezzi già a misura per il camino, poi tornerò nei giorni
seguenti per caricarle su una sorta di slitta che dovrò approntare, quindi le trasporterò e
depositerò nel ripostiglio del pianterreno della casa. Potrei approfittare anche per
raccogliere funghi; se ne trovano molti e di molte specie, tanto più che il cambiamento di
tempo che è sopraggiunto, se si consolidasse, ne farebbe ben presto tabula rasa. Ma non
credo di avere più il coraggio di ingoiarne uno, dopo aver subito gli effetti di un
avvelenamento fungino un paio di anni fa. Per tre giorni fui martoriato da terribili mal di
pancia, vomito e diarrea. Non credevo di uscirne vivo. Poi fortunatamente tutto si risolse
nei giorni seguenti e senza conseguenze, a parte lo spossamento fisico e il dimagrimento.
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Eppure ero convinto di aver mangiato funghi che già decine di altre volte avevo potuto
apprezzare nei pasti autunnali. Evidentemente il riconoscimento di una specie fungina
dall’altra è cosa assai più ardua di quanto pensassi. E anzi, averne mangiato impunemente
per tanto tempo, senza possedere alcuna nozione nel campo, affidandomi soltanto
all’intuito, al caso e all’osservazione, si è rivelata una scelta tanto fortunata quanto folle.
Quando ero bambino mio padre mi aveva parlato dell’esistenza di funghi capaci di avere
anche effetti letali, pur se ingeriti in minime quantità. E’ bene che non mi lasci più tentare
dal loro aspetto, a volte così invitante, appetitoso, soprattutto quando è accompagnato da
certi caratteristici aromi che, in uno stomaco vuoto magari da giorni, può ingenerare la
voglia di divorarli all’istante senza starci a pensare su molto. D’altronde sono un bellissimo
ornamento del sottobosco e, per quanto mi riguarda, credo proprio che rimarranno tale per
il resto dei miei giorni. In quanti colori e forme si presentano! Particolarmente suggestivo è
quello, peraltro inconfondibile, di color rosso arancio cosparso per tutta la superficie di
piccole incrostazioni bianche, come se avesse raccolto i primi piccoli fiocchi di neve scesi
dal cielo. Eppure, di questo come di tanti altri meravigliosi funghi dall’aspetto
sorprendente e dai colori più vivaci immaginabili, non mi sono mai fidato in passato dal
punto di vista culinario. Forse perché le loro immagini, nella letteratura e nella
cinematografia fiabesche che hanno accompagnato la mia infanzia, le trovavo spesso
associate agli ambienti in cui vivevano streghe e lupi mannari, e perciò si caricavano di un
significato misterioso e insidioso. Quando, durante gli autunni trascorsi da disperato
fuggitivo nei boschi di varie latitudini e altezze, braccato dai morsi della paura e della
fame, sono stato costretto a far buon viso a cattivo gioco per tentar di sopravvivere, ho
preferito nutrirmi con funghi che non hanno una colorazione vistosa. Questa intuitiva
prudenza, evidentemente, non è stata sufficiente a risparmiarmi spiacevoli sorprese. E
chissà poi se quei bellissimi funghi rossi spruzzati di neve non siano un ottimo pasto. Forse
non lo saprò mai, non avrò mai il coraggio di saperlo.
Un riccio! Carne fresca per la cena di questa sera. Molto bene. E’ un bel pezzo che
mangio solo carne essiccata. Inaugurerò il camino con un buon arrosto. Superata la
fastidiosa fase della spellatura, che certamente non mi risparmierà qualche dolorosa
puntura degli aculei, gusterò con molto piacere la sua delicata carne. Non un grande pasto,
un pasto abbondante, ma un pasto delizioso questo sì. Un buon contorno di verdure miste
completerà il menù. Credo che in momenti come quello che passerò questa sera vicino al
calore della legna che arde, senz’altro onorerei il mito di bacco, se potessi avere al mio
fianco una bottiglia di vino, di cui da giovanissimo sentì spesso decantare le lodi da mio
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padre, senza peraltro averne mai avuto né il desiderio né il piacere di assaggiarne un
goccio. Pazienza. Saprò accontentarmi dell’acqua di fosso. Piuttosto, dovrò escogitare un
sistema di approvvigionamento idrico che mi risparmi i continui prelievi giornalieri da
fossi e sorgenti. Nei prossimi giorni tenterò di realizzare una sorta di cisterna per
raccogliere acqua piovana, in modo da garantirmi consistenti riserve per i periodi dell’anno
nei quali è più disagevole il prelievo in località distanti dal rifugio. Acqua che potrò usare a
scopi potabili anche dopo giorni, previo trattamento di vigorosa bollitura. Sì, ecco…è
inutile negare a me stesso che ora sono attratto dall’idea di fissare per un lungo periodo la
dimora e, di conseguenza, di organizzare al meglio lo stanziamento. Ma…Loro…Loro me
lo consentiranno? Già, stavo quasi facendo i conti senza l’oste.
Si è già accorto della mia presenza e si è chiuso come una palla. Non sa il poveretto
che contro la mia mazza il suo sistema di sicurezza è inefficace. Non avrà nemmeno il
tempo di rendersene conto. Un colpo secco e…pace a lui, stasera avrò la pancia piena.
E’ sempre con immenso piacere che mi soffermo, magari per ore, accoccolato
davanti alle lingue scoppiettanti di un bel fuoco. In particolare dopo essere stato esposto
per tutto il giorno al freddo pungente della stagione invernale. E il piacere è del tutto
eccezionale quando si tratta del primo freddo, come quello di oggi, che schiude le porte
all’inverno vero e proprio. Oltre tutto ora il fuoco non è quello di un bivacco improvvisato
qua e là in qualche ricovero d’emergenza, in una grotta, in una capanna fatiscente, tra le
mura diroccate di una villaggio semidistrutto, o semplicemente all’aria aperta, nel mezzo di
un’ampia prateria o nel fitto di una boscaglia. Ora sono di fronte al fuoco di un bellissimo
camino in pietra, scolpito dalla fantasia di un laborioso scalpellino vissuto qualche decina
di anni fa, all’interno di una grande e bellissima villa, quasi integra nelle sue strutture
essenziali. Una grande casa in cui abito e vivo con l’incredibile sensazione di vivere in una
casa tutta mia. Una situazione indubbiamente insolita, nella quale non mi sono mai più
trovato da quando ero bambino. Non ho le stelle, non vedo le stelle sopra di me. Ma non
me ne sento angosciato, è come se le avessi accanto a me, svolazzanti nello scintillio
prodotto dal crepitio della legna ardente. Il buon pasto appena consumato, che ha lasciato
nell’aria dell’ampio soggiorno il profumo di arrosto, così “casalingo”, così “normale” nelle
cucine in cui gli uomini di tutto il mondo un tempo desinavano, contribuisce a questo
appagamento. E vi contribuisce pure l’ululato del vento, che si protrae ininterrottamente
dal mattino, e che ascoltato dall’interno della casa, appare ancor più terribile che esserne
investiti in pieno all’aria aperta. Tutta la sua potenza si avverte dagli spostamenti d’aria che
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produce lungo la canna fumaria e che di tanto in tanto respingono nella stanza nuvole di
fumo. Al riparo di un confortevole rifugio si esalta l’impressione di una furia violenta e
irresistibile che è fuori, ma allo stesso tempo ci si sente immuni dai suoi effetti. Posso
scaldarmi, nutrirmi, riposarmi, posso sognare, e posso farlo con gran soddisfazione
ascoltando gli urli di una notte tempestosa che non mi può far male.
Un fruscio leggero alle mie spalle…..non ho il coraggio di voltarmi. Ho paura di
frustrare per l’ennesima volta la trepidante attesa di un suo ritorno, perdendo lo sguardo nel
vuoto sconsolante della stanza. E’ bello tener sospesa per alcuni attimi la speranza,
trattenerla il più a lungo possibile, anche se si è consapevoli che tanto maggiori sono la sua
durata e la sua intensità, tanto più dolorosa è la disillusione che ne può conseguire.
Immobile tento di captare un qualsiasi altro rumore che non possa essere confuso con il
sibilo del vento e il crepitio della legna ardente. Sospendo persino il respiro….un
leggerissimo peso preme sulla mia spalla sinistra, troppo leggero per potermi sembrare un
che di minaccioso. E la speranza tramuta in gioia. Prima ancora di voltarmi, la mia mano
destra è già sulla sua. La pelle infuocata dei polpastrelli impatta su quella gelida del dorso
della sua mano, e la purezza della gioia si macchia subito di pena e commozione.
“Povera Elisa….” – stringendo la sua mano per trasmetterle calore e forse ancora
per assicurarmi di non avere a che fare con un fantasma, mi sollevo da terra e mi volto
verso di lei – “…quanto freddo avrai dovuto sopportare!” I suoi capelli sono vistosamente
scompigliati da sembrare un’enorme matassa di lana aggrovigliata; sul suo volto cereo
risaltano le chiazze color ciliegia sulle gote e il naso prodotte dall’esposizione al vento di
tramontana. Una pesante coperta scura l’avvolge per intero dalle spalle ai piedi, tenuta
stretta sotto il mento dall’altra sua mano. Cogliendo forse la pena nei miei occhi, ostenta un
gran sorriso a labbra chiuse che, nella cornice in cui si offre, appare buffo, quasi
clownesco. Lascio la presa sulla mano gelida e mi abbandono ad un abbraccio intenso per
stringerle tutto il corpo, immergendo il volto nella capigliatura arruffata.
“Finalmente! Non sai quanto tempo la mia mente rimanga impegnata al pensiero di
un tuo ritorno!” – faccio fatica a non far tremare la voce – “Ma perché non ti fermi! Perché
non decidi di restare con me….questa casa è grande! Potremmo non darci fastidio affatto,
anzi, pur conservando la nostra piena autonomia individuale, insieme sotto lo stesso tetto
agevoleremmo notevolmente la nostra esistenza quotidiana, renderemmo più gradevole,
senz’altro meno triste, la permanenza in questo mondo. Non Credi?….Oh, ma scusami…”
– torno a guardarla fisso negli occhi con apprensione – “…come al solito ti investo con le
mie chiacchiere, mentre tu sarai infreddolita e affamata. Ecco…” – distanziando il mio
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corpo, l’accompagno vicino alla fiamma con le mani poggiate sulle sue braccia – “..siediti
qui, accanto a me. Mangia qualcosa. E’ poca cosa, un paio di zampette di riccio, ma è carne
fresca. Nel ripostiglio c’è comunque carne essiccata a volontà. E poi questa verdura…l’ho
colta nel pomeriggio, sai! E’ condita con sale marino; ne ho fatto una discreta scorta
durante il mio pellegrinaggio estivo sul litorale”.
Con lo sguardo rivolto al focolare e le braccia allungate a cercare il calore intenso
delle fiamme, il suo sorriso si è attenuato, ma persiste a sufficienza per comunicare la
soddisfazione di trovarsi ora lì. Il mantello scivola via dalle sue spalle, non più trattenuto
dalla mano, depositandosi a terra. Appare ancora vestita di quella sorta di saio con il quale
si presentò l’ultima volta, l’altra notte tempestosa percorsa dai venti caldi di scirocco. Ma
anche i piedi ora sono ben coperti, con stracci e legacci di ogni tipo. Incrociando le gambe,
si accovaccia, con movimenti poco disinvolti, al margine laterale del camino.
“Ma no, ma no! Accomodati più al centro. Io vado a fuoco, non ho bisogno di
scaldarmi ancora. Dai, non farti pregare!” Lasciandosi docilmente convincere, si trascina al
centro, puntando i suoi grandi occhi scuri sui miei. Sembrano volere esprimere gratitudine.
“Non credere che ti faccia un favore, sono io ad esserti riconoscente per essere tornata
ancora qui, per avermi dato ancora una volta fiducia. Ed ora mangia qualcosa, fa come se
non ci fossi, aspetterò in silenzio senza disturbarti”.
Getto due pezzi di legno sul fuoco, che subito riprende vigoria, poi torno a sedermi
ma distante da lei, alle sue spalle, dove l’ombra è appena rischiarata dai riflessi di luce
emessi dal camino. Qui almeno posso evitarle di sentirsi con il mio fiato sul collo, di subire
con imbarazzo o fastidio la mia presenza troppo ravvicinata, e posso invece osservarla con
discrezione. Scruto il profilo del suo volto, ben delineato dall’intenso chiarore frontale.
Sembra incredibile come in quel groviglio di riccioli e ciuffi scomposti, così gonfi e
disordinati da debordare al lato delle spalle, possa emergere un nasino appena accennato,
sbarazzino, quasi da adolescente. Il contrasto è davvero impressionante. Chiudo gli occhi e
provo ad immaginare quello stesso nasino, quel volto, in una cornice elegante e raffinata di
una capigliatura d’altri tempi, quando contava molto la cura della propria figura esteriore.
Troppo labile il ricordo per riuscire a “montare” nei dettagli una capigliatura dei tempi
andati sui suoi tratti di volto. Eppure, l’immagine vaga che si disegna nella fantasia, è
sufficiente a produrre stimoli così eccitanti da fare desiderare di poter essere, in quel
momento, un acconciatore professionista per mettere le mani, e le forbici, su quel cespuglio
selvaggio.
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Che grande cosa poter osservare le spalle di un essere così meraviglioso che non ti
appartiene e che è consapevole della tua presenza, e non mostri di averne alcuna
preoccupazione! E’ ancora possibile essere amici, essere amanti, riporre fiducia in
qualcuno che non sia te stesso. Ciò mi riempie di gioia e mi rende certo che mai e poi mai,
per nessuna ragione al mondo potrò tradire la sua fiducia. So che quell’essere non mi
appartiene, come non può appartenermi niente di questo mondo, nemmeno la mia stessa
vita; ma so finalmente che non mi è nemico, che non cercherà di farmi del male, almeno
intenzionalmente. Non possiedo l’oggetto amato, ma possiedo la certezza del suo rispetto e
la speranza che questo rispetto per la mia persona non si attenui col tempo. La voglia di
vivere della quale avverto, giorno dopo giorno, sempre più la forza trainante ne è la prova.
Sto coltivando una nuova pericolosa illusione? E’ possibile. Ma in questo momento non ho
alcuna intenzione di distruggere la speranza con il sospetto, e mi lascerò trascinare da essa
come le onde del mare trascinano la zattera di salvataggio del naufrago scampato alla furia
della tempesta. Fosse l’ultima speranza alla quale questa vita mi conceda di aggrapparmi.
Rinfrancata dal calore emesso dalle vigorose fiamme, che in un crescendo
palpitante hanno via via trasmesso la luce anche agli angoli più bui del salone, ella si toglie
i lacci intorno alle caviglie e, con essi, il groviglio di stracci che tenevano uniti. Avvicina i
piedi ora nudi al focolare e, con apparente disinvoltura, come se non sapesse o non si
curasse affatto del mio sguardo attento su di lei, solleva il saio dalle ginocchia e lo fa
scivolare fino al bacino, mettendo a nudo anche le sue bianchissime cosce. Quindi reclina il
busto all’indietro sorreggendolo sulle braccia tese e appoggiate al pavimento; e così sembra
offrire tutta se stessa al calore ardente del camino, in un voluttuoso abbandono delle
membra.
Anch’io sento di essere un gran fuoco, un fuoco più ardente di quel camino. Sono
stufo di contemplare inerte, protetto dalla penombra, come una spia che di proposito si
sottrae all’azione per carpire segreti altrimenti irraggiungibili, o come un guardone che non
può o non vuole partecipare all’azione perché è proprio l’azione del guardare la fonte della
sua gratificazione. Mi alzo in piedi badando a far quel tanto di rumore che le renda chiare
le mie intenzioni, mi avvicino a passi lenti ma ben scanditi. Lei sembra non preoccuparsene
e rimane immobile a godere del calore diretto del camino sulle sue cosce nude,
leggermente divaricate come a mimare una voglia di amplesso. Incoraggiato da questo suo
atteggiamento disteso e disinibito, le appoggio le gambe sulle spalle e le mani sulla testa.
Poi mi abbasso in ginocchio accarezzandole i capelli, cercando di raccoglierli sulla sua
schiena in una improbabile coda. Parecchie volte faccio scorrere le mani per stringere fra
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loro tutte le ciocche di capelli disordinate. Ella abbandona la testa all’indietro
rivolgendomi, ad occhi chiusi, un sorriso di appagamento. Dimostra di gradire le mie
carezze, con moderata ma indubbia eccitazione. Forse non comprende quanta bramosia
palpiti in questo momento nelle mie vene, che posso dissimulare solo perché ho altrettanta
paura che, se dessi ad essa immediatamente sfogo, rischierei di incuterle spavento. E così
soffoco con piacere l’istinto per trattenere più a lungo possibile questo momento di perfetta
intesa. Forse non comprende nemmeno quanto le sia grato della fiducia che mi offre, al
punto che se potessi usufruirne per il resto dei miei giorni, non chiederei più nulla alla vita.
O magari solo una piccola altra cosa: vorrei che per una volta almeno mi parlasse.
“Come sei bella, Elisa!”
Apre gli occhi e li fissa sui miei. Sembra volermi dire che in lei non vi è più paura,
non vi è più alcun residuo di rancore, che ha completamente dimenticato quella terribile
notte dell’estate appena trascorsa. Ma è probabile che sia il rimorso che ancora cova in me
a farmi desiderare di cogliere questo significato dal suo sguardo. Perché in realtà, ogni
volta che mi soffermo su di esso, ho sempre paura di rivedere quegli stessi grandi occhi
impauriti e tristi, e allo stesso tempo fermamente accusatori, che subirono l’umiliazione,
forse l’ennesima umiliazione, dello stupro.
Con le labbra le sfioro le labbra. Lei accenna ad aprirle. Non le basta un contatto
così discreto, di semplice affetto. E schiude le labbra, a chiedermi di mordere senza remore
tutta la sua voglia, la sua passione. Ebbro di questo richiamo, affondo la lingua per cercare
la sua. Nell’eccitazione che ne esplode, è come se volessi entrarle dentro, penetrarla
oralmente, scendere nel profondo del suo corpo per saziarmi delle sue viscere. E lei
ricettiva ad accogliermi, a volermi far entrare, a farsi succhiare tutto quello che ha dentro, a
lasciarsi violentare senza residui nelle parti più intime e irraggiungibili. Per alcuni secondi
resto stordito e ubriaco. Con una mano mi spinge sulla nuca per incoraggiarmi. Ma
d’improvviso capisco che questo non può appagarmi, che non posso accontentarmi della
sua carne, della sua fisicità. Cerco qualcosa in più, qualcosa che non mi ha ancora dato di
sé. Stacco le labbra dalle sue con perentoria determinazione.
“Resta con me, Elisa! Resta con me….”
Il suo volto cambia espressione flettendosi di lato, i suoi occhi si incupiscono
fissandosi nel vuoto, le labbra ancora aperte e umide di saliva, come a dichiarare la propria
impotenza, l’impossibilità di proporre se stessa in altro modo. Di riflesso, dall’ebbrezza di
poc’anzi scivolo nello sconforto.
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“Perché!…Perché non puoi, perché non vuoi?….Cos’è che ti trattiene?”
Amareggiato da questa resistenza silenziosa impenetrabile, che persiste nel negarmi ogni
risposta, ad eccezione di un’unica risposta, quella che mi sbatte in faccia la perpetua
incertezza dell’esistere e l’inspiegabilità dell’essere, sento di non riuscire più a reprimere la
voglia di sbatterle in faccia la mia incertezza, il dubbio che da tempo mi porto dentro.
“Forse tu non sei sola, non sei sola come me. Hai un compagno…dei compagni che
ti aspettano da qualche parte. Non vuoi o non puoi rinunciare a loro, come non vuoi
rinunciare totalmente a me. E per questo hai scelto il silenzio, la soluzione più facile,
quella di non parlare, di non spiegare chi sei, cosa fai, cosa farai….E’ così?….” Addirittura
ora un pizzico di rabbia guida la mia mano a volgerle di nuovo, quasi con brutalità, il viso
verso il mio. “Dimmi! E’ così?…”
So di aver detto qualcosa di terribile. Non sono pentito, non posso pentirmi di dire
ciò che penso, ma credo di aver detto qualcosa dalle conseguenze irreparabili.
E’ assente soltanto la paura; ma c’è la stessa profonda tristezza, lo stesso dolore, la
stessa rassegnazione ad un destino non voluto, lo stesso velato disprezzo accusatore. Nei
suoi occhi c’e di nuovo tutto questo, quasi la stessa imbarazzante miscela che non riuscì a
fermarmi quella prima notte, ma che ora si ritorce contro di me come un atto di accusa.
“Scusami…scusami! Non volevo offenderti, non volevo darti alcuna lezione di
comportamento, né tanto meno insinuare che tu sia un’astuta calcolatrice. E’ che….devi
capirmi….sono tormentato da dubbi e sono ormai da tanto, troppo tempo, frustrato nei
desideri, incatenato a questa condizione di solitudine….insomma….non ne posso più! Tu
rappresenti una speranza alla quale non posso rinunciare; proprio non vorrei che si
rivelasse d’un tratto come l’ennesima illusione. Devi comprendere che….”
Solleva il busto, ancora reclinato all’indietro, abbraccia le sue gambe nude,
risplendenti di candido biancore ai riflessi delle fiamme, nasconde il viso tra le ginocchia,
e con esso l’amarezza e la delusione che vi sono delineate sopra.
“Non fare così!…..Non prendertela…..ti ripeto che…..”
Si solleva da terra, stringendo in una mano il mantello che aveva abbandonato sul
pavimento. Poi si china di nuovo a raccogliere con l’altra gli stracci e i legacci….le sue
scarpe.
“Cosa ti succede? Cosa fai?….” Un timore si insinua dentro di me. Avverto
un’incrinatura in quella sicurezza che a modo mio, a poco a poco, ero riuscito a costruire
nel rapporto con lei, in quella fiducia che avevo iniziato a riporre nel suo, pur
imprevedibile, comportamento. Con i piedi scalzi, si avvia verso l’uscita dal salone.
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“Ma dove vai?….aspetta! aspetta! Non fare così!…..” E’ già fuori del salone,
scomparsa nel buio della stanza attigua. Vorrei gridarle dietro chissà quali parole, la mia
rabbia impotente. Vorrei alzarmi e correrle dietro, afferrarla e trattenerla, se necessario, con
la forza, come in quella notte del nostro primo incontro. Già! Proprio come in quella
stupenda e maledettissima notte. Rimango invece immobile come un sasso, incapace di
emettere qualsiasi altra sillaba. Mi è chiara l’inutilità di qualsiasi tentativo per farla
retrocedere dalla sua decisione di andarsene, se non quello di usarle, ancora una volta,
violenza, una folle, stupida, insensata violenza fisica. Gli occhi fissi sul pavimento
illuminato tenuemente dalla fiamma del fuoco, che, in perfetta sintonia col mio stato
d’animo, si è affievolita e minaccia di spegnersi. Vedo ancora le sue bianche, candide
cosce pulsare di vibrante sensualità, attendere di essere accarezzate, baciate. Un ululato
terribile del vento echeggia nella stanza accanto, preceduto e seguito da un mortificante
cigolio. La porta dell’uscio si richiude con un tonfo sordo. Ora solo lo spettrale chiarore
della brace ardente guida il mio sguardo fisso sul pavimento. Poi, pian piano, le ombre
inanimate delle cose si confondono col buio della notte.
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CAPITOLO VII
NAVIGANDO…NEL PASSATO
Quanti oggetti! E quanti ricordi! Molte delle cose che sto tirando fuori da questi
cumuli aggrovigliati, sporchi e impolverati di scarti, fanno scattare dei flashes di immagini,
emozioni o semplici sensazioni che mi sprofondano nel passato. Mi sto sforzando per non
scivolare nella malinconia, per farmi guidare solo dallo scopo meramente utilitaristico con
la quale, questa mattina, ho deciso di scendere a rovistare in questo umido e tetro
scantinato. Ero in cerca di oggetti che potessero in qualche modo essermi utili durante la
permanenza in questa casa, per renderla più comoda e agiata, approfittando delle lunghe e
noiose giornate invernali che mi costringono a stare, per gran parte del tempo, rintanato tra
le sue mura. E certo sono rimasto felicemente sorpreso di rinvenirne una gran quantità e
varietà, alcuni già pronti per l’uso, altri bisognosi di qualche ritocco o aggiustamento, altri
ancora di essere adattati alla funzione che ho escogitato per essi. Pentole ancora integre per
cucinare, un ottimo tavolo di legno solo leggermente malfermo, una comodissima rete da
letto sulla quale potrò alleviare i dolori alle ossa durante il sonno e concedermi finalmente
qualche lunga dormita, sedie con struttura in ferro, arrugginite ma solide, attrezzi da lavoro
come zappa, piccone, pala, martello e persino una grossa sega che, appena rinforzata nel
manico e ingrassata, potrà risultarmi di enorme utilità; e tanti altri oggetti, molti dei quali
non so ancora come impiegare, ai quali però ho tutto il tempo che voglio per trovare
un’adeguata collocazione funzionale. Ma, purtroppo, non ho trovato solo gli oggetti;
insieme ad essi ho trovato, dolorosamente, anche ricordi, tutti inevitabilmente troppo belli
per essere sopportati e rivisitati a cuor leggero. Ho tentato di blindare la coscienza, di
neutralizzare la memoria, di congelare le emozioni….niente da fare! In particolare un
oggetto mi ha costretto ad interrompere la fruttuosa ricerca, mi ha trascinato, vanificando
ogni tentativo di rimozione, nel periodo della mia vita in cui conobbi per la prima volta,
che fu disgraziatamente anche l’ultima, l’amore; un periodo in cui avevo appena 15 0 16
anni. Un oggetto del tutto inutile, ora, assolutamente incapace di svolgere qualsiasi pur
minima funzione, ma che all’epoca rappresentava una delle massime conquiste
dell’ingegno umano, un potenziale strumento di aggregazione dell’umanità a livello
planetario. Questo innocuo e banalissimo scatolone di latta che tutti conoscevano, pure chi
non ne sapeva far uso, col nome di “personal computer”. Mio padre me ne fece trovare
uno, completo di monitor e accessori vari, nella mia stanza, quando compì l’ottavo anno
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d’età. Mi trovai subito a mio agio con quello che consideravo come uno dei più bei
giocattoli che avessi ricevuto. Mi affascinava esplorare tutte le risorse che, dei semplici
“clic” con il…., sì….con il “mouse”, sprigionavano come per magia sullo schermo del
monitor quando facevo i compiti di scuola, quando mi divertivo a creare immagini o
tentavo di comporre brani musicali. In pochissimi anni riuscì a padroneggiare lo strumento
per tutte le funzioni che mi interessavano, al pari di quanto mio padre riusciva a fare con le
sue attività di lavoro. Ma la più fantastica delle esperienze che questo strumento permise di
schiudere alla mia vita fu quando, sempre per gioco, iniziai, come allora si diceva, a
“navigare in internet”. Per la prima volta, letteralmente, mi si aprì il mondo davanti. La
sorpresa iniziale si tramutò in sbigottimento, quando mi resi conto di quanto piccolo fosse
il mondo che avevo conosciuto fino ad allora, che pur ritenevo, prima di allora, già così
grande e affascinante da spingermi a vivere con frenetico entusiasmo ogni giorno della mia
vita. Veramente emozionante, talvolta addirittura commovente, era avere, e saper di avere,
tutta l’immensa varietà del mondo alla portata di un “clic”. Nell’oceano infinito di
informazioni, immagini, suoni, nomi, si poteva correre il rischio di perdersi, di rimanere
frastornati e disorientati, ma mai di affondare: anche per “salvarsi” bastava un semplice
“clic”. Passai innumerevoli ore davanti allo schermo a lasciarmi sorprendere dai risultati
delle mie “cliccate”, a scoprire sempre qualcosa di nuovo di cui potermi servire per i miei
interessi quotidiani, ad entrare in contatto con giovani e meno giovani di ogni angolo del
mondo e a scambiare con essi ogni sorta di prodotto culturale. Potei condividere
entusiasmanti esperienze con amici virtuali di ogni razza e religione, come nessun altro
mezzo avrebbe potuto consentirmi di fare. Potei anche, talvolta, trasformare gli incontri
virtuali in incontri reali, concretizzando amicizie che in nessun altro modo avrei potuto
nemmeno immaginare come possibili. Così nacque e, per un’intera stagione estiva, esplose
l’amore per Brigitte, una graziosissima coetanea californiana dai capelli biondi a
“caschetto”, e dagli splendidi occhi verde mare, i quali, dietro piccoli occhiali dalle lenti
tonde, risaltavano di una così penetrante vivacità e intelligenza da lasciarmi spesse volte
imbarazzato e incapace di fissarli a lungo, persino attraverso le non nitide immagini che di
lei mi giungevano dalla telecamera applicata al suo computer. Ci conoscemmo per caso,
come normalmente capitava su internet, grazie a un programma che consentiva lo scambio
di files musicali. Scoprimmo di avere preferenze per gli stessi artisti, addirittura per le
stesse canzoni, e questo ci indusse a intrattenere un contatto diretto e approfondito
servendoci delle telecamere. Ho ancora le immagini chiare e precise dello scorcio della sua
stanza che puntualmente, ogni volta che entravo in connessione, appariva sul monitor. La
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sua figura cosi graziosa ed esile, le prime volte, mi apparve stridente al contesto, per intero
occupato da scaffalature colme di libri e mini-dischi ammucchiati disordinatamente. Ma
ben presto i suoi occhi intelligenti e la sua personalità, per certi versi così matura, imposero
una coerenza impressionante alla visione sul monitor. Mi accorsi di avere di fronte una
giovanissima intellettuale, fornita di notevole cultura rispetto alla sua verde età, e dotata di
un’incredibile capacità linguistica e di nutrite conoscenze, soprattutto in ambito letterario.
Possedeva una grande familiarità con molti degli autori classici europei, imparagonabile a
quella superficiale e nozionistica che ne avevo io. Fu lei che diede definitivo impulso ai
miei interessi nel campo, fino ad allora solo embrionalmente orientati alla narrativa. Un
ricordo indelebile ho del suo sorriso che, con uno scarto di pochi secondi di ritardo,
intravedevo sullo schermo dopo che qualche strafalcione linguistico scaturiva
inevitabilmente dal mio inglese imperfetto. Ne rimanevo un po’ mortificato, in particolare
quando, più che di un sorriso si trattava di una risata sfacciata. Col tempo, di quei sorrisi e
di quelle risate seppi cogliere la spontaneità, l’ingenuo divertimento che non nasconde
alcuna malignità, riuscendo persino a divertirmi anch’io. Più tardi, dopo gli eventi che
sconvolsero il pianeta, a quel ricordo associai soltanto la dolcezza, la bontà di un essere
che, dietro una precoce, forse esagerata, maturità intellettiva, nascondeva il bisogno della
spensieratezza, un’irruenza pulsionale, un desiderio di vivere, ai quali non aveva ancora
saputo dare la necessaria espressione.
Mio padre e mia madre cominciarono a preoccuparsi seriamente quando si resero
conto del tempo che impiegavo al computer e quando, soprattutto, si accorsero che vi
trascorrevo talvolta intere nottate. Minacciarono di togliermi il “giocattolo”, e furono sul
punto quasi di farlo davvero; fortunatamente compresero il motivo che mi teneva incollato
per ore ad esso, perché mi sorpresero più volte a colloquiare con la “ragazzina”
californiana e, con molta probabilità, intuirono che la relazione fra noi andava ben al di là
del semplice gioco. Erano genitori sensibili, niente affatto bigotti e autoritari, e seppure non
rivelai mai espressamente a loro alcunché del rapporto che intrattenevo con Brigitte, né
tanto meno del significato profondo che per me ben presto aveva acquisito, avvertirono da
soli che qualcosa di serio, emotivamente parlando, mi stava capitando. Decisero così di
tollerare le mie lunghe “connessioni” notturne e persino quella sorta di clausura diurna che
impressi alla mia vita, trascorrendo gran parte del tempo disponibile tra le mura della mia
stanza a confezionare “regali” artistici per Brigitte, o a godere dei suoi, che
ininterrottamente ci scambiavamo via internet: testi e brani musicali, poesie, documenti di
vario genere, interi romanzi di autori più o meno noti e tante curiosità culturali dei
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rispettivi paesi o di altri che suscitavano il nostro interesse. Mediante questi scambi
espandevamo e perfezionavamo le nostre conoscenze e, senza nemmeno accorgercene, ci
legavamo sempre di più l’uno all’altra. Venne a me l’idea di incontrarci realmente. Esitai a
lungo prima di proporglielo, avevo paura che il passaggio dal “virtuale” al reale, avrebbe
potuto inficiare in qualche modo l’incantesimo che stavamo vivendo, portando alla luce
particolari sgradevoli del nostro modo di essere che la comunicazione telematica non era in
grado di rilevare. Oltre tutto ero incerto su come avrebbe accolto quell’idea. Mi mancava il
coraggio di comunicargliela scrutando attraverso il monitor la sua reazione. Ci meditai
sopra per giorni e notti intere, alla fine, impulsivamente, complice l’effetto di un bicchiere
di vino bevuto a cena, decisi di inviarle una e-mail, che quanto meno mi sottraeva
all’imbarazzo di osservarla sullo schermo mentre riceveva la proposta, e sottraeva anche lei
da un possibile imbarazzo, dandole il modo e il tempo di una risposta meditata. La felicità
fu immensa, quando, non per e-mail, ma connettendosi direttamente con la telecamera, mi
rispose: “Grandissima idea! Come mai non ci avevamo pensato prima?”, e i suoi occhi
verde mare brillavano di una gioia che non poteva essere falsa, né tanto meno un effetto
illusionistico della telecamera.
Nei quattro o cinque giorni che seguirono ci dedicammo febbrilmente e in combutta
ad ideare una strategia adeguata per convincere i rispettivi genitori a lasciarci incontrare e
per decidere il come, il dove e il quando ci saremmo dovuti incontrare. Decidemmo alla
fine di incontrarci a Parigi l’ultima decade di maggio, approfittando di una gita scolastica
che la sua scuola aveva programmato proprio in quel luogo e in quel periodo. Di
conseguenza, per lei non fu necessario escogitare giustificazioni con le quali ottenere il
permesso al viaggio da parte dei propri genitori. Invece ai miei, di genitori, non seppi
inventare altra scusa che quella di un viaggio a scopo didattico, ovverosia perfezionare la
pronuncia della lingua francese, che a scuola studiavo insieme all’inglese. Mi preoccupai
inutilmente della risposta che avrebbero dato, in quanto concessero il permesso senza
nemmeno indagare sulla veridicità dello scopo, con troppa facilità per non sospettare che
essi sapevano o immaginavano cosa sarei in realtà andato a fare a Parigi. Probabilmente
ritennero opportuno non ostacolare questa mia esperienza, dimostrandosi ancor più
sensibili di quanto avessi potuto immaginare. Gliene fui segretamente e per sempre grato.
Oltre tutto mio padre acconsentì – ed era un presupposto indispensabile per poter andare
all’estero alla mia età – ad accompagnarmi in aereo a Parigi. Così fece e mi accompagnò
persino in un confortevole albergo, ove mi lasciò, tornando poi a prendermi al termine del
periodo di soggiorno. Permise così che io gestissi in piena autonomia e libertà quei giorni
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di “apprendimento linguistico”. Una dimostrazione di fiducia nei miei confronti, con la
quale forse si proponeva di verificare il grado di responsabilità e maturità da me raggiunto.
Di conseguenza, dovetti sopportare per un bel pezzo gli inevitabili sensi di colpa, causati
dal fatto di avergli raccontato una balla sullo scopo del viaggio.
Tutto il tempo in cui Brigitte non era costretta a seguire la scolaresca nelle visite
programmate ai musei o ai monumenti storici, e che io attendevo con ansia nel chiuso della
stanza d’albergo leggendo libri, venne occupato dai nostri incontri segreti, che, alcune
volte, si prolungarono fino a notte inoltrata. La prima volta ci incontrammo nei pressi della
Torre Eiffel. Indimenticabile l’emozione di quei momenti. Scrutavo nervosamente ogni
faccia delle persone che affollavano la zona, in particolare quelle delle innumerevoli
ragazze giovani dai capelli biondi, cercando somiglianze al volto mille volte analizzato nei
dettagli sul mio monitor. Col passar dei minuti sentì farsi strada dentro di me la paura,
quasi la disperazione, che non l’avrei mai incontrata. Iniziai a rimuginare su varie strazianti
ipotesi, tra le quali quella che mi avesse potuto giocare uno scherzo di cattivo gusto, non
trovandosi addirittura a Parigi, in quel momento, ma tra le mura della sua casa in California
a ridacchiare alle mie spalle. Una voce dietro di me, delicata e dall’inconfondibile accento
americano, pronunciò malamente il mio nome. Mi voltai quasi incredulo. A pochi passi
davanti a me c’era lei, in “jeans” attillati e pullover bianco; non ebbi dubbio alcuno nel
riconoscerla, ma ebbi delle sorprese. Innanzitutto la sua statura era assai più bassa, e la sua
corporatura assai più esile, di quanto mi avevano sempre lasciato pensare le imperfette
immagini video. Complessivamente la sua figura risultava piccola e mingherlina, ma non
per questo meno graziosa di quella virtuale, anzi, ne risultava accresciuta la delicatezza e
una fragilità che ispirava immediatamente affetto. Riusciva difficile accreditarle i 15 anni
di età da lei dichiarati, e proprio per questo risultava ancor più impressionante la
consapevolezza che avevo acquisito della sua maturità intellettiva. Ma soprattutto mi
colpirono i suoi occhi. Le piccole e trasparenti lenti tonde non poterono nascondere
un’incertezza e un imbarazzo nello sguardo che era semplicemente inimmaginabile poter
rintracciare sullo schermo. Al contrario, virtualmente quell’essere mi era sempre apparso,
attraverso i suoi occhi, sicuro di sé e della propria intelligenza, al punto di non dover mai
abbassare lo sguardo nemmeno quando affrontavamo discussioni imbarazzanti. Quel
giorno che la vidi per la prima volta, nei pochi attimi che restai silenzioso a fissarla appena
voltatomi di spalle, volse lo sguardo ripetutamente a terra, come se non riuscisse a reggere
il peso di quello mio. Apparve intimidita e insicura, come se temesse di non risultarmi
gradita e avesse paura di leggere impressioni negative nei miei occhi. Compresi al volo la
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situazione e non le permisi di torturarsi ancora. Feci due passi decisi in avanti e
l’abbracciai con entusiasmo, alla stessa stregua di come avrei abbracciato una cara amica
che non avessi visto da parecchio tempo. Ed in effetti, una cara amica, anche se “virtuale”,
per me lo era. Per distoglierla da quell’impasse psicologico, quello stato per cui - almeno
così io pensai - lei non si sentiva all’altezza delle mie aspettative, cercai di farle percepire
tutta la sicurezza delle mie emozioni e dei miei intendimenti. Le tolsi con delicatezza gli
occhiali mentre con l’altra mano la tenevo per i fianchi stretta a me. Incurvato con il capo
sul suo viso, per compensare la differenza di statura, la indussi a rivolgermi il suo sguardo
e, per un attimo estasiante, mi persi nei suoi splendidi occhi verdi. Quindi la baciai. Ne
rimase così sorpresa che non rispose subito al bacio, restando con le labbra chiuse. Poi si
sciolse come neve al sole, aprì la bocca e acconsentì senza riguardi, con tutta se stessa, alla
passione del momento.
Come potrei poi dimenticare quell’unica volta che facemmo l’amore, quella sera
piovosa nella quale non dovetti penare molto per condurla nella mia stanza d’albergo! Per
lei si trattava della prima volta, per me era come se lo fosse, dato che alle precedenti
esperienze non detti il valore che riservai per questa. Nonostante i lunghi e affettuosi
preamboli, l’imbarazzo da parte di entrambi fu inevitabile quando iniziammo a spogliarci.
Imbarazzo sì, ma non dimostrò paura o indecisione. Evidentemente aveva già deciso che
quella doveva essere la sua prima volta. Per come era magra quasi riuscivo a contarle le
costole. I suoi seni erano appena prominenti, la sua carnagione bianchissima e pura, i peli
del pube solo accennati e chiari. Avevo timore di farle male col peso del corpo e per questo
lo tenevo sollevato con gli avambracci puntellati sul letto. Avvertì fiochi lamenti uscire
dalle sue labbra quando la penetrai, poi più nulla, fino alla fine, quando mi sollevai
abbandonandomi al suo fianco. Non raggiungemmo l’orgasmo, ma ci dicemmo, sottovoce
e con tenerezza, che era stato bellissimo.
Come potrei dimenticare! “Ci vedremo ancora?”, mi domandò con voce tremante
attraverso il suo cellulare mentre si trovava all’aeroporto in attesa di decollare per la
California, ed io attendevo in albergo che giungesse mio padre per riportarmi a casa. Lo
chiese come chi sa che difficilmente potrà ricevere una risposta confortante ai propri dubbi,
capace di infondere reale ottimismo. “Certo che ci rivedremo, sciocchina! La prossima
volta verrò a trovarti nel tuo paese….te lo prometto”. La rividi solo in connessione remota,
verosimilmente, solo verosimilmente, riprodotta in immagini digitali. Chi avrebbe mai
potuto sospettare quanto sarebbe accaduto poco tempo dopo!
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Come potrei dimenticarti, Brigitte! Ed ora…ora che me ne faccio di questo
scatolone muto e arrugginito! Forse, però, a qualcosa potrà ancora servirmi. Lo porterò di
sopra in mansarda e lo collocherò tra i vari oggetti che già vi sono. Nelle giornate tristi
potrò contemplarlo e abbandonarmi ai ricordi, lasciarmi cullare dai sogni. Almeno questo!
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CAPITOLO VIII
IMPROVVISAMENTE LA VERITA’ SCENDE DAL CIELO
Completamente bianco. Il mondo è bianco, come in un sogno bellissimo. Puro
come se non avesse peccati, integro come una vergine, incorrotto come allo stato
primordiale. Questo folto mantello che avvolge la foresta, in qualsiasi luogo ebbi modo di
contemplarlo, mi ha infuso sempre le stesse emozioni e sensazioni: voglia di rigenerazione,
di azzerare tutto e ricominciare da capo, come se tutto fosse azzerabile, riconducibile a una
nebulosa indistinta e infinitamente plasmabile, come se la vita non avesse ancora compiuto
i primi passi ed avessi io l’onore di poterli fare, di avviare il mondo al suo destino. Non
una voglia di impossibile onnipotenza sulle cose, ma una voglia pionieristica di dare inizio
ad una meravigliosa avventura. Trovarsi nella condizione di poter poggiare il piede sulla
coltre intatta della neve appena caduta, apre la terrificante prospettiva di sporcare per
sempre e irrimediabilmente il mistero incomprensibile della vita e, nel contempo, induce la
voglia irresistibile di farlo senza remore e pentimenti. E’ quello che sicuramente farò.
Serro le imposte cigolanti della finestrella e scendo al piano inferiore.
Attraversando il salone, prima di scendere la seconda rampa di scale che conduce al piano
terra, percepisco con la coda dell’occhio una figura sfuggente che si muove, come tutte le
mattine da quando vivo in questa casa. Arresto il passo in cima alla rampa: avverto uno
strano desiderio di fare quello che evito ogni mattina di fare. Faccio due passi indietro e
fisso lo sguardo sulla mia immagine riflessa allo specchio. Mi avvicino, e più lo faccio più
il disgusto cresce. Ho come un senso di vergogna per quella faccia che vedo. Forse è
soltanto questa la causa, pura e semplice, della scomparsa di Elisa, ed io vado a cercare le
spiegazioni più arcane. Sono coperto di peli ovunque, quelli della barba fanno concorrenza
ai capelli, per lunghezza e per quantità di sfumature bianco-grigiastre. Le labbra quasi non
si scorgono, gli occhi castani, incastonati in due grossi bulbi bianchi, sembrano voler uscire
fuori dalle orbite. E in quelle pupille scure quanta sofferenza! Solo quelle apparentano il
mio volto a quello di Elisa, altrimenti cosi distanti fra loro come quelli di due diverse
specie viventi. Credo proprio che è arrivato il momento di fare pulizia. Ho voglia di
rivoluzioni oggi. Ho bisogno di sentirmi in sintonia col nuovo mondo che mi aspetta là
fuori, di mondarmi esteriormente quanto interiormente. Allora via la barba, via i capelli,
chissà che non possa riscoprire una faccia più accettabile!
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Mi sento nudo come un verme, nonostante esponga, al contatto diretto con l’aria
pungente, solo naso, occhi e labbra. Il folto strato di pelli e stracci che mi avvolgono dalla
testa ai piedi e mi costringono a fastidiose limitazioni nell’andatura e nei movimenti del
corpo, non è sufficiente a liberarmi della strana sensazione di nudità della testa, che per
conduzione sembra trasmettersi al resto del corpo. La rivoluzione estetica di questa mattina
mi ha donato forse l’illusione di una nuova giovinezza, mi ha restituito la dignità di
affrontare la mia immagine allo specchio, ma è come se avesse indebolito di colpo le mie
difese, consolidatesi nel tempo per interazione con gli elementi avversi, nei confronti
dell’ambiente esterno. Ora comunque, a parte questa sopportabile sgradevole sensazione
che non so bene qualificare come fisica o psicologica, od entrambe le cose, posso godere
del mondo improvvisamente “nuovo” che mi circonda. Grossi fiocchi continuano a
scendere dal cielo plumbeo e compatto, distendo le mani inguantate nell’aria ad
accoglierne alcuni come fossero petali di rosa sparsi dal vento. L’immensità di bianco che
mi circonda è impressionante e affascinante. La distesa di fusti scuri, contorti od eretti, che
si proiettano verso il cielo, le superfici inferiori delle infinite ramificazioni che si
intrecciano in una contigua e infinita ragnatela sopra la mia testa, infiltrandosi di contrasto
come un unico vasto sistema arterioso nell’immane e candido corpo che avvolge ogni
orizzonte visibile, crea uno effetto fantasmagorico d’insieme che non ha riscontri o
somiglianze in altri fenomeni. L’incredibile silenzio che regna nella foresta, irrepetibile in
qualsiasi altro momento dell’esistenza, è interrotto solo,
a ritmi regolari,
dalla
compressione della neve sotto il peso dei passi, che hanno una valenza sonora non
dissimile da quella di martellate sull’incudine in un’officina dei tempi andati. Con grossa
difficoltà riesco a distinguere i sentieri che preferenzialmente adotto per le escursioni
giornaliere di approvvigionamento. Gli spazi tra un albero e l’altro, coperti dallo spesso
strato di neve, si somigliano tutti, e i particolari che mi consentono normalmente di
orientarmi con disinvoltura, per chilometri e chilometri all’interno della foresta – una pietra
con una certa forma, una corteccia più o meno spessa, una determinata specie di arbusto e
cose di questo genere – rimangono celate alla percezione e non possono essermi di alcun
aiuto. Solo gli aspetti macroscopici del territorio, in tali condizioni, forniscono validi punti
di riferimento: una collina, un esteso avvallamento, una gola stretta tra dirupi scoscesi, i
corsi d’acqua, una concentrazione di macigni, una grotta. Di questi dovrò avvalermi per far
ritorno alla casa, considerato che, se continua a nevicare con questa intensità, le pur
profonde impronte che lascio al passaggio scompariranno in pochi minuti. E’ anche
alquanto improbabile che staserà possa far ritorno con carne fresca nella bisaccia. Sperare
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in una proficua caccia con queste condizioni è illusorio; almeno fintanto che continuerà a
nevicare, gli animali se ne staranno ben rintanati nelle loro tane. Credo proprio di essere
l’unico animale da queste parti che si lasci trasportare da una strana voglia di rivoluzione,
dall’incomprensibile desiderio di infrangere la verginità di questo mondo nuovo.
D’altronde non vado alla ricerca di carne fresca, ma solo di fresche emozioni, e tanto basta.
Ho percorso solo pochi chilometri e sono passate un paio di ore da quando ho
lasciato la casa. E’ come se avessi percorso decine di chilometri in condizioni normali. La
nevicata è cessata, sembra addirittura che il cielo voglia aprirsi a qualche timido raggio di
sole, ma è ancora presto per dirlo. Lo strato nuvoloso si è diradato, perdendo la
compattezza plumbea e generando, di conseguenza, una crescente espansione di luminosità
nell’ambiente dovuta alla riflessione del manto nevoso. E’ cresciuta notevolmente la
visibilità, ma incomincio ad avvertire un fastidio agli occhi che mi costringe a ridurne
l’apertura. Ho la sensazione di aver intravisto una sagoma scura muoversi tra gli alberi. Al
di là delle aspettative, questa potrebbe risultare una giornata fortunata, una giornata di
caccia grossa. La sagoma era assai distante, ma non credo di sbagliarmi sulla sua
consistenza voluminosa. Forse un daino, quanto meno un cinghiale. Devo avvicinarmi con
molta circospezione; potrei farcela se evito di fare rumori, in particolare di strusciare
contro gli arbusti. Non mi trovo sotto vento, e posso sperare di giungergli a ridosso prima
che il suo fiuto rilevi la mia presenza. Oltre tutto sarà probabilmente impegnato ad
affondare il muso tra la neve per cercare alimenti vegetali per la sua dieta, rendendo ancora
più facile il mio avvicinamento. Scivolerò lungo quell’avvallamento, sottraendomi al suo
campo visivo. Ne riemergerò solo quando riterrò di trovarmi abbastanza vicino per tentare
la sortita. L’avvallamento mi consente di camminare in posizione eretta con una certa
sicurezza di non essere scorto. Se avessi dovuto progredire accovacciato o addirittura
carponi, sarebbe stato non poco difficoltoso, tenendo conto che lo strato nevoso qui è
ancora più profondo che sul piano sovrastante. Posso così evitare di inzaccherare e bagnare
pericolosamente il pur spesso vestiario che indosso, non certo impermeabile e capace di
proteggermi dall’umidità.
Sono già cinque minuti che avanzo, risalirò il costone per verificare se mi sono
avvicinato abbastanza….e speriamo bene. La massa è scura, immobile, a non più di
duecento metri in linea d’aria, di forma irriconoscibile, senza alcun particolare tratto che mi
consenta di identificare a che specie appartenga. Non distinguo nemmeno le zampe….non
capisco proprio quale curiosa posizione abbia assunto…..e a quale scopo. Forse….ma
aspetterò che si muova, prima o poi dovrà muoversi, e allora capirò. Sembra
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sollevarsi….MA E’ UN ESSERE UMANO!….con una coperta scura sulle spalle che
scende fino al livello del manto di neve. ELISA!! Chi altri se non Elisa? Non posso esserne
certo, la testa è avvolta da una sorta di scialle, non si vedono capelli….ma la
statura…sì…ci siamo! Potrebbe essere lei. Molto meglio che un grosso daino. Devo
assicurarmi che sia lei, e seppur non fosse lei credo che oggi vivrò grandi emozioni. Caccia
grossa…caccia molto grossa! E’ LEI. Non vi è ombra di dubbio. Ora che ha mostrato il suo
profilo, anche senza poter distinguere i capelli….è lei! Cara Elisa! Finalmente ti ritrovo!
Cosa faccio? Salto fuori, la chiamo, le grido di ascoltarmi? E se scappa? Addio grande
giornata. No…è meglio che rimanga nascosto, almeno per il momento. La seguirò,
evitando di farmi scorgere, poi più tardi deciderò il da farsi.
Sta raccogliendo qualcosa dal terreno. Qualcosa per cui vale la pena,
evidentemente, mettersi a rovistare sotto trenta centimetri di neve e della quale ella
conosce l’ubicazione precisa. Infatti concentra i propri sforzi di ricerca in pochi metri
quadrati, senza perdere tempo altrove, come soltanto chi sa cosa e dove cercare.
Probabilmente si tratta di radici o tuberi. Vedo pendere qualcosa del genere dalla cinghia
che porta a tracolla. Forse alimenti prelibati o prodotti per infusioni. Certo qualcosa che lei
sembra conoscere molto bene e per la quale nutre un particolare interesse. E’ talmente
concentrata nel suo lavoro che non si cura affatto di quanto la circonda, non solleva mai la
testa per guardarsi intorno. Quanto vorrei saltar fuori ed offrirle tutto il mio aiuto, dirle
qualche parola affettuosa, anche senza riceverne alcuna risposta. Mi stavo ormai abituando
al suo silenzio, sapevo leggere nei suoi occhi le risposte. Solo ora mi rendo conto del ponte
che eravamo riusciti a costruire tra noi, pur senza l’aiuto della sua parola. Poi ho sciupato
tutto con le mie stupide pretese, la mia stupida curiosità. Non credo che mi abbia
perdonato, e se ora mi rivelassi potrei spaventarla, o contrariarla, potrei comunque non
essere ben accettato. Non voglio imporle la mia presenza, meglio che rimanga nascosto.
Certo, se scoprisse la mia presenza, se mi sorprendesse a spiarla, potrei ottenere un effetto
ancora peggiore, guadagnarmi il suo odio e la sua definitiva ostilità. Ma cosa posso fare?
Forse vale la pena rischiare per cercare di capire, per comprendere finalmente qualcosa del
mistero che avvolge questo essere. La seguirò fino al suo rifugio, cercherò di carpire i suoi
segreti, di scoprire dove si nasconde e magari con chi si nasconde, come conduce la sua
esistenza. Solo così, in un modo o nell’altro, potrò porre fine alla curiosità che mi
perseguita e dare una risposta conclusiva, quale che sia, alla speranza che mi porto dentro e
mi tormenta dalla scorsa estate.
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Il sole è rimasto nascosto per tutta la giornata. Non è più nevicato, ma non è mai
apparso il più piccolo spazio di azzurro in cielo. Anch’io mi sono nascosto per l’intero
giorno, dietro un albero, una roccia e quant’altro potesse fungere da riparo sicuro contro i
suoi sguardi. Fin’ora non sembra sia stata colta dal benché minimo sospetto di una
presenza che la sorveglia. Mi sono tenuto a una distanza di sicurezza, servendomi più delle
sue impronte sulla neve, per starle dietro, che di una visione diretta della sua posizione. Ha
raccolto non pochi prodotti vegetali da terra e da alcuni arbusti sommersi dalla neve, dei
quali non supponevo nemmeno l’esistenza, che denotano una predilezione per una dieta
vegetariana. Dimostra di sapere il fatto suo in fatto di alimentazione, d’altronde non
potrebbe essere altrimenti per una sopravvissuta. Io sono rimasto invece a mani vuote per
cercar di non perderla di vista. Ma non mi pento, ho in fin dei conti ritrovato la mia preda
più ambita. Ora anche la fame incomincia a farsi sentire, non ho mangiato un boccone da
questa mattina, solo una manciata di neve per dissetarmi, mentre ella ogni tanto si è servita
dei prodotti raccolti per brevi spuntini. Ma non ha assolutamente alcuna importanza se
riuscirò nell’intento di seguirla fino al suo rifugio. Ormai si sta approssimando la sera e
credo che Elisa stia sulla strada del ritorno. Andrò fino in fondo, a costo di dover
trascorrere la notte all’addiaccio e di dover far fronte ai morsi del gelo che,
immancabilmente, non tarderanno a farsi sentire.
E’ da un po’ che sono penetrato in un’area alquanto accidentata, piena di rocce e
anfratti. Un posto misterioso che potrebbe essere l’ideale per nascondere qualcuno. Da
diversi minuti l’ho persa di vista. Le sue impronte sono sempre molto nitide, ma devo
procedere con cautela per evitare di trovarmela di fronte inaspettatamente. Sarebbe
alquanto imbarazzante, non so proprio cosa potrei dirle per evitare una sua eventuale
reazione di stizza e di indignazione. E sarebbe soprattutto assai seccante di non poter
portare a compimento il pedinamento, tanto è il disagio e l’apprensione che mi sono costati
fino ad ora. Ma….che diavolo! Mi trovo sulla roccia nuda…niente più impronte. Un
maestoso costone di roccia grigia mi sovrasta, formando un’ampia e lunga semi-volta, una
sorta di tettoia che non consente alla neve di posarsi a terra. Un profondo e spettacolare
incavo formatosi, probabilmente, durante ere geologiche sotto l’azione di agenti erosivi. Ha
l’aspetto di una formidabile onda marina immortalata da una macchina fotografica un
attimo prima di infrangersi sulla battigia. A pochi metri da me, alla base della parete, tre
antri non molto grandi, uno di seguito all’altro. Quello al centro più grande degli altri due e
tale da consentire il passaggio di una persona in posizione eretta. E’ fin troppo facile
dedurre che proprio questo possa fungere da rifugio per Elisa. Una sorta di cancellata rozza
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ma efficace, realizzata con un fitto intreccio di rami e arbusti e fissata ad alcune sporgenze
laterali dell’apertura,
vi è installata all’entrata per ostruire il passaggio agli animali,
almeno quelli meno intelligenti e di taglia più grande. Proprio di fronte si distinguono
depositi freschi di neve, evidentemente quelli che Elisa si è scrollati di dosso prima di
entrare. Non mi rimane che avvicinarmi e provare a spiare all’interno. Ho poco tempo a
disposizione, va facendosi rapidamente buio e mi aspetta una lunga strada di ritorno. Non
so se riuscirò a ritrovare e percorrere l’intero tragitto, nel qual caso sarò costretto ad un
bivacco di fortuna. Pazienza! D’altronde una notte di disagio vale certamente la verità che
sto per scoprire. Credo ormai di essere vicino ad ottenere quelle risposte che da tempo
stavo cercando. Striscerò a terra fino all’apertura dell’antro, sperando che sia sufficiente
scrutare tra i rami intrecciati del “cancello” per scoprire qualcosa di interessante
e…già!……sperando che nel frattempo non sopraggiunga al rifugio qualche suo compagno
che è possibile si trovi ancora all’esterno. Potrebbe crearsi una situazione davvero
drammatica…..meglio non pensarci.
Buio completo. La fortuna non mi aiuta. Ma….ecco! Fissando l’oscurità incomincio
a intravedere qualcosa….una vago chiarore, la visualità progressivamente cresce. La grotta
è più profonda di quanto immaginassi, il chiarore proviene da almeno qualche decina di
metri di distanza. Non rimane che farmi spazio tra il “cancello” e la parete rocciosa e
strisciare all’interno, più avanti possibile. Ormai non posso tornare indietro, devo andare
fino in fondo, costi quel che costi.
Odore di fumo, misto a qualche aroma che non riconosco, forse qualche alimento
vegetale. Evidentemente ha acceso un fuoco e sta preparando un pasto cotto. Ma è strano
che la grotta non sia invasa di fumo, anche ammettendo che gli spazi all’interno siano assai
più ampi di quanto appaiano in questo tratto iniziale. E’ probabile che come luogo di
cottura sfrutti un angolo provvisto di una fessura o di un condotto che si collega all’esterno.
La luminosità si va facendo sempre più intensa, riesco a scorgere il muschio delle pareti,
alcuni oggetti deposti a terra, altri appesi in appigli artificiali alla volta. Ora odo anche il
crepitio delle fiamme, sono molto vicino, presto scoprirò cosa c’è dietro la curva che
ancora mi copre la visuale. Non sento però altri rumori, ne tanto meno voci. La situazione
non mi allarma, ma nemmeno riesce a tranquillizzarmi, non è facile capire cosa troverò là
dietro, e l’apprensione cresce. Non è solo l’umidità della grotta che mi rende affannoso il
respiro.
Una grande sala dalla tonalità giallastra, con ampie sfumature verdognole e a tratti
di colore rosso ruggine. Una miriade di sottili stalattiti pendono dal soffitto, poche ma
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consistenti stalagmiti si ergono dal suolo e gettano lunghe ombre dalla parte opposta a
quella da dove giunge la luce del fuoco. Un fuoco che, per quanto grande, non riesce ad
illuminare completamente l’intero salone. Lo spettacolo d’insieme è così suggestivo che
per alcuni istanti calamita tutta la mia attenzione e quasi mi fa dimenticare lo scopo per cui
sono giunto fino a lì. Ora non posso fare a meno di concentrare lo sguardo su quella figura
tanto desiderata che, nei momenti precedenti, si era fissata nella coda dell’occhio. Elisa è
là, seduta in un angolo del salone di fronte ad un grosso fuoco che ha più l’aspetto di un
vero e proprio falò. Di fianco è accatastata una gran massa di legname. Evidentemente qui
le notti sono fredde e umide e poter contare su una potente fonte di calore è indispensabile.
Osservare quel falò accentua la sensazione di freddo che da un po’ ha iniziato a
tormentarmi. Ho proprio freddo, le estremità quasi gelate, la pelle d’oca e un leggero
tremito si sta diffondendo per tutto il corpo. Quanto vorrei poterle sedere accanto,
abbracciarla, scaldarmi col calore delle fiamme e della sua passione. Ma non posso.
Qualcosa di insormontabile ostacola questo desiderio. Forse l’orgoglio, il dubbio di non
essere desiderato quanto io desidero lei, la paura di vedermi respinto, rifiutato, magari
anche in malo modo. Sarebbe un colpo tremendo che mi toglierebbe la voglia di continuare
a vivere. Oltre a ciò, non sono affatto certo che sia sola, che vivi da sola in questo antro. Se
si rivelasse d’improvviso qualche altra presenza le conseguenze potrebbero divenire
incontrollabili e allora…..
E’ semplicemente incantevole. Si è liberata di quasi tutti gli stracci che indossava
all’esterno. Solo una casacca scura le ricopre il corpo. Le gambe sono divaricate e scoperte
per metà, i capelli sciolti e gonfi le scendono in onde disordinate dietro le spalle. E’ rivolta
semi-frontalmente a me, con gli occhi fissi sul fuoco e le braccia incrociate ad abbracciare
il proprio corpo. Devo restare immobile, se alzasse lo sguardo potrebbe scorgermi,
nonostante mi trovi in ombra a più di venti metri di distanza. Come farò a resistere al
desiderio, alle sue forme sinuose e belle, ai riflessi candidi delle sue cosce, a quello
sguardo sempre triste e sognante che si perde tra le lingue di fuoco! Che freddo, ho un
freddo cane. Elisa! Amore mio, perché non riusciamo a comprenderci!
Avanti e indietro, avanti e indietro, lentamente, continuamente, come se avesse tra
le braccia un bambino e lo cullasse con tanto amore. Il suo corpo dondola dolcemente, le
sue labbra…sembrano muoversi, dire qualcosa sottovoce, come se parlasse alle fiamme.
Ma non ne sono sicuro, forse è una mia impressione, forse scherzi di luce di un fuoco
capriccioso che a tratti divampa e a tratti langue. Ma la sua bocca sembra schiudersi,
muoversi, poi tornare a chiudersi, ora in una smorfia di dolore, ora in un flebile sorriso.
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Vorrei potermi avvicinare, strisciare qualche metro più avanti, per guardare meglio, ma
sono talmente intorpidito….e poi è troppo rischioso.
Avanti e indietro….ma perché? Ecco…ora sorride, senza ombra di dubbio, sta
sorridendo. Ma che freddo….che freddo. Devo raggomitolarmi, provare a riscaldarmi,
altrimenti….Elisa, cosa mi nascondi? Quali segreti porti dentro di te…perché non
parli…perché…Prende dei lunghi pezzi di legno deposti accanto e li getta sul fuoco,
distende la gambe, torna a cingersi il corpo con le proprie mani, e riprende a dondolarsi. La
legna crepita e mille scintille si sollevano in aria, le fiamme si ravvivano e lunghe lingue si
proiettano in alto quasi a voler raggiungere la volta. Le pareti si ravvivano di luce e di
colori, alcune nottole o pipistrelli, disturbati dall’improvvisa accentuazione del chiarore,
svolazzano da una parte all’altra della grande sala in cerca di qualche angolo buio per
nascondersi. Lo sguardo di Elisa è di nuovo fisso sulla legna che arde. Le sue labbra….le
sue labbra sembrano di nuovo muoversi, come se sussurrasse una fiaba, o cantasse una
nenia. Cosa stai dicendo…cosa stai dicendo!…Il crepitio del fuoco copre la sua voce. Ma
qualcosa….sta dicendo qualcosa, percepisco la sensazione di una voce che canta, di una
melodia…non posso sbagliarmi. Che freddo….non sento più le gambe, le braccia, è come
se fossero paralizzate….cosa stai dicendo…per Dio! Ora sembra triste….la sua bocca…la
sua bocca ha una brutta piega….avanti e indietro….avanti e indietro….i suoi occhi
brillano….piange…sì piange, sta piangendo…Elisa…cosa dici…cosa dici…cosa….ho
freddo….tanto freddo…..
“Tu mi ami? Dimmelo, ti prego, almeno una volta. Mi ami Elisa?”
“Non posso…lo sai che non posso.”
“Perché non puoi? Dimmi, perché non puoi? Cosa ti ho fatto? Dimmelo solo una
volta se mi ami. Ti chiedo solo due parole, due parole, due maledettissime parole…”
“Non posso, non posso….non ci pensare. Piuttosto, corri insieme a me. Guarda
come è bella la sabbia, guarda quanto è grande la spiaggia…tutta per noi. Non ci pensare,
dammi la mano e corri insieme a me.” Come potrei dirle di no, a quei grandi occhi scuri, a
quel sorriso. Le allungo la mano, lei la stringe. Iniziamo a correre, continuiamo a correre, a
correre, per minuti, senza fermarci mai, la mano nella mano. Mi guarda sempre, non smette
di guardarmi e sorridermi, con i seni al vento che si muovono impetuosamente su e giù.
“Sono stanco. Mi fanno male le gambe, ho un gran dolore ai piedi. E ho un gran
caldo, un caldo terribile, ti prego….fermiamoci!”
Lei non mi toglie gli occhi di dosso, mi stringe forte la mano, sorride, non smette di
sorridere, e corre, corre…Il sole scotta sulle spalle.
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“Non posso….lo sai che non posso.”
“Perché non puoi? Ti prego fermiamoci…mi fanno male le gambe….fermiamoci!”
“Non posso…..lo sai che non posso, non posso fermarmi.” E sorride, con un sorriso
meraviglioso, e mi stringe la mano….come potrei dirle di no!
“Le gambe mi fanno male, tanto male…e ho caldo, un caldo insopportabile. Dimmi
qualcosa almeno, qualcosa, ti prego…”
“Non posso….lo sai che non posso.” E sorride, sorride sempre e mi tiene la mano
stretta….e sorride….sorride….
I suoi grandi occhi scuri mi fissano, le sue labbra mi regalano un sorriso, la sua
mano stringe la mia. Il soffitto è alto, tutto costellato di punte acuminate rivolte verso di
me. A pochi metri di distanza un fuoco arde con impeto, il fumo sale come risucchiato da
una voragine, da una fenditura sulla volta. Coperte pesantissime mi ricoprono fino al petto.
Il braccio sinistro è fuori e disteso ed Elisa stringe la mano. Ecco perché è tanto caldo. Un
dolore diffuso alle gambe…perché mi fanno male?
“E..li…sa…!”
Una fatica immane per far uscire queste poche sillabe. Elisa è accanto a me, ciò è
indubbio. Ma non capisco se mi trovo in un sogno. Oppure….ma sì….questa è la grotta…è
il rifugio di Elisa. Ma cosa ci faccio qui? Perché sono disteso sotto queste coperte? Perché
avverto questo dolore alle gambe? E come è possibile che lei mi sieda accanto?
Allunga l’altra mano libera e la posa dolcemente sulle mie labbra. Come a dirmi di
non parlare, di non sforzarmi inutilmente. Ora capisco. Credo di capire. Deve avermi
trovato svenuto, forse mezzo assiderato, vicino all’uscio della grotta dove mi ero
soffermato a spiarla. Che vergogna! Non posso guardarla negli occhi. Potrà perdonarmi?
Ora mi accarezza la guancia….com’è calda la sua mano! Com’è buona! Vorrei chiederle
scusa…le rivolgo lo sguardo.
“E..lisa…”
Di nuovo mi accarezza le labbra, delicatamente. Le sfiora come fossero una cosa
preziosa. Sorride e mi stringe più forte la mano pesantemente inchiodata sulle coperte. Che
vergogna! Non potrò mai perdonarmelo. Non riuscirò a perdonarmelo…
Elisa sorride fissandomi negli occhi, stringe la mia mano, accarezza il mio volto, mi
asciuga gli occhi. Non c’è l’ho fatta a trattenermi.
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CAPITOLO IX
LA NOTTE DELLE STELLE
Che notte! E’ passato all'incirca un anno dall’ultima volta che assaporai una notte
del genere, però ricordo perfettamente che lo stato d’animo d’allora era pressoché identico
a quello di adesso. Qualcosa di non definibile, una condizione transitante dalla tristezza
alla felicità e viceversa senza soluzione di continuità, o forse una miscela di entrambe, o
forse ancora uno stato diverso da entrambe, al quale non saprei dare un nome. Il cielo è
così terso che, qui dal balcone, con una visuale che spazia al di sopra della cresta della
foresta, senza alcun impedimento,
verso ogni direzione, appare così denso di punti
luminosi di tante dimensioni da lasciare ammutoliti per il senso di vastità che riesce ad
imprimere. La costernazione e la malinconia, a momenti, hanno la meglio, quando
dominante è la percezione dello spazio sconfinato che fa risaltare l’infinitesima piccolezza
del mio essere, la nullità dell’esserci; ma, a momenti, la cognizione di appartenenza, di
completa integrazione alla totalità che pur si presenta incomprensibile e ineffabile, fa
dileguare il senso di smarrimento e restituisce una certa serenità e rassegnazione,
o
addirittura la gioia di esserci comunque a far parte di questo ignoto cosmico, anche senza
un nome, senza un’identità propria. L’aria tiepida e carezzevole, che sottolinea la fine della
stagione fredda e annuncia la primavera, mi incoraggia a passar le ore in balia di questa
altalena emotiva, alla ricerca di un’accomodante stabilità d’animo che non sopraggiunge
mai, finché, di solito, la brina che si deposita ovunque con l’approssimarsi dell’alba, non
mi libera dell’incombenza e mi costringe infreddolito a infilarmi sotto una coperta per
riguadagnare il sonno perso, lasciando al sogno il compito di aggiustare le cose. Anche
questa notte, presumibilmente, si dispiegherà alla stessa maniera, e così mi lascerò
estenuare dal bisogno di una pace impossibile scrutando ogni angolo del firmamento. Tutto
sembra congiurare per una dolorosa e meravigliosa veglia. Con la precisione di un orologio
è tornata a farmi compagnia la monotona nenia dei grilli. Ho già udito una volta l’allarme
della civetta, ora mi sembra di udire, lontano ma inconfondibile, il richiamo stridulo del
barbagianni. Tutti segnali irresistibili della primavera incipiente. La stupenda giornata di
sole appena trascorsa aveva già preparato il terreno, aveva già ordito la trama per la notte.
L’assordante esplosione di voci degli uccelli della foresta, dal passero al pettirosso, dalla
capinera al merlo, risvegliati dal primo tepore ed eccitati per l’arrivo della nuova stagione
degli amori; l’ammaliante tingersi del sottobosco con la fioritura degli anemoni viola, delle
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primule gialle sulle sponde dei torrenti, dei crochi, delle scille, dei prugnoli, dei “botton
d’oro”, delle orchidee, delle mammole e delle viole tricolor; le gemme gonfie degli alberi,
prossime a schiudersi in un nuovo ciclo vitale e che lasciano intravedere, ancora
avviluppate, le foglioline destinate in breve tempo a invadere e contendersi lo spazio aereo;
l’erba dei prati e delle radure che si infittisce e si colora di un verde brillante, partorendo
macchie più o meno estese di pratoline bianche; la cornice azzurra del cielo, appena
sporcata qua e là da esili striature biancastre, che ne esaltano anziché smorzarne, la
nitidezza e l’intensità; un delicato zefiro capace appena di far tremolare le poche foglie
secche ancora rimaste appese ai rami degli alberi, ultime testimonianze di un inverno ormai
alle spalle; tutto questo e mille altri particolari ancora mi hanno suggerito, per l’intera
giornata, di prepararmi alle emozionanti ore di questa notte speciale ammantata di stelle.
Sto meglio. Non credo di sbagliarmi. Dopo quei giorni di abbattimento che
seguirono la dipartita furtiva dalla grotta, nei quali non potei fare a meno di tormentarmi
con i sensi di colpa, i rimorsi e soprattutto la vergogna per il comportamento tenuto nei
suoi confronti che non riuscirò mai a perdonarmi, penso di aver raggiunto uno stato di
relativa tranquillità e rassegnazione che mi consente di apprezzare di nuovo le cose che mi
circondano, di rispondere con vitalità ed interesse, se non proprio con entusiasmo, agli
stimoli della natura. Questo, credo, perché ebbi il coraggio di infliggermi la giusta
punizione fuggendo dalle sue cure amorevoli e dalla sua lodevole comprensione,
imponendo a me stesso un definitivo e irrevocabile distacco da Elisa, proprio nel momento
in cui ella aveva dimostrato di accettarmi così come sono, stupido e meschino. Una volta
tanto l’orgoglio mi ha spinto ad una saggia decisione, mi ha impedito di approfittare
ulteriormente della bontà di quel dolce essere. No, non merita di rimanere vincolata a me,
anche fossi l’ultimo uomo rimasto su questa terra, non merita di dover sopportare ancora la
mia spregevole presenza. Io, soprattutto, non merito di aver accanto una compagna così
onesta, una mente così libera, coraggiosa e al contempo così disponibile a comprendere e a
perdonare. D’altronde non è escluso che possa un giorno incontrare qualche altro essere
umano più degno di me, e a me non spaventa affatto tornare in quella condizione di
solitudine nella quale, in fin dei conti, ho vissuto per tanti anni. Se questo è il mio destino,
riuscirò ad essere forte per accettarlo con dignità. Almeno un po’ di coraggio credo di
averlo conservato anch’io.
Fuggii dalla grotta non appena ebbi la forza di farlo, grazie all’intensa assistenza
che volle e seppe offrirmi senza chiedermi nulla in cambio. Mi ha salvato la vita e non
potrò che esserle infinitamente grato. Eppure non la ringraziai, non ebbi il coraggio, in quei
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giorni di infermità, neppure di guardarla negli occhi, che percepivo sempre così attenti e
premurosi a controllare il mio stato di salute, sempre pronti a cogliere ogni mia più piccola
smorfia di dolore. Non ebbi il coraggio di rivolgerle parola, pur avendo avuto diversi interi
giorni per farlo. Non il dolore fisico, non lo stordimento mentale me lo impedirono, ma il
profondo e umiliante senso di vergogna e di colpa. Avrà sicuramente notato le
innumerevoli volte che nascondevo la testa sotto le coperte per non incrociare il suo
sguardo. Sapeva che l’imbarazzo mi costringeva ad evitare i suoi occhi, eppure fu così
delicata da simulare ogni volta ignoranza per rispetto alla mia riservatezza, per non
accentuare il senso di umiliazione che mi affliggeva. E questa ulteriore dimostrazione di
affetto disinteressato e di estrema comprensione, se da una parte rafforzò in me la stima e l’
ammirazione nei suoi confronti, fino al punto di commuovermi come un bambino,
dall’altra accentuava il senso di colpa, facendomi sentire ancor più miserabile per tutti i
torti che le avevo fatto.
Com’era bella, seduta intorno al fuoco, mentre preparava decotti, pasti caldi e
quant’altro ritenesse utile per alleviare le mie sofferenze! La spiavo sottecchi con la coda
dell’occhio quando era intenta in qualche tipo di lavoro e riuscivo per qualche attimo a
distrarmi dal malessere che mi pervadeva. Sentirla così vicina e indaffarata mi infondeva
per lunghi periodi della giornata, nonostante i disagi fisici e morali, quel senso di sicurezza
di cui posso trovare un equivalente solo nei ricordi dell’infanzia, quando ad esempio mia
madre mi prodigava cure ed attenzioni durante le malattie, ed esaudiva il desiderio, che le
esprimevo piagnucolando, di restarmi accanto, gironzolando per la stanza e mettendo in
ordine ora un oggetto ora l’altro. La seconda e terza notte che giacqui nella grotta fui colto
da intensi tremori, probabilmente a causa di rialzi febbrili dovuti a complicazioni nelle vie
respiratorie; infatti ebbi violenti attacchi di tosse con conseguenti conati di vomito.
Ebbene…cosa di più meraviglioso avrei potuto aspettarmi da lei di ciò che effettivamente
fece per darmi sollievo? Si infilò sotto le mie coperte avvinghiandomi, riscaldandomi col
suo corpo, carezzandomi di tanto in tanto i capelli, finché non riuscì ad addormentarmi per
qualche ora. Troppo bello, veramente troppo bello per poterlo meritare. Come poteva
essere così amorevole nei miei confronti?
Non so di preciso quanti giorni e quante notti erano passate – di sicuro almeno una
decina – quando una mattina, non avvertendo alcun rumore intorno, mi sollevai dal
giaciglio. Le fiamme del fuoco languivano, ma un grosso braciere emanava intorno un
discreto calore. Il chiarore della luce solare penetrava da una fessura della volta
attraversando una tenue colonna di fumo che, dal fuoco, guadagnava l’uscita all’esterno.
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Compresi che lei era fuori dalla grotta per un’escursione di approvvigionamento. Mi
drizzai in piedi. Ero completamente nudo. Mi rivestì in fretta con i miei stracci che
riconobbi ammucchiati in un angolo, emettendo ripetuti colpi di tosse. Per pochi attimi
ebbi giramenti di testa e mi dovetti sostenere su una grossa stalagmite vischiosa. Ma mi
ripresi quasi subito. Ero debole, è vero, ma sentivo di potercela fare. Presi la decisione
senza pensarci su due volte, staccai un pezzo di carne essiccata che vidi penzolare da una
parete, appena lo stretto necessario per darmi un po’ di energia sufficiente a raggiungere la
casa. Occorrevano solo poche ore di cammino, ce l’avrei fatta. Ancora alcuni colpi di tosse
e mi diressi in tutta fretta verso l’uscita della grotta, come un ladro che si appresta a
lasciare il luogo del misfatto. Almeno per questa improvvisa e ingenerosa fuga spero
proprio non riesca mai a perdonarmi.
Sono trascorsi più o meno due mesi da allora, e con l’aiuto della primavera forse
potrò ritrovare man mano interesse per la vita. Ma credo sarà indispensabile che compia
un’altra azione, se non per liberarmi completamente del fardello di sensi di colpa, per
attenuarne quanto meno la portata emotiva e riconquistare quella tranquillità interiore di
cui ho assoluto bisogno al fine di continuare dignitosamente ad esistere: dovrò andarmene
dalla casa. Troppi ricordi mi legano ad essa, che solo rescindendo ogni qualsiasi contatto
fisico potrò evitare continue reinsorgenze alla memoria dei fatti e delle palpitanti emozioni
che ho vissuto al suo interno. Sì, non mi resta che andarmene. La meravigliosa atmosfera di
questa notte mi da la carica giusta per giuste, anche se inquietanti, decisioni. Partirò
definitivamente da questi luoghi, non appena la stagione calda si sarà stabilizzata,
raggiungerò di nuovo la costa che avevo lasciato la scorsa estate e proseguirò lungo il
litorale verso nuovi siti e nuove esperienze.
Appoggiato al parapetto di questo balcone la brezza mi investe in pieno e non dà
tregua. Brevi e pigri inalazioni sono sufficienti a rinfrescarmi i polmoni, a sgombrarmi la
mente da ogni inquietudine, a depurarmi l’anima di ogni ombra, almeno qui sul momento.
Non ci sono più ragioni che mi trattengano in questo luogo e dunque….Nemmeno queste
note melodiose che vengono dal passato e…..Cosa….CHE STA SUCCEDENDO?….Non
posso crederci! E’ TORNATA! ELISA E’ TORNATA! Le stesse note….Beethoven….che
quella notte mi fecero dubitare di aver sconfinato nella follia….lo stesso pianoforte. Resto
commosso, in pochi secondi è come se avessi subito uno sdoppiamento di personalità; da
quella fierezza di me stesso che avevo appena ritrovato, o che credevo di aver ritrovato,
sono in preda a questi nuovi turbamenti. Ah…che bellissime note! Come vorrei che il
mondo potesse esprimersi solo con la musica! Come vorrei potermi rivolgere ai fiori, agli
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alberi, a tutti gli esseri viventi con la musica! Come vorrei che ogni forza di questo mondo
potesse esprimersi solo attraverso note musicali! Forse non ci sarebbe egualmente pace,
forse non regnerebbe l’amore e la concordia, forse il destino degli esseri viventi non
sarebbe poi così dissimile da quello che ho conosciuto durante la mia esistenza, forse sarei
allo stesso modo condannato perennemente alla solitudine. Ma credo saprei riconoscere
senza alcun dubbio, in ogni luogo, in ogni circostanza, in ogni essere, l’anima che vi
alberga senza possibilità di commettere equivoci, evitando inganni e camuffamenti, saprei
identificare, con scarse probabilità di errore, l’amore e l’odio, la paura e il coraggio, la
tristezza e la gioia. Dispenserei ancora la morte e la vita, ma non potrei non capire se e in
che misura avrei inflitto dolore o destato piacere. Sarebbe tutto meno torbido, le azioni e i
moventi risulterebbero più trasparenti, forse non migliori o peggiori, ma almeno più chiari
ed espliciti. Così come ora credo sia chiaro ciò che vuoi dirmi, Elisa. In queste note non
puoi fare a meno di dirmi la verità, solo un essere senza anima o un sordo potrebbero non
comprenderla. Sto scendendo Elisa, ora vengo.
Rientrando nella mansarda buia, ove il pur intenso chiarore stellare che vi penetra
dalle aperture mi consente appena di intravedere le sagome degli oggetti più vicini, allungo
le braccia verso la scrivania, che so di trovare subito alla mia sinistra dopo aver varcato la
soglia della porta-finestra. A tastoni ritrovo il mozzicone di candela che vi avevo lasciato
parecchi giorni fa, l’ultimo, se ricordo bene, conservato per un occasione speciale. E quale
occasione più speciale di questa potrebbe ancora capitarmi? Spero soltanto che almeno uno
dei fiammiferi della scatola che vi avevo messo accanto funzioni ancora. Dopo decine di
anni da quando vennero fabbricati, nutro seri dubbi che possano ancora accendersi. Provo
con il primo, inutilmente. Ritento con un secondo e un terzo, nemmeno la più piccola
scintilla. Le note di Elisa continuano a corrodermi dentro, sono confuso e straziato. Provo
ancora e ancora, poi insperatamente divampa una fiamma, è come se stessi bruciando io
stesso. Mi affretto ad accendere il rimasuglio di candela e a proteggerlo col palmo della
mano, prima che un alito di vento vanifichi i miei sforzi. Eccomi, Elisa, eccomi….
Col mozzicone fra le dita, tra le lunghe ombre cangianti degli oggetti circostanti,
inizio a discendere le scale, mentre Beethoven continua a straziarmi, passo dopo passo.
Giunto al piano terra ogni nota giunge come una pugnalata al cuore. Le gambe mi
sostengono appena, eppure si muovono sempre più veloci all’approssimarsi della meta.
Attraverso il primo salone e mi dirigo verso il chiarore che trapela dall’uscio del salone
attiguo, attratto come da una forza di gravità irresistibile. Appena entrato nel vano del
pianoforte, la melodia mi investe in tutta la sua dolce pienezza, mi spoglia di ogni residua
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resistenza razionale, mi fa sentire una pagliuzza in mezzo ad un incendio. Il mozzicone di
candela mi scivola dalle dita, rimbalza sul parquet producendo un paio di secchi e brevi
rintocchi, si smorza, ruzzolando va a fermarsi a ridosso della biblioteca. Tutto quanto vi è
intorno appare immerso nella stessa atmosfera della prima sera che entrai nella villa. Lo
stesso odore dei libri, gli stessi impliciti ammonimenti, accuse di ignoranza, che sembrano
giungermi dalle decine di quadri appesi alle pareti, la stessa sensazione di aver infranto la
sacralità di un luogo deputato al culto dell’arte e del sapere. La medesima intensa
sensualità promana dal corpo di Elisa, che mi rivolge le spalle coperte dai suoi lunghi e
ondeggianti capelli, anche se le sue grazie questa volta non si offrono in un’integrale
nudità, ma sono coperte con la casacca che indossava nella grotta e che lascia scoperte solo
le gambe. Si gira verso di me con una lenta torsione del collo, sufficiente a mostrarmi il
suo profilo sorridente e disteso, senza interrompere la sequenza musicale, poi torna a
concentrarsi nell’esecuzione. Mi stava aspettando e ha voluto così darmi ad intendere che
non serba rancore nei miei confronti, come se nulla fosse accaduto. Le candele accese sul
pianoforte sono quel che resta delle stesse candele che erano accese in quella notte d’estate
e che ora sono tornate a brillare anche per me. Elisa è tornata a suonare anche per me. Mi
avvicino, mi accosto al suo fianco, le appoggio la mano sulla spalla, che trovo solo dopo
aver penetrato il groviglio inestricabile dei capelli. Non sarei capace di essere più rude di
una piuma che si depositi a terra dopo aver liberamente volteggiato nell’aria, troppa è la
paura che possa cessare di suonare o che possa essere messa a repentaglio la perfezione di
quel flusso melodico comandato dalle sue dita. Un nuovo sguardo fugace dei suoi occhi
sembra volermi trasmettere la gioia di esserci, di trovarmi lì ancora ad aspettarla come
nelle lunghe notti di inverno passate. Sembra felice, sembra volermi dire che l’importante è
trovarsi ancora una volta lì, insieme.
“Ora so….ora credo di capire, Elisa”, le dico in un sussurro impercettibile,
indecifrabile. Di colpo interrompe la corsa delle mani sulla tastiera, e una notte senza
tempo e senza stelle avvolge la stanza. Un immenso buco nero mi risucchia cancellando
ogni segno di vita. Sento le sue dita sfiorarmi gli zigomi, i peli della barba, ormai
ridivenuta rigogliosa.
“No…ti prego! Continua a suonare…”
Ancora pochi attimi di esitazione in cui solo le sue carezze riescono a impedire che
possa perdermi nell’immenso buco nero in cui ero appena scivolato. Poi ancora un gran
sorriso, una voglia infinita di tenerezza, di amicizia, di amore.
“Ti prego…..”
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Si china sul pianoforte, una breve pausa di concentrazione, poi riprende a martellare
con le dita sui tasti, inizia da capo la stessa melodia, per me….
Capisco, finalmente, Elisa. Credo di capire il tuo silenzio…è lo stesso che ha
accompagnato da sempre l’umanità, le sue guerre e le sue paci, il suo inferno e il suo
paradiso. Vuoi dar voce al silenzio, vuoi esserne la sua espressione più coerente. E forse
oggi il tuo silenzio ha parlato, forse…
“Non voglio…non posso più ascoltare il tuo silenzio….il silenzio…..” Ancora un
sussurro per lei indecifrabile, incomprensibile….ma forse meno incomprensibile di
qualsiasi dissertazione le avessi potuto imbastire, in qualsiasi lingua del mondo. E
infatti…si gira ancora verso di me, mentre le sue dita, impeccabili, sicure e precise,
continuano a carezzare la tastiera. Non sorride più, il suo volto è serio, tenebroso, come la
tempesta in una notte invernale. E rimane così a scrutarmi, a indagare nel profondo del mio
sguardo, per rubare una risposta, una risposta sicura che non verrà mai, mentre le sue dita,
impeccabili, violentano dolcemente la tastiera. Tolgo la mano dalle sue spalle e le avvolgo
una guancia. L’effetto è evidente, una smorfia le sfigura le labbra, i suoi occhi si ricoprono
di una patina umida e brillante, le sue dita steccano poi si fermano.
“Ti prego…non fermarti!”
China la testa, nasconde gli occhi sulla tastiera e, come comandata da un dovere
imperscrutabile, riprende a suonare, lo stesso motivo, da capo, per me, con dolcezza
impareggiabile.
“Devo andare, le stelle mi attendono….ho bisogno delle stelle…”, le sussurro
indecifrabilmente sopra i capelli, togliendole la mano dal collo.
Le note vibrano nell’aria leggere come farfalle su un campo di fiori, i quadri alle
pareti mi rimproverano la stessa sconfinata ignoranza, il puzzo antico dei libri ammassati
nella libreria mi ricorda che tutto è inutile. Mi volto e, a ritroso, rifaccio il cammino appena
percorso, attraverso le stanze, risalgo le scale al buio lasciandomi guidare dal corrimano,
mentre le note di Beethoven, sempre più dolci, si fanno via via più flebili, come la luce al
calar della notte. Suona, Elisa! Suona per me!
Qui, sul terrazzo, la musica non mi giunge più dalle spalle, ma sembra cadermi
addosso dal cielo, mista alla pioggia di luci, avvolgente e nel contempo penetrante, come se
non avesse più un’origine specifica ma fosse un’emanazione dell’universo stellato, una
radiazione diffusa che si lasci percepire senza lasciarsi individuare, e dalla quale mi sento
afferrato, cullato e travolto, carezzato e strapazzato, amato e violentato.
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Non ho più paura. Loro non mi fanno più paura. Anche LORO sono parte di questo
silenzio cosmico e, dunque, parte del mio essere. Loro sono in me, io sono in Loro,
silenziosamente, incomprensibilmente. Ho capito, Elisa. Credo di aver capito, grazie a te.
Ho capito di non capire, come disse la saggezza. Ma questa saggezza non consola, non può
consolare, perché è soprattutto ignoranza, cioè silenzio. So che il silenzio è in me e fuori di
me, in tutto, eppure è un tutto che mi sovrasta, che mi integra senza residui a sé e mi lascia
proprio per questo inappellabilmente solo.
Tu taci Elisa, Loro tacciono, le stelle tacciono, questa musica che mi strazia in fin
dei conti tace, io stesso taccio. Eppure non so tacere, non voglio rassegnarmi, vorrei gridare
il mio silenzio, oh, come vorrei poterlo fare!
“Oh…stelle!…fatemi un cenno affinché io possa veramente capire!”
Ecco, mi avvicino…ora salgo sul parapetto. Ora è come se davvero fossi in mezzo a
voi. Un cenno, mi basta un cenno. Parlate adesso, subito….non dispongo di molto
tempo……Grazie stelle…..grazie Elisa……grazie del vostro silenzio…….
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CAPITOLO X
TRACCE PER SEMPRE
Ho ancora gran parte del pomeriggio a disposizione. Posso prendermela comoda,
lasciarmi rosolare ancora un po’ dal sole prima di abbandonare l’arenile. D’altronde è
ancora troppo caldo per mettermi alla ricerca di un riparo per la notte, e poi non ne ho
proprio voglia. E’ così bello sentirsi arroventare la pelle standosene sdraiati sulla sabbia e
facendosi cullare dal rumore delle onde, che si infrangono senza posa sul bagnasciuga.
Sento addosso un piacevole torpore, e lo sciabordio delle acque mi giunge alle orecchie
talmente ovattato e delicato che ha l’effetto di una ninna nanna. Certo, se non ci fosse
questa carezzevole brezza ad attenuare il calore sulle spalle, non potrei resistere così a
lungo. Tutti gli elementi convergono affinché mi trattenga indefinitamente a crogiolarmi
su questa sabbia bianchissima e accecante. Anche i gabbiani, che sento volare così bassi
sopra la mia testa, sembrano volermi incoraggiare a restare, a godere del loro meraviglioso
habitat. Erano anni che cercavo di ritrovare il litorale per usufruire di condizioni ambientali
meno ostiche, per sfuggire alla dura vita tra le montagne e avere più probabilità di
rintracciare esseri umani, magari nuclei organizzati di civiltà. Ora, finalmente, il mare l’ho
trovato. E’ già molto. Sento rinascere la speranza, la voglia di lottare, di cercare.
Comunque, almeno per l’intera estate, e forse anche per l’autunno, credo proprio che mi
fermerò in questa zona, nel primo posto che riuscirò ad adattare come rifugio. Ho bisogno
di tanto sole e di quest’aria salubre per restituire un po’ di vigore alle ossa e ai polmoni. Ho
passato troppi anni in luoghi umidi e freddi mettendo a dura prova le mie capacità fisiche,
che spero non ne siano rimaste compromesse.
Ho quasi esaurito le scorte d’acqua e di cibo, da domani dovrò pensare anche agli
approvvigionamenti. Per gli alimenti non dovrebbero esserci problemi; dalle impronte e
dagli indizi di vario tipo che da ieri sto rinvenendo sia sulla spiaggia che all’interno della
macchia retrodunale, sembrerebbe che la vita animale abbondi da queste parti. Senza
contare le possibilità che mi si offrono con la pesca. Non ho mai avuto modo di
specializzarmi nella pesca di mare, ma mi si presenta finalmente l’opportunità di imparare.
Potrebbe essere una valida fonte nutritiva alternativa a quella della caccia e mi
consentirebbe di incrementare la dieta, limitata, fino ad oggi, alla carne e ai prodotti
vegetali del sottobosco. Riuscendo ad organizzarmi, con adeguati sistemi di trappole ed
efficaci tecniche di pesca, potrei anche riuscire a garantirmi freschi pasti giornalieri oltre
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che a conservare discrete quantità di cibo per i periodi più difficili. Le prospettive sono
accattivanti, contando ovviamente anche su un po’ di fortuna. D’altronde sono riuscito a
cavarmela in condizioni assai inospitali, e dunque non vedo perché le cose mi dovrebbero
andar male in una zona così favorevole alla vita, con un clima così mite, con questa
ricchezza di elementi ambientali, con luoghi così ameni, agevoli e confortevoli.
Aver ritrovato il mare, questo potrebbe davvero rappresentare una svolta per la mia
vita. Che bello sporcarsi di sabbia dai piedi fino ai capelli, lasciarsi bruciare dai raggi del
sole, carezzare dalla brezza, coccolare dal rumore delle onde! Sono interamente bagnato di
sudore, quasi stordito dal caldo, felice di essere qui. Con un buon bagno riattiverò le
energie del corpo. L’acqua sarà fredda, ma è proprio ciò che mi ci vuole. Sì, forse è ora che
mi dia una scossa.
Gli intensi riflessi di luce di questa sabbia scintillante, disseminata di infinite
particelle luccicanti, mi costringe a richiudere gli occhi, poi a riaprirli con cautela. In una
sottile fessura sotto le palpebre contratte, scorgo il mare, anch’esso scintillante per i raggi
ancora poco inclinati del sole che ne incendiano la superficie. Solo proteggendo la vista
con le mani tese sopra la fronte posso fissare l’acqua del mare, cogliendone tutta la
trasparenza cristallina. Pochi attimi e sono già dentro. L’impatto, come mi aspettavo, è da
togliere il fiato. Mi sfugge un gemito…poi una risata irrefrenabile. Mi immergo sino a
strusciare il fondo, restando con gli occhi aperti. L’incanto di un mondo completamente
dimenticato si schiude davanti, leggermente sfocato nei particolari, ma così avvolgente e
penetrante nell’insieme da lasciarmi smarrito. Trattengo il respiro finché posso, quanto
basta per rendermi conto di quell’indescrivibile pullulare di vita silenziosa del quale, fino a
pochi secondi prima, nemmeno lontanamente sospettavo. Qui il mondo è rimasto sempre lo
stesso che ho conosciuto da bambino. Un vasto fronte di piccoli pesci, che non saprei dire
se si tratta di immaturi di una specie di taglia superiore, si apre al mio passaggio e si
scompone in due ali laterali di improvvisati spettatori, incuriositi e niente affatto impauriti
dalla presenza di un estraneo. Qualche solitario pesce di dimensioni maggiori, variamente
colorato e decorato da suscitare una sensazione di bellezza, si dilegua, ma senza fretta, con
sicurezza dei propri mezzi, tra le fenditure di una formazione rocciosa. Alghe verdi e
attinie si muovono al ritmo delle onde come in una danza perfettamente coordinata di
valenti ballerini. Il bisogno di respirare e di stropicciarmi gli occhi, infastiditi dalla salinità
dell’acqua, mi costringe a riemergere interrompendo quel magico silenzio. Mi sento
addirittura turbato da quanto appena visto. Come se per la prima volta mi fossi reso
veramente consapevole della straordinarietà della vita. Come se nel mondo, fino ad oggi,
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avessi vissuto privo degli organi di senso, o come se stessi vivendo ora la prima alba dopo
una lunghissima, ininterrotta notte, della quale mi fossi dimenticato l’origine. Provo
l’impulso di reimmergermi all’istante, ma qualcosa mi frena, mi trattiene dal farlo. Un
timore improvviso, inaspettato, più forte del fascino subito in quei pochi secondi di
immersione. Forse….forse la paura di imbattermi in una verità per tanto tempo occultatasi
alla mia mente. Come quando, in modo del tutto inatteso, si scopra una verità che non si
sarebbe mai voluta scoprire, perché troppo dolorosa e dunque inaccettabile. E poi….e poi
non è il momento, non ho tempo, debbo iniziare a cercare un riparo per la notte. D’altronde
avrò modo, nei prossimi giorni, di esplorare questi fondali e di acquisire gradualmente la
conoscenza del meraviglioso mondo sommerso. Forse, da domani, riuscirò ad immergermi
senza provare un così grande turbamento. Ora devo uscire, è meglio che esca.
I raggi del sole sono ancora così potenti che, nonostante il corpo stia sgocciolando
acqua, posso sopportare senza disagio la brezza sulla pelle. La sabbia ancora scotta sotto i
piedi, ma risulta gradevole calpestarla. Arraffo le poche cose che avevo deposto su un
enorme e vecchio tronco d’albero, portato sulla spiaggia dalle correnti marine. Senza
indossare gli inutili stracci che mi ricoprivano alcune ore prima, per non bagnarli, li lego
alla tracolla della bisaccia, bevo un sorso d’acqua dalla borraccia, calda da far schifo, e mi
metto a camminare sul bagnasciuga. Non riesco a togliermi dalla mente la visione del
fondale marino, e nemmeno la sensazione di smarrimento che ne è stata la conseguenza.
Però sto bene, mi sento fisicamente ritemprato. Il bagno freddo, evidentemente, ha
riattivato la circolazione sanguigna, restituendomi forze e vitalità. Proseguirò per un certo
tratto sull’arenile, almeno fino a che non sarò completamente asciutto, poi devierò
verso…hei!…Che enormi impronte!…Ma che diavolo di animale le ha lasciate!
Ma….queste…. queste sono tracce UMANE! Non posso sbagliarmi…è impossibile. Sono
impronte di piedi umani…. tante….tantissime impronte. Non sto sognando…..sono vere!
Si estendono per alcune decine di metri. Qualcuno ha sostato sulla spiaggia …. e di
RECENTE!….Non credo ai miei occhi. Ma…sembrano tutte uguali…sì….sono
sicuramente impronte di un’unica persona. Sono…piccole….forse un uomo di bassa
statura…..un bambino….o forse….MA CERTO!…una DONNA!…..probabilmente una
donna. Che diavolo! Non me ne starò certo qui a contemplarle. Sono tracce sicuramente
recenti….di poche ore al massimo. Se mi do subito da fare forse posso scoprire chi le ha
lasciate. Che giornata! Chi avrebbe mai potuto immaginare una giornata così! Non sto più
nella pelle…..devo muovermi….darmi da fare…Ecco….non ci sono dubbi….provengono
dalla macchia…e sembrano anche ritornare nella macchia. Finalmente! Ci sono…..ci
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sono….sto arrivando…..non perderò questa grande occasione…….la vita…..sì la
vita…..Finalmente!……….
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