Introduzione Cultura ed economia: un collegamento sempre

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Introduzione Cultura ed economia: un collegamento sempre
Introduzione
Cultura ed economia:
un collegamento sempre
più indispensabile
di Severino Salvemini
1. LÕattenzione crescente da parte dellÕaccademia
L’economia della cultura sta vivendo un periodo di grande interesse scientifico e
operativo. Passato il lungo tempo in cui pochi economisti si sono interessati all’arte o alla cultura, poiché in esse vedevano un’attività che non contribuiva alla
ricchezza del paese o un ambito naturale del lavoro non produttivo, oggi c’è una
crescita nella ricerca e nell’attività didattica che declina la cultura sia in chiave
macroeconomica che nella prospettiva aziendalistica. I diversi comparti del settore culturale (teatri, musei, archivi, festival, cinema, musica, editoria, radio, televisione, e così via) hanno acquisito un vero e proprio “diritto di cittadinanza” nella
disciplina, che ha permesso di costruire un paradigma scientifico e professionale
per tutti coloro che operano in questo ambiente.
Tra le diverse cause di questa rinnovata attenzione, possiamo citare:
a. l’aggravarsi dei vincoli del bilancio pubblico e il conseguente sforzo di contenimento del deficit dello Stato e degli enti pubblici territoriali (il cosiddetto
welfare declinante), che hanno costretto le istituzioni culturali a una prospettiva di economicitˆ e cioè di ricerca di mantenere il proprio bilancio in equilibrio, ricorrendo il meno possibile a economie esterne (finanziamento statale
o sussidio da parte di finanza non legata alla gestione caratteristica), mettendo
in atto nuove strategie di efficienza produttiva o di fund raising da parte di donatori privati;
b. la domanda di qualitˆ della vita e del tempo libero nei paesi avanzati da parte di un numero sempre maggiore di persone, che ha spinto le istituzioni cul Alfred Marshall scriveva nel 89 nei Principi di economia: “È impossibile dare un valore a
oggetti come i quadri dei grandi maestri, o le monete rare, poiché essi sono unici nel loro genere,
non avendo nessun equivalente , né concorrente (…) Il prezzo di equilibrio della vendita comprende molto la causalità; tuttavia uno spirito curioso potrebbe ottenere non poca soddisfazione da uno
studio minuzioso del fenomeno”
Si pensi che, sulla base delle previsioni sulla vita delle attuali giovani generazioni, si sostiene che in questo secolo si arriverà a un rapporto tra lavoro/ non lavoro in cui il tempo libero
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turali a presentarsi sul mercato con offerte particolarmente attraenti e sofisticate (nelle logiche di segmentazione del mercato, della comunicazione dei
prodotti/servizi, della promozione e del marketing, del pricing dei processi,
dell’arricchimento di “esperienza” rispetto al servizio basilare, e così via), facendo avvicinare i loro comportamenti quindi a quelli più canonici delle imprese produttive manifatturiere e terziarie;
c. la presenza nelle istituzioni culturali di molti lavoratori professionali e creativi e la necessità di riqualificazione del personale già impegnato nel settore, che hanno reso indispensabile un cambiamento organizzativo (in tema di
struttura organizzativa e di gestione delle risorse umane) verso uno stile di direzione più moderno e verso metodi di sviluppo del personale più formalizzati; inoltre l’espansione prospettica del numero degli addetti nei prossimi decenni ha aumentato la credibilità che questo comparto possa essere uno degli
ambiti lavorativi più promettenti del secolo attuale;
d. in ultimo, il ruolo che la cultura (intesa come serie di eventi/festival o come
insieme di istituzioni che caratterizzano un sistema locale o come strumento
per ringiovanire un patrimonio cognitivo di un distretto geografico) può giocare come elemento trainante per attrarre in contesti cittadini i talenti creativi
più innovativi e per offrire dunque al territorio un nuovo flusso di ricchezza
sia sotto il profilo economico che sotto il profilo sociale (si pensi all’impatto
economico delle “città d’arte”, ai contributi diretti e indiretti di grandi manifestazioni sportive e culturali come le Olimpiadi o gli Expo, all’installazione di
progetti museali globali come il Guggenheim di Bilbao, alla ricaduta sul territorio dei numerosissimi festival di intrattenimento culturale avviati nel nostro
Paese, ecc.); non è un caso, a questo proposito, che recentemente si sia intensificata la relazione concettuale tra cultura e creatività, con molti che sostengono che la creatività (elemento cruciale e punto di forza dei nostri prodotti nella
competizione internazionale) vada ricercata prevalentemente nella nostra cultura e nel nostro territorio e che produrre cultura sia diventato un obiettivo irrinunciabile per le politiche non solo culturali ma anche produttive e industriali (Santagata, 009).
Questo recente riconoscimento disciplinare del campo teorico dell’economia della cultura e del management culturale non è però avvenuto senza strappi e senza
critiche da parte dei diversi filoni di pensiero. In particolare alcuni elementi caratteristici del settore sono stati sottolineati come temi particolarmente difficili
da affrontare con la strumentazione classica dell’economia:
La prima riflessione che viene fatta relativamente alla caratteristiche intrinseche di quest’attività rappresenta la natura “meritoria” dei suoi elementi (cultusopravanzerà il tempo dedicato all’attività professionale addirittura di un 50% (Salvemini, 005,
p. 6).
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re is a merit good), e cioè che si debba garantire comunque la fruizione dei beni
ritenuti collettivamente utili, indipendentemente dalla presenza di una domanda
congrua esercitata dal mercato. Esso è uno dei temi più delicati da affrontare in
economia, dove non bisogna mai dimenticare che le regole, i diritti di proprietà e
la mentalità che gli economisti chiamano “mercato” sono solo un costrutto sociale (Santagata, 998, p. 7).
Una seconda riflessione nelle dinamiche economiche della cultura riguarda le
cosiddette esternalità, e cioè che oltre i benefici diretti dei beni e delle attività
culturali, riconducibili alla soddisfazione dei bisogni da parte del fruitore, occorre considerare anche i benefici indiretti connessi agli effetti positivi che la presenza di offerta culturale genera sulla società e sulla qualità della vita dei cittadini. Le esternalità sono di difficile quantificazione e in secondo luogo escludibili,
per cui risulta molto difficile richiedere al cliente o al consumatore il pagamento
del corrispettivo (Solima, 004, p. 37).
Una terza riflessione è collegata al ragionamento che Baumol e Bowen chiamano la”malattia dei costi” e che determina di fatto il fallimento del meccanismo del mercato. Secondo i due economisti (Baumol-Bowen, 966), l’economia
della cultura è e sarà comunque sempre tributaria di sovvenzioni pubbliche, perché la sua gestione caratteristica è troppo centrata sulla crucialità che riveste il
fattore umano (le indagini svolte dai due ricercatori sociali erano prevalentemente concentrate nelle performing arts). Il settore è pertanto impossibilitato
a generare aumenti di produttività (cosa che non ritroviamo nei settori tradizionali, dove l’innovazione tecnologica, le economie di scala e di replicazione e la
raccolta di capitale permettono un miglioramento dell’efficienza) e ne consegue
una crescita permanente dei costi relativi al personale, che solo un aumento dei
prezzi può compensare, con il rischio però che si riducano la domanda e, in ultimo, gli incassi. Questo teorema, conosciuto anche come “morbo di Baumol”,
nonostante svariate verifiche empiriche e osservazioni critiche, continua a essere un problema rilevante per la gestione economica delle istituzioni culturali e
ispira in modo condizionante tutti i ragionamenti che possono essere fatti sull’equilibrio economico della gestione aziendale delle imprese culturali (Benhamou, 00).
2. Le divergenze vengono da lontano
Dobbiamo comunque sempre ricordare che l’industria tout court e la cosiddetta industria culturale sono cose ben differenti. Un libro non è certo un tondino
di ferro. Così come una mostra di arti figurative o un concerto musicale non possono essere considerati prodotti paragonabili a una confezione di formaggini o a
un’automobile. Dal punto di vista produttivo e distributivo è poi evidente la diversità tra un prodotto/servizio culturale e un bene manufatto su ampia scala e commercializzato per il mercato di largo consumo.
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Qualcuno sostiene che economia e cultura costituiscano una specie di ossimoro (Sacco, 00). Da una parte l’economia – e il management che ne è una sottodisciplina – rappresenta la parte razionale delle decisioni umane, mentre dall’altra la cultura il lato più romantico e passionale. Oppure perché la dimensione
economica pone una serie di vincoli e di costrizioni al comportamento (si pensi
al concetto di convenienza nell’uso delle risorse scarse o alle logiche programmatorie di un budget o al rigore di certe norme e procedure) che la cultura non pone,
essendo più orientata al genio e alla sregolatezza della creatività. Oppure perché
il background quantitativo insito nella scienza economica è assai distante dalla
prospettiva umanistica e qualitativa che presiede gli studi e i comportamenti dell’artista. Tutto ciò condito da un’atmosfera di reciproco sospetto in cui gli specialisti della cultura e gli operatori di azienda si guardano: gli uni diffidenti di una
possibile intrusione dell’economia nel “sacro recinto” del museo, del teatro, della
biblioteca, del prodotto filmico, temendo l’imposizione di soluzioni preconfezionate in ambienti lontani e il riciclo di pratiche manageriali sperimentate altrove
(“quasi come un’ enorme operazione di cut&paste, senza cogliere le specificità
dei comparti culturali e delle singole organizzazioni in esame”, dice Zan, 999);
gli altri convinti che l’arte e la cultura siano dei momenti di prezioso ozio o di
magnifico lusso, una finestra di evasione dalla routine quotidiana, da concedersi più come espressione di una posizione individuale che come attività in qualche
modo collegabile alle logiche di impresa. La cultura come negazione della redditività; l’economicità aziendale come negazione della cultura.
È persino banale sottolineare il peso dell’economia e del management nel settore della cultura. È infatti proprio grazie all’accorto uso delle risorse economiche che alcuni processi culturali o di intrattenimento riescono a realizzarsi, rendendo disponibili più mostre, più film, più rappresentazioni teatrali. Oppure è
abbastanza evidente che, solo con il raggiungimento di una soglia di economicità, si riesce a mantenere un’attività culturale ben protetta e indipendente dalle sirene politiche e dai condizionamenti ideologici dell’agone partitico locale. Ma nei
confronti dell’economia, nonostante tali vantaggi, il mondo della cultura continua
a mantenere un atteggiamento ambivalente. E ciò provoca ancora crisi di rigetto
nell’intellettuale, specie se nato e formatosi nellÕepoca delle ciminiere e non invece nell’era postindustriale. Il mondo dell’erudizione risente molto di una matrice
di studi umanistico/artistico, spesso distante (se non addirittura contrapposta) dai
principi economico-aziendali necessari per assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo nel tempo anche delle istituzioni culturali. Tale mentalità, frequentemente
“elitaria” e spesso chiusa al concetto di fruizione e promozione allargata del bene
artistico (sia esso la musica, l’arte, la prosa, il cinema o altro ancora) ha determinato nel tempo un’autoreferenzialità delle istituzioni culturali, spesso in difficoltà sul piano economico e inibite imprenditorialmente nella capacità di reperire risorse di privati secondo moderne tecniche di fund-raising.
Per molti, troppi anni l’intellettuale colto e responsabile di strutture culturali ha rifiutato di confrontarsi con il pubblico e con il mercato, continuando a pro-
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durre opere o mostre artisticamente rilevanti, che però non necessariamente convergevano con l’interesse e con i gusti del grande pubblico. La classe intellettuale
sosteneva orgogliosamente la propria autonomia e indipendenza verso il mercato;
per di più affermava che il sentirsi indipendenti dall’obbligo di piacere agli spettatori o ai potenziali utenti fosse l’unico vero modo di rispettare il pubblico raffinato e maturo di stampo tradizionale.
Ora il vero problema, nel caso dell’ideazione editoriale o cinematografica o
di un museo, non è quello di evitare prodotti o manifestazioni difficili e raffinati (i cosiddetti eventi di testa o come spesso si dice la cultura alta contrapposta a
quella bassa e popolare), ma di saperli coniugare in termini di storie, di generi e
di sensazioni con i bisogni dell’utenza di massa.
La difficoltà del mondo della produzione culturale a uscire da una visione organizzativa troppo intellettuale può ricondursi alla ampia distanza di atteggiamenti che separa la cultura generalmente intesa dall’ambiente mercantile proprio
delle imprese. Che i due ambienti siano difficilmente permeabili lo testimoniano
le differenze di linguaggio e di comportamento delle rispettive parti, i riferimenti
politici e ideologici ricorrenti, i mezzi di comunicazione usati per veicolare i distinti valori professionali.
Le colpe di questa incomunicabilità si possono equamente ripartire. Sul fronte dell’impresa, nei confronti dell’arte e dello spettacolo, vige un contegno di eccessivo pragmatismo, poiché i beni artistici sono spesso considerati improduttivi nel breve termine e quindi poco interessanti per un orientamento speculativo.
Fanno a volte eccezione le imprese o i singoli imprenditori che sostengono interventi culturali con investimenti di sponsorizzazione, anche se tali spese sono ancora concepite come eccezionali nella logica della promozione di immagine e di
marketing aziendale.
Sul fronte degli operatori culturali, invece, viene ostentata una compiaciuta ignoranza della finanza, del marketing, dell’organizzazione del lavoro, della
tecnologia, considerate tecniche di scarso spessore concettuale e, come tali, non
indispensabili per completare la professione di gestore di un patrimonio artistico. Oppure, in altre circostanze, si ritrovano intellettuali che, non avendo avuto esposizione scolastica e educativa ai concetti più contemporanei dell’economia di mercato, non conoscono appieno i meccanismi del management moderno
e lo scambiano un po’ approssimativamente con ciò che l’immaginario collettivo
ha metabolizzato riguardo ai principi dell’organizzazione scientifica di tayloristica memoria.
In altri termini, da una parte manager e imprenditori ritengono di essere i soli a produrre vera ricchezza, dall’altra i sacerdoti della cultura sostengono che la
tecnica contabile e organizzativa può servire, ma rimane semplice mezzo, non in
grado di cogliere i valori ultimi del bene culturale.
Inoltre il processo di integrazione tra mondo della produzione economica e
mondo della produzione intellettuale è spesso ostacolato dagli stereotipi che la
società ha elaborato nei confronti dei protagonisti di queste due diverse mentali-
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tà. Gli operatori economici sono sovente assimilati a ingordi calcolatori alla continua ricerca di profitto, motivati nelle loro dinamiche da regole e controlli burocratici. All’opposto i creativi e gli artisti, espressione un po’ romantica della
trasgressività emotiva, diventano i loro contrari, con i conseguenti disordini organizzativi e le imprescindibili inefficienze (Fig. 1).
Figura 1 Le diverse percezioni di Management e Arte, che creano stereotipi
Management
Arte
Razionalismo
Espressivitˆ
Razionalità
Sensibilità
Calcolo
Immaginazione, intuizione
Standardizzazione
Singolarità, unicità
Prevedibilità
Creatività
Regolarità
Assenza di schemi
Routine
Innovazione
Ordine
Rottura
Misura e quantificazione
Assenza di formalizzazione
Misura del successo
Misura del successo
Denaro, profitto
Arte pura
Redditività
Attenzione dei critici
Utilitarismo, interesse
Gratuità
Opportunismo
Collettività
Eteronomia
Autonomia
Controllo
Libertà
Lavoro
Lavoro
Lavoro organizzato
Artigianato singolo
Interdipendenza
Indipendenza
Momenti di lavoro alternati a tempo libero
Tempi unificati
Meritocrazia
Aristocrazia
Competenze acquisite dal lavoro
e dalla scuola
Competenze innate e acquisite dalla
tradizione
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Questo diverso atteggiamento è un vero problema, non solo perché mina alla base
le possibilità di comprendere a fondo alcune delle irreversibili tendenze che stanno trasformando la società economica postindustriale, ma anche perché rallenta
l’emancipazione culturale del mondo dell’impresa. Anche il mondo dell’impresa
infatti potrebbe avvantaggiarsi da una maggiore comprensione del mondo della
cultura; ciò contribuirebbe a fare uscire l’azienda da forme superate di monocultura, provocandola (e forse abituandola) ad apprezzare forme diverse di espressione e di concettualizzazione, fondamentali in un’economia simbolica e immateriale, come quella contemporanea.
Il problema per le imprese contemporanee è quello di trovare una sintesi tra
emozione e regola e di attivare una forma di fertilizzazione incrociata. L’integrazione tra i due mondi consente infatti al contesto industrial/manageriale di riscoprire l’importanza della cultura, intesa anche come molteplicità di competenze
per gestire la complessità.
Al mondo della cultura e dello spettacolo sarebbe data possibilità, invece, di
valorizzare l’importanza dell’autonomia gestionale, dell’economicità, della buona organizzazione, quali precondizioni per una vita duratura e indipendente delle
istituzioni di riferimento. Questa migliore conoscenza potrebbe costituire lo spazio utile per gestire meglio le cosiddette organizzazioni intelligenti, quelle imprese vivaci, dinamiche e innovative, la cui crescita deve, comunque, essere gestita
in modo programmato (Ruozi-Salvemini, 999).
3. La distanza per˜ si sta restringendo
Se queste sono le radici di un problema di difficile comunicabilità, occorre però riconoscere che la situazione è cambiata negli ultimi venti anni. La polarità
di prospettiva si è progressivamente ristretta, man mano che si sono fatte strada
convinzioni, sempre più fondate, sulla necessità di considerare i beni culturali in
un’ottica più vicina al mercato e di dare a essi una gestione manageriale, più efficiente e più rispondente all’esigenza di qualità del servizio da parte dei fruitori.
È aumentata nell’intera popolazione italiana la consapevolezza di mettere un po’
d’ordine nell’immenso patrimonio culturale, che abbiamo per decenni mantenuto così male e sfruttato così poco. Gli enti che si occupano del problema si sono
rinnovati sul piano giuridico-istituzionale, al fine di individuare nuove formule e
meccanismi che aiutino a recuperare/acquisire autonomia e responsabilizzazione, più efficienza nell’uso delle risorse e maggiore efficacia nella soddisfazione
della missione istituzionale.
I beni culturali, i prodotti artistici, i servizi dello spettacolo certamente non riguardano una quota di reddito e di occupazione pari a quella dei grandi settori
industriali, ma indubbiamente – insieme anche al loro indotto – producono effetti molto rilevanti sulle dinamiche economiche e sociali e, come abbiamo scritto
nel primo paragrafo, rappresentano una importante speranza di sviluppo futuro
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per l’ economia immateriale e postindustriale . È diventata quindi indispensabile
una maggiore compenetrazione dei mondi della cultura e dell’economia e ciò ha
richiesto un confronto aperto e senza tabù (Salvemini-Soda, 00).
3.1.La“managerializzazione”dellacultura:ilmanagementculturale
Nel nostro Paese si va affermando in modo sempre più deciso l’accettazione di
una gestione manageriale delle istituzioni che operano nel comparto artistico e
culturale. Si tratta di un processo più ampio che tocca anche altri comparti originariamente gestiti dalla Stato e dagli enti pubblici, quali la scuola, la sanità, la
sicurezza, i servizi di pubblica utilità, e così via, secondo una deriva che dà crescente attenzione alle economie “non profit”.
Tale maggiore connotazione manageriale è richiesta dalla necessità di avere
una cultura di perfomance più vicina alle imprese eccellenti e all’uso sempre più
consapevole e misurato che occorre fare delle risorse economiche, progressivamente limitate da un welfare misto meno abbondante rispetto alle tradizioni del
finanziamento pubblico.
A ciò si accompagna una generale trasformazione degli assetti istituzionali che aiutano le istituzioni artistiche e culturali a recepire i bisogni di una società in evoluzione, fornendo risposte attuali e valide, consentendo di recuperare
maggiore autonomia e responsabilizzazione, più efficienza nell’uso delle risorse
e maggiore efficacia nella soddisfazione della missione istituzionale. Gli ultimi
anni, infatti, hanno visto profondi mutamenti del quadro istituzionale dei servizi pubblici. Si è usciti da un lungo periodo di concentrazione in capo a soggetti pubblici della produzione e dell’offerta dei servizi alla collettività (ciò che viene sovente denominato welfare pubblico) e si è fatto strada un assetto misto, dove
pubblico e privato, profit e non profit, si sono via via mescolati in formule intermedie di risposta ai bisogni pubblici (welfare misto). Questa tendenza di innovazione delle formule giuridico-istituzionali ha riguardato imprese e enti pubblici,
secondo un diffuso desiderio di rinnovamento dei criteri gestionali e di recupero di maggiori imprenditorialità e managerialità. L’obiettivo era quello di cogliere
il movimento che negli anni recenti stava spirando in tutto il globo e cioè la forte consapevolezza a ridurre il sussidio statale nei confronti delle istituzioni pubbliche, nell’ipotesi che il parziale trasferimento in mani private riducesse la logica burocratica degli enti e elevasse l’orientamento a migliorare la valorizzazione
dei beni dello Stato.
Le trasformazioni sono avvenute sperimentando diverse modalità (fondazioni, consorzi, privatizzazioni, agenzie, ecc.) e sono state un campo di prova ideale
specialmente per le attività artistiche e culturali italiane, le quali sono riuscite a
mettere a punto funzionamenti gestionali innovativi. Dalla fine dell’ultimo secolo
infatti, molte sono state le sperimentazioni nei teatri, negli enti lirici, nei musei,
nelle gallerie d’arte, nei gruppi cinematografici, nelle orchestre e così via.
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Tra i principali progressi che si attendono da queste trasformazioni vogliamo
citare tre elementi di cambiamento manageriale: una maggiore autonomia degli
organi di governo rispetto alle logiche del finanziamento pubblico; una cultura
organizzativa più vicina alle imprese eccellenti; un più moderno ruolo esercitato dagli sponsor.
Per quanto riguarda il primo punto, occorre ricordare che gli enti culturali
pubblici sono stati in passato criticati per dinamiche politiche spesso inefficienti, dispendiose e scoordinate; tutte cose che hanno reso l’intero comparto poco
capace di recepire i bisogni e di fornire proposte attuali e valide. Ciò fa apparire
quanto mai opportuno il rinnovamento degli enti sul piano giuridico-istituzionale
(si pensi alle Fondazioni per i teatri lirici o per i teatri di prosa o alle formule societarie miste per i musei), perché dovrebbe consentire a questi di recuperare/acquisire maggiore autonomia e responsabilizzazione, più efficienza nell’uso delle
risorse e maggiore efficacia nella soddisfazione della missione istituzionale.
La cultura organizzativa diventa così sempre più attenta a interiorizzare l’innovazione, con disponibilità a ricevere dall’esterno stimoli propulsivi dei nuovi
partner, magari anche critici rispetto alla gestione passata, ma spesso cruciali nel
contributo verso il cambiamento. Si crea integrazione tra i nuovi attori e il precedente humus pubblico e ciò determina una nuova robusta atmosfera manageriale,
dove si miscelano la natura assai valoriale e ideale, che connota tradizionalmente
il settore artistico, e la mentalità aziendalistica sensibile all’uso delle risorse economiche, che connota tradizionalmente il comparto delle imprese di produzione
e di servizio.
La terza riflessione riguarda il nuovo ruolo esercitato dalle imprese sponsor.
Un ruolo meno effimero e mondano rispetto al diffuso contributo di quei soggetti
come imprese, banche, assicurazioni o soggetti privati che perseguono principalmente fini di immagine e di propaganda istituzionale. E meno che mai un ruolo
quale quello di imprenditori che, con ragguardevoli sensi di colpa, pensano illusoriamente di esorcizzare le loro eventuali esternalità negative con costosissimi
interventi di sponsorizzazione culturale. Nel futuro l’intreccio tra ente culturale
riformato e imprese partner sarà pertanto tale da richiedere ai secondi uno sforzo molto più impegnativo nell’indirizzo strategico dell’“azienda culturale”. Sforzo dove le imprese partner possono veicolare abilità complementari a quelle di
base, contribuendo a riqualificarle, o a riconvertire il sistema delle capacità presente nell’ente precedente.
Cruciale in tutto ciò che abbiamo descritto è la prospettiva del management
culturale perché aiuta, con tutta la esperienza che la disciplina del management
ha accumulato nella storia d’impresa, a miscelare la natura assai valoriale e ideale, che connota tradizionalmente il settore artistico, con la mentalità aziendalistica sensibile al giusto uso delle risorse economiche, che connota tradizionalmente
il comparto delle aziende di produzione e di servizio.
Management culturale perciò vuol dire selezionare le pratiche aziendali finanziarie, di marketing, organizzative, logistiche e di gestione delle risorse umane
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provenienti dal mondo del business e applicarle nelle realtà creative, capendo però le logiche sostanziali di fondo di queste organizzazioni, così diverse da quelle normalmente oggetto di studio degli aziendalisti. Proprio per evitare che un
acritico trasferimento di conoscenze dia atto a un processo di banalizzazione del
know how aziendalistico, il quale poi non riesca a scalfire, nella sua retorica troppo analitica e razionalistica, il contesto artistico e culturale fatto spesso di storie
e di trazioni interpretabili con altri paradigmi scientifici
3.2. La“culturalizzazione”dell’economia:quandolaculturarilancia
l’impresa
Gli effetti benefici dell’arte della cultura possono essere estesi non solo allo sviluppo dei mercati culturali, ma produrre invece significativi effetti spillover nell’economia in generale (Sacco, 003). Pensiamo ad Adriano Olivetti e alla sua
economia sociale, convinto com’era che il progresso civile di un territorio e la
crescita economica non potessero essere disgiunti. E l’azienda di Ivrea ha per
molti anni rappresentato nel mondo uno dei più stimolanti laboratori, riuscendo a
incardinare elementi di nuova estetica e di nuovo design nei prodotti stessi e nella loro promozione esterna.
Negli anni successivi al boom economico e ancora oggi, la cultura è servita alle imprese soprattutto per esprimere programmi di sponsorizzazioni e di mecenatismo, abbastanza laterali rispetto alle logiche di funzionamento aziendale. L’arte
è stata considerata come un’opportunità da sfruttare, seppure con un raggio circoscritto di efficacia, anche per il difficile calcolo del ritorno economico in chiave di reputazione e di immagine. Ma tali investimenti recentemente, nonostante
che il ciclo economico sia stato dominato da grande incertezza e da una forte recessione, sono cresciuti e le imprese che hanno investito si sono dati traguardi ancora più ambiziosi del passato. Ciò la dice lunga anche sul fatto che i modelli di
consumo tradizionale comincino a mostrare i loro limiti e sulla progressiva attenzione da parte dei consumatori che chiedono conto di cosa e di come le imprese
producono. I consumatori oggi acquistano sempre più secondo un modello identitario complessivo e la sponsorizzazione o il mecenatismo culturale dimostra la
volontà delle imprese di mostrare come la propria attività sia vicino alle aspirazioni e ai desideri del proprio pubblico.
Ciò che oggigiorno va quindi sottolineato è il progressivo superamento della concezione comunicazionale della cultura per le imprese. La cultura infatti recupera nel processo produttivo dell’impresa il ruolo di materia prima e ne dà senso economico, facendola diventare input strategico di sopravvivenza economica.
Non si investe dunque in cultura per deboli e indiretti interessi di generazione di
prestigio sociale (tipici dei progetti di sponsorizzazione), ma posizionando l’investimento stesso più a monte nella catena del valore.
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Questa considerazione ha indubbiamente del rivoluzionario rispetto a quanto
abbiamo detto in premessa di questo saggio. All’inizio infatti abbiamo parlato di
economicità come negazione della cultura (i beni artistici considerati improduttivi e pertanto poco interessanti per un orientamento speculativo). Poi abbiamo
detto che la sponsorizzazione o il mecenatismo si colloca alla fine della filiera
produttiva, perché la produzione di valore economico precede il suo impiego in
ambito culturale (la cultura non è altro che uno dei tanti mezzi di destinazione
della ricchezza, quasi come una specie di “dividendo sociale” al territorio). Ora
sosteniamo che il rilievo che la cultura assume nell’economia immateriale contemporanea è la sua capacità di produrre valori mediante significati. Essa orienta il mercato, condiziona le organizzazioni, influisce sul contesto in cui si opera.
Il tutto in un’economia simbolica dove conta sempre meno il valore d’uso dei prodotti (il prodotto per quello che è) e conta sempre di più la valenza simbolica e
evocativa che esprimono e raccontano i beni e le esperienze di servizio.
È la sostituzione del capitalismo industriale con quello culturale, che la teoria
aziendalistica comincia a distinguere tra le nebbie e le foschie prodotte dal fordismo e dal postfordismo (Rullani-Romano, 998). Alcune delle imprese più evolute hanno imparato ad abitare in questo ambiente di post-modernità, dove non si
producono o vendono semplicemente oggetti, definiti dalla loro prestazione utile, come faceva la prima modernità. Quelle imprese oggi producono e vendono
prima di tutto i significati che questi oggetti incorporano. E anche le imprese che
paiono molto distanti da queste mutazioni – si pensi alle manifatturiere o a offerenti servizi standardizzati di massa – devono fare i conti con questi elementi “alti” derivanti dalla produzione culturale.
Assistiamo così a un vero e proprio rovesciamento della relazione cultura-economia: da una situazione in cui la produzione del reddito era responsabilità esclusiva dell’impresa, la quale decideva se dedicare alla cultura parte delle proprie
eccedenze finanziarie, si passa a una situazione in cui il focus culturale non è più
periferico rispetto al core business dell’azienda, bensì centrale, perché stimolo tra
i principali per comprendere le avanguardie del benessere e dello sviluppo umano (Salvemini, 003).
Le arti figurative, la letteratura, la musica, il cinema e così via, hanno dunque, tra i numerosi altri, il pregio di stimolare il pensiero e creare qualche insolita riflessione sul mondo intorno a noi. E poiché gli artisti riescono a interpretare lo spirito del tempo e a possedere una capacità profetica di analizzare
la crisi e le evoluzioni della società, le loro opere gettano un lampo per la comprensione dei fenomeni, proiettando anche un’ombra di dubbio laddove tutto
sembra limpidamente certo. L’arte infatti non dà risposte “finite”, non ha certezze e pertanto è massimamente utile in questa era di forte complessità, dove
la razionalità non riesce a cogliere cartesianamente tutti gli accadimenti economici e sociali.
L’arte e la cultura, specialmente se di qualità, è dunque un’arma potente per
aiutare la ristrutturazione del campo cognitivo a cui va incontro la comunità.
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Inoltre va ricordato che oggigiorno il percorso produttivo che nelle imprese tradizionali conduce dalla mera funzionalità e utilità delle cose , tipico dello scorso secolo (produco e vendo un’automobile perché è un affidabile mezzo di
trasporto oppure un paio di occhiali da sole perché mi ripara dalle rifrazioni della luce oppure una bottiglia di acqua minerale perché è dissetante; tutti prodotti
che si concentrano sulla “funzione d’uso”) alla realizzazione di oggetti che sono
simboli di una concezione estetica o di una appartenenza identitaria (un’automobile che mi contraddistingue evocativamente in una comunità sociale; un paio di
occhiali che simbolicamente mi posiziona in un target d’acquisto particolare; una
bottiglia di acqua minerale status symbol), si arricchisce di significati che derivano da una visione etica del lavoro che fa riferimento all’attività fisica e intellettuale necessaria per arrivare al disegno del prodotto e all’organizzazione aziendale
che ne consente l’espressione. In altri termini la cultura che circonda il prodotto e la sua organizzazione produttiva non esprime solo la bellezza sensoriale e di
appartenenza, ma anche un’estetica del lavoro. L’oggetto passa dall’essere considerato bello perché ha una bella forma all’essere bello perché p realizzato in
una azienda amabile, gradevole, attenta alla responsabilità sociale della comunità in cui vive. L’azienda culturalmente sensibile (si pensi alla già citata Olivetti ma oggi ai casi di Apple o di Google) è un’azienda dove il lavoro è intimamente collegato ai pensieri, alle motivazioni e ai bisogni di chi lavora (il “great place
to work”) e dove spesso si investe anche su architetture degli stabili e design degli uffici coerenti con la storia e l’identità del luogo in cui si è localizzati. L’azienda culturalmente sensibile (le cosiddette “nice companies”, che poi hanno anche
il complemento di “nice” leader, di “nice” stili di direzione e di “nice” dinamiche
di comunicazione interna) è contemporaneamente simbolo di libertà e di creatività, ma anche di responsabilità verso gli altri e verso l’ambiente.
E tutto ciò è molto più sottolineato in questo nuovo secolo dove gli elementi immateriali e intangibili sono prevalenti rispetto ai valori della produzione di
massa del secolo scorso.
Da queste considerazioni deriva conseguentemente la grande rilevanza che le
arti e la cultura gioca sulle risorse umane di un’impresa: tanto più il capitale simbolico è presente e compreso nelle persone che operano in azienda e che presidiano le decisioni strategiche d’impresa, tanto maggiore sarà il livello del capitale
simbolico insito in un determinato marchio o più specificatamente in un determinato prodotto. La “culturalizzazione” dell’economia è dunque una tappa evolutiva
del mercato che apre la strada a una più felice contaminazione tra impresa e cultura. Un incontro che – all’insegna del mutuo scambio e della reciprocità dei benefici – influisce con energia positiva sulla costituzione e sul posizionamento della marca acquisendole un consenso allargato, frutto di un impegno dichiarato nei
confronti della comunità degli utenti e dei consumatori.
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4. La cultura come ingrediente essenziale per attrarre sul territorio
la classe creativa
La crisi odierna del canonico modello industriale e la consapevolezza che il modello secolare dell’economia italiana (piccole aziende e distretti industriali inclusi) abbia rallentato la sua marcia hanno aperto un necessario approfondimento
sulla scarsa innovatività delle nostre imprese. Le difficoltà che queste ultime incontrano, anche quelle meglio gestite, nell’arena internazionale fanno suonare segnali d’allarme acuti e testimoniano che le nostre aziende devono recuperare molta più innovazione di quanto è stato millantato per anni con un generico made in
Italy.
La strada sta dunque nel potenziamento dell’innovazione e della creatività. E
lì il senso estetico, il pensiero laterale, l’intelligenza emotiva possono giocare tutte le loro carte. Se il talento creativo diventa un asset fondamentale, la cultura per
l’impresa assume allora un ruolo decisivamente centrale (Landry, 00).
L’analisi di alcuni studi recenti condotti sul territorio mostrano l’importanza
della creatività come elemento di vantaggio competitivo: chi saprà essere creativo
e saprà tradurre questa creatività in elementi concreti conquisterà un vantaggio
differenziale rispetto agli altri e sostenibile nel tempo (Florida, 00; AmadasiSalvemini, 005). Ma tale creatività da dove può emergere? Da nuovi talenti, da
nuove tecnologie, da nuove predisposizioni a tollerare dissonanze cognitive, ma
soprattutto dall’accostamento dei settori culturali ai tradizionali settori manifatturieri e terziari. E ciò avviene in particolare in quelle città e in quei territori dove
sono frequenti i luoghi d’offerta di avvenimenti, di segni e di momenti che rappresentano simbolicamente la cultura.
È richiesto al territorio (e quindi ai responsabili politici del contesto geografico e agli stakeholder che hanno a cuore il futuro dell’area) un approccio più integrato e strutturato riferito al patrimonio materiale (archeologico, monumentale, paesaggistico, ambientale) e immateriale (il folklore, le tradizioni, gli antichi
sapori, le ricette gastronomiche, le manifestazioni artistiche). Un approccio dove
gli elementi del territorio (i luoghi, il distretto produttivo, le competenze specialistiche formatesi nel tempo) e i modelli culturali (la mentalità, gli usi, gli atteggiamenti, le credenze) possano essere codificati e sviluppati, conservando la forza
del genius loci, ma anche modernizzando gli aspetti antropologici e morfologici
del sito in funzione del cambiamento della società.
L’integrazione tra cultura, sviluppo (economico e non) e territorio non è
un’operazione scontata. Va guidata con perizia. Dipende dalla capacità di saper
gestire le relazioni e le interdipendenze, in altre parole dalla programmazione,
dove il ruolo degli attori economici e sociali e la costruzione di un progetto di
partnership fra soggetti pubblici e privati è fondamentale per fare decollare una
policy territoriale.
Per strutturare un progetto di sviluppo culturale di un territorio occorre disegnare procedure, dispositivi, ruoli, rapporti, reti, sistemi organizzativi, strumen-
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managementdelleistituzioniartisticheeculturali
ti di coordinamento e di sostegno, destinati a funzionare in modo sostenibile e a
perdurare nel tempo, in modo che accanto a una sana partecipazione bottom up
dei cittadini (spesso entusiastica ma a volte troppo spontanea e priva di visione
sistemica) si accompagni una programmazione top down da parte di chi dovrebbe avere un orizzonte più completo delle traiettorie intenzionali di sviluppo.
}
Domande di riepilogo
. Quali sono i motivi per cui oggigiorno vi è una rinnovata attenzione al tema
economico nella gestione dei benei e delle attività culturali?
. Perché si sostiene che i beni culturali sono di difficile interpretazione attraverso i concetti classici della scienza economica?
3. Quali sono le differenze di atteggiamento tra mondo della cultura e mondo
dell’economia e che spiegano le difficoltà di comunicazione?
4. Anche il management delle imprese di produzione e di servizio più tradizionale si avvantaggia degli stimoli culturali. Perché?
5. Cosa vuol dire che la cultura può essere considerata un input cruciale nella
catena del valore della impresa?
6. La cultura e le arti sono un importante fattore di attrattività dei talenti sul territorio. Per quali motivi?
7. Le policy culturali del territorio sono rilevanti per lo sviluppo economico di
una area geografica. Spiegare perché?
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