Dannazione di Jacopo Bellagamba - Con
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Dannazione di Jacopo Bellagamba - Con
Dannazione di Jacopo Bellagamba Secondo. Il sole si era levato da poco e già lasciava che i suoi fedeli raggi andassero a sbirciare negli angusti vicoli della grande città, insinuandosi sin nelle piccole fessure delle serrande alle finestre per curiosare negli affari della gente. C’era già chi si era svegliato da un pezzo per mettersi all’opra, chi ancora non era andato a letto e chi non aveva alcuna intenzione di andarvi, ma i più dormivano ancora. La strada era silenziosa. I bus tardavano a riprendere il loro abituale percorso. Erano le ore più piacevoli di quei primi giorni d’autunno. Tutto sembrava presagire una giornata di ordinaria follia per la metropoli. Tutto nella norma se non fosse stato per quell’uomo che furtivamente si muoveva fra i vicoli, senza mai imboccare le strade principali, affrettandosi a tornare verso casa. Cercava di evitare di incontrare chicchessia standosene al riparo di quei viottoli stretti. Sicuramente aveva un’ampia conoscenza del luogo, o almeno doveva essersi studiato il tragitto. Qualsiasi straniero al suo posto si sarebbe perso. Ad ogni modo non era tanto il comportamento a renderlo speciale, ce ne sono fin troppi di pazzi in una città come quella, e muoversi furtivamente in un vicolo non rende certo singolari. No, no, il fatto era che costui, un ragazzo ormai quasi uomo, se ne correva per i vicoli completamente nudo, con soltanto una mano sul suo pezzettino di ciccia. Ecco svelato perché si affrettava a tornare verso casa attraverso le viuzze più anguste della città. Era un po’ come fosse in uno di quei sogni in cui ti accorgi di essere andato a lavoro senza pantaloni o senza qualche altro indumento essenziale; un abbaglio che chissà perché capita a molti di avere, ma quasi a nessuno di vivere. Il singolare individuo voltò a destra per entrare in un vicolo ancora più stretto, discese delle scale sporche dove da una grondaia gocciava ancora l’acqua piovana del giorno prima. I piedi affondarono in quel sudicio miscuglio granuloso e la melma andò ad insinuarsi fra le dita. Proseguì verso una grata di ferro che bloccava l’intero passaggio; la fece scorrere sapientemente forzandola con entrambe le mani in uno sfrigolio di metallo e ruggine. Si ritrovò in una traversa puzzolente, completamente invasa dai rifiuti urbani traboccanti da un grosso cassonetto che sembrava fare la muffa. Il giovane uomo si guardava sempre attorno circospetto, scrutando la via per tutta la sua lunghezza. Fu così che quasi cadde su uno dei tanti pezzi di monnezza che giacevano per terra, un senza tetto che non aveva trovato posto migliore per dormire. Se ne stava sul suo letto di cartone consunto e bisunto a smaltire la sbornia del giorno prima, quando l’altro disgraziato gli rifilò un duro colpo ai reni. Qualsiasi altro si sarebbe svegliato a quella botta, ma lui mugugnò soltanto un po’ sbavicchiante e se ne tornò nel mondo dei sogni. Il vecchio ragazzo proseguì, ma prima si scusò. Un po’ come per dire che alla fine, per quanto si possa cadere in basso, il rispetto va sempre portato, soprattutto se incappiamo in individui sfortunati come noi. L’altro ricambiò con una scoreggia, come a dire che non tutto era perduto, almeno il corpo era sano. Svoltò in una strada più pulita, lastricata da mattonelle color ruggine. I negozi erano tutti chiusi. L'affitto non doveva essere alto: erano tutte botteghe di stranieri che campavano su qualche spicciolo al giorno. Soltanto le bandiere alle finestre ricordavano che si trattava pur sempre di un pezzo d’Italia; veniva da chiedersi da quale anfratto, da quale putrida carcassa in via di decomposizione provenisse tutto questo orgoglio nazionalista. La via era stretta e lunga, tortuosa, del tutto deserta. L’unico cristiano oltre all’uomo svestito era uno strano tizio che la procedeva in senso contrario al suo. Perdeva sangue copiosamente dal viso e ne aveva tutta la maglia imbrattata, sino alla camicia. A veder da vicino non doveva nemmeno essere un cristiano, un musulmano forse. Sicuramente un ubriacone, lo si capiva dal passo incerto tutto ciondolante. Doveva essersi spaccato la faccia in qualche squallido locale la sera precedente. Aveva un taglio che gli solcava la guancia sinistra a partire dall’angolo della bocca. “Che ti è successo amico?” chiese quel poveraccio. “A te che è successo?” chiese a sua volta l’altro nudo. Il figlio di buona donna scoppiò in una risata, ma quello spoglio dei vestiti rimase inespressivo e continuò per la sua strada passando oltre. Non aveva abbastanza alcol in corpo per cogliere l’ironia di quell’incontro, inoltre aveva una maledetta fretta. Svoltò poco dopo e l’ubriacone gli andò dietro avvertendolo: si stava per cacciare in un vicolo cieco. È strano quanto diventiamo socievoli appena troviamo un uomo nelle nostre stesse condizioni. Ad ogni modo lo spiantato aveva ragione, la strada era bloccata da una grigia rete metallica alta almeno due metri e mezzo. Il tizio nudo non sembrò curarsene, si mosse verso quel graticolo e con entrambe le mani iniziò ad arrampicarsi, agile come uno scarafaggio, mentre il suo pezzettino di ciccia ciondolava sotto di lui. Un maestro di parkour non sarebbe stato più lesto: in un attimo era catapultato dall’altra parte del reticolato, mentre l'altro non trovava niente di meglio che mettersi ad applaudire come una foca. Si ritrovò su una strada più ampia, con una fila di macchine parcheggiate che la occupavano in buona parte. Superò una bici legata ad un palo, senza più ruote né sellino, e quasi finiva in un tombino scoperchiato, un buco profondo nel quale avrebbe potuto affondare con tutta una gamba; nel contesto si poteva pensare che l’uomo fosse nudo perché gli erano stati rubati i vestiti, vittima di uno scrupoloso taccheggio che lo aveva letteralmente lasciato senza mutande. Per un momento si ritrovò su una strada principale e qualche idiota non perse tempo per suonargli il clacson mentre passava. Scese in un sottopassaggio stretto dall’odore di piscio e dal colore giallo sbiadito dei neon sempre accesi, un colore e un odore che si sposavano alla perfezione. Anche là doveva esserci una perdita perché lungo i muri, pieni di murales insignificanti e privi di fantasia, vi era un rigagnolo di acque scure. I tombini che avrebbero dovuto assorbire il liquido erano pieni di terra e mondezze varie. Coperto dal ronzio dei neon un uomo o una donna, non si riusciva a capirlo da quella distanza, discese le scale dalla parte opposta del sottopassaggio. Vedendolo in quello stato il nuovo arrivato indugiò, si guardò attorno, appena si accorse che erano gli unici due in quel buco stretto ebbe paura e tornò sui suoi passi. Voi cosa avreste fatto? Quell’uomo nudo non aveva certo l’aria minacciosa ma da lontano… chissà, sicuramente aveva un aspetto ambiguo. Sbucò di nuovo in una piccola via e la percorse ancora in silenzio. Era costeggiata da una parte da case e palazzi con poveri ingressi, senza marciapiede, mentre dall’altra c’era semplicemente un muro spoglio privo di entrate o finestre. L’unico accesso lungo quella parete era dovuto ad un cedimento della struttura e portava ad un antro oscuro che sembrava di modeste dimensioni. Siringhe svuotate e logore con la punta ancora rossa di sangue coagulato erano sparse sulla pavimentazione di mero cemento. L’uomo sembrò indugiare, cercando di scrutarne l’interno, poi scalzo riprese il cammino. Gli venne in contro un suo simile, rivestito però di tutto punto; giacca e cravatta per uno e qualche pelo sul petto per l’altro. L’ignudo non sembrò provare vergogna e procedette del suo passo fissando il ricco impiegato dritto negli occhi, impassibile, senza alcun risentimento. “Te lo fai succhiare per cinque euro?” chiese il gran signore al vecchio ragazzo nudo. “No” fece l’altro e si salutarono cortesemente. Svoltò in una strada priva di macchine e ricomparvero i soliti negozietti puzzolenti. Tutto sommato era un ambiente sopportabile. Immaginatevi come doveva essere con le pulci e la peste nera. Addirittura avevano messo qualche pianta ai lati dei negozi, ottime come posacenere. Un topo uscì da qualche buco che quasi faceva tenerezza. Si portava soddisfatto tra i denti un succulento pezzo di monnezza. Spruzzava felicità da ogni poro e a quello strano individuo, vedendolo, venne da pensare che un po’ tutti gli uomini soffrono di un complesso di superiorità. Per fortuna che le città sono costruite a misura d’uomo perché se non lo fossero… Domenica; era domenica, ecco perché c’erano così poche persone a quell’ora, e in una città come quella è sempre pieno di gente. Troppa gente ma con più macchine che esseri umani, con gli sfasciacarrozze affollati più dei cimiteri. Ecco dei lavori duri a morire, sfasciacarrozze, becchini, pompe funebri, poi le puttane e la gente in cerca di guai. Non c’è mai crisi in questi settori, in un mondo dove non ci sono nemmeno più i soldi per bere, dove persino l’aria costa caro. Mancava l’aria e la cappa di smog giallino era sempre là, anche se era domenica, non andava mai in vacanza. C’era una ragnatela abbandonata sotto ad un lampione, persino i ragni stavano diventando una rarità. I pipistrelli erano scomparsi e le zanzare la facevano da padrone per via dell’acqua stagnante ovunque. Era pieno di moscerini, falene, mosche. Non facevi in tempo a tirare su una ragnatela che era già piena di schifezze immangiabili. Quest’insetti radioattivi facevano schifo pure a quegli aracnidi sanguisuga. Di api neanche a parlarne, morte tutte. C’erano solo gatti spelacchiati e amorfi, cani facinorosi e rompiballe, piccioni zoppicanti, uomini e automobili, tante automobili. La gente comune si scandalizzava a vederlo passare nudo, ridevano o gli urlavano contro: erano tutti pazzi. Lui aveva il viso stanco ma procedeva come un treno, indifferente. Almeno quelle piccole stradine puzzavano ancora di morte, di carogne in decomposizione, al contrario di quelle vie principali che il comune si sforzava di tenere a lustro, troppo artificiali. Pulisci a fondo lo stipite di una porta e cos’hai? Una porta che cigola. Ordinaria follia, quella che non ti spiazza, non ti fa ridere né gridare. Indifferente. A lui faceva disgusto tutto ciò, ma era perfettamente integrato, adattato a questo sistema folle e dunque perso ancora nello sforzo di non dare nell’occhio. Forse un giorno si sarebbe stufato, il serpente sarebbe uscito allo scoperto e solo allora lo avrebbero schiacciato, ma per ora non aveva nessuna fretta di fare quella fine, allo scoperto rimanevano solo le sue nudità. La gente soffre, è piena di tabù e in una grande città i tabù si moltiplicano, si accavallano. Il sesso, la religione, la malattia, la morte… Un signore si limitava a guardarlo disgustato, dall’alto in basso come era abituato a fare. In città lo conoscevano in molti quell’uomo distinto; una reputazione più che rispettabile, conservatore, padre di famiglia, esempio per tutta la comunità di credenti. Faceva bene a disgustarsi, ad assumere superficiali espressioni di rifiuto, era il suo modo di stare al gioco. In verità la visione di quella nudità gli faceva solo venir voglia di tornare a casa, mettersi al computer e rovistare nel suo archivio di film pedopornografici. Ce n’era uno in particolare che gli era caro, una rarità che non trovi neanche su internet: un bambino malato di cancro che veniva fottuto a sangue con un crocifisso. Lui sì che sapeva apprezzare l’arte cinematografica, altro che surrealismo, era l’epoca del merorealismo. Sbavava nella testa e continuava a guardare l’altro svestito con la sua espressione indignata, non riusciva a farne a meno. Alla gente piace scandalizzarsi, da matti. “Oh… ma non si vergogna?” gridava una donna tappando gli occhi al proprio piccino. Allo stesso piccolino a cui il giorno prima aveva fatto vedere La passione di Cristo di Mel Gibson, un film molto educativo. “Vedi? Lui ha sofferto per noi” gli aveva detto come si fa sempre in questi casi mentre Cristo, interpretato da James Caviezel, veniva scorticato vivo a frustate. Quel film avrebbe messo la nausea a Jack lo Squartatore, ma ehi! Era una storia vera! Perché non fare allora un intero film sul supplizio di Cristo? Doveva esserselo chiesto anche Mel Gibson. Era dannatamente geniale. Infatti andava a ruba, persino più di Irreversibile. Voltò l’angolo e infine riuscì a far perdere le proprie tracce. La strada che stava percorrendo adesso era costeggiata da un muretto scalcinato, alto due metri, che si apriva su uno dei pochi parchi della metropoli. L’uomo vi si infilò con la vana speranza di esser lasciato in pace. La vegetazione era fitta e ingrigita dalla stagione, così gli fu possibile nascondersi dietro qualche siepe mentre procedeva verso la sua meta. Per fortuna era ancora presto per la maratona. Ogni domenica si organizzava una specie di corsa, tutt’attorno a quel parco, a cui partecipavano centinaia e centinaia di buoni cittadini. La vita moderna era così insana che c’era bisogno di sacrificare la mattina dell’unico giorno libero per correre in circolo come una mandria di gnu, mentre qualche altro scemo appositamente pagato con le nostre tasse gridava: “Forza! Ce la puoi fare! Coraggio! Forza!”, e così via. Robe da pazzi, ma questo iter era molto importante se volevi avere una vita sana, regolare; altrimenti ti si atrofizzavano le gambe, non avevi più fiato e ansimavi ad ogni minimo sforzo. Quest’ultimo fatto era anche dovuto dalle sigarette che fumavi. E se non fumavi, dall’aria nociva della metropoli, che era come fumare un pacchetto di sigarette al giorno. Ad ogni modo a quell’uomo non interessavano queste cose, non ne aveva bisogno, né si sarebbe preoccupato se fosse ingrassato o se fosse morto di cancro. La sua preoccupazione principale era quella di trovare un riparo alle sue parti intime, nascondersi. Per sua sfortuna un certo numero di ragazzi, che avevano passato la notte a farsi strizzare il cervello in qualche logorante discoteca, se ne stava là in mezzo, troppo alticci per levarsi di torno e andare a letto. I più fortunati avevano qualche ragazza per le mani, si baciavano in piedi o seduti sulle panchine, in pessimo stato. Molti di loro per mancanza di forza fisica o psicologica sarebbero andati in bianco anche quella sera. Il giorno dopo, appena svegli, non avrebbero trovato niente di meglio da fare che masturbarsi. Non che le signorine fossero restie ad approfondire i loro rapporti, già erano quasi completamente svestite se non fosse per una striscia di tessuto aderente qua e là, ma purtroppo parecchi di questi sbarbatelli sarebbero andati in bianco anche se qualcuno gli avesse pagato una prostituta. Quelli che non avevano nemmeno una ragazza con la quale condividere la propria salivazione rimanevano per la gloria; dando fastidio agli altri si sentivano veramente “in”. Ma i più tristi di tutti erano quelli che raggiunta una certa età continuavano a frequentare quell’ambiente da sedicenni, con le solite canzonette da adolescenti delle quali andavano sempre pazzi. Questi Ritardati se le sarebbero cantate stonate da soli dentro casa, infastidendo l’intero vicinato; e avrebbero anche ballato, le stesse logoranti canzonette, in compagnia, seccando chi era dovuto andare in discoteca solo per rimediare del sesso a buon mercato. Persone che ti fanno sentire estremamente grato per l’esistenza della morte. Loro sì che erano “fighi” e sapevano cos’era la vita, o almeno così credevano. Quando l’uomo svestito gli passò davanti rimasero un attimo colpiti, poi alcuni risero. Qualche ragazza gli dette del pervertito, paradossalmente, altre infatti lo invitarono ad unirsi a loro; qualche esibizionista si fece avanti per fargli i complimenti e attestare la stima con una stretta di mano, i più idioti. Ovviamente i Ritardati non possono mai perdere occasione per mostrare al gruppo quanto sono avanti, anche se ciò di solito non basta a evitare di finire nuovamente in bianco. Si perse nella folta vegetazione del parco. La calda estate era stata impietosa anche per quelle piante. Alcune erano secche, ma resistevano. Forse era l’alta concentrazione di COdue che le permetteva di reggere. Non si poteva dire lo stesso per gli uomini. Si sforzavano di adattare l’ambiente alle loro esigenze con superficiale razionalità, ma sostanzialmente rimanevano un popolo migrante. Tutti quelli che ne avevano la possibilità lasciavano la grande città per il mare o la montagna, scappavano così come facevano le rondini. Ironia della sorte erano proprio quelli più disillusi sul funzionamento del sistema, oppure i più deboli, i pensionati con pochi spiccioli, che erano costretti a rimanere, a sopportare. Chi invece decantava la funzionalità di ogni cosa, la grande intelligenza umana, scappava volentieri alle Maldive. Tutto sommato non era male, quel parco; una bella margherita spelacchiata su un marciapiede di cemento. L’uomo riuscì per lo più a passare inosservato, soltanto qualche altro gruppetto di ragazzi lo vide, ma restarono seduti sui tavoli di legno in silenzio. Per il resto c’erano solo gusci di cicale abbarbicati sui tronchi dei pini e palme secche, infestate da insetti parassiti. Passò davanti ad un piccolo bar all’aperto che presto avrebbe iniziato a preparare i primi caffè, le prime colazioni, poi si trovò di fronte al cancello rugginoso che portava sulla strada. Come aveva fatto poco prima la percorse tutta con aria indifferente, coperto soltanto dagli schiamazzi di qualche imbecille di passaggio. Avvertì in lontananza il grido di qualche uccello mattiniero e si concentrò su di esso: era come se chiedesse aiuto. Più precisamente stava chiedendo se ci fosse qualcuno, ma nessuno rispondeva. “Hello? Is anyone there? …HELLO?” gridava incessantemente. Era la voce di una città in fiamme, il grido di un uomo su un’isola deserta. Un grido pieno di angoscia, spinto più dalla paura che dalla speranza. O forse era soltanto il ritornello di una canzone dei Gorillaz. Ormai era difficile distinguere la robetta commerciale dall’arte, i soldi dalle sensazioni. Aveva finito per appiattirsi tutto, e tutto si equivaleva in un’interminabile digestione verso la morte entropica dell’universo; coi soldi potevi comprare qualsiasi sensazione e con le sensazioni potevi farci soldi, tutto aveva perso di senso. Allo stesso modo quell’urlo instancabile si perdeva nell’incessante rumore del traffico mattutino. Quell’uccello avrebbe gridato con tutte le sue forze, poi avrebbe dovuto dormire; si sarebbe svegliato il giorno dopo per iniziare daccapo. Prima o poi però pure quell’animaletto sarebbe morto. Invece il traffico no, sarebbe sopravvissuto anche alla specie umana. Ci potevi scommettere. Si affacciò su una strada più affollata e rimase come paralizzato di fronte a quei palazzoni tra lui e il cielo. Lo smog si era diradato e la volta aveva assunto il suo colore naturale, con qualche nuvoletta bianca. Per quanto fossero comuni e neanche tanto recenti quei palazzi sembravano provenire da un’altra realtà rispetto a quel cielo immutabile. Ancora più futuristiche sembravano quelle macchine che passavano silenziose su cuscinetti di gomma rotante. Tutto sommato forse non era male questo presente. Avevi milioni di possibilità davanti a te, mille porte da imboccare in un mondo composto dalle luci colorate dei semafori. Mentre pensava al passato e alle epoche buie attraversate dalla cosiddetta civiltà umana, il suo sguardo si posò casualmente sul tubo di scappamento di un motorino in transito. Scoppiò a ridere. Almeno nel Medioevo se ti veniva di fronte la signora morte la vedevi distintamente come una bella spadata tra capo e collo, come una bella mazzata che ti schiacciava il cervello fracassandoti il cranio. Lui invece fantasticava sulla bellezza della nostra epoca e intanto respirava diossido di carbonio. Per non parlare delle polveri sottili. Era tutto così subdolo, era soltanto un altro modo per morire. Un modo meno teatrale. Infatti di cancro muori tra quattro mura, mica in piazza. I tumori erano in forte aumento e la gente, per strada, nei parchi, continuava a fumare il tabacco che gli vendeva lo Stato. Stava in piedi nudo, immobile, e se la rideva; piuttosto normale che lo prendessero per pazzo; ma le persone erano la gente e da tale continuavano a comportarsi. Lo Stato diceva che alzava ogni anno il prezzo delle sigarette di dieci centesimi per farli smettere e questi se la bevevano. Aumentavano gradualmente per non creare problemi al vizio di nessuno e al tempo stesso facevano pubblicità contro il fumo. Ti dicevano che un malato di cancro aveva un costo enorme per la società, ed era vero, ma non ce la facevano proprio ad evitare di metterti le mani in tasca, era più forte di loro. Queste cose lo facevano proprio scompisciare, ma era meglio rimettersi in viaggio e non dare troppo nell’occhio. Stava quasi per arrivare, passava davanti a quei palazzoni che tanto invidiava, quelli di fronte a quei pini lussureggianti. Camminava scalzo sul marciapiede e invidiava quelle famiglie che la mattina dalla finestra vedevano la chioma degli alberi. Lui al mattino vedeva soltanto un altro edificio, anzi le fondamenta di un altro edificio. A quell’altezza neanche aveva le finestre quello schifo di cemento, aveva delle grate, porte di ferro che forse portavano alla caldaia condominiale. Tutto attorno, più in basso, c’era un recinto di ferro arrugginito che separava e circondava un garage seminterrato dal quale non aveva mai visto uscire una macchina. In terra riposavano pezzi di ferro e di plastica, stracci e carogne. Come li invidiava quelli là che alla mattina facevano entrare il pigolio degli uccelli, un piccolo pezzo di foresta pluviale. Per lui era già tanto se entrava un po’ di sole riflesso dalle finestre del palazzo di fronte. Non era soltanto quello poi. Gli alberi danno sicurezza, serenità e ti fanno sentire a casa. Ecco perché ci piacciono tanto. Perché siamo scimmie. Chissà quanto daremo per tornare a poggiare il nostro fondoschiena rosso da makako sulle fronde di un possente albero, invece di stare col nostro flaccido posteriore in quei brutti buchi di cemento. È tutta una questione di confort, ti ci abitui e poi non riesci più a farne a meno; pensava proseguendo il cammino con il vento sulla pelle. Erano racchiusi in un giardino privato, quei pini, man mano andavano scomparendo e infine si persero dietro la facciata dell’ennesimo palazzo. L’uomo ne sembrò rattristato e abbassò lo sguardo sui suoi piedi neri, lerci anche sul dorso per il lungo cammino. Gli passò a fianco un anziano con gli occhi acquosi, ma non ancora stanchi, con il passo incerto da vecchio, ma sicuro come quello di un saggio, ben piazzato; lui non lo vide neanche. Il vecchio lo fissava, così come si guarda un figlio, sorrideva, non perché l’altro fosse nudo, ma perché lo conosceva. L’altro non lo vide o comunque fece finta di niente, era preso dai suoi piedi che incominciavano a far male. Affrettò il passo distogliendo finalmente gli occhi da terra. Si orientò un attimo e si infilò in una via traversa sulla sinistra. Non sapeva bene che ora fosse ma tutta quella luce gli metteva una gran fretta addosso. Avrebbe voluto rincasare prima che si aprissero i negozi che non facevano festa. Non sarebbe stata la fine del mondo fare tardi, pensava. Il fatto stesso di non avere la situazione sotto controllo non riusciva più a turbarlo. Un altro uomo al posto suo sarebbe stato molto più allarmato, e di sicuro non soltanto per la mancanza di vestiario; ma lui ormai c’era avvezzo a certe cose. No, il fatto era che sin da giovane gli aveva sempre dato un po’ fastidio non essere puntuale, chissà perché. Passò davanti ad un vecchio cinema analizzandone la locandina: davano l’ennesimo film su un futuro alternativo. In passato era stato un amante dei film, aveva sempre preferito quelli degli anni ottanta se si parlava di fantascienza. Erano più fetish, sporchi così com’è la realtà, più reali per quanto fossero teatrali e meno tecnologici. Ad ogni modo gli piaceva immergersi in qualsiasi tipo di storia, ancora meglio se affrontava una tematica interessante da un punto di vista originale. Gli piaceva sprofondare in altre realtà nel giro di due ore, comprenderle, per poi tornare alla sua vita di sempre con queste esperienze nel bagaglio. Lo faceva tutt’ora anche se aveva smesso di vedere film. Quello che non gli piaceva del cinema era la realtà descritta, mai totalmente casuale così com'era nella vita. Ogni singolo particolare tornava e anche il più insignificante te lo ritrovavi sulla strada appena voltato l’angolo. Raggiunse un incrocio e lo attraversò di buona lena, resistendo alla tentazione di fermarsi ad una fontanella a bere acqua ricca di cloro e calcio. La strada si era fatta in salita e lui arrancava sul marciapiede polveroso. Le gambe gli dolevano di più ad ogni passo ma il fatto di aver quasi raggiunto la destinazione gli dava nuova energia. A breve sarebbe finalmente sprofondato in un morbido materasso, un super-materasso. Passò davanti al gazebo della pasticceria chiusa, davanti al giornalaio con le grate coperte di graffiti incompleti. Costeggiò l’asilo stranamente silenzioso e poi svoltò a sinistra in una strada sporca e sovraffollata da macchine. La percorse in discesa per metà, poi scavalcò uno scalino e si immise in un cortile fra due ampi palazzi popolari. Le chiavi dell’androne le aveva lasciate proprio in uno di quei vasi che adornavano lo scialbo atrio, quelle di casa invece erano infilate sopra il tettino dell’ascensore; per questo motivo non poté confonderle e senza indugi aprì la cancellata d’ingresso. Le luci in quel luogo restavano sempre accese, essenziali quando si hanno delle scale interne senza alcuna finestra. Fu quindi impossibile per la ragazza non notarlo. “Giorno” accennò lui con un sorriso amichevole sul volto. Per la prima volta in tutta la mattinata l’uomo sembrò tradire un certo imbarazzo, senza dire altro si trascinò verso l’ascensore, mentre quella lo fissava. Non era del palazzo, ne era quasi sicuro. Allo specchio dell’ascensore si trovò bene, nonostante i peli sul petto. Poi, improvvisamente, per lui fu tutto buio. Sentì le porte dell’ascensore richiudersi e le fermò premendo il tasto dell’arresto. A tentoni cercò il tasto che immaginò essere quello per il sesto piano. Quando la porta si riaprì gli si parò di fronte la sua vicina. “La mia ragazza mi ha buttato fuori di casa” si giustificò lui con la stessa espressione che aveva assunto con la giovane al piano terra. “E ha fatto tutta la strada così?” chiese la signora Borghini dopo un lungo attimo di perplessità. Già la vedova pensava a quando avrebbe raccontato l’accaduto alle amiche. “Sì, quando si mette in testa una cosa è impossibile fargli cambiare idea” disse lui e vedendola perplessa aggiunse, “mi è andata pure bene… almeno mi ha tirato le chiavi di casa.” Voleva essere esaustivo con la signora ma doveva anche evitare che la sua curiosità la portasse a fare un po’ troppe domande. Questa proprio non ci voleva, a due passi dalla meta aveva finito per incappare in una conoscente. “Vado in casa a vestirmi” disse cogliendo un momento di tentennamento della signora Borghini; mentre ancora lo squadrava aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Già rifletteva su come sistemare quella faccenda. Dismise il suo sorriso e invece di vestirsi come aveva fatto intendere andò in bagno a lavarsi gambe e piedi, poi si infilò nel letto come si era ripromesso. Una volta sotto le coperte fu libero di pensare a come risolvere l’imprevisto con la vicina. Avrebbe potuto fare in molti modi. Si alzò in tarda serata; si sciacquò in bagno per non dare a vedere che si era svegliato da poco e poi mangiò un boccone. Uscì in corridoio e suonò alla porta accanto. A quell’ora, da quando suo marito era morto, la signora Borghini guardava sempre la televisione. Gli aprì ben vestita e raggiante, segno evidente che quella giornata era stata proficua, e non doveva essere certo per la solita storia d’omicidio che davano allo show domenicale in tv. “Volevo scusarmi per lo spavento che le ho procurato oggi” disse l’uomo alla donna che lo spiava aldilà della porta. “Non si preoccupi” fece quella più a disagio di quando se l’era trovato nudo di fronte. Aveva la coscienza sporca e lui lo intuì. Quando fece per richiudere la porta l’uomo la bloccò con un piede. “La disturbo? Se ha un attimo le vorrei spiegare meglio tutta la situazione… vorrei solo che lei non mi giudicasse male.” “Oh no, non si preoccupi” esclamò lei mentre riapriva la porta e lo faceva accomodare: “Venga, si sieda sul divano. Mi stavo facendo un tè, lei ne gradisce un po'?” “Se le avanza sì, volentieri, grazie” rispose lui mentre prendeva posto sul sofà. Lei scomparve in cucina e i rumori della televisione sempre accesa coprirono il resto. “Oggi parliamo dello zio Tobias che ha ucciso e violentato sua nipote”, e giù applausi scroscianti. No, gli applausi non si sentivano, ma se guardavi con il giusto tipo di occhi riuscivi anche a vederli. Anni prima Pietro Maso era diventato una star per molte ragazzine, lo avevano inondato di lettere. Scartando tutta l’arte che dalla musica alla pittura è in mano ai più grandi magnacci del nostro secolo, scartando qualsiasi settore scientifico che ormai non rende più veramente famosi, neanche a vincere il Nobel, scartando lo sport che è troppo volubile, passeggero e dissociante dal proprio sistema nervoso centrale; c’è da chiedersi chi bisogna ammazzare per diventare una Very Important Person oggigiorno. Almeno l’omicidio è democratico e alla portata di tutti. Ad ogni modo a lui non interessava la fama, né aspirava a rimanere nella storia. Potevano fare quello che volevano di lui dopo la sua morte, anche cibo per gatti in scatola. Ma non adesso.