Dannazione di Jacopo Bellagamba - Con

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Dannazione di Jacopo Bellagamba - Con
Dannazione
di
Jacopo Bellagamba
Secondo.
Il sole si era levato da poco e già lasciava che i suoi fedeli
raggi andassero a sbirciare negli angusti vicoli della grande
città, insinuandosi sin nelle piccole fessure delle serrande alle
finestre per curiosare negli affari della gente. C’era già chi si
era svegliato da un pezzo per mettersi all’opra, chi ancora non
era andato a letto e chi non aveva alcuna intenzione di andarvi,
ma i più dormivano ancora.
La strada era silenziosa. I bus tardavano a riprendere il loro
abituale percorso. Erano le ore più piacevoli di quei primi giorni
d’autunno.
Tutto sembrava presagire una giornata di ordinaria follia per la
metropoli. Tutto nella norma se non fosse stato per quell’uomo che
furtivamente si muoveva fra i vicoli, senza mai imboccare le
strade principali, affrettandosi a tornare verso casa.
Cercava di evitare di incontrare chicchessia standosene al riparo
di quei viottoli stretti. Sicuramente aveva un’ampia conoscenza
del luogo, o almeno doveva essersi studiato il tragitto. Qualsiasi
straniero al suo posto si sarebbe perso.
Ad ogni modo non era tanto il comportamento a renderlo speciale,
ce ne sono fin troppi di pazzi in una città come quella, e
muoversi furtivamente in un vicolo non rende certo singolari. No,
no, il fatto era che costui, un ragazzo ormai quasi uomo, se ne
correva per i vicoli completamente nudo, con soltanto una mano sul
suo pezzettino di ciccia. Ecco svelato perché si affrettava a
tornare verso casa attraverso le viuzze più anguste della città.
Era un po’ come fosse in uno di quei sogni in cui ti accorgi di
essere andato a lavoro senza pantaloni o senza qualche altro
indumento essenziale; un abbaglio che chissà perché capita a molti
di avere, ma quasi a nessuno di vivere.
Il singolare individuo voltò a destra per entrare in un vicolo
ancora più stretto, discese delle scale sporche dove da una
grondaia gocciava ancora l’acqua piovana del giorno prima. I piedi
affondarono in quel sudicio miscuglio granuloso e la melma andò ad
insinuarsi fra le dita.
Proseguì verso una grata di ferro che bloccava l’intero passaggio;
la fece scorrere sapientemente forzandola con entrambe le mani in
uno sfrigolio di metallo e ruggine. Si ritrovò in una traversa
puzzolente, completamente invasa dai rifiuti urbani traboccanti da
un grosso cassonetto che sembrava fare la muffa.
Il giovane uomo si guardava sempre attorno circospetto, scrutando
la via per tutta la sua lunghezza. Fu così che quasi cadde su uno
dei tanti pezzi di monnezza che giacevano per terra, un senza
tetto che non aveva trovato posto migliore per dormire. Se ne
stava sul suo letto di cartone consunto e bisunto a smaltire la
sbornia del giorno prima, quando l’altro disgraziato gli rifilò un
duro colpo ai reni.
Qualsiasi altro si sarebbe svegliato a quella botta, ma lui
mugugnò soltanto un po’ sbavicchiante e se ne tornò nel mondo dei
sogni. Il vecchio ragazzo proseguì, ma prima si scusò. Un po’ come
per dire che alla fine, per quanto si possa cadere in basso, il
rispetto va sempre portato, soprattutto se incappiamo in individui
sfortunati come noi. L’altro ricambiò con una scoreggia, come a
dire che non tutto era perduto, almeno il corpo era sano.
Svoltò in una strada più pulita, lastricata da mattonelle color
ruggine. I negozi erano tutti chiusi. L'affitto non doveva essere
alto: erano tutte botteghe di stranieri che campavano su qualche
spicciolo
al
giorno.
Soltanto
le
bandiere
alle
finestre
ricordavano che si trattava pur sempre di un pezzo d’Italia;
veniva da chiedersi da quale anfratto, da quale putrida carcassa
in via di decomposizione provenisse tutto questo orgoglio
nazionalista.
La via era stretta e lunga, tortuosa, del tutto deserta. L’unico
cristiano oltre all’uomo svestito era uno strano tizio che la
procedeva in senso contrario al suo. Perdeva sangue copiosamente
dal viso e ne aveva tutta la maglia imbrattata, sino alla camicia.
A veder da vicino non doveva nemmeno essere un cristiano, un
musulmano forse. Sicuramente un ubriacone, lo si capiva dal passo
incerto tutto ciondolante.
Doveva essersi spaccato la faccia in qualche squallido locale la
sera precedente. Aveva un taglio che gli solcava la guancia
sinistra a partire dall’angolo della bocca.
“Che ti è successo amico?” chiese quel poveraccio.
“A te che è successo?” chiese a sua volta l’altro nudo.
Il figlio di buona donna scoppiò in una risata, ma quello spoglio
dei vestiti rimase inespressivo e continuò per la sua strada
passando oltre. Non aveva abbastanza alcol in corpo per cogliere
l’ironia di quell’incontro, inoltre aveva una maledetta fretta.
Svoltò poco dopo e l’ubriacone gli andò dietro avvertendolo: si
stava per cacciare in un vicolo cieco.
È strano quanto diventiamo socievoli appena troviamo un uomo nelle
nostre stesse condizioni. Ad ogni modo lo spiantato aveva ragione,
la strada era bloccata da una grigia rete metallica alta almeno
due metri e mezzo.
Il tizio nudo non sembrò curarsene, si mosse verso quel graticolo
e con entrambe le mani iniziò ad arrampicarsi, agile come uno
scarafaggio, mentre il suo pezzettino di ciccia ciondolava sotto
di lui. Un maestro di parkour non sarebbe stato più lesto: in un
attimo era catapultato dall’altra parte del reticolato, mentre
l'altro non trovava niente di meglio che mettersi ad applaudire
come una foca.
Si ritrovò su una strada più ampia, con una fila di macchine
parcheggiate che la occupavano in buona parte. Superò una bici
legata ad un palo, senza più ruote né sellino, e quasi finiva in
un tombino scoperchiato, un buco profondo nel quale avrebbe potuto
affondare con tutta una gamba; nel contesto si poteva pensare che
l’uomo fosse nudo perché gli erano stati rubati i vestiti, vittima
di uno scrupoloso taccheggio che lo aveva letteralmente lasciato
senza mutande.
Per un momento si ritrovò su una strada principale e qualche
idiota non perse tempo per suonargli il clacson mentre passava.
Scese in un sottopassaggio stretto dall’odore di piscio e dal
colore giallo sbiadito dei neon sempre accesi, un colore e un
odore che si sposavano alla perfezione.
Anche là doveva esserci una perdita perché lungo i muri, pieni di
murales insignificanti e privi di fantasia, vi era un rigagnolo di
acque scure. I tombini che avrebbero dovuto assorbire il liquido
erano pieni di terra e mondezze varie.
Coperto dal ronzio dei neon un uomo o una donna, non si riusciva a
capirlo da quella distanza, discese le scale dalla parte opposta
del sottopassaggio. Vedendolo in quello stato il nuovo arrivato
indugiò, si guardò attorno, appena si accorse che erano gli unici
due in quel buco stretto ebbe paura e tornò sui suoi passi. Voi
cosa avreste fatto? Quell’uomo nudo non aveva certo l’aria
minacciosa ma da lontano… chissà, sicuramente aveva un aspetto
ambiguo.
Sbucò di nuovo in una piccola via e la percorse ancora in
silenzio. Era costeggiata da una parte da case e palazzi con
poveri ingressi, senza marciapiede, mentre dall’altra c’era
semplicemente un muro spoglio privo di entrate o finestre.
L’unico accesso lungo quella parete era dovuto ad un cedimento
della struttura e portava ad un antro oscuro che sembrava di
modeste dimensioni. Siringhe svuotate e logore con la punta ancora
rossa di sangue coagulato erano sparse sulla pavimentazione di
mero cemento. L’uomo sembrò indugiare, cercando di scrutarne
l’interno, poi scalzo riprese il cammino.
Gli venne in contro un suo simile, rivestito però di tutto punto;
giacca e cravatta per uno e qualche pelo sul petto per l’altro.
L’ignudo non sembrò provare vergogna e procedette del suo passo
fissando il ricco impiegato dritto negli occhi, impassibile, senza
alcun risentimento.
“Te lo fai succhiare per cinque euro?” chiese il gran signore al
vecchio ragazzo nudo.
“No” fece l’altro e si salutarono cortesemente.
Svoltò in una strada priva di macchine e ricomparvero i soliti
negozietti puzzolenti. Tutto sommato era un ambiente sopportabile.
Immaginatevi come doveva essere con le pulci e la peste nera.
Addirittura avevano messo qualche pianta ai lati dei negozi,
ottime come posacenere. Un topo uscì da qualche buco che quasi
faceva tenerezza. Si portava soddisfatto tra i denti un succulento
pezzo di monnezza. Spruzzava felicità da ogni poro e a quello
strano individuo, vedendolo, venne da pensare che un po’ tutti gli
uomini soffrono di un complesso di superiorità.
Per fortuna che le città sono costruite a misura d’uomo perché se
non lo fossero… Domenica; era domenica, ecco perché c’erano così
poche persone a quell’ora, e in una città come quella è sempre
pieno di gente. Troppa gente ma con più macchine che esseri umani,
con gli sfasciacarrozze affollati più dei cimiteri. Ecco dei
lavori duri a morire, sfasciacarrozze, becchini, pompe funebri,
poi le puttane e la gente in cerca di guai. Non c’è mai crisi in
questi settori, in un mondo dove non ci sono nemmeno più i soldi
per bere, dove persino l’aria costa caro.
Mancava l’aria e la cappa di smog giallino era sempre là, anche se
era domenica, non andava mai in vacanza.
C’era una ragnatela abbandonata sotto ad un lampione, persino i
ragni stavano diventando una rarità. I pipistrelli erano scomparsi
e le zanzare la facevano da padrone per via dell’acqua stagnante
ovunque. Era pieno di moscerini, falene, mosche. Non facevi in
tempo a tirare su una ragnatela che era già piena di schifezze
immangiabili. Quest’insetti radioattivi facevano schifo pure a
quegli aracnidi sanguisuga.
Di api neanche a parlarne, morte tutte. C’erano solo gatti
spelacchiati e amorfi, cani facinorosi e rompiballe, piccioni
zoppicanti, uomini e automobili, tante automobili.
La gente comune si scandalizzava a vederlo passare nudo, ridevano
o gli urlavano contro: erano tutti pazzi. Lui aveva il viso stanco
ma procedeva come un treno, indifferente. Almeno quelle piccole
stradine puzzavano ancora di morte, di carogne in decomposizione,
al contrario di quelle vie principali che il comune si sforzava di
tenere a lustro, troppo artificiali. Pulisci a fondo lo stipite di
una porta e cos’hai? Una porta che cigola.
Ordinaria follia, quella che non ti spiazza, non ti fa ridere né
gridare. Indifferente. A lui faceva disgusto tutto ciò, ma era
perfettamente integrato, adattato a questo sistema folle e dunque
perso ancora nello sforzo di non dare nell’occhio. Forse un giorno
si sarebbe stufato, il serpente sarebbe uscito allo scoperto e
solo allora lo avrebbero schiacciato, ma per ora non aveva nessuna
fretta di fare quella fine, allo scoperto rimanevano solo le sue
nudità.
La gente soffre, è piena di tabù e in una grande città i tabù si
moltiplicano, si accavallano. Il sesso, la religione, la malattia,
la morte…
Un signore si limitava a guardarlo disgustato, dall’alto in basso
come era abituato a fare. In città lo conoscevano in molti
quell’uomo distinto; una reputazione più che rispettabile,
conservatore, padre di famiglia, esempio per tutta la comunità di
credenti. Faceva bene a disgustarsi, ad assumere superficiali
espressioni di rifiuto, era il suo modo di stare al gioco.
In verità la visione di quella nudità gli faceva solo venir voglia
di tornare a casa, mettersi al computer e rovistare nel suo
archivio di film pedopornografici. Ce n’era uno in particolare che
gli era caro, una rarità che non trovi neanche su internet: un
bambino malato di cancro che veniva fottuto a sangue con un
crocifisso. Lui sì che sapeva apprezzare l’arte cinematografica,
altro che surrealismo, era l’epoca del merorealismo.
Sbavava nella testa e continuava a guardare l’altro svestito con
la sua espressione indignata, non riusciva a farne a meno. Alla
gente piace scandalizzarsi, da matti.
“Oh… ma non si vergogna?” gridava una donna tappando gli occhi al
proprio piccino. Allo stesso piccolino a cui il giorno prima aveva
fatto vedere La passione di Cristo di Mel Gibson, un film molto
educativo.
“Vedi? Lui ha sofferto per noi” gli aveva detto come si fa sempre
in questi casi mentre Cristo, interpretato da James Caviezel,
veniva scorticato vivo a frustate. Quel film avrebbe messo la
nausea a Jack lo Squartatore, ma ehi! Era una storia vera! Perché
non fare allora un intero film sul supplizio di Cristo? Doveva
esserselo chiesto anche Mel Gibson. Era dannatamente geniale.
Infatti andava a ruba, persino più di Irreversibile.
Voltò l’angolo e infine riuscì a far perdere le proprie tracce. La
strada che stava percorrendo adesso era costeggiata da un muretto
scalcinato, alto due metri, che si apriva su uno dei pochi parchi
della metropoli. L’uomo vi si infilò con la vana speranza di esser
lasciato in pace.
La vegetazione era fitta e ingrigita dalla stagione, così gli fu
possibile nascondersi dietro qualche siepe mentre procedeva verso
la sua meta. Per fortuna era ancora presto per la maratona.
Ogni domenica si organizzava una specie di corsa, tutt’attorno a
quel parco, a cui partecipavano centinaia e centinaia di buoni
cittadini. La vita moderna era così insana che c’era bisogno di
sacrificare la mattina dell’unico giorno libero per correre in
circolo come una mandria di gnu, mentre qualche altro scemo
appositamente pagato con le nostre tasse gridava: “Forza! Ce la
puoi fare! Coraggio! Forza!”, e così via.
Robe da pazzi, ma questo iter era molto importante se volevi avere
una vita sana, regolare; altrimenti ti si atrofizzavano le gambe,
non avevi più fiato e ansimavi ad ogni minimo sforzo. Quest’ultimo
fatto era anche dovuto dalle sigarette che fumavi. E se non
fumavi, dall’aria nociva della metropoli, che era come fumare un
pacchetto di sigarette al giorno.
Ad ogni modo a quell’uomo non interessavano queste cose, non ne
aveva bisogno, né si sarebbe preoccupato se fosse ingrassato o se
fosse morto di cancro. La sua preoccupazione principale era quella
di trovare un riparo alle sue parti intime, nascondersi. Per sua
sfortuna un certo numero di ragazzi, che avevano passato la notte
a farsi strizzare il cervello in qualche logorante discoteca, se
ne stava là in mezzo, troppo alticci per levarsi di torno e andare
a letto.
I più fortunati avevano qualche ragazza per le mani, si baciavano
in piedi o seduti sulle panchine, in pessimo stato. Molti di loro
per mancanza di forza fisica o psicologica sarebbero andati in
bianco anche quella sera.
Il giorno dopo, appena svegli, non avrebbero trovato niente di
meglio da fare che masturbarsi. Non che le signorine fossero
restie ad approfondire i loro rapporti, già erano quasi
completamente svestite se non fosse per una striscia di tessuto
aderente qua e là, ma purtroppo parecchi di questi sbarbatelli
sarebbero andati in bianco anche se qualcuno gli avesse pagato una
prostituta.
Quelli che non avevano nemmeno una ragazza con la quale
condividere la propria salivazione rimanevano per la gloria; dando
fastidio agli altri si sentivano veramente “in”. Ma i più tristi
di tutti erano quelli che raggiunta una certa età continuavano a
frequentare quell’ambiente da sedicenni, con le solite canzonette
da adolescenti delle quali andavano sempre pazzi.
Questi Ritardati se le sarebbero cantate stonate da soli dentro
casa, infastidendo l’intero vicinato; e avrebbero anche ballato,
le stesse logoranti canzonette, in compagnia, seccando chi era
dovuto andare in discoteca solo per rimediare del sesso a buon
mercato. Persone che ti fanno sentire estremamente grato per
l’esistenza della morte. Loro sì che erano “fighi” e sapevano
cos’era la vita, o almeno così credevano.
Quando l’uomo svestito gli passò davanti rimasero un attimo
colpiti, poi alcuni risero. Qualche ragazza gli dette del
pervertito, paradossalmente, altre infatti lo invitarono ad unirsi
a loro; qualche esibizionista si fece avanti per fargli i
complimenti e attestare la stima con una stretta di mano, i più
idioti. Ovviamente i Ritardati non possono mai perdere occasione
per mostrare al gruppo quanto sono avanti, anche se ciò di solito
non basta a evitare di finire nuovamente in bianco.
Si perse nella folta vegetazione del parco. La calda estate era
stata impietosa anche per quelle piante. Alcune erano secche, ma
resistevano. Forse era l’alta concentrazione di COdue che le
permetteva di reggere. Non si poteva dire lo stesso per gli
uomini. Si sforzavano di adattare l’ambiente alle loro esigenze
con superficiale razionalità, ma sostanzialmente rimanevano un
popolo migrante.
Tutti quelli che ne avevano la possibilità lasciavano la grande
città per il mare o la montagna, scappavano così come facevano le
rondini. Ironia della sorte erano proprio quelli più disillusi sul
funzionamento del sistema, oppure i più deboli, i pensionati con
pochi spiccioli, che erano costretti a rimanere, a sopportare. Chi
invece decantava la funzionalità di ogni cosa, la grande
intelligenza umana, scappava volentieri alle Maldive.
Tutto sommato non era male, quel parco; una bella margherita
spelacchiata su un marciapiede di cemento.
L’uomo riuscì per lo più a passare inosservato, soltanto qualche
altro gruppetto di ragazzi lo vide, ma restarono seduti sui tavoli
di legno in silenzio. Per il resto c’erano solo gusci di cicale
abbarbicati sui tronchi dei pini e palme secche, infestate da
insetti parassiti.
Passò davanti ad un piccolo bar all’aperto che presto avrebbe
iniziato a preparare i primi caffè, le prime colazioni, poi si
trovò di fronte al cancello rugginoso che portava sulla strada.
Come aveva fatto poco prima la percorse tutta con aria
indifferente, coperto soltanto dagli schiamazzi di qualche
imbecille di passaggio.
Avvertì in lontananza il grido di qualche uccello mattiniero e si
concentrò su di esso: era come se chiedesse aiuto. Più
precisamente stava chiedendo se ci fosse qualcuno, ma nessuno
rispondeva.
“Hello? Is anyone there? …HELLO?” gridava incessantemente. Era la
voce di una città in fiamme, il grido di un uomo su un’isola
deserta. Un grido pieno di angoscia, spinto più dalla paura che
dalla speranza. O forse era soltanto il ritornello di una canzone
dei
Gorillaz.
Ormai
era
difficile
distinguere
la
robetta
commerciale dall’arte, i soldi dalle sensazioni.
Aveva finito per appiattirsi tutto, e tutto si equivaleva in
un’interminabile
digestione
verso
la
morte
entropica
dell’universo; coi soldi potevi comprare qualsiasi sensazione e
con le sensazioni potevi farci soldi, tutto aveva perso di senso.
Allo
stesso
modo
quell’urlo
instancabile
si
perdeva
nell’incessante rumore del traffico mattutino. Quell’uccello
avrebbe gridato con tutte le sue forze, poi avrebbe dovuto
dormire; si sarebbe svegliato il giorno dopo per iniziare daccapo.
Prima o poi però pure quell’animaletto sarebbe morto. Invece il
traffico no, sarebbe sopravvissuto anche alla specie umana. Ci
potevi scommettere.
Si affacciò su una strada più affollata e rimase come paralizzato
di fronte a quei palazzoni tra lui e il cielo. Lo smog si era
diradato e la volta aveva assunto il suo colore naturale, con
qualche nuvoletta bianca. Per quanto fossero comuni e neanche
tanto recenti quei palazzi sembravano provenire da un’altra realtà
rispetto a quel cielo immutabile.
Ancora più futuristiche sembravano quelle macchine che passavano
silenziose su cuscinetti di gomma rotante.
Tutto sommato forse non era male questo presente. Avevi milioni di
possibilità davanti a te, mille porte da imboccare in un mondo
composto dalle luci colorate dei semafori. Mentre pensava al
passato e alle epoche buie attraversate dalla cosiddetta civiltà
umana, il suo sguardo si posò casualmente sul tubo di scappamento
di un motorino in transito. Scoppiò a ridere. Almeno nel Medioevo
se ti veniva di fronte la signora morte la vedevi distintamente
come una bella spadata tra capo e collo, come una bella mazzata
che ti schiacciava il cervello fracassandoti il cranio.
Lui invece fantasticava sulla bellezza della nostra epoca e
intanto respirava diossido di carbonio. Per non parlare delle
polveri sottili. Era tutto così subdolo, era soltanto un altro
modo per morire. Un modo meno teatrale. Infatti di cancro muori
tra quattro mura, mica in piazza. I tumori erano in forte aumento
e la gente, per strada, nei parchi, continuava a fumare il tabacco
che gli vendeva lo Stato.
Stava in piedi nudo, immobile, e se la rideva; piuttosto normale
che lo prendessero per pazzo; ma le persone erano la gente e da
tale continuavano a comportarsi. Lo Stato diceva che alzava ogni
anno il prezzo delle sigarette di dieci centesimi per farli
smettere e questi se la bevevano. Aumentavano gradualmente per non
creare problemi al vizio di nessuno e al tempo stesso facevano
pubblicità contro il fumo. Ti dicevano che un malato di cancro
aveva un costo enorme per la società, ed era vero, ma non ce la
facevano proprio ad evitare di metterti le mani in tasca, era più
forte di loro.
Queste cose lo facevano proprio scompisciare, ma era meglio
rimettersi in viaggio e non dare troppo nell’occhio.
Stava quasi per arrivare, passava davanti a quei palazzoni che
tanto invidiava, quelli di fronte a quei pini lussureggianti.
Camminava scalzo sul marciapiede e invidiava quelle famiglie che
la mattina dalla finestra vedevano la chioma degli alberi.
Lui al mattino vedeva soltanto un altro edificio, anzi le
fondamenta di un altro edificio. A quell’altezza neanche aveva le
finestre quello schifo di cemento, aveva delle grate, porte di
ferro che forse portavano alla caldaia condominiale. Tutto
attorno, più in basso, c’era un recinto di ferro arrugginito che
separava e circondava un garage seminterrato dal quale non aveva
mai visto uscire una macchina.
In terra riposavano pezzi di ferro e di plastica, stracci e
carogne.
Come li invidiava quelli là che alla mattina facevano entrare il
pigolio degli uccelli, un piccolo pezzo di foresta pluviale. Per
lui era già tanto se entrava un po’ di sole riflesso dalle
finestre del palazzo di fronte.
Non era soltanto quello poi. Gli alberi danno sicurezza, serenità
e ti fanno sentire a casa. Ecco perché ci piacciono tanto. Perché
siamo scimmie. Chissà quanto daremo per tornare a poggiare il
nostro fondoschiena rosso da makako sulle fronde di un possente
albero, invece di stare col nostro flaccido posteriore in quei
brutti buchi di cemento.
È tutta una questione di confort, ti ci abitui e poi non riesci
più a farne a meno; pensava proseguendo il cammino con il vento
sulla pelle.
Erano racchiusi in un giardino privato, quei pini, man mano
andavano scomparendo e infine si persero dietro la facciata
dell’ennesimo palazzo. L’uomo ne sembrò rattristato e abbassò lo
sguardo sui suoi piedi neri, lerci anche sul dorso per il lungo
cammino.
Gli passò a fianco un anziano con gli occhi acquosi, ma non ancora
stanchi, con il passo incerto da vecchio, ma sicuro come quello di
un saggio, ben piazzato; lui non lo vide neanche. Il vecchio lo
fissava, così come si guarda un figlio, sorrideva, non perché
l’altro fosse nudo, ma perché lo conosceva. L’altro non lo vide o
comunque fece finta di niente, era preso dai suoi piedi che
incominciavano a far male.
Affrettò il passo distogliendo finalmente gli occhi da terra. Si
orientò un attimo e si infilò in una via traversa sulla sinistra.
Non sapeva bene che ora fosse ma tutta quella luce gli metteva una
gran fretta addosso. Avrebbe voluto rincasare prima che si
aprissero i negozi che non facevano festa. Non sarebbe stata la
fine del mondo fare tardi, pensava. Il fatto stesso di non avere
la situazione sotto controllo non riusciva più a turbarlo. Un
altro uomo al posto suo sarebbe stato molto più allarmato, e di
sicuro non soltanto per la mancanza di vestiario; ma lui ormai
c’era avvezzo a certe cose. No, il fatto era che sin da giovane
gli aveva sempre dato un po’ fastidio non essere puntuale, chissà
perché.
Passò davanti ad un vecchio cinema analizzandone la locandina:
davano l’ennesimo film su un futuro alternativo.
In passato era stato un amante dei film, aveva sempre preferito
quelli degli anni ottanta se si parlava di fantascienza. Erano più
fetish, sporchi così com’è la realtà, più reali per quanto fossero
teatrali e meno tecnologici. Ad ogni modo gli piaceva immergersi
in qualsiasi tipo di storia, ancora meglio se affrontava una
tematica interessante da un punto di vista originale. Gli piaceva
sprofondare in altre realtà nel giro di due ore, comprenderle, per
poi tornare alla sua vita di sempre con queste esperienze nel
bagaglio. Lo faceva tutt’ora anche se aveva smesso di vedere film.
Quello che non gli piaceva del cinema era la realtà descritta, mai
totalmente
casuale
così
com'era
nella
vita.
Ogni
singolo
particolare tornava e anche il più insignificante te lo ritrovavi
sulla strada appena voltato l’angolo.
Raggiunse un incrocio e lo attraversò di buona lena, resistendo
alla tentazione di fermarsi ad una fontanella a bere acqua ricca
di cloro e calcio. La strada si era fatta in salita e lui
arrancava sul marciapiede polveroso. Le gambe gli dolevano di più
ad ogni passo ma il fatto di aver quasi raggiunto la destinazione
gli dava nuova energia. A breve sarebbe finalmente sprofondato in
un morbido materasso, un super-materasso.
Passò davanti al gazebo della pasticceria chiusa, davanti al
giornalaio con le grate coperte di graffiti incompleti. Costeggiò
l’asilo stranamente silenzioso e poi svoltò a sinistra in una
strada sporca e sovraffollata da macchine. La percorse in discesa
per metà, poi scavalcò uno scalino e si immise in un cortile fra
due ampi palazzi popolari.
Le chiavi dell’androne le aveva lasciate proprio in uno di quei
vasi che adornavano lo scialbo atrio, quelle di casa invece erano
infilate sopra il tettino dell’ascensore; per questo motivo non
poté confonderle e senza indugi aprì la cancellata d’ingresso. Le
luci in quel luogo restavano sempre accese, essenziali quando si
hanno delle scale interne senza alcuna finestra. Fu quindi
impossibile per la ragazza non notarlo.
“Giorno” accennò lui con un sorriso amichevole sul volto. Per la
prima volta in tutta la mattinata l’uomo sembrò tradire un certo
imbarazzo, senza dire altro si trascinò verso l’ascensore, mentre
quella lo fissava. Non era del palazzo, ne era quasi sicuro.
Allo specchio dell’ascensore si trovò bene, nonostante i peli sul
petto. Poi, improvvisamente, per lui fu tutto buio. Sentì le porte
dell’ascensore
richiudersi
e
le
fermò
premendo
il
tasto
dell’arresto. A tentoni cercò il tasto che immaginò essere quello
per il sesto piano.
Quando la porta si riaprì gli si parò di fronte la sua vicina.
“La mia ragazza mi ha buttato fuori di casa” si giustificò lui con
la stessa espressione che aveva assunto con la giovane al piano
terra.
“E ha fatto tutta la strada così?” chiese la signora Borghini dopo
un lungo attimo di perplessità. Già la vedova pensava a quando
avrebbe raccontato l’accaduto alle amiche.
“Sì, quando si mette in testa una cosa è impossibile fargli
cambiare idea” disse lui e vedendola perplessa aggiunse, “mi è
andata pure bene… almeno mi ha tirato le chiavi di casa.” Voleva
essere esaustivo con la signora ma doveva anche evitare che la sua
curiosità la portasse a fare un po’ troppe domande. Questa proprio
non ci voleva, a due passi dalla meta aveva finito per incappare
in una conoscente.
“Vado in casa a vestirmi” disse cogliendo un momento di
tentennamento della signora Borghini; mentre ancora lo squadrava
aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Già rifletteva su come
sistemare quella faccenda. Dismise il suo sorriso e invece di
vestirsi come aveva fatto intendere andò in bagno a lavarsi gambe
e piedi, poi si infilò nel letto come si era ripromesso. Una volta
sotto le coperte fu libero di pensare a come risolvere
l’imprevisto con la vicina. Avrebbe potuto fare in molti modi.
Si alzò in tarda serata; si sciacquò in bagno per non dare a
vedere che si era svegliato da poco e poi mangiò un boccone. Uscì
in corridoio e suonò alla porta accanto. A quell’ora, da quando
suo marito era morto, la signora Borghini guardava sempre la
televisione. Gli aprì ben vestita e raggiante, segno evidente che
quella giornata era stata proficua, e non doveva essere certo per
la solita storia d’omicidio che davano allo show domenicale in tv.
“Volevo scusarmi per lo spavento che le ho procurato oggi” disse
l’uomo alla donna che lo spiava aldilà della porta.
“Non si preoccupi” fece quella più a disagio di quando se l’era
trovato nudo di fronte. Aveva la coscienza sporca e lui lo intuì.
Quando fece per richiudere la porta l’uomo la bloccò con un piede.
“La disturbo? Se ha un attimo le vorrei spiegare meglio tutta la
situazione… vorrei solo che lei non mi giudicasse male.”
“Oh no, non si preoccupi” esclamò lei mentre riapriva la porta e
lo faceva accomodare: “Venga, si sieda sul divano. Mi stavo
facendo un tè, lei ne gradisce un po'?”
“Se le avanza sì, volentieri, grazie” rispose lui mentre prendeva
posto sul sofà.
Lei scomparve in cucina e i rumori della televisione sempre accesa
coprirono il resto.
“Oggi parliamo dello zio Tobias che ha ucciso e violentato sua
nipote”, e giù applausi scroscianti. No, gli applausi non si
sentivano, ma se guardavi con il giusto tipo di occhi riuscivi
anche a vederli.
Anni prima Pietro Maso era diventato una star per molte ragazzine,
lo avevano inondato di lettere.
Scartando tutta l’arte che dalla musica alla pittura è in mano ai
più grandi magnacci del nostro secolo, scartando qualsiasi settore
scientifico che ormai non rende più veramente famosi, neanche a
vincere il Nobel, scartando lo sport che è troppo volubile,
passeggero e dissociante dal proprio sistema nervoso centrale; c’è
da chiedersi chi bisogna ammazzare per diventare una Very
Important Person oggigiorno. Almeno l’omicidio è democratico e
alla portata di tutti.
Ad ogni modo a lui non interessava la fama, né aspirava a rimanere
nella storia. Potevano fare quello che volevano di lui dopo la sua
morte, anche cibo per gatti in scatola.
Ma non adesso.