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Eutanasia e rinunce della medicina
L’anno appena passato ha visto una ripresa di entusiasmo fra i
promotori del c.d. “diritto alla dolce morte”. Ha colpito tutti il caso
della giovane Brittany, la donna americana che ha reso nota a tutto
il mondo la sua ferma intenzione di non vivere l’ultima fase della
sua vita nelle sofferenze “preannunciate” che le sarebbero derivate
da un inguaribile tumore al cervello. E prima di questo caso abbiamo visto il Belgio estendere l’eutanasia “volontaria” ai più piccoli,
minori non ancora “emancipati”, segnando in questo modo un primato a livello mondiale. Da ultimo, nel nostro Paese, è stato diffuso
il video dell’associazione Luca Coscioni che ha ingaggiato numerosi
nomi noti della cultura e dello spettacolo (da Veronesi a Platinette
tanto che a qualcuno il video è sembrato una puntata del reality
“L’isola dei famosi”!) col fine di sensibilizzare l’opinione pubblica
e la politica affinché sia emanata al più presto una legge sull’eutanasia.
Si dirà che tali episodi non aggiungono nulla di nuovo al dibattito bioetico: in fondo, le questioni e le diverse posizioni in gioco sono quelle che ricorrono da sempre quando si entra nel grande tema
dell’eutanasia. Tuttavia, è possibile, forse, che si stia facendo strada
una diversa strategia retorica: sembra meno frequente, infatti, l’argomento del timore dell’accanimento terapeutico, e ci sembrano vagamente lontani i casi Welby ed Englaro, ove appunto sembrava in
discussione la questione del limite fra terapie proporzionate e il prolungamento penoso della vita. Oggi, l’accento appare maggiormente
posto sul “diritto” di scegliere liberamente “come e quando morire” e sul dovere dello stato di dare attuazione a questo diritto attraverso gli operatori sanitari, medici e infermieri. I personaggi famosi
del video hanno prestato il proprio volto per ricordare ai parlamentari (e a noi) l’“urgenza” di approvare la proposta di legge depositata in Parlamento, sostenendo che il presunto diritto a morire sia il
diritto più violato in Italia, senza rendersi conto che un diritto a morire come tale non esiste (tutt’al più si potrà sostenere un diritto a
morire senza dolore e senza sofferenze, ma questa è un’altra storia,
che non ha niente a che vedere con il diritto all’eutanasia).
Questa strategia retorica di parlare di un diritto a morire, per
quanto persuasiva e accattivante, in realtà cela, probabilmente in
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modo intenzionale, alcune ambiguità e implicazioni di cui non si
può non tener conto.
1. Vogliamo qui ricordare, innanzitutto, che la presunta scelta di
morire con “dignità” (questa è un’altra parola chiave che viene utilizzata), in un determinato momento, deciso autonomamente, non
costituisce solo una scelta personale e perfettamente autonoma, ma
implica una relazione con valori, altre persone, istituzioni. Il richiamo alla dignità è giocato nell’ambiguità di un riferimento a un valore che si vuole come universalmente condiviso, ma la cui valutazione è lasciata alla assoluta percezione soggettiva. Ma dire che si perde la dignità quando si è in uno stato di grande vulnerabilità è un
inganno di termini e anche un furto semantico. La dignità non si può
mai perdere perché è il valore intrinseco di ogni essere umano, per
quanto umile e fragile sia al tramonto della vita.
Eppure, proprio in nome del rifiuto, o della paura di vivere vite
“indignitose” o sofferenti, la Svizzera e altri paesi nel mondo hanno
esteso il presunto diritto di morire, o di essere aiutati a morire, a
molti che vivevano situazioni di sofferenza psicologica senza essere
in alcun modo malati terminali, rimuovendo il dovere di promuovere
l’aiuto di queste persone. Anche questo viene relegato alla sola sensibilità morale soggettiva. Porre l’accento in particolar modo su
soggettività e spinte emotive rischia di condurre a delle aberrazioni.
2. Si deve porre, inoltre, un’ulteriore obiezione di carattere formale: la legittimità dell’eutanasia non può fondarsi sulla sola scelta
da parte del soggetto, dal momento che né la libertà né il consenso
fra due soggetti servono a fondare il valore dell’azione, specie quando si vuole che alla richiesta di un atto corrisponda un impegno da
parte della società, in questo caso rappresentata dalla figura professionale del medico. Ogni azione che sia regolata dalla legge e che
corrisponda successivamente ad una prestazione da parte della società va discussa nei contenuti dal momento che non si può pretendere che la società avalli e fornisca qualcosa che corrisponde ipoteticamente a un male per i soggetti che la legge deve invece tutelare.
All’interno della società liberale queste motivazioni stanno spesso
alla base della limitazione di alcune forme di autonomia al fine di
proteggere i diritti dei cittadini, primo fra tutti quello all’integrità
personale. Dal momento, quindi, che la società deve tutelare i sog-
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getti e promuovere azioni che rappresentino il bene dei soggetti
coinvolti, allora anche una eventuale legge sull’eutanasia è necessario sia legittimata da ulteriori motivazioni, e non si limiti ad essere
fondata solo sulla tanto decantata autonomia.
I promotori del diritto alla dolce morte sanno bene che la sola leva della libertà di scelta fino alla fine non basta, né per convincere
l’opinione pubblica, né per dare avvio a una legge. Pertanto utilizzano un doppio registro, richiamando, come già accennato, anche
concetti da tutti riconoscibili, quali la dignità e la sofferenza. E per
questo chiedono allo Stato e alla medicina di salvaguardare la prima evitando la seconda.
3. Ma di fronte a temi che coinvolgono emotivamente l’opinione
pubblica, come è la difficile questione della fine della vita, “non si
devono toccare le leggi se non con mano tremante”, non si può legiferare senza cautela. Hanno richiamato questo avvertimento di
Montesquieu i 23 parlamentari francesi dell’opposizione che hanno
pubblicato su Le Figaro, il 20 gennaio 2015, il loro appello per mettere in guardia il Parlamento francese dai rischi dell’affermazione
di un diritto a morire. Il riferimento è alla proposta di legge presentata il 12 dicembre 2014 da Alain Claeys e Jean Leonetti al Presidente Hollande sulla sedazione profonda e continua. Effettivamente,
tale proposta chiede l’introduzione di un diritto “a partire dolcemente e senza sofferenza”, ma, rilevano i parlamentari, nel testo è
facile scorgere l’ansia di organizzare il decesso del paziente piuttosto che di alleviarne il dolore (“la sedazione profonda deve essere
accompagnata dalla sospensione della nutrizione e idratazione” dice l’art. 3 della proposta di legge), cosicché dal diritto a morire senza sofferenza il testo si avventura sul pendio scivoloso del diritto a
morire, affinché “non si prolunghi inutilmente la vita del paziente”.
Nel momento in cui si rimuove un divieto si apre la via della trasgressione. In Francia, di fatto, la sedazione palliativa profonda è
già possibile e praticabile, ed è solo una delle molteplici risposte
per un paziente alla fine della vita. Erigere a diritto e soluzione ultima questa pratica, ignorando la complessità del singolo caso, fa
correre veramente il rischio di trasformarla in una eutanasia nascosta. I parlamentari richiamano anche l’escalation in Belgio e nei
Paesi Bassi per mostrare le conseguenze di una legalizzazione del-
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l’eutanasia e richiamano l’attività dell’accademico olandese Theo
Boer, in passato a favore di una eutanasia legalizzata, che sta avvertendo ora gli altri paesi: “non fate il nostro errore! Quando il genio
è uscito dalla bottiglia, è impossibile farlo rientrare”.
I parlamentari francesi prospettano, infine, la necessità che la fine della vita diventi un “grande cantiere” aperto per migliorarlo
sempre più. Su 550.000 decessi l’anno, 150.000 persone “muoiono
male” in Francia. Legalizzare l’eutanasia non è la risposta a questa
situazione che esiste, come viene rilevato, a motivo di un’offerta insufficiente e diseguale delle cure palliative nel paese. La legge Leonetti, che sin dal 2005 aveva introdotto le cure palliative, non è mai
stata pienamente applicata (per es., non sono mai state comminate
sanzioni per l’accanimento terapeutico, che avrebbero potuto limitarne l’accanimento terapeutico) e non è con la proposta fatta ora
che se ne migliorerebbe l’applicazione. In questo senso, sarebbe una
contraddizione per un ospedale pubblico favorire contemporaneamente le cure palliative e la legalizzazione dell’eutanasia.
4. In tutto questo, la medicina è chiamata direttamente in causa
ed ha bisogno di ripensare al suo ruolo per non cadere nella tentazione di finire per assecondare questo “orientamento letale” delle
legislazioni. È opportuno domandarsi se essa sia, come forse si vorrebbe, solo un insieme di abilità tecniche disponibili ad ogni richiesta soggettiva, o se abbia delle finalità e una moralità intrinseche.
Per quanto oggi si vuole che la medicina risponda sempre di più alle
preferenze del paziente, è opportuno ricordare che essa ha il compito di perseguire il bene del paziente stesso. Implicitamente, invece,
la legittimazione della richiesta eutanasica ammette che in certi casi
la morte possa costituire il bene del paziente, intendendo, paradossalmente, la morte stessa come un bene.
Indubbiamente, la qualità di vita del paziente deve rimanere obbiettivo primario della pratica medica, pertanto ogni terapia sproporzionata, futile, che comporti accanimento terapeutico è da evitare proprio nel rispetto della dignità del paziente. Ma se invertiamo i
termini, e la qualità della vita diventa presupposto e fondamento
della dignità di una vita, si inserisce un principio di discriminazione
tutt’altro che soggettivo e neutro sul piano morale.
I casi mediatici, che si vuole dipingere come delle grandi conqui-
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ste di civiltà, una volta riletti senza le retoriche che li accompagnano, appaiono piuttosto come delle preoccupanti rinunce da parte
della medicina. La risposta eutanasica alla sofferenza e alla grande
fragilità rischia di indebolire gli sforzi e gli investimenti – specie
economici, in tempo di crisi – nelle cure palliative e in generale nell’assistenza al malato terminale. L’eutanasia esce per definizione
dalla logica della cura, non costituisce una forma di palliazione, e
rompe, di fatto, il legame terapeutico fra il medico e il paziente.
L’affermazione del “diritto di morire” da un lato, e la tentazione
utilitarista – e falsamente compassionevole – dall’altro, in realtà
fanno correre il rischio di favorire la prassi dell’abbandono terapeutico e, a quel punto, le stesse conseguenti richieste di eutanasia.
La medicina deve sentirsi interrogata su questa deriva perché ad
essere in gioco è proprio la competenza medica nella gestione della
fine della vita. Il sospetto è che la deriva eutanasica della medicina
serva per coprire una sua incompetenza. Dove è finita, infatti, la
medicina quando i medici “si prendono cura” mediante l’inoculazione di un farmaco letale ancorché sia richiesto dal paziente stesso? Quando prospetta il dare la morte come una delle diverse cose
che si possono fare di fronte ad una malattia evolutiva, come fosse
una risorsa del suo armamentario terapeutico? Dov’è finita la medicina quando si aprono le “cliniche di fine vita” (nei paesi dove l’eutanasia è depenalizzata) che con équipe sparse sul territorio vanno
a casa dei pazienti e stabiliscono con loro una relazione “mortifera”? I medici sono lì solo per constatare se i criteri legali sono rispettati, se la pratica è conforme alla legge. È il fallimento della medicina: perché non potenziare le cure palliative sul territorio invece
che le équipe che portano l’eutanasia nelle case?
Ma c’è anche un altro punto da considerare, in cui la medicina è
fortemente coinvolta, ed è quello che assecondare le richieste di
morte dei pazienti diventa economicamente vantaggioso. Anticipare
di alcuni mesi la morte di un paziente con una malattia cronica evolutiva può fare risparmiare grandi quantità di denaro in farmaci e
assistenza. Sempre più si diffondono ricerche empiriche che si propongono di determinare quale sia realmente l’entità delle risorse sanitarie impiegate nelle ultime fasi della vita dei pazienti con malattie evolutive croniche. Di fatto, però, questi dati fiscono spesso per
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essere gestiti dagli amministratori pubblici per decidere l’allocazione delle risorse. E a questo punto, non rimangono più molti stimoli
per i medici a impegnarsi nella ricerca di nuovi (più costosi) rimedi
per la terapia del dolore e le cure palliative, dal momento che è più
facile ed economico praticare l’eutanasia e il suicidio assistito.
Eppure, l’Assemblea Medica Mondiale, la più alta autorità eticodeontologica dei medici, ha più volte ha ribadito nelle sue risoluzioni (a Marbella nel 1972, a Divonne-les-Bains nel 2005, a Bali nel
2013) che il suicidio assistito dal medico, come pure l’eutanasia, sono fondamentalmente incompatibili con il ruolo del medico e sono
dunque non etici. Non sono atti medici, dunque, ma al contrario sono atti che esprimono l’assenza di qualsiasi relazione di cura, che
dicono della rinuncia della medicina di prendersi cura dei pazienti.
Regolarmente, dietro i casi mediatici di persone che vogliono comunicare al mondo la loro scelta di eutanasia, che vogliono affermare il loro diritto a morire, dobbiamo constatare la loro solitudine.
Brittany, è stata lasciata sola dalla medicina: accanto a lei si sono
viste le associazioni favorevoli all’eutanasia e al suicidio assistito,
che l’hanno facilitata nel trovare il luogo dove poteva dare attuazione alla sua scelta. La medicina sembra aver fatto un passo indietro,
non ci sono medici che prospettino le cure palliative, l’accompagnamento solidale, dei pazienti e delle loro famiglie, nelle ultime fasi
della vita, la sedazione profonda come strumento per eliminare l’ansia e l’angoscia delle ultime ore.
In conclusione, se l’eutanasia, attraverso i vari casi mediatici,
sta entrando prepotentemente prima nelle coscienze dei cittadini e
poi nei sistemi giuridici del mondo occidentale sarà anche un po’
colpa dei medici e della medicina che sta rinunciando a coinvolgersi
e a farsi carico dei pazienti in nome di una loro richiesta di morte
basata su una presunta libertà di scelta fatta, in condizioni estreme
di fragilità. Nel nuovo Codice Italiano di Deontologia Medica (maggio 2014) è improvvisamente scomparso il termine “eutanasia”.
Certamente si legge ancora che il medico non deve porre in atto
azioni finalizzate a provocare la morte del paziente, ma intanto il
termine non c’è più e con esso il carico emotivo che si portava dietro (lo stesso è avvenuto con il termine aborto scomparso già nella
versione del 2006 del Codice deontologico rispetto alle versioni pre-
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cedenti). È un primo passo per accogliere l’eutanasia nell’armamentario terapeutico della medicina una volta che abbiano il via dai
parlamenti? Il rischio è molto forte.
Antonio G. Spagnolo
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