Educazione. Giornale di pedagogia critica
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Educazione. Giornale di pedagogia critica
EDUCAZIONE Giornale di pedagogia critica Anno I, 2 (2012) Editoriale Anicia 2012 EDUCAZIONE Giornale di pedagogia critica Direttori: Francesco Mattei, Benedetto Vertecchi Direzione e redazione: via della Madonna dei Monti, 40 00184 Roma (Italia) Tel. (39)0657339666, e-mail: [email protected] [email protected], [email protected] Comitato scientifico: Franco Cambi, Colette Dufresne-Tassé, Yves Galupeau, Roser Juanola, Bruno Losito, Victor Santiuste Bermejo Comitato di redazione: Gabriella Agrusti (redattore capo), Cinzia Angelini, Valeria Caggiano, Cristiano Casalini, Antonella Poce, Rocco Postiglione, Teresa Savoia, Gilberto Scaramuzzo I contributi pubblicati sono stati sottoposti ad un procedimento di revisione conforme alle norme ISI II semestre 2012 - Anno I, 2 ISSN 2280-7837 (print) ISSN 2280-9600 (online) Abbonamento 2012 Italia: euro 40,00; estero euro: 48,00 I contributi vanno inviati a Gabriella Agrusti [email protected] Le norme redazionali sono consultabili su: www.giornaledipedagogiacritica.it info.anicia.org Copyright © 2012 Editoriale Anicia Via S. Francesco a Ripa, 104 - 00153 Roma, Italia Sede legale: Via di Trigoria, n. 45 - 00128 Roma, Italia Editoriale L’aggettivo è necessario Ci si potrebbe chiedere (e non sarebbe del tutto fuori luogo) se fosse stato proprio necessario, nel dare un titolo a questa rivista, aggiungere a pedagogia l’aggettivo critica. In effetti, se quello cui miriamo è un traguardo di ricerca, di riflessione, di interpretazione e reinterpretazione di modelli, teorici ed empirici, che hanno segnato il cammino dell’educazione e ne distinguono le condizioni attuali, si potrebbe anche considerare l’aggettivo pleonastico. Quando si persegue con onestà intellettuale l’incremento della conoscenza, si è necessariamente aperti alla considerazione di nuove proposte e di sviluppi non previsti. Cogliere contraddizioni nell’orizzonte interpretativo consueto non riduce la capacità di interpretare l’educazione, ma costituisce una condizione per formulare nuove ipotesi. Cambiare il punto di vista è la premessa per sfuggire alle insidie di un determinismo dal quale non ci si può che attendere una limitazione nella capacità di cogliere i segni del divenire. In breve, se quella che si persegue e si è capaci di perseguire è buona conoscenza, non può che trattarsi di una conoscenza critica. Allora, se la pedagogia definisce l’orizzonte interpretativo dell’educazione, e se l’intento che si persegue EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 1-5. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Editoriale è l’incremento della conoscenza, c’è bisogno di far riferimento a una sua dimensione critica? Se abbiamo in mente l’apporto alla conoscenza educativa di Platone o di Quintiliano, di Tommaso d’Aquino o di Comenio, di Jean-Jacques Rousseau o di Maria Montessori abbiamo bisogno di far riferimento al carattere critico dei loro apporti? Dovremmo, se lo facessimo, spiegare per quale ragione ci occupiamo di modelli e proposte che potrebbero essere all’origine di atteggiamenti non critici. Ma, se non abbiamo bisogno di fornire tale spiegazione quando ci riferiamo ai personaggi menzionati (e a tanti altri non menzionati, ma che sarebbe stato giusto comprendere nella lista, se il nostro intento non fosse stato solo di proporre qualche esempio), si può dubitare che nel dibattito pedagogico l’impianto critico che si riconosce a questo o quell’indirizzo di pensiero o di azione sia stato sempre onorato da quanti si sono collocati sulla scia. È accaduto, e accade, che la tensione critica si attenui quando al vigore originario di un modello si sostituisce la sua iterazione in condizioni diverse, spaziali e temporali. L’impegno interpretativo, invece di applicarsi al reale, si applica alla rappresentazione implicita nel modello, senza considerare che l’educazione assume connotazioni che variano in conseguenza dei modi in cui nel tempo si realizza l’adattamento alla vita. Quello che ne deriva è un irrigidimento che accredita una conoscenza pedagogica non critica, perché ignara dei cambiamenti necessari per rispondere a nuove esigenze (o, se si pensa che sia il caso, per contrastarle). Si potrebbe pensare che la tendenza all’irrigidimento fosse propria soprattutto di una pedagogia impegnata sul versante teorico, ma che sarebbe stata superata con l’affermarsi di interpretazioni sostenute da riscontri empirici o da evidenze sperimentali. Non è 2 L’aggettivo è necessario ciò che è accaduto. Al contrario, tendenze non critiche serpeggiano negli orientamenti che si sono affermati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, fino a diventare, nel corso del Novecento, largamente maggioritari in gran parte dei paesi. Nella ricerca educativa si sono affermati, infatti, modelli e procedure che lasciano modesti spazi di libertà per elaborazioni originali. Basta esaminare l’impianto di gran parte dei contributi pubblicati nelle riviste pedagogiche per individuare una sorta di canovaccio, che incomincia con il tratteggio di uno status quaestionis, prosegue con la dichiarazione delle ipotesi, descrive la procedura seguita per verificarle, presenta i risultati e li discute. Completano questo indice ricorrente una breve sintesi e i riferimenti bibliografici (che oggi, sempre più spesso, sono anche sitografici). Fin qui, niente di male. Al contrario, un po’ di struttura semplifica il compito di chi formula il messaggio, ma anche dei suoi destinatari, che non sono costretti a leggere testi ridondanti per conoscere gli esiti di questa o quella ricerca. La questione è che troppo spesso il canovaccio è tutto ciò che il contributo presenta di positivo. Se si passa a considerare i contributi per ciò che contengono, è difficile sottrarsi alla sensazione che molti di essi ripropongano questioni già note, solo rinfrescate coi belletti di una certa fastosità metodologica. Peggio ancora quando si coglie il candore che accompagna la riproposta: chi ha effettuato la ricerca è convinto che sia proprio l’imbellettamento a garantirne la validità, e non si rende conto che la questione affrontata ha dei precedenti (talvolta dei trascorsi). In questi casi emerge uno degli ostacoli più forti per l’affermazione di una pedagogia critica, quello derivante dalla mancanza di spessore temporale della linea argomentativa. 3 Editoriale Negli ultimi cinquant’anni si è assistito a un cambiamento progressivo nel modus operandi della ricerca educativa (analogo, nelle grandi linee, a quello che ha interessato altri settori d’indagine nel campo delle scienze dell’uomo). In precedenza, all’impegno per l’attività sul campo doveva aggiungersi un impegno anche più consistente per l’archiviazione e l’elaborazione dei dati. Si deve allo sviluppo della tecnologia l’acquisizione di risorse che hanno semplificato in modo sostanziale le procedure per l’archiviazione e per l’elaborazione. Anzi, sotto certi aspetti l’hanno semplificato troppo. Non vorremmo essere fraintesi. Quello che si sta enunciando non è una sorta di luddismo metodologico. La preoccupazione che si cerca di esprimere riguarda l’eccessiva facilità con la quale si passa dall’acquisizione dei dati alla loro elaborazione, che prevede siano eseguite, senza risparmio, procedure statistiche nelle quali un tempo si sarebbe evitato di cimentarsi se non nei casi in cui, per qualche ragione, si era acquisita una certa attesa circa la rilevanza degli esiti. Oggi, serie di dati che corrispondono a variabili mal definite e peggio rilevate sono il punto di partenza per calcoli statistici che in altri tempi avrebbero richiesto che fossero eseguite serie interminabili di operazioni. Si sarebbe avuto un progresso, anche nella direzione dell’incremento di consapevolezza critica nei confronti della conoscenza educativa, se alla rapidità con la quale si archiviano e si elaborano i dati avesse corrisposto la consapevolezza necessaria a comprendere che cosa si stesse facendo. Accade, invece, che si giunga a formulare giudizi sulla base di indici numerici che abbiano superato l’unico vaglio critico che consiste nell’essere compresi entro determinate soglie. Se, per uno scherzo malvagio, non fosse più possibile eseguire i calcoli (e tutto ciò che ad essi si collega, a cominciare dalle rappresentazioni gra4 L’aggettivo è necessario fiche) in modo automatico, assisteremmo ad un crollo della ricerca (e ad uno, non meno rovinoso, delle speranze di affermazione accademica dei ricercatori). Se si considera l’enorme quantità di contributi scientifici che si pubblicano nell’area pedagogica, è difficile spiegare perché il quadro dell’educazione appaia così poco rassicurante. I segnali di crisi si moltiplicano e, anzi, proprio l’analisi di tali segnali costituisce uno dei settori di ricerca che mostrano una maggiore vitalità. Il fatto è che in troppi casi gli apporti derivano da un uso più o meno sapiente di schemi e strumentari, al quale si accompagnano interpretazioni di livello modesto, che non escono dal recinto che, per abitudine, si continua a prendere in considerazione. La conoscenza educativa perde di consistenza perché confida per crescere su risorse prese a prestito, invece di cercare nella sua cultura gli elementi che consentirebbero, per continuità o per differenza, di avviare una migliore comprensione dei problemi attuali dell’educazione. In breve, fa difetto la capacità di collocare correttamente i fenomeni nel tempo e nello spazio, di stabilire relazioni sul piano diacronico e non solo su quello sincronico, di porre in equilibrio, come avrebbe detto Pascal, la géométrie e la finesse. Potremmo anche dire, riassumendo, che fa difetto una pedagogia critica. fm bv 5 Editoriale Géométrie, finesse. – La vraie éloquence se moque de l’éloquence, la vraie morale se moque de la morale; c’est-à-dire que la morale du jugement se moque de la morale de l’esprit, qui est sans règles. Car le jugement est celui à qui appartient le sentiment, comme les sciences appartiennent à l’esprit. La finesse est la part du jugement, la géométrie est celle de l’esprit. Se moquer de la philosophie, c’est vraiment philosopher. [B. Pascal, Pensées, 24.] 6 Sulla natura mimesica del discorso. Una lettura filosofico-educativa di pagine del Cratilo Gilberto Scaramuzzo Dipartimento di Progettazione educativa e didattica Via Madonna dei Monti 40 - 00184 Roma Università Roma Tre [email protected] 0. Premessa Il concetto di mimesis, assente nei primi scritti platonici, trova nel Cratilo una prima compiuta applicazione1. Taylor riassume la significatività di questa presenza con modalità sintetica ed efficace: «A chi non si interessa specificamente di fonetica apparirà molto più interessante l’acume che Socrate dimostra insistendo sul principio generale che il discorso può essere considerato come una specie di gestire mimetico […]»2. Intento del presente studio è quello di esercitare una ermeneusi filosofico-educativa sulle pagine del Cratilo a partire dall’indicazione di Taylor. 1 Seppure esistano obiezioni a questa affermazione assumo la posizione di Halliwell (cfr. S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Palermo, Aesthetica, 2009, pp. 46; 331 nota 76). 2 A. E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, Firenze, La Nuova Italia, 1987, p. 135. La frase interrotta termina così: «[…] e la sua chiarezza nel distinguere tale gestire vocale dalla riproduzione diretta di rumori naturali e di gridi animali». EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 7-20. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Gilberto Scaramuzzo Indagare con tale sensibilità uno dei luoghi in cui principia in Occidente la riflessione sulla qualità del rapportarsi del linguaggio umano all’essenzialità del reale, costringe a interrogarsi se una riconsiderazione del ruolo agito dalla mimesis in questo rapportarsi possa offrire nuovi paradigmi all’agire educativo, o, almeno, aiutare a prospettare nuovi scenari, in grado di ridimensionare i dinamismi disumananti che segnano l’attualità. Il dialogo è tra i più letti3; il procedimento che qui si intenta è atipico, ma non privo di giustificazione: abbracciare l’elemento corporeo per illuminare lo spirituale4. All’elemento corporeo ricorre Platone per far entrare la mimesis in un dialogo che verte sulla questione filosofica del rapporto tra espressione (e comprensione) umana e la realtà delle cose5. 3 «Il n’est pas un dialogue de Platon qui ait suscité chez les modernes plus de discussions que le Cratyle. Dans ses analyses parues entre 1891 et 1901, H. Kirchner passait en revue trente-deux études consacrées à cet ouvrage, et depuis lors ce nombre a continué de s’accroître» (L. Méridier, Notice, in Platon, Cratyle, in Idem, Œuvres complètes, tome V, 2e partie, Paris, Les Belles Lettres, 1950, p. 7). E questa attenzione per il Cratilo non è mai venuta meno negli anni. 4 A questa modalità di abbraccio ci esorta Stenzel al fine di stringere la teoria pedagogica platonica in altri luoghi della sua produzione (cfr. J. Stenzel, Platone Educatore, Bari, Laterza, 1966, p. 136). 5 Per le citazioni platoniche si è scelto di operare nel seguente modo: limitare il nostro intervento di traduzione ai passaggi essenziali per l’ermeneusi, e in particolare ai termini composti sulla radice greca mim, e utilizzare negli altri luoghi la traduzione di Francesco Aronadio. Si sceglie di tradurre il verbo greco mimšomai con ‘fare la mimesis di’ anziché ‘imitare’ (scelta più affermata, che segue la tradizione della traduzione latina di m…mesij con imitatio, e del verbo corrispondente con imitari). Questa scelta è motivata dal fatto che m…mesij non può, se non in rari casi, essere tradotto con imitazione senza ingenerare gravi incomprensioni e veri e propri fraintendimenti. Il vocabolo greco m…mesij si utilizzerà nel testo senza tradurlo: operando la sola traslitte- 8 Sulla natura mimesica del discorso 1. Generiamo il mimema al fine di mostrare SOCRATE [...] Rispondimi a questo: se non avessimo voce né lingua, ma volessimo mostrare [dhloàn] l’un l’altro le cose, non cercheremmo forse di significare [shma…nein], come ora i muti, con le mani e la testa e il resto del corpo? ERMOGENE E in effetti come altrimenti, Socrate? SOCRATE Se, almeno credo, volessimo mostrare [dhloàn] ciò che è in alto e leggero, alzeremmo verso il cielo la mano, facendo la mimesis della natura stessa della cosa [mimoÚmenoi aÙt¾n t¾n fÚsin toà pr£gmatoj]; se, invece, le cose che sono in basso e pesanti, verso la terra. E se volessimo mostrare [dhloàn] un cavallo che corre o un qualche altro animale, sai che renderemmo i nostri corpi e le nostre movenze quanto più simili a quelli loro6. razione priva di accento, analogamente si opererà per m…mhma (per una chiara precisazione sulla distinzione di significato tra i due sostantivi cfr. F. Aronadio, Introduzione, in Platone, Cratilo, Bari, Laterza, 2008, pp. XXXVIII-XXXIX); e si utilizzerà, inoltre, ‘mimesico/a’ in luogo del più usato ‘imitativo/a’ e del più immediato ‘mimetico/a’, al fine di valorizzare la relazione dell’aggettivo con il sostantivo, e di evitare le possibili precomprensioni fuorvianti che potrebbero gravare sia su ‘imitativo/a’ sia su ‘mimetico/a’. Si è scelto di operare analogamente con gli altri vocaboli che appartengono alla stessa famiglia. Nella modernità e nella contemporaneità i due più articolati studi filologici in cui si ritrova seriamente e radicalmente confutata l’equivalenza di m…mesij con ‘imitazione’ (Nachahmung, imitation) sono quelli di H. Koller, Die mimesis in der antike. Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, Berna, Francke, 1954; e di S. Halliwell, The aesthetics of mimesis. Ancient texts and modern problems, Princeton, Princeton University Press, 2002 (in precedenza citato nella traduzione italiana); i due studi producono la loro confutazione con percorsi di ricerca e di analisi assai distinti. Sull’ampliamento del significato di m…mesij oltre quello canonico di imitazione vedi anche G. Gebauer, C. Wulf, Mímesis. Kultur, Kunst, Gesellschaft, Reinbeck, Rowohlt, 1992. I luoghi dove intervengo con la mia traduzione sono segnalati in corsivo e affiancati dal testo greco a cui si riferiscono. 6 Si confronti il presente passaggio con Repubblica, 393c in cui Platone definisce cos’è fare la mimesis: «Ora, il rendere sé simile a un altro, per quel che concerne sia (o) la voce sia (o) il gesto, non è far la mimesis di quello a cui ci si rende simili? [OÙkoàn tÒ ge Ðmoioàn ˜autÕn ¥llJ À kat¦ fwn¾n À kat¦ scÁma mime‹sqa… ™stin ™ke‹non ú ¥n tij Ðmoio‹;]» (traduzione mia). 9 Gilberto Scaramuzzo ERMOGENE Mi SOCRATE Così sembra che sia necessariamente come dici. infatti, credo, ci sarebbe atto ostensivo di qualcosa [d»lwm£]: quando il corpo, com’è verosimile, fa la mimesis di [mimhsamšnou] quella cosa che vuole mostrare [dhlîsai]. ERMOGENE Sì. SOCRATE Ma poiché vogliamo mostrare [dhloàn] con la voce e con la lingua e con la bocca, ciò che viene da queste non darà luogo forse ad un atto ostensivo [d»lwma] di ciascuna cosa allorché per mezzo di queste sia mimema [m…mhma] di qualche cosa? ERMOGENE Necessariamente, mi sembra. SOCRATE Allora il nome è, com’è verosimile, mimema [m…mhma] con la voce di quello di cui si fa la mimesis [mime‹tai]; e colui che con la voce fa la mimesis [mimoÚmenoj] nomina ciò di cui fa la mimesis [mimÁtai] 7 ERMOGENE Mi sembra . Socrate/Platone connette qui intimamente la mimesis al comunicare umano. Egli inizia con questa pagina la rivelazione di una semplice realtà che andrà progressivamente a ispessirsi di problematicità: quando vogliamo esprimere qualcosa a qualcuno, sia che utilizziamo il solo corpo sia che utilizziamo la voce, noi dobbiamo fare la mimesis di quel che vogliamo rendere manifesto. L’uomo, dunque, non manifesta mai direttamente quel che vuole dire ma esprime quel che vuole dire attraverso il mimema di quel che vuole dire, e questa comunicazione è efficace nella misura in cui il soggetto che la produce realizza la mimesis della natura dell’oggetto che vuole comunicare. Il nome è dunque mimema della cosa, e il parlare con i vocaboli è far la mimesis con la voce anziché con il corpo di quello di cui si fa la mimesis. E immediatamente dopo Socrate – come vedremo – specifica meglio di cosa deve essere mimesis il nome. 7 10 Platone, Cratilo, 422e-423b. Sulla natura mimesica del discorso La mimesis è dunque il perno intorno a cui ruota tutta la comunicazione umana, sia essa verbale o non verbale. Semplice e bella la sintesi platonica e la reductio a un unico atto per descrivere le molteplici forme che può assumere l’espressione umana finalizzata a manifestare agli altri le cose. Seppure la mimesis ci appaia in questa luce quale cuore del parlare e del comprendere umano, essa stenta nell’attualità a trovare un ruolo di primo piano nella riflessione preoccupata dell’educabilità umana; un ruolo almeno paragonabile a quello che, a tutt’oggi, la mimesis occupa nella riflessione estetica. E muovendo da questa sensibilità, non è difficile individuare in questa pagina elementi di grande rilevanza sia per la prassi sia per la riflessione educativa. 2. Il corpo sa farsi mimesis della natura del pr©gma che si vuole mostrare Attraverso l’intuizione modernissima di interrelare la dimensione non verbale della comunicazione con la dimensione verbale, Socrate mette ben in evidenza due aspetti: - attraverso il proprio corpo e senza l’uso dei vocaboli è possibile mostrare [dhloàn] e significare [shma…nein] le cose; - è una mimesis della natura [fÚsin] della cosa, il movimento che l’uomo attua per generare un appropriato gestire corporeo finalizzato al comunicare efficacemente agli altri. Socrate ricorre al corpo, e in particolare alla mimesis corporea, per lo svelamento della natura mimesica del linguaggio verbale. E seppure il comunicare con 11 Gilberto Scaramuzzo il corpo è qui utilizzato da Socrate per sviluppare l’argomento che a lui interessa – la natura dei nomi e del nominare –, il passaggio descrive una morfologia della comunicazione che ha una sua realtà autonoma. Il parlare con il corpo, infatti, appare come una modalità che la comunicazione umana può assumere. Quando Socrate vuole portare la prova che l’uomo se vuol manifestare qualcosa a qualcuno ne fa la mimesis, ci presenta quest’agire sotto forma di mimesis corporea. Questo agire ci appare spontaneo in chiunque non possa fare uso della voce: quasi che il cogliere la natura del pr©gma e il volerla comunicare siano primitivamente mimesis corporea. E, al contempo, questo cogliere la natura del pr©gma e il farne una metafora corporea descrive l’agire che realizza la mimesis. La capacità mimesica umana ci si presenta, dunque, come capacità di “antropomorfizzare” la natura di qualunque pr©gma (di qualunque cosa), e questa capacità sembra manifestarsi immediatamente, primitivamente, attraverso il corpo8. Ma non si tratta di umanizzare quel che non è umano, cioè non si tratta di ridurre l’oggetto della mimesis alla dimensione umana, quanto piuttosto di offrirsi – in quanto uomini – come materia plasmabile in quella forma, che per certi versi è creata e per altri è patita dal soggetto, in quanto essa – la forma – è dettata 8 Quando nella Repubblica Platone riflette con altro respiro sulla mimesis ne enfatizza la problematicità paideutica; lì questa “antropomorfizzazione”, che l’uomo opera realizzando in sé l’altro da sé (ma anche patendo questa stessa realizzazione), si scoprirà avere un potere formante (cioè si scoprirà essere per l’uomo paideia – ma non sempre buona paideia, anzi…) che va ben oltre la contingenza espressiva. Le riflessioni che nella Repubblica arriveranno ad una sintesi dichiaratamente paideutica, già nel Cratilo hanno però forza tale da inquietare tanta parte dell’attuale prassi educativa, anche se questa sembra procedere profondamente incurante del misterioso dinamismo umano. 12 Sulla natura mimesica del discorso dalla natura della cosa: la mimesis che viene a realizzarsi nel soggetto, sembra essere una sintesi superiore al soggetto, in quanto è oltre – nel senso del tedesco über – il soggetto stesso che la realizza. La mimesis, così come qui ce la descrive Socrate/Platone, è infatti quella capacità che consente all’uomo di ricreare una qualsiasi realtà attraverso un processo di trasfigurazione in una forma umana che si assume in proprio. La mimesis segnala un poter crearsi a immagine e somiglianza di un qualunque pr©gma, anche molto diverso – almeno per quel che si può apprezzare esteriormente – da sé. La mímesis sembra allora implicare una misteriosa intimità tra il soggetto che la fa e il pr©gma di cui si fa la mimesis: un misterioso cogliere nel pr©gma delle qualità intrinseche – la natura – e un misterioso ricrearsi in analogia con quelle qualità che costituiscono appunto la natura del pr©gma stesso, e che misteriosamente quasi si impongono al soggetto. Qualità che, misteriosamente create e patite dal soggetto, sembrano assumere una valenza oggettiva, tale da consentire, a chi osserva il mimante, di riconoscere in ciascun mimema manifestato proprio quell’ente di cui il mimante sta effettivamente facendo la mimesis, quand’anche esso – il pr©gma di cui si fa la mimesis –, esteriormente, sia davvero molto diverso dal soggetto che ne fa la mimesis: così come lo è “un cavallo che corre o un qualche altro animale” (ma anche “ciò che è in alto e leggero…”) rispetto all’uomo. Dalla lettura della pagina del Cratilo sembra legittimo porre a noi pedagogisti alcune semplici domande che specificano quanto già in precedenza era oggetto di perplessità: quanta attenzione si pone alla mimesis corporea nella prassi educativa? E – nuovamente – quanto 13 Gilberto Scaramuzzo la riflessione su questa prassi l’ha posta al centro della ricerca e del dibattito scientifico?9 Quanto rinveniamo nella pagina platonica può far intravedere nuovi scenari per la ricerca pedagogica e può, in qualche misura, indirizzarne la sperimentazione? 3. Il mimema, se vuole mostrare la verità delle cose, deve essere mimesis dell’oÙs…a, le arti mimesiche non giungono a tanto Ci sarà per noi la manifestazione dell’oggetto, di qualunque oggetto – sembra sostenere Socrate –, soltanto quando realizziamo la mimesis della natura di quel determinato oggetto. Ma immediatamente dopo aver affermato questo – attraverso le parole di Socrate – Platone passa ad analizzare le criticità connesse con la mimesis10. Egli ci mostra, nello sforzo di indagare per rinvenire l’origine dei nomi (o, forse, meglio, per rinvenire il movimento necessario alla generazione del nome affinché attraverso di esso – il nome – si mostri veramente l’ente), una morfologia essenziale della mimesis. Afferma – attraverso Socrate – che questa produzione umana – la mimesis – può assumere due forme: in una l’uomo guarda all’essenza (oÙs…a) come il quid su cui esercitare la mimesis; nell’altra l’uomo non ha l’essen9 Forse si potrebbero rinvenire nei dinamismi mimesici che caratterizzano l’espressione corporea umana risposte adeguate ai ‘perché’ dell’efficacia di certe metodologie didattiche e del fallimento di altre. ‘Perché’ che trovano nell’oggi risposte puramente empiriche o giustificazioni che non raggiungono la radicalità del principio. 10 Criticità che saranno poi ampliamente e drammaticamente sviscerate nella Repubblica, ma che già si mostrano qui con luce intensa. 14 Sulla natura mimesica del discorso za come paradigma, ma si preoccupa di far la mimesis di possessi non essenziali del pr©gma (voce, figura, colore), rinunciando però, anche per essi, ad uno sguardo che ne intenda l’essenza. La prima mimesis sarà quella che avrà forza di generare i nomi, la seconda opere musicali o pittoriche. Platone riconosce soltanto all’arte di dare i nomi la possibilità di concretare la prima forma che può assumere la mimesis – quella, cioè, che ha per modello l’essenza –; le produzioni degli altri linguaggi artistici, infatti, sarebbero sempre forme del secondo tipo – mimesis di qualcosa che non è essenziale. E ascrive soltanto a questa prima mimesis (qualora si realizzi) – e non a quella delle altre arti – il potere di mostrare per ciascuna cosa ciò che è11. Socrate ha qui abbandonato la mimesis corporea per la sua riflessione, procede senz’altro utilizzando il mimema/nome e lo distingue dai mimemi delle altre arti. Ma anche se uscito di scena, il prodotto della mimesis corporea rimane capace di fare un movimento che non è esplicitamente riconosciuto ai mimemi prodotti dalla musica e dall’arte pittorica: quello di essere mimesis della natura del pr©gma. Il principio generale che la mimesis può essere o dell’essenza o di possessi non essenziali del pr©gma può essere chiave per leggere tanto i fallimenti quanto i successi delle prassi educative che concernono l’insegnare. Seppure la nostra ricerca intenda mantenersi fo11 Cfr. Platone, Cratilo, 423c-424a. Il che non vuol dire affatto che le arti mimesiche si limitino ad essere puro rispecchiamento delle cose, come chiaramente argomenta Halliwell, sia attraverso queste pagine del Cratilo sia attraverso l’ermeneusi di alcune pagine del libro X della Repubblica. Per le argomentazioni relative al Cratilo cfr. Idem, L’estetica della mimesis, cit., pp. 47-49. 15 Gilberto Scaramuzzo calizzata su mimesis, giova alla nostra riflessione recuperare qualcosa presente nelle pagine del dialogo che precedono l’utilizzo di questo concetto. 4. Il nome è uno strumento atto ad insegnare A 388a Socrate chiarisce che il nome è uno strumento così come lo sono il trapano e la spola. E conclude che «il nome è uno strumento (Ôrganon) atto a insegnare qualcosa (didaskalikÒn) e a distinguere (diacriticÕn) l’essenza, così come la spola il tessuto»12. E poiché, come abbiamo abbondantemente verificato, il nome si ritroverà più avanti a essere riconosciuto come un mimema, esso è dunque uno strumento atto a insegnare – e questo sempre e comunque, sia nel bene sia nel male, come sarà con altro respiro sostenuto da Platone nella Repubblica – e a farci discernere l’essenza – qualora si realizzi con il nome la mimesis dell’essenza. Si torna così a ribadire, attraverso quel particolare mimema che è il nome, che una certa qualità nel fare la mimesis è cruciale per la paideia – come altrimenti considerare quel che produce qualcosa che è atto a insegnare e a farci distinguere l’essenza?13 «Il tessitore dunque si servirà bene della spola, e bene vuol dire da tessitore; e chi è atto ad insegnare si servirà bene del nome, e bene vuol dire in modo da insegnare»14. 12 388b-c. Si potrebbe qui aprire una proficua riflessione che interessa numerosi settori dell’educativo sull’importanza da attribuire alla scelta dei vocaboli e al rapporto che si deve instaurare con essi qualora si voglia veramente insegnare e far discernere l’essenza. 14 388c. 13 16 Sulla natura mimesica del discorso Mi sembra una sintesi di rara eleganza per stringere quel che dovrebbe caratterizzare l’operato di ogni vero insegnante (ma anche educatore o formatore). L’insegnamento (didaskalikÒn) non coincide con l’arte di dare i nomi (così come il tessere non è l’arte di costruire le spole), ma l’insegnante è colui che è esperto nell’uso, cioè colui che sa usare i nomi nel modo bello. Platone non indugia sulla descrizione dell’agire dell’insegnante perché il suo interesse è qui rivolto a colui che assegna i nomi, e non a chi se ne serve per il loro uso proprio. Non è però difficile trarne elementi utili alla riflessione sull’educativo: sviluppando quanto ci sembra implicito nelle affermazioni platoniche e senza volerle oltremodo forzare. Se l’insegnante, quando sceglie i mimemi con i quali insegna, non è rivolto all’essenza che vuole significare; se esprime con le sue parole e con i suoi gesti soltanto aspetti non essenziali del qualcosa che intende comunicare; gli studenti a lui affidati riceveranno un nutrimento non bello: assorbiranno la mimesis dell’inessenziale prodotta dall’insegnante; con il risultato di essere male-in-segnati da un cattivo in-segnante. Se invece l’insegnante è vero insegnante saprà utilizzare bene i mimemi e questo sembra necessariamente chiamare in causa la capacità di discernere l’essenza che si vuole comunicare così da scegliere il mimema che ne è la vera mimesis. Si può così immaginare che insegnare veramente richieda una presenza di contatto con (un vivere intensamente) il vero che si vuole significare. Soltanto così si potrà sperare che quello stesso discernimento, amore, incontro vivo con qualcosa di vero possa accendersi nello studente che assiste alla lezione. 17 Gilberto Scaramuzzo Il nome è un mimema della cosa (pr©gma): questo può essere corretto e vero, non corretto e falso. È corretto e vero quel mimema che conviene a ciascuna cosa e ne riproduce la somiglianza15. Se per i mimemi prodotti dalla arti mimesiche si può parlare soltanto di attribuzione corretta (o non corretta), per i nomi possiamo parlare di attribuzione vera oltre che corretta16. Ma le immagini (e„kÒnej) che un uomo può generare non saranno mai perfetta riproduzione dell’oggetto di cui sono immagine17. Sin qui la mimesis supporta Socrate nella sua riflessione. Quando, nel finale dell’opera, Platone rivela, attraverso le parole di Socrate, l’esserci di una modalità per apprendere (maqe‹n) le cose che si può realizzare senza l’apporto dei nomi, fino a giungere ad affermare che «esse stesse da loro stesse», più che da una qualunque loro immagine, le cose sono da imparare e da ricercare (se si ha per fine la verità)18, nulla sembra togliere al corretto utilizzo didascalico della parola, ma, piuttosto, nel mostrarne la misura, intensifica la ricerca filosofica e didattica di ogni bravo insegnante. 15 Poiché non si dà mai uguaglianza: «altro è il nome – afferma Socrate – altro ciò di cui è nome» (430a). 16 Cfr. 430a-431c. 17 Cfr. 432b-d. 18 Cfr. 438e sgg. 18 Sulla natura mimesica del discorso 5. Conclusione Se riconosciamo come dinamismi disumananti tutti quelli che allontanano il singolo e l’umanità da un vivere bello, buono e giusto e, quindi, da una felicità che è per il singolo e per la convivenza; e come umananti quelli di segno opposto; l’attualità ci si presenta sotto una luce piuttosto fosca. E non tanto, a mio parere, per l’abbondanza dei primi (l’umanità ha una storia di atrocità che possiamo riconoscere più gravi di quelle pur gravi che vediamo nell’oggi), quanto per la grave assenza dei secondi. Si è autorevolmente affermato che interrogarsi sul rapportarsi del lÒgoj all’e¯nai è filosofare, e che è in questo interrogarsi che deve misurarsi la riflessione sull’educativo per svolgere il compito che le è proprio: curare la parola nell’uomo19. Forse proprio ciò, qui, abbiamo fatto: indagando in un luogo principe. Se il girarsi con tutta l’anima (logistikÒn e ¢lÒgiston) verso l’Essere/Bene e vederlo, come poteva fare Platone, chiede un’ingenuità che più non abbiamo, non è perciò stesso precluso profittare del suo scandaglio per approfondire e sperimentare dinamismi umani che non richiedono accettazioni a priori di densità ontologiche, ma che neppure, però, ne escludono l’impatto esistenziale. Abbiamo verificato quanto il concetto di mimesis, per Platone, sia centrale e problematico per il parlare umano; e come da un’intensificazione della riflessione su di esso si aprano molteplici prospettive per la rifles- 19 Cfr. Mattei, F., Sfibrata Paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’Educazione, Roma, Anicia, 2009. 19 Gilberto Scaramuzzo sione sulla prassi educativa, e forse, quel che più conta, per la prassi stessa20. Paradossale a questo punto dello sviluppo del lÒgoj proporre di investigare e di sperimentare (non certo senza di esso) la mimesis? E spingersi al segno di rivalutare la mimesis fatta con il corpo, avendo come fine dichiarato quello di alimentare il parlare umano? Sì, una proposta paradossale. Ma certo necessaria se ci ritrovassimo muti e volessimo manifestare. Allora forse, umilmente, non ci resterebbe che indagare seriamente questa possibilità. Riferimenti bibliografici Gebauer, G., - Wulf, C., Mímesis. Kultur, Kunst, Gesellschaft, Reinbeck, Rowohlt, 1992. Halliwell, S., The aesthetics of mimesis. Ancient texts and modern problems, Princeton University Press, Princeton, 2002 (trad. it. Idem, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Palermo, Aesthetica, 2009). Koller, H., Die mimesis in der antike. Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, Berna, Francke, 1954. Mattei, F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Roma, Anicia, 2009. Méridier, L., Notice, in Platon, Cratyle, in Idem, Œuvres complètes, tome V, 2e partie, Paris, Les Belles Lettres, 1950. Platone, Cratilo, trad. e introd. di F. Aronadio, Bari, Laterza, 2008. Stenzel, J., Platone educatore, Bari, Laterza, 1966. Taylor, A. E., Platone. L’uomo e l’opera, Firenze, La Nuova Italia, 1987. Wulf, C., Mimesis. L’arte e i suoi modelli, trad. it. a cura di Paolo Costa, Milano, Mimesis, 1995. 20 In questo senso è netta la posizione di Wulf: «Secondo la sua concezione [quella di Platone] la mímesis è una conditio humana, che comporta la possibilità dell’educazione e con l’aiuto della quale l’educazione ha luogo» (C. Wulf, Mimesis. L’arte e i suoi modelli, trad. it. a cura di Paolo Costa, Milano, Mimesis, 1995, p. 23). 20 Adamo magister. Il canone educativo del Cursus Conimbricensis Cristiano Casalini Dipartimento A.L.E.F. Università di Parma Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma [email protected] Cordi, non chartae, credas, quae noveris arte, Quod si charta cadat, sapientia secum vadat. Il canone occidentale non coincide col Testo, o col corpus di testi, che una sterminata letteratura offre oggi assieme alla sua Wirkungsgeschichte. Né l’incarnazione storica di un logos, né la fenomenologia del suo sviluppo esauriscono la forma attuale dello spirito europeo. Il canone occidentale è anche, forse innanzitutto, procedura della sua trasmissione, che storicamente tende a fissarsi nella forma di canone educativo. Dunque, l’educazione. Dunque, i dispositivi didattici, le tecniche, l’organizzazione di questa tradizione. Questo corpus educativo è altrettanto produttivo del canone quanto il Testo della procedura della sua trasmissione. In taluni casi, questo fenomeno è più evidente. Ed accade storicamente quando la consunzione del paradigma dominante apre uno spazio inusitato entro il quale scatti improvvisi, puntate verso il nuovo, ritirate difensive o meticciamenti prudenziali offuscano il senso di una direzionalità storica, mescolandosi e rendendo tutto legittimo e possibile. O viceversa, rendendo tutto eretico e scomunicabile. Sono i tempi dell’aperEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 21-42. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Cristiano Casalini tura e del conflitto, i tempi che una storiografia debole non riesce a definire se non ricorrendo alla categoria della cucitura, della cerniera, del passaggio, della transizione. Come se non avessero consistenza autonoma, come se l’anarchia o il troppo rumore del dibattito fossero, anziché salute, un disturbo sintomatico, una malattia dello spirito. In tali frangenti, può accadere che la struttura dell’educare sopravanzi il testo, e la prassi appaia in se stessa come fine, producendo di conseguenza una legittimazione teorica e una costruzione ideologica che ne giustifica il perpetuarsi. Considerare questo genere di produzione letteratura secondaria o minore, oppure confinarla nelle paludi ermeneutiche dell’improduttivo o del banalmente riproduttivo, è un errore – di nuovo – metodologico, su cui già Foucault ha espresso il proprio giudizio. Qualsiasi valore la contemporaneità attribuisca alla sua qualità letteraria, qualsiasi collocazione morale questa produzione riceva nel panorama costitutivo di ciò che oggi riteniamo «il canone occidentale», essa è – a vario grado – produttiva e sintomatica di un tempo e, soprattutto, rappresenta una delle due ganasce della tenaglia educativa (l’altra è l’organizzazione didattica) che forma, o contro cui si forma, il pensiero della generazione successiva, il nuovo paradigma. Il Cursus Conimbricensis appare in questa prospettiva come un segnavia esemplare. È il commento a stampa in otto volumi di quasi tutte le opere di Aristotele, apparentemente fondato sulla tradizionale struttura del commentario medievale, edito dal Collegio gesuita di Arti a Coimbra tra il 1592 e il 1606. Testo, explanatio e quaestiones vi si alternano copiosamente con moto non sempre regolare, dando vita ad un cor22 Adamo magister pus in cui molte delle ferite aperte di un secolo teologico-filosofico sanguinoso vengono medicate col balsamo di un periodare anodino e orgogliosamente scolastico. Dal punto di vista delle dottrina e della fortuna, questo Cursus – come altri del suo genere – non ha ottenuto il riconoscimento storico che ha invece arriso ad opere del suo tempo, da Bruno, a Bacone, a Cartesio, finite nei manuali di filosofia e nel canone come (non a caso) punti di svolta nella storia del pensiero occidentale. Dovremo perciò abbandonarla all’interesse di una micragnosa storia antiquaria?1 1. La procedura che origina il Cursus è educativa, e attiene all’organizzazione scolastica che i primi gesuiti diedero ai loro collegi di Arti, nel quadro della varietà e libertà di una sperimentazione didattica che precede e, in qualche misura, determina la codificazione della Ratio Studiorum (1599): quest’ultima non è produttiva di un modo di educare più di quanto non ne sia sintomatica, non esaurendone tuttavia le possibilità. Molti studi hanno ormai illustrato questo processo costruttivo, lungo trent’anni. Il Cursus nasce come progetto già nel 1561, in virtù di una visita di Nadal alla Provincia lusitana, dalla quale il visitatore trasse un’ottima impressione della potenza culturale dei maestri del Collegio di Coimbra, allora da pochissimo in mano alla Compagnia. Erano gli anni in cui a Coimbra insegnavano Clavio, Cypriano Soares, Manuel Álvares, Pedro Fonseca: nomi che avrebbero segnato un’epoca. Nadal scrisse al provinciale portoghese che, così come Soares aveva realizzato un mirabile manuale di Retori1 Domanda retorica, certo, che tuttavia non vuole indurre al vizio tipico proprio della storia antiquaria, che vede valore ovunque e retrodata ai predecessori l’intero pensiero dei grandi. 23 Cristiano Casalini ca, che poteva con gran giovamento degli studenti essere adottato in tutti i collegi della Compagnia, così i conimbricensi avrebbero dovuto impegnarsi a stendere un intero corso filosofico che ambisse a eguale diffusione. Il Cursus rappresentò il frutto più maturo di una procedura educativa ben precisa, legata alla tradizione universitaria e medievale, e passata in storiografia con un nome: il modus parisiensis. Alcuni studi hanno già dimostrato il debito della cultura educativa gesuita nei confronti della prassi didattica parigina, ma quasi sempre si sono limitati a studiarne l’influenza sulle strutture, sulle pratiche, sulla irreggimentazione della vita di collegio e sulle questioni disciplinari che accompagnano le regole della Ratio studiorum. Non ci si è invece concentrati sul fatto che questo modus abbia anche generato contenuti, prodotto testi, realizzato un corpus dottrinale che ad esso corrispondesse isomorficamente. Altrove ho sostenuto che la prassi didattica del Collegio di Coimbra deriva essenzialmente da un trasferimento in Portogallo della cultura educativa del Collegio parigino di Santa Barbara, per mezzo dello spostamento del principale di quel Collegio, André de Gouveia, prima a Bordeaux, poi a Coimbra. André non era gesuita, ma il suo modo di reggere il collegio lasciò una traccia indelebile che i gesuiti, una volta sostituito il Gouveia nella gestione del Collegio, non modificarono. 2. Occorre risalire ad una pratica antica del legere parigino, per scoprire l’origine del corso conimbricense. Uno statuto del 1355 interveniva infatti per vietare la lettura de verbo ad verbum, a cui ricorrevano i maestri che non si curavano già più della predisposizione personale della lezione. In tal modo, l’aula (si pensi al24 Adamo magister le affollate strutture della Rue du Fouarre, dismesse solo nel XVI secolo) risuonava della voce del maestro, ieraticamente intento alla dettatura tractim di un testo che non era né dell’Autore da commentare né redatto di proprio pugno. Il corpo studentesco, chino sulla charta per tenere bene a mente l’umiltà del discere, aveva ben presto anche compreso l’efficacia dell’ufficio della delega, e molto spesso infatti delegava umili scrivani a mercede onde evitarsi la noia del sedere a terra e udire la litania magistrale del tractim. Ma il collegio dei maestri di Arti intervenne per autoregolarsi, e nel 1355 stabilì che le parole del maestro dovessero correre raptim dalla sua bocca, prevedendo sanzioni funeste per coloro che non vi si fossero adeguati. Tentatis duobus modis legendi libros Artium liberalium, primis quidem Philosophiae Magistris in Cathedra raptim proferentibus verba sua, ut ea mens Auditoris valeret capere, manus vero non sufficeret exarare. Posterioribus autem tractim nominantibus, donec Auditores cum penna possent scribere coram eis. Diligenti examine his invicem collatis, prior modus melior reperitur, propter quod communis animi conceptio nos admonet ut ipsum in nostris lectionibus imitemur2. Qui, nella funzione didattica, il cuore pulsante del modus parisiensis. Il maestro ha il dovere di costruire il proprio corso, e l’obbligo di farlo avendo bene a mente l’orecchio e lo spirito del discente. Maxima debetur puero reverentia: i maestri parigini fecero del detto di Quintiliano la cornice del sapere, consistente per loro in null’altro che una efficace trasmissione (transfusio, per dirla con Tommaso d’Aquino). La costante attenzione per la struttura dell’insegnamento se2 C. E. Du Boulay, Historia Universitatis Parisiensis, t. IV, Parigi, 1670, p. 332. 25 Cristiano Casalini gna la storia degli statuti dell’università principale d’Europa: il sapere deve imprimersi nelle funzioni cognitive dell’anima, aristotelicamente concepite come tabulae, il cui atto creativo succede – raramente, precede – l’impressione del contenuto. Per attribuire all’inventio infatti una primazia rispetto alla passività di una comunicazione riuscita, occorrerà attendere i maestri umanisti, sulla scia di quel platonismo mediceo che contagerà la Francia di Francesco I e, ancora più in là, quegli oxoniensi che furono precipitosamente antibruniani. La funzione didattica, invece, organizza il modo del docere in direzione del discente. Di qui il raggiungimento della forma classica del modus parisiensis, con l’invenzione delle decurie di livello (nei collegi cinquecenteschi trasformate in «classi»), con il perfezionamento di un sistema di esami di profitto, fino ad allora relegati al momento simbolico dell’ottenimento dei gradi (con tutti i corollari goliardici dell’universitas delle origini), con la regolazione temporale della giornata di studio: lectio, disputa, repetitio. Un tale modus esigeva il coinvolgimento del maestro nella funzione didattica, e il suo impegno nei confronti della formazione dello studente. È questo il nodo centrale che porta gli Artisti a condannare l’esercizio ritmico e meccanico della dettatura. La complicazione del trascrivere in velocità non dovette scoraggiare né l’uso della dettatura, né il mercato degli amanuensi lungo tutto il Cinquecento3; a 3 La riforma del Cardinal d’Estouteville, di un secolo più tarda, solo apparentemente modificò i termini della questione. Certo, la concessione della possibilità di dettare la lezione evidenzia l’inefficacia del decreto precedente, ma tale concessione non può essere relegata al rango delle banali prese d’atto. Il decreto, infatti, recita: «Prefatis Regentibus [in Artium Facultate] inhibemus, ne legant de verbo ad ver- 26 Adamo magister farne le spese, proprio il frutto educativo di quel modus parisiensis che tuttavia continuò a fungere da paradigma per la gestione dei migliori collegi in Europa. Il gesuita Antonio Possevino, considerando il danno della dettatura e, viceversa, l’energia nascosta della parola viva (Habet nescio quid latentis energiae vivae vocis actus, & in aures discipuli de authoris ore transfusa fortius sonat, diceva San Girolamo), additava ancora la nominatio ad pennam come un corpo estraneo a quel modus, e un male da evitare nella coltura degl’ingegni: ciò che doveva essere corso di studio, diviene zoppicamento di vita, e gittamento di tempo, molesti’altrui, e perdita di danari, e disaiuto delle anime. Segue anco, che a’ Maestri, e a’ Lettori si toglie l’occasione di trattare delle materie accuratamente, laonde qual’è il fonte, tale conviene poi l’acqua che ne deriva4. bum in quaestionibus alienis, sed intendant labori & studio taliter quod per seispsos sciant & valeant lectionem facere, & discipulis tradere sufficientem, sive legant ad pennam sive non, nonobstante antiquo Statuto de non legendo ad pennam, super quo dispensamus; dummodo ita suas componant lectiones, quod ex eorum scientia & labore per exquisitionem librorum procedere videantur» [C.E. Du Boulay, Historia Universitatis Parisiensis, t. V, Parigi, 1670, p. 572]. Come si può vedere, il Cardinale d’Estouteville si disinteressa della pratica della dettatura, ma non transige sull’obbligo del docente di preparare un proprio corso. 4 A. Possevino, Coltura degl’ingegni, a cura di C. Casalini e L. Salvarani, Anicia, Roma 2008, p. 168. Altri (più noti) maestri esprimevano tuttavia un parere differente dal Possevino: «Qué pensar del dictado, como método pedagógico? Vitoria lo defendía, según hemos visto. Suárez también abogó por él, no tanto de discípulo, cuanto de maestro. No así el P. Mariana ni Domingo de Soto. Maldonado no lo reprobaba en absoluto, pero veía sus inconvenientes, pues además de neutralizarse con él la misteriosa virtualidad de la palabra hablada […]» [R. G. Villoslada, La universidad de Paris durante los estudios de Francisco de Vitoria, Analecta Gregoriana, Roma, 1938, p. 317]. 27 Cristiano Casalini La polemica del Possevino era una difesa della frequenza, e la didattica a distanza – per lui – non funzionava. Era cioè una difesa del cuore didattico del modello parigino, che coincideva con l’esercizio sul testo e che, nei fatti, trasformava la parola dell’Auctor in un pretesto per allenare le arti (molto) pratiche della dialettica e della retorica: di più molti si rallentano non solo dallo studio de’ migliori interpreti, e (quel che più importa) dalla consideratione del testo, ma al fine lasciate le scuole, basta loro mandare uno che copi le lettioni, le quali anco, o non veggono mai, o se pur danno un’occhiata, restano senza il frutto delle ripetitioni, delle dispute, delle conferenze; e in somma giace il seme nel granaio sopra la superficie del terreno, il quale non essendo né arato, né dapoi coperto, quale ricolta potrà sperarsene?5 L’immagine dell’università di un’istituzione imbrigliata nelle sofisticherie dialettiche e capzioserie logiche abbondantemente promossa dagli umanisti (uomini di corte, non di aula), ha offuscato nella storiografia successiva la capacità di tenere ben presente il fine educativo dell’esercizio della disputa: la costruzione di un sapere pratico, spendibile nella «scuola del mondo», dove parola e persuasione erano (sono) armi e strumenti adattabili alle più diverse situazioni del vivere sociale e professionale. Tutt’altro che astratto, un programmato e costante esercizio pubblico del disputare forma lo studente al possesso plastico della capacità di convincere e vincere nella competizione delle piazze, dei mercati, delle corti. In qualche modo, Possevino coglie l’essenza dell’organizzazione collegiale nella strutturazione delle arti liberali come practical wisdom, una forma di sapere che si rafforza nel contrasto 5 28 Ibidem. Adamo magister con l’umanesimo assorbendolo e torcendolo in direzione della prassi6. A questo fine, la disputa – centro dell’educare medievale – anziché essere dismessa viene riaffermata nella sua valenza educativa. Questa riaffermazione, tuttavia, non è priva di conseguenze dal punto di vista dottrinale, dato che la trasformazione dell’esercizio in fine ne produce una formalizzazione in cui tutti i contenuti possono essere a piacimento ammessi o declinati: si produce necessariamente uno spazio di libertà ermeneutica a cui il paravento delle Costituzioni ignaziane (che vincolavano la Compagnia alla sicura dottrina di Tommaso e Aristotele) non poteva bastare per passare inosservato. L’educazione gesuita, dietro il paravento, doveva dunque ereditare il meglio del modus parisiensis, e – di questo – il tempo della disputa in particolare. La dettatura sottraeva tempo all’esercizio, da cui la necessità di un suo confinamento. L’irruzione della stampa a caratteri mobili aveva prodotto un’accelerazione in questo senso e costituì per i Gesuiti l’occasione di riaffermare la cornice entro la quale andava concepito didatticamente il ruolo del testo: A’ nostri certo, a’ quali qualche continua professione de’ studi ha apportato alcuna notitia di questo fatto, comincia di giorno in giorno più a mostrarsi la necessità di temperamento di tale fatica: e i Portughesi nostri, che sono nelle principali università di Portogallo, sì come Dio loro ha conceduto molta diligenza nelle buone arti e discipline, e in instituir gli Auditori, così hanno con molto merito in gloria di chi somministra ogni vera sapienza fatto grande parte del corso di filoso6 È ciò che indicano Grafton e Yardine in From Humanism to the Humanities. The Institutionalizing of the Liberal Arts in Fifteenthand Sixteenth-century Europe, Harvard University Press, 1987. La torsione della cultura umanistica verso un sapere spendibile nel mondo è, d’altronde, già avvertibile in Juan Luis Vives, che nel suo De tradendis disciplinis dedica un capitolo alla sapientia pratica. 29 Cristiano Casalini fia, et istampato per togliere la fatica dello scrivere; sopra il quale corso però resta agl’ingegni diligenti larga materia per aguzzarsi, e per essercitarsi7. Che il punto di vista di Possevino fosse acuto, come spesso accade nella sua Coltura degl’ingegni, lo testimoniano due documenti che riguardano direttamente i protagonisti della redazione del Cursus. Il primo è di Pedro Fonseca: si tratta di una pagina della prefazione alle sue Institutiones Dialecticae che comparvero nel 1567, dopo che lo stesso era stato incaricato da Nadal di occuparsi in prima persona della redazione di un corso filosofico conimbricense. In questa pagina, Fonseca critica la pratica della dettatura per giustificare la stampa della sua Dialettica: Veramente questo modo di insegnare, sebbene fosse di gran lunga migliore e più utile di quello che si teneva prima, tuttavia, a causa del continuo scrivere, comportava incredibile molestia e difficoltà allo studente (per non dire dei docenti). Infatti il tempo, che avrebbe potuto essere più utilmente impiegato nell’insegnare e disputare, non senza grande incomodo andava perso dettando8. Il secondo documento è più antico, ed è la lettera con cui Nadal richiedeva al provinciale lusitano che i maestri di Coimbra redigessero un Cursus filosofico: «Para se evitar o trabalho de escrever-se tanto como se 7 A. Possevino, Coltura degl’ingegni, cit., p. 170. «Verum haec docendi ratio, etsi longe melior, & utilior, quam illa superior habebatur, tamen ob assiduum scribendi laborem, incredibilem discipulis (ut de praeceptoribus taceam) molestiam, difficultatemque afferebat. Tempus etiam, quod in docendo ac disputando utilius poni potuisset, non sine magno incommodo in dictando consumebatur» [Institutionum Dialecticarum Libri Octo, auctore Petro Afonseca ex Societate Iesu, apud Mathernum Cholinum, Coloniae MDLXVII, Prefatio]. 8 30 Adamo magister escreve, se procure que um curso de escritos se imprima e nisto se ocupe o Padre Afonseca principalmente»9. L’ansia di sfuggire alla perdita di tempo e al dispendio di energie nella fatica dello scrivere meccanico è d’altra parte resa nuovamente esplicita nella dichiarazione di apertura dell’impresa del Cursus, dove ancora Fonseca, nel concedere per conto del Generale Acquaviva l’imprimatur, legittima la funzione dei volumi da pubblicare proprio con l’utilità della razionalizzazione didattica10. 3. La veste che assume il Cursus rivela la sua funzione, e una descrizione della sua struttura aiuta a collocarlo più precisamente nel quadro della produzione letteraria accademica del tempo. La forma del commentario medievale era infatti giunta a consunzione. Poco più avanti, si sarebbe spalancato il secolo del trattato, e l’università ne avrebbe lentamente acquisito l’abito. Centrale, in questo passaggio, è naturalmente il valore veritativo che la comunità dei maestri attribuiva al testo e all’autore, di cui i moderni non potevano che essere glossatori. Una ormai lunga, consolidata, forse sfibrata tradizione scolastica aveva arricchito e come placcato il ramo originario con le smaglianti argomentazioni di Commentatori che, all’altezza del Cinquecento, apparivano passaggi obbligati per il maestro contemporaneo. La galassia del commento gravitava però 9 Monumenta Historica Societatis Iesu, I, p. 600. «Quod iam pridem optabant multi, ut communes Philosophiae commentarij manuscripti, qui in Conimbricensi liberalium artium Academia Societati nostrae commissa quotidiano excipientium labore dictabantur, reconoscerentur, auctique & locupletati mandarentur typis; id ut fieret, aliquot ante annos a Reverendo admodum Patre Nostro Generali Claudio Acquaviva constitutum erat» [Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu in octo libros Physicorum Aristotelis Stagyritae, Coimbra, A. Mariz, 1592]. 10 31 Cristiano Casalini attorno alla presunzione di un isomorfismo tra parola dell’Autore (per come era stata ricevuta, ossia tradotta o attribuita) e realtà: la discussione si apriva piuttosto nell’interpretazione. Tale presunzione fu naturalmente scossa, durante il periodo della prima scolastica, dall’acquisizione del corpus aristotelico (si aprì così la strada all’averroismo), le quali fecero tremare e in parte crollare l’interpretazione “agostiniana” del reale11. Ciononostante, la cristianizzazione di Aristotele, operata nelle forme meno contestate di Alberto e Tommaso, non fece che sostituire un isomorfismo con un altro. È questo ciò che fece di Aristotele il Filosofo, e di Averroè il Commentatore. Sollevato dal problema del testo in quanto tale, il fulcro del commento scolastico divenne così la quaestio, ovvero il problema sollevato dall’ermeneutica del testo, o – per meglio dire – l’interrogazione del reale a partire dal testo dato. È noto come l’umanesimo sia poi intervenuto sulle fondamenta di questa struttura, portando il dubbio sul piano filologico del discorso e minando così l’affidabilità della fonte. In un primo, lungo, tempo, questo dubbio non portò tanto alla dismissione del testo, quanto alla ricerca della «vera» parola dell’autore: del vero Aristotele, del vero Platone, e perfino del vero Averroè. Ne sarebbero seguite operazioni editoriali straordinarie, griffate dai più insigni umanisti o dai più ricchi editori, alla ricerca di una traduzione finalmente affidabile del testo originario. Il Liber de Causis, a lungo attribuito allo Stagirita, miseramente finì tra le scartoffie neoplatoniche di Proclo. La lingua 11 Essa sopravvisse, com’è noto, nella pur fiorente tradizione francescana o nelle mediazioni di quello che Gilson definì “agostinismo avicennizante”. Cfr. É. Gilson, Tommaso contro Agostino, Milano, Medusa, 2009. 32 Adamo magister greca fece la sua comparsa tra gli insegnamenti impartiti nei collegi, anche se occorrerà attendere la metà del XVI secolo per vederla realmente impartita nei corsi pubblici (ovvero aperti a tutti, non curricolari) di alcuni tra i collegi peraltro più à la page, com’è il caso del Collège Royal fondato dal solito Francesco I. A Padova ci si diede ad Alessandro d’Afrodisia e a rinnovare Averroè, grazie alle finanze dei tipografi veneziani. Quanto alle lande germaniche, il problema filologico puntò dritto al problema dei problemi, al Testo paradigmatico, alla fonte del canone occidentale. Ne uscì una Riforma e la lingua tedesca moderna, una nuova Bibbia e la prima campagna di alfabetizzazione di massa. L’onda umanistico-filologica non causò, tuttavia, immediatamente il collasso del meccanismo che reggeva il Commentario come forma-testo paradigmatica. Si sostituirono traduzioni con traduzioni, a volte inventandosi la pratica del testo a fronte, e si continuò a commentare questionando, aprendosi potenzialmente uno spazio nuovo e pressoché illimitato di riscrittura del reale, grazie allo spostamento di una sillaba, o all’inversione di un giro di frase. Il Commentario ne risentì semmai nella sua struttura compositiva: la spiegazione del testo, ciò che un tempo aveva costituito il nucleo della praelectio, vide crescere la propria rilevanza editoriale, e cominciò ad occupare spazi maggiori rispetto alla glossa o alla questione. Tale spazio è quello proprio della explanatio, talvolta explicatio, nella redazione della quale vediamo lentamente spostarsi durante il XVI secolo gli interessi del maestro in direzione della discussione etimologica o sintattica del testo. Di questa spinta umanistica risente il Cursus. Ma, pur presentandosi come opera unitaria, al modo di al33 Cristiano Casalini cuni esempi rinascimentali, la sua struttura varia nei diversi volumi in modo molto significativo. I conimbricensi scelgono, per i loro studenti, di evitare il testo in lingua greca e di affidarsi ad alcune delle traduzioni umanistiche di maggior fama (come quelle dell’Argiropulo). Nelle prime edizioni estere dell’opera verranno operate invece scelte differenti da parte dei tipografi, tra le quali quella di inserire l’originale greco con traduzione a fronte nell’edizione tedesca: segno evidente di una diversa fascia di lettori, certamente più ricca, ma anche già familiare con la lingua greca. Oltre alla scelta della lingua, ciò che colpisce maggiormente è la varietà dello schema utilizzato dai conimbricensi per i loro volumi: le opere principali della filosofia naturale di Aristotele si presentano infatti con textus/explanatio/quaestiones; in altri casi il testo viene omesso; e, infine, opere come l’Etica si presentano come raccolta di un certo numero di questioni, senz’altro supporto di commento al testo originale. L’analisi di questa varietà ci riporta, di nuovo, alla determinazione didattica come origine del Cursus: mentre Fisica e De Coelo occupavano larga parte dell’anno scolastico, l’Etica (le cui edizioni cinquecentesche furono infatti opera di umanisti non universitari) veniva toccata alla fine del secondo semestre, con poche note di passaggio. Sulla base della differenza strutturale tra i volumi è inevitabile, perciò, pensare che l’occupazione preferita nell’insegnamento di Arti fosse la filosofia naturale, con l’eccezione (o la propaggine, se vogliamo) della psicologia, il cui volume nell’opera conimbricense non solo riproduce l’intero schema di textus/explanatio/quaestiones, ma – complice la morte di Manuel de Goís proprio al momento della sua pubblicazione – presenta anche l’aggiunta di due trattati, in questo caso firmati da due maestri, uno sui cinque 34 Adamo magister sensi (Cosme de Magalhães) e uno sull’immortalità dell’anima (Baltazar Álvarez). Ci si trova così di fronte ad un voluminoso commentario all’opera aristotelica, strutturato a partire da una esigenza universitaria, ma con spiccate sensibilità umanistiche. La questione, presentata talvolta in una raccolta di disputationes, è ancora l’elemento centrale del commento, ma è importante notare come nel Cursus non se ne ricerchi l’esaustività, al modo delle più note Summae duecentesche, quanto piuttosto si utilizzi la quaestio come indicatore sperimentale di un modo di fare/operare didattico, utile al maestro in Arti per lanciare l’esercitazione libera in classe. Le questioni del Cursus trattano molto spesso i temi principali o le più scottanti tesi discusse al tempo, ma altrettanto spesso si fermano ad elencare le ragioni in utram partem senza concludere, oppure si insinuano in vicoli ciechi rimandando ad altri luoghi o ad opere di contemporanei non riprodotte nel testo conimbricense. Con ciò non si vuol naturalmente affermare che il Cursus non presenti un organico corpo dottrinale e una linea filosofica ben definita nei confronti delle scuole del proprio tempo. La presenza tuttavia di questioni rispondenti allo stile dialettico e partitivo privo di conclusioni sembra però confermare che l’apparato di commento del testo conimbricense fungesse da schema operativo per l’esercizio scolastico libero dalle opinioni ivi argomentate. Per questo il commento, anziché costruire un edificio sistematico, sembra seguire le sinuosità del discutere reale – di nuovo, di quella parola viva che è l’elemento pedagogico essenziale del collegio gesuita12. 12 Diversa l’opinione del Lohr, ripresa anche da Alison Simmons, secondo cui i libri di testo gesuiti (non solo quelli di Coimbra) 35 Cristiano Casalini Il rimando all’altro da sé, e l’importanza che assume per il Cursus ciò che gli è essenziale ma che non vi compare (l’esercizio della disputa reale, che il testo suggerisce, lancia, ma non esaurisce), colloca l’opera in un panorama letterario insolito e molto raro all’epoca. Essa diviene il “manuale” di filosofia in un gran numero di collegi non solo gesuitici, e la storia delle sue edizioni (pur concentrate nell’arco di un trentennio) ne dimostra la straordinaria diffusione. Ciononostante, la sua forma, concepita come modernizzazione ad uso scolastico del commentario medievale, sarà anche il motivo del suo rapido declino, cambiando proprio nei trent’anni di inizio Seicento un paradigma epistemologico, un modo di fare scienza, ma soprattutto il modo di organizzarne la trasmissione. Dicevamo prima: comincia l’era del trattato. E l’università, che pur manterrà la sua funzione selettiva, lentamente si adatterà alla nuova forma, dismettendo di volta in volta i simboli dell’insegnare cinquecentesco. Tra questi simboli, il Cursus conimbricensis, di cui Descartes, allievo un tempo del collège de la Flêche, lamenterà all’amico Mersenne il retrogusto stantio e superato: I’ay veu la Philosophie de Monsieur de Raconis, mais elle est bien moins proprie à mon dessein que celle du Pere Eustache; & pour les Conimbres, ils sont trop longs; mais ie siano unusually systematic and philosophical, in contrasto con i commentari scolastici dei secoli precedenti, o con opere come la Summa di Tommaso, a topically but not philosophically systematic text [cfr. A. Simmons, «Jesuit Aristotelian Education: De Anima Commentaries», in J. W. O’Malley - G. A. Bailey - S. J. Harris - T. F. Kennedy (eds.), The Jesuits. Cultures, Sciences, and the Arts, 1540-1773, Toronto, University of Toronto Press, 1999, pp. 522-537; e C.H. Lohr, «Jesuit Aristotelianism and the Sixteenth-Century Metaphysics», in H.G. Fletcher III - M.B. Schulte (eds.), Paradosis: Studies in Memory of Edwin A. Quain, New York, Fordham University Press, 1976, pp. 203-220]. 36 Adamo magister souhaiterois bien de bon coeur, qu’ils eussent écrit aussi brièvement que l’autre, & i’aimerois bien mieux auoir affaire à la grande Societé, qu’à un particulier i’espere, auec l’aide de Dieu, que mes raisons seront aussi bien à l’épreuve de leurs argumens que de ceux des autres13. 4. La realtà del Cursus non consiste esclusivamente nell’altro da sé (l’esercizio didattico come causa e fine). La procedura – come dicevamo – produce il testo: dunque, l’Aristotele uscito dal Cursus deve avere un’impronta ed un carattere conimbricense. Carattere che ritroveremo non nelle ambiguità, nelle antinomie a cui le questioni talvolta paiono arrestarsi, lasciando intendere una indecisione di fondo che può esser frutto acerbo dell’operare di un gruppo di autori, e non di un uomo solo; o di una finalità esemplare per l’esercizio scolastico, ma non di una dottrina in sé. Il commento conimbricense dà invece vita ad un profilo coerente, tanto nell’interesse per le tematiche della filosofia naturale – anche l’anima presenta un interesse di questa natura disciplinare –, quanto in alcune teorie che ven13 R. Descartes, Œuvres, Paris, éd. Adam et Tannery, 1899, III, p. 251 [manteniamo la trascrizione diplomatica dell’edizione]. La testimonianza di Descartes si completa con una lettera precedente (30 settembre 1640), in cui torna, oltre all’importanza del Cursus nel panorama culturale e scientifico della Compagnia di Gesù, anche il problema della inaccessibilità della sua mole: «Ie ne seray point encore mon voyasge pour cet hyuer; car, puisque ie doy receuoir les obiections des Iesuites dans 4 ou 5 mois, ie croy qu’il faut que ie me tiene en posture pour les attendre. Et cependant i’ay enuie de relire un peu leur Philosophie, ce que ie n’ay pas fait depuis 20 ans, affin de voir si elle me semblera maintenant meilleure qu’elle ne faisoit autrefois. Et pour cet effect, ie vous prie de me mander les noms des autheurs qui ont escrit des cours de Philosophie & qui sont le plus suiuis par eux, & s’ils en ont quelques nouueaux depuis 20 ans; ie ne me souuiens plus que des Conimbres, Toletus & Rubius. Ie voudrois bien aussy sçavoir s’il y a quelqu’vn qui ait fait vn abregé de toute la Philosophie de l’Eschole, & qui soit suiui; car cela m’espargneroit le tems de lire leurs gros liures» [Ibid., p. 185]. 37 Cristiano Casalini gono adottate per superare, con gergo aristotelico, l’impasse scientifica della tarda scolastica14. Profilo determinato dal particolare contorno che assume nel Cursus la teoria della conoscenza aristotelica in riferimento alla necessità della sua trasmissione. Ovvero, il modo con cui i conimbricensi rispondono alla provocazione platonica della reminiscenza. Nel dare risposta al problema dell’origine della conoscenza, infatti, il commentatore si trova di fronte al vicolo cieco dell’affermazione aristotelica: omnis doctrina et disciplina ex antecedente cognitione fit. Il rifiuto radicale della reminiscenza proposto dai conimbricensi pone l’atto trasmissivo del maestro a fondamento della conoscenza individuale. A monte, l’interesse dei conimbricensi non va allo stato sovrannaturale di Adamo che dà i nomi alle cose, ma all’Adamo magister che, dopo la caduta, inaugura una catena di trasmissione del sapere che giunge, dall’origine della storia umana, fino a ciascuno studente di collegio. La tradizione scolastica contemplava poi non solo la presenza di princìpi primi nell’intelletto, ma anche la possibilità di infusione di habitus innati nell’uomo ad attivare il ragionamento su di essi. Molto spesso cioè si ricorreva ad una spiegazione innatistica del processo di avviamento della conoscenza che sembrava tuttavia contraddire la coerenza di una gnoseologia a carattere esperienziale o empirico. 14 Non mi dilungherò qui sul concetto di causa esemplare, che i conimbricensi recuperano dalla speculazione di Pedro Fonseca (più in là guardando al platonismo di Enrico di Gand) per reagire alla crisi della quaterna causale aristotelica, prossima al colpo di grazia baconiano; né sulla specifica dottrina del segno esposta da Couto nel tardivo volume della Dialettica, sul quale vanno speculando gli storici contemporanei della logica, alla ricerca dell’origine della teoria abduttiva di Peirce. 38 Adamo magister I conimbricensi fanno propria questa coerenza, e coerentemente negano l’esistenza di habitus innati o di princìpi primi che non vengano attivati dall’esterno. L’acquisizione diviene in questo modo la dimensione principale del conoscere, a scapito di quella inventio a cui Tommaso d’Aquino aveva al contrario attribuito tanta importanza, ma che sembrava interdire l’attuarsi della relazione didattica come processo conoscitivo. Educazione, dunque; che per i conimbricensi equivale a conoscenza. La procedura ha prodotto, attraverso il testo, il proprio canone. Sia dunque la conclusione di questo articolo, che l’animo umano è ad un tempo creato da Dio ed infuso nel corpo, ed è alla sua prima origine quasi una nuda tavola, priva d’ogni abito e specie. Poi col passare del tempo acquisisce gli abiti delle scienze, soprattutto per quella via che ci ha indicato Aristotele in quest’opera, ovvero dapprima accogliendo i princìpi, che hanno maggiore affinità col lume dell’intelletto, e poi deducendo da essi delle conclusioni, sia da solo e per proprio esperimento, sia per opera e impegno del maestro15. Riferimenti bibliografici Alden, D., The Making of an Enterprise. The Society of Jesus in Portugal, Its Empire, and Beyond, 1540-1750, Stanford, Stanford University Press, 1996. 15 «Conclusio ergo huius articuli sit, animum humanum simul a Deo creari, & in corpus infundi, esseque a prima origine quasi nudam tabulam, omni habitu, specieque destitutum. Deinde vero progressu temporis acquirere scientiarum habitus, ea potissimum via, quam tradidit Aristoteles in hoc opere, videlicet percipiendo prius principia, quae maiorem habent cum lumine intellectus cognationem, & ex illis deducendo conclusiones aut per se, & proprio experimento, aut opera, industriaque magistri» [Commentarii Collegii Conimbricensis S. I. in universam Dialecticam Aristotelis, Coimbra, D. G. Loureiro, 1606]. 39 Cristiano Casalini Braga, T., História da Universidade de Coimbra nas suas Relações com a Instrução Pública Portuguesa, 4 voll., Lisboa, 1892-1902. Brandão, M., O Colégio das Artes. 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Soares, T. de S., O Ensino no Colégio das Artes de Coimbra: ‘Os Conimbricenses’, in «Revista Portuguesa de Filosofia», XI, 3/4 (1955), pp. 756-68. 41 Cristiano Casalini Eodem modo debet procedere in docendo discipulum: primo principia prima per se nota proponendo ei; deinde ea per immediata, quantum potest, applicando ad determinatas conclusiones et ab illis in ulteriores consimiliter usque ad ultima, explicando hunc discursum discipulo per signa verborum vel quaecumque alia, ut melius poterit, significantia illos conceptus quos ratio naturalis interius ordinaret, si in suo discursu errare non posset. Et sic illos conceptus sic per signa propositos format in se discipulus admonitus per signa. [Enrico di Gand, Quaestiones ordinariae (Summa), Quaest. VI, Art. I, Sol.] 42 «We have only one story». Fedeltà al Testo e creazione narrativa nelle Sunday Schools americane Luana Salvarani Dipartimento A.L.E.F. Università di Parma Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma [email protected] Come nasce una grande cultura nazionale? Anche solo porsi la domanda potrebbe sembrare un atto di imperdonabile ingenuità storica, e innescare un fallimentare meccanismo di rimandi all’indietro, di risalita verso radici troppo lontane per essere efficacemente studiate, o verso i vari, multiformi miti della creazione. Ma ci sono casi in cui una società umana si percepisce, nonostante tutto, come un nuovo inizio, e attua consapevolmente dei riti di palingenesi culturale. Forgia i propri strumenti con entusiasmi e illusioni prometeici e, sistematicamente, realizza i dispositivi per trasmetterne l’uso, crea istituzioni per formare e rafforzare tali strumenti e valori, e l’immagine di sé che ne deriva. È così che, nella storia dell’educazione, si fanno incontri sorprendenti. Avviene quando ci si imbatte in contesti e situazioni che non si limitano a modulare, discutere, comunque riprodurre un sistema culturale che loro preesiste e li determina; ma diventano luoghi di elaborazione di una propria, specifica cultura, a volte propositiva o divergente rispetto a quella da cui derivano. È il caso di tanti momenti dell’educazione anEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 43-64. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Luana Salvarani cien régime, diffratta com’era in mille microcosmi diversi, riflesso di altrettanti centri di potere, sempre pronti a caratterizzarsi e a porsi in concorrenza tra loro. Diviene più raro nell’Europa borghese, ansiosa di uniformità e protocolli, e tende inevitabilmente a sparire in quella «democratica» della scolarizzazione di massa, dove la produzione di culture autonome da parte di contesti educativi assume non di rado i caratteri della semiclandestinità, e di fatto si sottrae, con abili artifici retorici, alla mano uniformante della programmazione. Pare che, in cerca di queste avventure intellettuali, si debba navigare sempre più all’indietro, sempre più lontano, verso remote periferie cronologiche e geografiche. Invece, il caso forse più fertile di questo fenomeno è relativamente a portata di mano. Le Sunday Schools, autonome istituzioni per l’istruzione religiosa e il controllo sociale del proletariato britannico, furono reinventate in America negli anni della Frontiera e del consolidamento del Paese, venendo così a costituire, per decenni, la forma educativa pressoché unica per i pionieri e gli agricoltori che fondarono la nuova nazione. In questo processo, non solo le Schools riuscirono a darsi un volto culturale autonomo e ben delineato, ma produssero un vasto corpus di testi letterari e non letterari, canti, riflessioni e commenti biblici che costituisce la base dell’identità americana nel suo complesso e, nel loro carattere di testi d’uso, la vigorosa, originalissima radice della letteratura statunitense, che, pur con tutti i crismi di un’arte consapevole e raffinata, mantiene ancora le capacità comunicative e l’autosufficienza di fondo trasmessa proprio dalla narrativa edificante delle Schools. Siamo quindi di fronte al caso, forse unico, di un contesto educativo che non solo ha saputo elaborare una propria proposta, ma fu origine e non conseguenza di un sistema culturale. 44 We have only one story Le Sunday Schools, nella loro forma più semplice e diffusa nell’America rurale dell’Ottocento, erano istituzioni autogestite da un gruppo di docenti volontari, di ambo i sessi e di età variabile (sia adolescenti che uomini anziani potevano farsi carico di questo compito), sotto la direzione di un sovrintendente per lo più facente capo a una denomination religiosa. Esistevano Sunday Schools di ogni confessione, ma le più comuni erano di ispirazione protestante, soprattutto metodista, e il modello metodista si affermò su base interdenominational quando la Sunday School Union tentò a fine secolo di organizzare e uniformare le diverse prassi ed esperienze. Aperte a bambini, giovani e adulti un paio d’ore la domenica mattina prima della funzione religiosa, le Schools basavano la propria didattica sulla Bibbia (in genere, come vedremo, nel testo della King James Version), che fungeva contemporaneamente da supporto per l’alfabetizzazione e da regolamento morale, da enciclopedia popolare di geografia, storia, astronomia e botanica, e da serbatoio cui attingere storie epiche e avventurose. Letta a passi scelti dall’esperienza del docente o secondo i consigli di una pubblicistica specializzata prima artigianale e poi sempre più florida, ipostatizzata nei Golden Texts e parafrasata nei libri per i più piccoli, la Bibbia pareva bastare e avanzare come Testo Unico di quella essenziale didattica delle praterie. Invece, accanto alla Bibbia e senza mai metterne in discussione il primato, nasce e fiorisce una letteratura specifica, una vasta gamma di racconti e romanzi che propongono i messaggi etici – in particolare i più semplici e utili, come il richiamo alla laboriosità e alla vita frugale – in più o meno elaborate finzioni narrative. Non è chiaro se queste opere venissero direttamente lette in classe; sappiamo che venivano date in dono 45 Luana Salvarani agli studenti migliori; che erano oggetto di letture domestiche ed esercitazioni, e progressivamente, quando si passa dal villaggio alla città, divennero il prodotto principale di una florida editoria economica per ragazzi, forse non appassionante come quella clandestina delle dime novels che si trovavano nelle edicole, ma diffusissima e socialmente accettata, e proprio per questo determinante nel proprio impatto culturale sulla gioventù americana. Certo è che l’esigenza principale di questa letteratura è attualizzare, proporre precetti ed esempi biblici in contesti che i lettori potevano conoscere in prima persona. In una cultura fortemente marcata dal senso di una rinascita in una terra vergine lontana dall’affollamento, dalla corruzione e dai vincoli delle mature società urbane europee, non bastava richiamarsi al sacro, remoto esempio dei profeti e dei re d’Israele, alle vicende di un Cristo palestinese tra soldati romani e sacerdoti del Tempio. Ci penserà, più avanti, un’ondata di fiction biblica a rilanciare questo immaginario esotico e a fondare il gusto peplumkolossal ancora oggi ben radicato nell’immaginario cinematografico; all’epoca della frontiera, l’interesse era verso il popolo americano qui e ora. Storie di ragazzini cresciuti in orfanotrofio che raggiungono il successo con il lavoro, di floridi agricoltori tutti ranch e preghiera, di schiavi neri in grado di affrancarsi con il coraggio e l’onestà, di solide amicizie virili; e, a specchio, di padri di famiglia distrutti dall’alcool, di giovani che finiscono impiccati per aver ceduto al gioco d’azzardo e alla rissa, di businessmen disonesti che terminano i loro giorni nel disonore e nella mendicità. Le narrazioni che ne risultano sono apertamente edificanti e inevitabilmente schematiche, ma non del tutto prevedibili nella psicologia né nei dialoghi e con una capacità propria e nativa, totalmente diversa da quella della letteratura 46 We have only one story britannica (a cui devono molto meno di quanto non facesse la letteratura “alta” di un Melville), di rendere le atmosfere, i paesaggi, le relazioni sociali del nuovo Paese. Opera per lo più di autori anonimi od oscuri evidentemente privi dei più smaliziati strumenti della scrittura critica, ma dotati di un vigore e di una sicurezza stupefacente nel forgiarsi una propria lingua, la Sunday School literature può legittimamente rivendicare l’appartenenza all’epica collettiva, non meno dei poemi omerici o delle grandi saghe, che presentano la sua stessa discontinuità qualitativa e incongruenze strutturali, senza che nessuno si sogni di giudicarle scadenti o indegne d’interesse. Tuttavia, pur essendo epica di un popolo, essa mantiene sempre la caratteristica di una somma di epiche individuali: nessun fato o volontà dall’alto può scalfire o piegare la determinazione dei tanti self-made men che popolano queste storie. La sua peculiarità sta nel ricodificare la morale protestante in una forma di self-enarration dove ciascun lettore può avere la sensazione che venga narrata proprio la sua storia; che l’insegnamento biblico sia diretto a lui, specificamente, come risposta a dubbi e problemi particolari e non a interrogativi di ordine generale, privi di senso e applicabilità pratica, quando non indici di una pericolosa propensione al dubbio. «Then, my children, we must diligently seek in the Bible for what will so strengthen our faith, and assure our hearts; always praying that we be not forgetful hearers, but doers of the word. […] We may take up the Bible, to be interested by its histories, and delighted by the beautiful language in which they are written, yet seek no real profit from it. […] It is when we look into the Bible as if it was a letter written to us, 47 Luana Salvarani and every word of it meant for our instruction, that it becomes a light to our feet, showing us the path to heaven»1. L’esigenza della costruzione di un’epica soggettiva, tagliata sul proprio destino individuale e nell’ambito di un rapporto diretto con la parola di Dio (tratto distintivo e radicato della sensibilità protestante), diviene più chiara quando la si mette in relazione con l’insistenza sulla veridicità storica della Bibbia e sul fatto che in essa, a differenza che nei libri «pagani» o comunque non rivelati, non esiste alcuna amplificazione epica o letteraria. La diffidenza verso tutto ciò che non sia verosimile o «tratto dal vero» è costantemente coltivata dalla precettistica delle Sunday Schools, e non trova alcuna contraddizione nel dettato biblico, che diviene invece, nei suoi aspetti magici e miracolistici, conferma dell’onnipotenza divina (del resto la parola God è piuttosto rara in questa letteratura, e le è di gran lunga preferita la locuzione The Almighty). Ma il punto fondante di tutta l’educazione delle Sunday Schools è che la lettera della Bibbia è verità. Lo sostiene anche il commento biblico più diffuso nell’America di fine Ottocento, il Jameson-Fausset-Brown (1871, ed. americana 1880): The peculiarity of the Hebrew poetical age is, that is was always historical and true, not mythical, as the early poetical ages of all other nations. […] Epic poetry, as having its proper sphere in a mythical heroic age, has no place among the Hebrews of the Old Testament Scripture age. For in their earliest ages, viz., the patriarchal, not fable as in Greece, Rome, Egypt, and all heathen nations, but truth and historic reality reigned; so much so, that the poetic element, which is the offspring of the imagination, is less found in those ear1 C. Elizabeth, The Bible The Best Book, New York, American Tract Society, s.d. 48 We have only one story lier, than in the later ages. The Pentateuch is almost throughout historic prose. In the subsequent uninspired age, in Tobit we have some approach to the Epos2. Il problema posto dai tre commentatori scozzesi non è né pretestuoso né di poco conto: la più seria filologia biblica continua a confrontarsi con la difficile sfida di ricostruire/ipotizzare i generi di scrittura, letterari e non letterari, all’interno dei quali si collocavano i diversi libri del Testo sacro, e che ne determinavano stile, immagini, precetti, convenzioni, sottintesi, senza i quali nessun testo, neppure ispirato, può essere compreso. Jamieson, Fausset e Brown si chiedono quali fossero le caratteristiche dell’antico poema ebraico (situato in una generica, remota «poetical age» di tipo vichiano), per determinare la proporzione tra verità e immaginazione nella Bibbia e, in questo caso, nel Pentateuco. La risposta, dal momento che il Commentary era destinato a un’utenza non accademica, è quella più rassicurante: nell’antico poema ebraico non si raccontavano favole. Non solo: non esisteva neppure la poesia epica nel senso dei poemi omerici (o del Mahābhārata), e quindi non ci è consentito considerare gli eroi dell’Antico Testamento come incarnazioni simboliche di certi ideali delle tribù di Israele, e le loro gesta come creazioni poetiche atte ad illustrare allegoricamente certi precetti culturali, sociali o di fede (meccanismo che, viceversa, non impedisce affatto al Bhagavadgītā di essere considerato testo sacro dell’induismo, pur tracciando le imprese di Arjuna, un eroe del Mahābhā2 R. Jamieson, A. R. Fausset, D. Brown, A Commentary: Critical, Practical and Explanatory on the Old and New Testament, with a Bible Dictionary, Fleming H. Revell Company, NY-Chicago-Toronto, 1880, Introduction. 49 Luana Salvarani rata, che il lettore è esplicitamente invitato a considerare di natura allegorica). Nella prospettiva formativa europea, fortemente determinata dall’eredità (e dal mito) della cultura classica, il meccanismo allegorico è considerato tra i più efficaci per la trasmissione di valori: la battaglia tra Riforma e Controriforma si combatté, sul suo vero terreno – le città e i mercati, le campagne, le adunanze pubbliche – a suon di allegorie contrapposte, di immagini e di rappresentazioni. Si fatica, a prima vista, a mettere a fuoco l’irresistibile fastidio dei Padri Fondatori americani per tutto ciò che sa di traslato, simbolo e metafora. Vi ha certo gran parte l’attitudine distintiva (e all’occorrenza di protesta) rispetto alla madrepatria britannica, e ha certo contribuito il bisogno di comunicare con cittadini di etnie e provenienze diverse, sensibili a immagini differenti e che era possibile far incontrare solo sul terreno comune della dura, incontrovertibile realtà dei fatti (ammesso che sia possibile definirla). Ma la causa forse principale è il bisogno di porre con forza la Bibbia non tanto come testo sacro ma come reference book, come guida nella vita di ogni giorno, come compagno di strada, rafforzando ed estremizzando la ricetta luterana: non più una comunità (preesistente) che si riconosce nella Bibbia riformata, ma una galassia di individui-atomi gelosissimi della propria libertà ed indipendenza che tuttavia ricorrono allo stesso Libro come Codice delle leggi, sostegno morale e guida pratica nel momento del bisogno. God is our refuge and strength, intonava una comune traduzione del corale luterano Ein feste Burg ist unser Gott. «Il nostro Dio è una fortezza ben salda», cantano i tedeschi; «Dio è il nostro rifugio, la nostra forza» interpretano, trasportando nell’ambito dell’esperienza personale, gli americani. E non di rado l’inno diviene God is my re50 We have only one story fuge, evidenziando la dimensione individuale di quello che era un momento di appartenenza collettiva. In questi termini, è evidente che la veridicità del testo biblico trasmesso era un pilastro psicologico irrinunciabile, e sosteneva una rete sociale che, al di fuori delle grandi città, per tutto l’Ottocento americano era ancora autoregolata e priva di istituzioni di riferimento. Le Sunday Schools si proponevano di trasmettere, oltre alle competenze fondamentali di lettura e scrittura d’uso, un sistema di valori che facesse appunto da collante e principio ordinatore di tale galassia sociale, e la minaccia al testo biblico tradizionalmente trasmesso ne minava lo strumento pedagogico fondamentale. Di conseguenza, per quasi tutto l’Ottocento, la storia educativa delle Schools – e la loro produzione di testi narrativi – bordeggia senza particolari problemi quella delle edizioni americane della Bibbia, una storia ricca, immaginosa, punteggiata da eroiche imprese di revisione e traduzione integrale che tendono inevitabilmente a sfociare in fallimenti editoriali,3 mentre il Testo tradizionalmente trasmesso, la King James Version col suo inglese elisabettiano divenuto ormai un gergo formulare, continuava a trionfare incontrastato. Non è dubbio che le Schools stesse abbiano contribuito a rafforzare, con i Golden Texts da imparare a memoria e la pratica collettiva della riflessione su versetti della KJV, la presenza di quel testo nella memoria identitaria del popolo americano, esattamente con quella lingua e quel repertorio di immagini e lessico. Del resto è altamente probabile che la stragrande maggioranza dei Sunday School Workers dei villaggi e delle piccole città, per non parlare di quelli degli avamposti di frontie3 P. C. Gutjahr, An American Bible. A History of the Good Book in the United States, 1777-1880, Stanford University Press, 1999. 51 Luana Salvarani ra, non avesse alcuna consapevolezza del fatto che esistesse la filologia biblica o che le edizioni americane più diffuse della KJV, copiate e ricopiate e stampate a migliaia in edizioni a basso costo da tipografie itineranti, fossero considerate del tutto inaffidabili dagli specialisti. Il dibattito diviene caldo, e sempre più visibile, man mano che le Sunday Schools passano da forme educative pionieristiche a istituzioni urbane, con docenti più preparati e che legittimamente si pongono il problema se e in quale misura le nozioni apprese nell’istruzione teologica formale debbano filtrare nella didattica di base delle Schools. Ma la trasformazione della società circostante non ha mutato il fondamentale carattere di «scuola di vita» delle Schools, che devono instillare sicurezza e indicare punti di riferimento, non formare all’esercizio del dubbio: George Adam Smith, when he was once asked at Chautauqua what place biblical criticism had in the pulpit, replied: «I want to go into the pulpit with a clean face, but I prefer not to leave any soapsuds in my hair». The Sunday school is not the place for a discussion of processes nor for the statement of negations, nor for the presentation of merely technical scientific results, however well assured. It is a school, not merely or chiefly for the acquirement of technical knowledge, but for the building of character and the development of holy impulses to right living [c.n.]4. Come residui di sapone e di schiuma da barba dimenticati al mattino su un volto pulito e rasato, i metodi della critica testuale paiono allo Smith (da parte sua, 4 C. M. Cobern (St. James Methodist Episcopal Church, Chicago), in The Place of Biblical Criticism in the Sunday School. A Symposium, «The Biblical World», Vol. 19, No. 5 (May, 1902), pp. 333-4. 52 We have only one story tra i massimi esperti di Antico Testamento del suo tempo) come uno strumento che sarebbe inutile e fastidioso esibire e mostrare; sono i risultati che contano. E, forse paradossalmente, i risultati della critica biblica sono utili nelle Schools proprio per ribadire il carattere di mero contenuto del Testo, sul quale l’operato della filologia non può che accentuare il carattere transitorio e accidentale di immagini, stile e lingua: The chief use of critical knowledge in the Sunday school is protective. It preserves the child from the impression that Christianity is founded on the backbone of Jonah’s whale, and that the value of the Bible as God’s Book of Salvation hinges upon the quality of Hebrew spoken by Balaam’s ass, or upon the absolute inerrancy of the chirography or of the memory of the Bible writers, or their miraculous knowledge of universal history or twentieth-century science5. Già il commento Jamieson-Fausset-Brown proponeva esplicitamente il tema della traducibilità della Bibbia, proprio sulla base della «indifferenza stilistica» di un ebraico che, ritenevano in buona fede i nostri commentatori, era concepito dall’infinita sapienza di Dio per veicolare il contenuto nella maniera più chiara e per poter essere agevolmente tradotto in ogni lingua. The great excellence of the Hebrew principle of versification, viz., parallelism, or «thought rhythm» [Ewald], is that, while the poetry of every other language, whose versification depends on the regular recurrences of certain sounds, suffer considerably by translation, Hebrew poetry, whose rhythm depends on the parallel correspondence of similar thoughts, loses almost nothing in being translated – the Holy Spirit having thus presciently provided for its ultimate translation into every language, without loss to the sense. […] It accords with the divine inspiration of Scripture poetry that the 5 Ibidem. 53 Luana Salvarani thought is more prominent than the form, the kernel than the shell6. La pratica educativa delle Schools americane radicò così profondamente questo concetto che, quando nel 1907 la International Sunday School Committee si riunì a Londra per mettere a punto – tentazione perniciosa e ricorrente d’ogni tempo e paese – una riforma didattica unificante, il punto di rottura, inconciliabile, tra le due delegazioni fu proprio quello della critica biblica. Rispetto alle proposte “umanistiche” dei delegati inglesi, gli americani ribadivano la necessità di rimanere fedeli al testo tràdito, a quella KJV saldamente fissata nella memoria di tutti: il ricorso, per esempio, alle nuove conoscenze sugli strati redazionali della Bibbia avrebbe instillato inutile confusione senza giovare alla conoscenza dei contenuti, che rimangono saldi, unici e rivelati dall’inizio dei tempi. Come sintetizzava, qualche anno prima, Willis J. Beecher: In my judgment, the most profitable study of the Bible, for most Sunday schools, is that which mainly confines itself to the contents and the practical bearings of those parts of the Scriptures which directly illustrate the problems of life and duty7. Con questa modalità di accostamento al Testo, tutto ciò che si perde in ricchezza testuale, penetrazione storica, sottigliezza e significatività della lettura biblica, si guadagna in pregnanza e originalità pedagogica. Le letture vanno, volta per volta, individualizzate («individualism in teaching is the secret of all true tea6 R. Jamieson, A. R. Fausset, D. Brown, A Commentary, cit., Introduction. 7 W. J. Beecher, in The Place of Biblical Criticism in the Sunday School. A Symposium, cit., p. 332. 54 We have only one story ching» ammoniva, con l’assertività che è il talento del vero educatore, il reverendo Hamill nel classico manuale The Sunday School Teacher). E l’individualizzazione passa anche attraverso l’attualizzazione, lo sforzo immaginativo di riportare situazioni e temi del Testo nella realtà locale e sociale, quotidiana e specifica, dei propri allievi: Begin by thinking over the lesson, putting everything aside but the open Bible. Take the lesson and read it over and over, and think your way through it, verse by verse. Think and pray together for light. Turn the verses about, put them into the language of your class, strip the lessons of its idioms and peculiarities, and try to make it conform to your everyday life. Bring it down to date as far as you can, and make it a living spiritual message for the present needs of yourself and scholars8. Ci troviamo di fronte a un modello di lettura che, ben lungi dalle impersonali e mnemoniche recitazioni che ci verrebbe spontaneo associare a un’istruzione religiosa di base, preme l’acceleratore della rielaborazione e reinterpretazione vitale del Testo. Read it over ad over, and think your way through it: non è forse l’unico modo con cui si può afferrare un testo, conoscerlo a fondo, viverlo fino a quella digestione che Montaigne indicava come necessaria precondizione di ogni vera conoscenza? Certo, qui l’esito non è la diffrazione del reale negli infiniti possibili, bensì la costruzione del proprio individuale percorso verso una stabile verità. Tuttavia, la trasmissione del precetto (religioso ed etico) non doveva deprimere l’iniziativa e la creatività individuale, né la propensione al rischio, tutte doti indispensabili in una nazione in espansione, che andava 8 H. M. Hamill, D.D., The Sunday School Teacher, ChicagoNew York-Toronto, 1911, pp. 31-32. 55 Luana Salvarani conquistando e piegando un territorio inesplorato. Per questo il versetto biblico andava voltato e rivoltato, riformulato nel linguaggio della classe che si aveva davanti – con i suoi gerghi, con le sue specifiche etniche e sociali – ridotto all’essenza con l’eliminazione delle metafore originarie e delle peculiarità storiche, e adattato alla vita di ogni giorno: bring it down to date as far as you can. La lezione passa così dalla lettura alla riscrittura, e la Sunday School diventa il luogo dove si forgia e si allena un particolare meccanismo mitopoietico, una disciplina creativa. Non sorprende allora che essa sia in grado di produrre, autonomamente e quasi al di là del talento individuale degli autori, una propria letteratura. I moduli narrativi della Sunday School Literature sono molteplici: il principio dell’adattamento porta a stilemi diversi per le diverse comunità di riferimento (nere, bianche o asiatiche, agrarie od urbane, del Nord o del Sud), oltre al principio, sobriamente osservato, della differenziazione per fasce d’età, dai racconti più brevi per i piccolissimi fino a un genere specifico di Sunday School Stories per giovani adulti. Tutto un lavoro a parte dovrebbe essere dedicato allo studio del lessico, caparbiamente mantenuto attorno a un basic english di facile comprensione eppure increspato dalla lingua arcaica della Bibbia, dai giri di frase vittoriani imitati dalla letteratura edificante britannica e dalla possente infusione di gergalismi, neologismi e slang tratti dal mondo del lavoro o della strada. Per dare un quadro d’insieme, i tratti distintivi della Sunday School Literature possono essere riassunti nel principio della costruzione dimostrativa del plot. Nient’affatto una banalità, rispetto a una letteratura anglosassone di provenienza che aveva tra i propri stru56 We have only one story menti principali i capovolgimenti repentini del paradosso e del comico, il doppio taglio dell’ironia, la fuga nel magico e nel fiabesco, la sorpresa e il wit. Qui bisogna costruire storie in cui, inesorabilmente e con logica adamantina, tutto si tiene; e che tuttavia avvincano e non annoino il lettore, un lettore inesperto e che deve sottrarre tempo ad altre e più necessarie occupazioni. Per questo racconti e romanzi iniziano quasi sempre “in situazione”, senza inutili tortuosità o prologhi, fornendo, entro le prime pagine, tutti i dati necessari per inquadrare la vicenda. JAMES STEVENS'S feet were bare and sore. He had travelled more than twenty miles, and was now just in sight of the city. He sat down on a large stone on the roadside and burst into tears9. In questo splendido incipit, tratto da un breve romanzo anonimo che si propone di illustrare il comportamento ideale per i ragazzini che vogliono tentare la fortuna in città, veniamo immediatamente rapiti, calamitati dalla solitudine e dalla sofferenza di James Stevens. Non sappiamo se James ha fatto qualcosa di male, se è in fuga o se sta compiendo un’azione virtuosa. Un romanzo classico, un Balzac o un Tolstoj, manterrebbe la suspense per capitoli e capitoli, partendo ora con un flashback e risalendo magari alla prima infanzia del protagonista. Qui il flashback c’è, ma si limita a informarci che James, figlio quattordicenne di una pove- 9 Bosses and their Boys; or, the duties of Masters and Apprentices illustrated and enforced. Philadelphia-New York, American Sunday-School Union, 1853, p. 5. 57 Luana Salvarani ra famiglia di villaggio, è partito per sua matura riflessione a cercare miglior sorte in città: Probably James felt as little of sadness as any of the family. He knew that he was doing what was right; he thought it was brave and noble to go out into the world to do for himself and those he loved, and so he nerved himself up to the work that was before him, as a good, strong heart will. That was the day when James Stevens began the world10. Nessuna inquietudine giovanile o romantica Sehnsucht spinge il giovane verso la città tentacolare; il protagonista è ben conscio dei motivi della propria impresa, incisi profondamente nel suo strong heart. Così dichiarata, la nobiltà di tali motivi non lascia dubbi al lettore, a poche pagine dall’inizio: l’impresa andrà a finire bene. E per rafforzare l’abitudine del lettore alla ferrea catena di causa-conseguenza tra azione morale e beneficio personale, ecco che arriva la dimostrazione, sotto forma di una casa di campagna dove, a pochi passi dalla città, James viene accolto e rifocillato spontaneamente con amore. Come allora dubitare che tutte le tappe successive della storia non volgano alla riuscita finale? Qui si innesta la sfida più difficile della Sunday School Literature, catturare l’attenzione ed evitare rozzezza e ripetitività in un tessuto narrativo che ha già deciso ed esplicitato buoni e cattivi, fortune e cadute, senza lasciare alcuno spazio alla fertile ambiguità delle umane cose. Semplificazioni brutali e, non di rado, uno schematismo psicologico estremo sono il sintomo di questa difficoltà, che solo scrittori estremamente dotati e consapevoli sarebbero in grado di evitare. Ma spesso il meccanismo funziona: a subentrare è la curiosità sul10 58 Ivi, p. 18. We have only one story la tenuta etica dei personaggi, sulla capacità del protagonista “buono” di continuare a far fronte al proprio difficile ruolo di virtuoso, o alla pervicacia, veramente futurista, del “cattivo” nel resistere ai così evidenti doni di fortuna e di piacere che arridono a chi ha scelto la strada giusta. Così James farà fortuna in città e si trasformerà in un adulto di successo e rispettato, perché è riuscito per tutte le oltre cento pagine che seguono alla sua partenza dal villaggio, a mantenere zelo, interesse, devozione nel lavoro: Mr. Stone found in James what he had long been looking for – «one who would make his employer's interest his own» – a young man who would labour and watch with the same zeal and fidelity for the interest of his employer that he would if the establishment belonged to him. This is the secret of securing the favorable regard of one who «owns the concern». […] and though merit is sometimes suffered to lie unobserved in this world, it is generally appreciated; and success that is not built on merit is not worth having11. Per i self-made men e i cani sciolti della Frontiera bastano talento, volontà e spirito di adattamento; ma per l’aspirante cittadino è necessario fare gli incontri giusti, dote da non dimenticare nel quadro formativo di una società urbana in rapida evoluzione. Così il successo di James è come la conclusione di uno stringente sillogismo, la cui premessa minore è l’incontro con un businessman rigoroso, generoso e di sani princìpi (tra cui la disponibilità a concedere un credito in conto capitale): Mr. Stone was a fair sample of manufacturers and merchants and capitalists generally. He was willing to do well by those who were disposed to do well by him. When he saw that a 11 Ivi, p. 138. 59 Luana Salvarani young man would do no more than just enough to keep his place and get his wages, working as if he grudged every minute and every blow, Mr. Stone set him down as a lazy and indifferent fellow, not worthy of his regard. But he saw Stevens and Munson always ready for anything that would promote the efficiency of the business. Early and late, in season and out of season, they were always ready; and if they had owned the shop, and were making fortunes out of the business, they could not have more faithfully laboured in it. [...] He had taken a fancy to these young men, and he advised them to go into business on their own account. They urged the want of capital as a fatal objection; but he removed that difficulty by telling them that he would put them in the way of beginning a small concern, and they might come to him for help whenever they were in need. They could not refuse so favorable an opening, and, taking a building of moderate dimensions, they set up business for themselves under the firm of STEVENS & MUNSON, COACH AND CARRIAGE MANUFACTURERS12 Da lettori smaliziati della Grande Letteratura è facile sorridere della linearità con cui l’anonimo autore di Bosses and their Boys dà per scontato che la migliore delle sorti possibili sia fondare, con anni di duro lavoro, una compagnia per la costruzione di mezzi di trasporto, a cui dedicare il resto della propria vita e in cui impiegare i propri figli (a meno che non siano, a loro volta, in grado di tentare la grande avventura degli affari). Osservando però con onestà intellettuale questa letteratura, sorge immediatamente un’osservazione di segno opposto: quanto è più facile costruire un tessuto narrativo, quando si è liberi di intrecciare le complessità della psiche umana con i contorti percorsi della For12 60 Ivi, pp. 139-40. We have only one story tuna, e mettere in opera le ambiguità della scrittura e i molteplici suggerimenti del simbolo per descrivere la ricchezza di un comportamento paradossale, o l’energia nera e travolgente della pulsione verso il male. Sono capaci non tutti, ma molti, di fare buona letteratura con il bizzarro, il variamente patologico, l’inaspettato e in generale con tutto ciò che è creativo in sé. Ma fare letteratura con la norma, la regola, il certo e il prevedibile? Fare narrativa, o fare addirittura poesia rinunciando al figurato della retorica e mantenendosi aderenti alla lettera del testo? Non è impresa da poco, né intellettualmente povera. Del resto lo esigeva una proposta educativa che mirava, prima di tutto, a forgiare un’identità nazionale, a rafforzare l’identità americana comprendendo l’immensa varietà delle tradizioni culturali e valoriali che la costituiva. Si rinunciava a qualche strato e a molte sottigliezze, ma si proponeva a una vasta popolazione, che rischiava di rimanere tutta la vita piegata acriticamente sul proprio duro lavoro e sulla propria sorte particolare, una prima mappa per collocarsi socialmente e per autorappresentarsi come soggetti portatori di idee, valori e simboli di riferimento. Da questo punto di vista la più vasta e complessa esperienza delle scuole pubbliche e private dell’America del Novecento, e la realtà urbana dell’alfabetizzazione di massa, deve molto all’esperimento delle Schools, che ancora oggi – trasformate in istituzioni educative complementari – catalizzano e ribadiscono i capisaldi culturali del Paese. The central questions of American history – Is there such a thing as an American identity? What kind of society does the United States have? What are American values? What position does the United States occupy in the world? – are disputed territory for them, as they were not for the predecessors. Of course, the question of national identity is not the easiest of subjects to deal with, but, since the American Rev- 61 Luana Salvarani olution, text writers, unlike most historians and novelists, have always succeeded in painting a fairly simple picture of America. Even while the country was changing radically in shape, in population, and even in looks, they had definite answers to the questions about who and what we were. These answers changed over time, but at any given moment they were remarkably uniform and remarkably simple13. Questa compattezza del racconto storiografico, passata nei libri di storia per la gioventù americana, è stata resa possibile dal fatto che quella cultura aveva, pur nella complessità dovuta alla sua origine coloniale, un Testo di riferimento ben definito e un unico asse di temi e problemi, attorno a cui orbitavano le questioni dell’educazione e i miti nazionali, i sogni e gli angoli oscuri del popolo americano; temi e problemi sentiti collettivamente come propri, non come gravosa eredità di un passato storico più o meno remoto. «We have only one story», scriveva John Steinbeck in East of Eden, alludendo all’eterno conflitto tra bene e male. Non è solo il segreto del successo e della tenuta della letteratura americana, oggi che le letterature europee segnano il passo, tra intellettualismi salottieri e goffi tentativi di avvicinamento a un «grande pubblico» ben in grado di autoformarsi e tuttavia guardato con supercilio dall’establishment intellettuale. È il segreto di una civiltà che, nonostante i punti di crisi e le inevitabili efferatezze compiute, rinuncia alla tentazione di avvitarsi nelle domande fino ad autodelegittimarsi, e mantiene salda la sicurezza di una propria identità. 13 F. FitzGerald, America Revised: History Schoolbooks in the Tweintieth Century, Boston, Little, Brown & Company, 1979, p. 73. 62 We have only one story Riferimenti bibliografici Bosses and Their Boys, or The Duties of Masters and Apprentices, Illustrated and Enforced, Philadelphia, American SundaySchool Union, 1853. Brown Rev., H. N., Sunday Stories, Boston, Lockwood, Brooks and Company, 1879. Brown, M. C., Sunday-School Movements in America, New YorkChicago-Toronto, 1901. Boylan, A. M., Sunday School: The Formation of an American Institution, 1790-1880, New Haven, Yale University Press, 1988. Button, W. H. – E. F., Provenzo, History of education and culture in America, Prentice Hall, Upper Saddle River, 1983. 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Un inquadramento postcoloniale dell’Europa multiculturale Giuseppe Burgio Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, E. 15 - 90146 Palermo [email protected] L’incontro del Noi con l’Altro, il contatto con lo Straniero ha, in Europa, una genealogia culturale complessa, sotto certi aspetti contraddittoria1. Obiettivo di queste pagine è tracciare alcune linee di questa storia attraverso l’analisi di quattro temi – colonialismo, imperialismo, migrazioni, postcolonialismo – che descrivano i modelli storici e quelli attuali della relazione con gli stranieri. 1. Il colonialismo Nell’antica Grecia, è noto, lo straniero aveva due nomi: lo xènos era lo straniero domestico, lo straniero comunque greco, leggermente diverso dal punto di vista etnico, legislativo, artistico... ma comune dal punto di vista linguistico, l’Altro con cui si poteva dialogare, con cui ci si capiva nonostante le differenze. Totalmen1 Sul tema cfr. M. Bettini (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari, Laterza, 2005. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 65-88. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Giuseppe Burgio te altro era invece il bàrbaros, quello con cui non ci si poteva intendere perché non parlava il greco, anzi perché non parlava proprio, ma al massimo balbettava il lògos, la parola-pensiero. Con gli xènoi si facevano anche le guerre, ma si era sostanzialmente tra pari, con i bàrbaroi la distanza era invece incolmabile2. Un primo modello che il rapporto tra Greci e barbari ha storicamente preso è quello della colonia. Il termine greco è apoikìa, letteralmente «l’insediamento lontano da casa», una sorta di dépendance della residenza principale3, le cui strutture socioeconomiche e politiche erano di norma analoghe a quelle della metropoli4. Le colonie greche del VIII, VII e VI secolo prima dell’era volgare5 furono infatti, fin dal principio, città-stato indipendenti dalla madrepatria6 (anche se da questa promosse e organizzate7). A tal punto erano indipendenti che, con l’apoikìa, il trasferimento era per lo più irreversibile e gli apoìkoi potevano addirittura 2 Del tutto simile l’accezione romana tra hostis, straniero con diritti uguali, e peregrinus, straniero proveniente dal “fuori” del territorio (V. Segreto, La correzione dell’altro. L’impossibilità statuale dell’incontro interculturale nella polis greca, in A. Palumbo - V. Segreto (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 196). 3 Uno dei termini usati in inglese per indicare la colonia è dependency, che significa contemporaneamente dipendenza, possedimento e, appunto, dépendance. 4 M. Lombardo, Introduzione, in M. I. Finley, E. Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, Roma, Donzelli, 2000, p. XIV. 5 D’ora in poi si userà p.e.v. (prima dell’era volgare, al posto di avanti Cristo) ed e.v. (era volgare, al posto di dopo Cristo), in un tentativo di concreta presa di distanza del ricercatore dal proprio posizionamento eurocentrico. 6 M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, in M. I. Finley, E. Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, cit., p. 11. 7 M. Lombardo, Introduzione, cit., p. XIV. 66 Colonie, imperi e migrazioni essere respinti con le armi se tentavano di rientrare nella città madre8. L’ideologia sottesa al poderoso processo di colonizzazione ellenica del Mediterraneo era quella espressa dal concetto di èremos chora, terra vuota, territorio deserto9. I Greci potevano colonizzare altre terre perché erano vuote, prive di abitanti. Evidentemente, queste terre non erano deserte ma abitate da popolazioni che dovettero essere convinte con le armi a cedere il loro posto ai Greci. Questi territori erano deserti solo secondo una concezione greca: perché la terra non era divisa in lotti di proprietà privata, perché il modo di produzione agricola autoctono era differente da quello conosciuto dai Greci. La sperequazione nella distribuzione dei redditi agrari nella madrepatria ellenica – rappresentata come stenochorìa, come scarsità di terra – viene allora risolta con la colonizzazione10. E quest’ultima comincia proprio con l’isomoirìa, con la divisione in parti uguali della nuova terra, con una lottizzazione11. La colonizzazione ellenica origina cioè da un insieme di spinte culturali, religiose, demografiche, politiche ma anche economiche: i colonizzatori ritenevano di saper utilizzare meglio le risorse presenti in un territorio che – solo dal punto di vista dello sfruttamento economico – appariva ancora deserto. È un modello non molto distante da quello della bolla papale Inter Coetera che, nel 1492 e.v., accorda a Ferdinando e Isabella il dominio di tutte le terre del Nuovo Mondo 8 E. Lepore, I greci in Italia, in M. I. Finley - E. Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, cit., p. 32. 9 M. Lombardo, Introduzione, cit., p. X. 10 E. Lepore, I greci in Italia, cit., p. 43. 11 Ibid., p. 73. 67 Giuseppe Burgio che non fossero già proprietà di un re cristiano12. Le Americhe erano deserte per gli europei come molti secoli prima lo era il sud d’Italia per i Greci. Inoltre – tanto nella divisione greca della terra in parti uguali quanto nell’evitare i conflitti tra i re cristiani – si attua una sorta di giustizia, di equità e di riconoscimento reciproco tra i membri del Noi, tra i colonizzatori che fondano la loro eguaglianza a spese degli autoctoni che rimangono al di fuori del riconoscimento reciproco tra esseri umani. L’eguaglianza tra i colonizzatori si fonda sul non riconoscimento della differenza costituita dagli autoctoni. L’uguaglianza del Noi poggia sul disconoscimento dell’Alterità. Il nostro termine colonia è però, come si sa, di origine latina e viene dal verbo colĕre, coltivare. Come già per i Greci, anche per i Romani la colonizzazione aveva a che fare con la conquista di terra dove inviare le proprie genti. Così fu per le colonie della Roma repubblicana. E così, molto dopo, anche per il colonialismo di età moderna: la colonia era un posto dove gli uomini emigravano e si insediavano13. Basti pensare all’Algeria dove un terzo dell’intero Paese fu espropriato e concesso a coloni francesi. O alla Rhodesia del Sud dove 219.500 «bianchi» possedevano 35,7 milioni di acri a fronte di 44,4 acri riservati ai ben 4.070.000 africani residenti. O ancora al Mozambico dove, addirittura, 97.300 europei possedevano più di 4 milioni di acri contro i 7 milioni che dovevano dividersi i 6.431.000 africani. Queste cifre, già impressionanti, sottostimano però l’accaduto, perché non tengono conto della produttività relativa delle terre, dell’accesso alle ferrovie e 12 13 68 M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, cit., p. 17. Ibid., p. 8. Colonie, imperi e migrazioni di altri fattori che favorivano ulteriormente gli europei14. Per questi motivi, a Finley la terra – e il suo uso produttivo – pare elemento fondamentale nella definizione del colonialismo stricto sensu. Nella tipologizzazione che adotta, cioè, la colonizzazione implica sempre l’espropriazione e l’occupazione della terra15. Il colonialismo nasce come agricolonialismo e si presenta come una forma violenta di territorializzazione, in realtà di riterritorializzazione, attuata attraverso lo spostamento dei propri emigranti. Anche se, come si è detto, il legame con l’agricoltura e con l’invio di coloni costituisce per Finley il significato proprio di colonia, questo ultimo termine (tanto nei documenti amministrativi coloniali, quanto nel linguaggio quotidiano) è stato usato con varie oscillazioni di significato e, verso la fine del XIX secolo, esso ha preso a indicare genericamente ogni tipo di possedimento16. Per chiarire occorre allora introdurre un altro termine. 2. L’imperialismo La seconda configurazione che descrive il rapporto tra il Noi europeo e l’Altro è l’impero. Finley distingue tra il colonialismo e l’imperialismo, modello nel quale a spostarsi nelle colonie è solo l’esercito e il ceto dirigente, che si sostituisce a quello preesistente. A questo secondo modello apparteneva in Grecia la kleroukìa, nella quale i coloni conservavano la cittadi14 15 16 Ibid., pp. 18-21. Ibid., pp. 15-6. Ibid., p. 6. 69 Giuseppe Burgio nanza della città-madre17. Così come la colonia romana di epoca imperiale, che prevedeva l’immediata e formale incorporazione dei territori conquistati nell’organizzazione di Roma18. Pure i regni ellenistici orientali videro solo lo spostamento di un’élite governante, non una migrazione di contadini19. E così accadde nei possedimenti veneziani a Corfù, a Creta, in Eubea e in varie isole dell’Egeo, dove l’agricoltura rimase in mani autoctone, o ancora nelle colonie genovesi20. Rispetto al colonialismo, il modello dell’impero permette di determinare il carattere dello sfruttamento economico in maniera molto più efficace21. Si tratta di una macchina di dominio che, a partire dal XIX secolo, si diffonde rapidamente, tanto che – nota Said – nel 1914 l’imperialismo europeo controllava circa l’85% della superficie terrestre sotto varie forme (protettorati, possedimenti, domini, commonwealth, etc.22). L’India Britannica è l’esempio più citato di imperialismo, così come la spartizione europea del continente africano. Tuttavia, neanche dopo le lotte anticoloniali l’imperialismo è scomparso del tutto: Beck e Grande definiscono la stessa Unione Europea come un odierno impero. L’Europa non è infatti uno Stato, né una federazione, né una confederazione. Secondo i due autori, è un impero, dato che «lo Stato tenta di risolvere i problemi che attengono alla sicurezza e al benessere stabilendo confini fissi, mentre l’Impero li affronta precisamente 17 Ibid., p. 4. Ibid., p. 26. 19 Ibid., p. 23. 20 Ibid., pp. 14-5. 21 Ibid., p. 12. 22 E. W. Said, Culture and Imperialism, London, Vintage, 1993, pp. 33-4. 18 70 Colonie, imperi e migrazioni attraverso la variabilità e la mobilità dei suoi confini, attraverso l’espansione verso l’esterno»23, come facevano la talassocrazia ateniese24 e l’Impero romano25. E come accade nella nostra Europa, organismo politico complesso che prevede livelli di integrazione diversi: grazie a una pluralità di accordi, i confini sono articolati e mobili e abbiamo, quindi, un’area di piena integrazione, un’area di cooperazione approfondita, un’area di cooperazione limitata e una di influenza esterna. Basti pensare alla flessibilizzazione dei confini tra Italia e Tunisia, Libia e Albania, ai controlli nelle acque internazionali, agli accordi con la Libia per la riammissione dei migranti illegali, agli accordi che la Spagna ha stipulato con Marocco, Mauritania e Senegal per il controllo dei flussi migranti26. Se a questa flessibilizzazione “estroversa” accostiamo anche quella “introversa”, costituita da luoghi extraterritoriali come i campi di detenzione per migranti27, appare chiaro come i confini politici dell’Europa disegnino ambiti differenziati di cittadinanza, influenza politica, sfruttamento economico, dominio militare, che disegnano un sistema imperiale a geometria variabile28. Tornando ai modelli storici, la distinzione di Finley tra colonialismo e imperialismo (che ricalca quella 23 Cit. in S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre Corte, 2008, p. 91. 24 D. Lanza - M. Vegetti, L’ideologia della città, in M. Vegetti (a cura di), Marxismo e società antica, Milano, Feltrinelli, 1977. 25 G. Cosenza, La transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Milano, Feltrinelli, 2008. 26 G. de Spuches, La città cosmopolita. Altre narrazioni, Palermo, Palumbo, 2011, pp. 113-4. 27 P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Milano, Mimesis, 2007, p. 59. 28 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 84. 71 Giuseppe Burgio utilizzata in letteratura tra «colonie di popolamento» e «colonie di sfruttamento») va a mio avviso relativizzata. Innanzi tutto, non è sempre agevole distinguerne la finalità (di popolamento o di sfruttamento). Inoltre, in storiografia il termine imperialismo indica la fase finale del colonialismo moderno e si riferisce al colonialismo di Stato che, a partire dal XIX secolo e.v., rappresenta un’evoluzione del colonialismo. Secondo Said, al contrario, l’imperialismo indica in generale «la pratica, la teoria e le attitudini di un centro metropolitano dominante che agisce in un territorio distante»29. In quanto tale, è certo distinto dal colonialismo, costituendo un processo più vasto, che ingloba il colonialismo stesso. All’interno dell’interpretazione che del colonialismo/imperialismo dà oggi la corrente degli studi postcoloniali30, utilizzerò il più antico colonialismo come termine-ombrello per indicare, nelle sue varie espressioni storiche, il generale processo di dominio e sfruttamento economico del territorio dell’Altro. All’interno di questo quadro teorico, molti studiosi inseriscono però anche le migrazioni31. 3. Le migrazioni Le migrazioni esistono fin dalla preistoria, ma parlare della contemporaneità «come dell’“età delle migrazioni” è corretto non solo per l’elevata portata degli 29 E. W. Said, Culture and Imperialism, cit., p. 8 (trad. mia). D. Zoletto, Pedagogia e studi culturali. La formazione tra critica postcoloniale e flussi culturali transnazionali, Pisa, ETS, 2011. 31 Ibid., p. 84; S. Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Roma, Ediesse, 2011, pp. 24, 105. 30 72 Colonie, imperi e migrazioni spostamenti di popolazione, ma anche e soprattutto per la rilevanza della questione in tutti i paesi, sia in quelli di partenza che in quelli di arrivo»32. Oggi si percepisce infatti una sorta di “accelerazione” delle migrazioni, soprattutto di quelle internazionali33. In realtà, dal punto di vista statistico, sul totale della popolazione mondiale, la percentuale di persone che oggi migrano si è ridotta sempre più negli ultimi secoli ma, essendo enormemente cresciuta la popolazione mondiale, il loro numero in termini assoluti è aumentato. Come nota Rifkin, «fra il 1970 e il 2000 la popolazione migrante internazionale è aumentata da 82 milioni a 175 milioni, più che raddoppiando in trent’anni. Attualmente, nel mondo una persona su trentacinque è un migrante internazionale. La maggior parte dei migranti si stabilisce nei paesi più ricchi del mondo sviluppato»34. Un risultato delle trasformazioni economiche e demografiche dell’attuale fase di globalizzazione appare infatti la polarizzazione Sud → Nord delle migrazioni internazionali, effetto di una concentrazione dello sviluppo economico nel Nord del mondo e di quello demografico nei paesi del Sud del mondo35. Va inoltre segnalato che negli ultimi decenni si è di molto allargata l’area dei paesi toccati dai movimenti migratori, sia come paesi di partenza sia di destinazione, e cospicui flussi migratori si sono diretti anche verso i 32 M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3-4. 33 Ibid., p. 4. 34 J. Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Mondadori, Milano 2010, p. 400. 35 M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 12. 73 Giuseppe Burgio paesi europei con un notevole tasso di disoccupazione, l’Italia tra questi36. Le attuali migrazioni internazionali sono effetto del processo di sviluppo economico globale e delle sue sperequazioni. Tuttavia, l’ipotesi che individua solo nelle motivazioni economiche la causa delle migrazioni va ampliata, tenendo conto del fatto che, come nota Terray, ad esempio «quasi i due terzi della migrazione africana in Francia vengono dai bacini superiori dei fiumi Senegal e Niger, ai confini di Senegal, Mauritania, Guinea e Mali. Si tratta certo di una regione povera, ma non più di altre regioni d’Africa che contribuiscono poco, o niente, alla migrazione. Allo stesso modo, fino a una data recente, la grande maggioranza dei migranti originari della Cina continentale venivano non da una sola provincia ma addirittura da un solo distretto di questa provincia, il celebre distretto di Wenzhou. Lungi dall’essere sfavorito, esso figura tra le prime zone che sono state aperte agli investimenti stranieri dopo la morte di Mao»37. Esistono insomma altre cause delle migrazioni oltre a quelle di natura economica. Tra queste va annoverata la contraddizione, in molti paesi del Sud del mondo, fra aumento della scolarizzazione e scarsità di opportunità occupazionali per una forza lavoro dotata di elevato capitale umano38. Ciò spiega l’esistenza di flussi di emigrazione anche da paesi interessati da un certo 36 P. Basso, Dalle periferie al centro, ieri e oggi, in P. Basso F. Perocco (a cura di), Immigrazione e trasformazione della società, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 36. 37 E. Terray, Pourquoi partent-ils?, in C. Rodier - E. Terray (dir.), Immigration: fantasmes er réalités. Pour une alternative à la fermeture des frontières, Paris, La Découverte, 2008, p. 22 (trad. mia). 38 M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 8. 74 Colonie, imperi e migrazioni sviluppo e da elevati livelli di scolarizzazione (e quindi di aspettative)39. Secondo Appadurai, ulteriori nuove dimensioni che caratterizzano oggi la migrazione sono la velocità degli spostamenti e il ruolo che i massmedia svolgono nel diffondere e pubblicizzare gli stili di vita occidentali40. Le migrazioni hanno cioè cessato di essere esclusivamente “economiche” e sono diventate un più ampio fenomeno “socio-culturale”41. Esse, infatti, risultano oggi inscritte oggettivamente nel meccanismo mondiale della globalizzazione neoliberista e soggettivamente nell’aspirazione all’emancipazione individuale e a vivere in condizioni socioeconomiche che siano all’altezza dei bisogni e delle aspettative che la scolarizzazione, i massmedia e la globalizzazione hanno prodotto. I migranti esprimono insomma un’implicita critica politica dell’esistente. Ormai centinaia di migliaia di uomini e donne rivendicano concretamente il diritto di fuga: «rifiutano di sottostare al regime salariale da fame dei loro paesi (in cui le nostre società recintate scaricano le produzioni meno qualificate), rifiutano regimi sociali e politici tirannici (che l’occidente democratico legittima di fatto con una trama di accordi sottobanco); rivendicano il diritto al consumo in un mondo che li vorrebbe relegati al ruolo di produttori, di macchine umane di infimo ordine»42. Il migrante, cioè, è anche un soggetto che pratica la propria libertà43. 39 Ibid., p. 9. A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001, p. 18. 41 C. Sirna Terranova, Pedagogia interculturale. Concetti, problemi, proposte, Milano, Guerini e Associati, 1997, p. 178. 42 A. Dal Lago, Giovani, stranieri & criminali, Roma, Manifestolibri, 2001, p. 58. 43 Ibid., pp. 68-9. 40 75 Giuseppe Burgio Per tutti questi motivi, assistiamo oggi a «una differenziazione delle migrazioni, vale a dire una sempre più complessa composizione dei flussi dal punto di vista demografico e sociale, dal punto di vista delle motivazioni e delle migrazioni […], e ancora riguardo al modello migratorio che caratterizza i protagonisti dell’esperienza»44. A unificare tale poliedricità contribuisce però un elemento che appare costante in tutte le società europee di destinazione. Il nostro rapporto col fenomeno migratorio appare infatti improntato a paura, diffidenza e xenofobia che si esprimono come richiesta di politiche securitarie45. Il migrante costituisce così il simbolo dell’Alterità da respingere o almeno da controllare, e acquista centralità sociale la regolamentazione sempre più stringente dei flussi migratori attraverso le politiche istituzionali dei paesi d’arrivo46. A seguito di questa normazione, si è sviluppata in Europa una forma di inclusione selettiva e differenziale dei migranti, cui corrisponde un pluralità di status giuridici. Con il progressivo, laborioso consolidarsi di una cittadinanza europea, sono infatti nate difformità riguardo allo status di straniero ed esistono persino – come accadeva nell’Impero romano – varie gradazioni di alterità che rendono, ad esempio, i migranti algerini in Francia, anche se di seconda generazione (e quindi nati e sempre vissuti in Francia), più “stranieri” di un romeno che – anche se totalmente alieno dalla lingua, dai costumi e 44 M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., pp. 4-5. A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, Roma, Derive Approdi, 2009, pp. 228-9. 46 M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 5. 45 76 Colonie, imperi e migrazioni dalla storia della Francia – è cittadino comunitario47. Un romeno d’altro canto non è europeo quanto un francese, così come c’era differenza tra gli abitanti di una colonia “latina” e quelli di una colonia “romana”48... A inquadrare cioè le attuali migrazioni internazionali è una cornice concettuale di gradazione dei diritti, di inferiorizzazione dell’Altro e, di conseguenza, di sfruttamento (legale o illegale). Tale cornice di differenziazione della cittadinanza, di controllo e gerarchizzazione socioculturale, di sfruttamento è, sostanzialmente, quella inventata ieri dal colonialismo e dall’imperialismo storico, e oggi applicata alla violenza (economica e non più militare) del neocolonialismo ai danni delle ex-colonie e, anche, alle migrazioni internazionali. Per questo, le migrazioni attuali vanno inserite all’interno dello schema concettuale coloniale e dei rapporti di potere che lo esprimevano. Tra il colonialismo storico e le attuali migrazioni internazionali, inoltre, sembra essersi realizzata anche una continuità costituita dallo sfruttamento economico: si osservi ad esempio «come nel gruppo dei paesi [oggi economicamente] dominanti ci siano tutti i paesi “ex”possessori di colonie e che tutti i paesi che hanno potuto beneficiare delle migrazioni internazionali (nel mondo primeggiano gli Stati Uniti, paese di immigrazione per eccellenza, e in Europa la Germania [...]), mentre in quello dei paesi dominati si assembrano le ex-colonie e i paesi storicamente penalizzati dalle migrazioni internazionali [come, ad esempio, Italia, Grecia, Polonia, Irlanda...], esportatori di braccia e sempre più anche di cervelli, e 47 S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, il Mulino, 2005, p. 207. 48 M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, cit., p. 4. 77 Giuseppe Burgio importatori di capitali e di scienza e tecnologia»49. La contrapposizione tra Paese d’origine e Paese di destinazione delle migrazioni internazionali appare cioè sovrapporsi più o meno a quella che esisteva tra metropoli e colonie, segnando il confine tra Paesi economicamente dominanti e quelli dominati. Questa ipotesi spinge a riconsiderare il termineombrello colonialismo, intendendolo come il processo di dominio e sfruttamento non solo del territorio dell’Altro ma, direttamente, dell’Altro. Se il colonialismo prevedeva lo spostamento di europei in territori lontani, per sfruttarne la terra, le ricchezze e le genti, le migrazioni attuali rappresentano il processo inverso: lo spostamento di giovani popolazioni dai loro territori in Europa, ma sempre all’interno di una cornice di sfruttamento economico e di inferiorizzazione dell’Altro che favorisce noi europei. Le migrazioni vanno cioè inserite all’interno della cornice economica del capitalismo industrialista che ha presieduto al passaggio storico dal colonialismo all’imperialismo e che oggi presiede alle dinamiche migratorie internazionali oltre che allo sfruttamento neocoloniale. 4. La condizione postcoloniale Rileggendo criticamente la lunga storia europea di colonialismo, imperialismo e, oggi, di migrazioni internazionali, possiamo dire che essa appare intenzionata da un fil rouge costituito da un’intima strutturazione colonialista, che ci riguarda tutti direttamente. Possiamo infatti sicuramente dire che il colonialismo è un’invenzione del vecchio continente e che solo 49 78 P. Basso, Dalle periferie al centro, ieri e oggi, cit., p. 31. Colonie, imperi e migrazioni dopo l’occupazione statunitense delle Filippine smette di essere un fenomeno europeo (pur mantenendo un carattere “occidentale”)50. Inoltre, lo sfruttamento delle altre genti (nel loro o nel nostro territorio) e della loro terra, delle loro ricchezze, della loro forza-lavoro, delle loro conoscenze, etc., non è solo qualcosa che abbiamo fatto (e che ancora facciamo) ma qualcosa che siamo stati. Il colonialismo costituisce la nostra storia e, quindi, anche la nostra «identità», ciò che ancora siamo. Dal momento che l’immagine del Noi e della nostra civiltà, fin dall’Antichità ma soprattutto dal XVI secolo in poi, ha preso forma entro un movimento di costante comparazione con le immagini dei bàrbaroi, dei “selvaggi” che abbiamo sottomesso, queste genti non si limitano a marcare il limite esterno dell’Europa, il confine del Noi. Secondo Mezzadra, gli “altri” sono piuttosto fin dal principio implicati nel lavorìo teorico e pratico che ha prodotto l’Europa, nonché i concetti attraverso cui essa ha trovato (e trova) articolazione identitaria51. Callari Galli addirittura fissa una data di nascita simbolica di questo nostro rapporto con l’alterità: «nel momento in cui l’Occidente, con la scoperta del continente americano, ebbe la consapevolezza dell’esistenza di mondi totalmente “altri” rispetto al proprio cammino culturale, si ritrasse da ogni rapporto con le differenze, cercando di scacciare da sé quelle con le quali per secoli aveva, sia pure con mille contraddizioni, avuto relazioni profonde e molteplici scambi: il 1492 così diviene l’anno in cui si respinge ogni rapporto non solo con il variegato mosaico culturale del continente americano ma in cui si espellono dalla penisola 50 51 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 47. Ibid., p. 75. 79 Giuseppe Burgio iberica i musulmani e gli ebrei»52. A partire da questa data, cifra dell’identità europea diventa progressivamente il dominio sull’Altro e, contemporaneamente, il suo disconoscimento attraverso la cancellazione del ricordo dei prestiti e degli scambi attraverso cui il Noi si era costituito. Le radici simboliche dell’Europa affondano poi nel colonialismo anche per un altro motivo: le colonie hanno funzionato come laboratorio di sperimentazione. Elementi costitutivi della recente storia europea si mostrano infatti come l’applicazione alla popolazione continentale di dispositivi precedentemente inventati, testati e validati in ambito coloniale. Se i campi di concentramento nazisti costituiscono uno snodo storico, simbolico e culturale di cui non possiamo non tenere conto53, bisogna però ricordare che fu durante la guerra boera che i britannici crearono i primi campi di concentramento della storia54 e che il primo genocidio del ‘900 fu compiuto dalla Germania guglielmina in Namibia, ai danni del popolo herero55. E secondo Simone Weil, in fondo «la natura dell’hitlerismo consiste proprio nell’applicazione, da parte della Germania, dei metodi della conquista e della dominazione coloniali al continen- 52 M. Callari Galli, Trasversalità culturale e processi educativi: osservando il Mediterraneo, in D. Demetrio (a cura di), Nel tempo della pluralità. Educazione interculturale in discussione e ricerca, Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1997, pp. 87-8. 53 Cfr. R. Mantegazza, Pedagogia della resistenza. Tracce utopiche, Troina (EN), Città Aperta, 2003. 54 Per il colonialismo italiano e le sue colpe cfr. S. Bellassai, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 40. 55 Ibid., pp. 30-1. 80 Colonie, imperi e migrazioni te europeo»56. Il ’900 ha cioè “semplicemente” segnato la mostruosa applicazione sulla pelle degli europei di dispositivi di controllo, disconoscimento e annientamento che erano stati sperimentati in ambito coloniale. E tali dispositivi – in parte – appaiono ancora oggi in azione. Basti solo pensare che – prima di venire in mente ai politici nostrani come mezzo per censire i Rom – l’uso a fini di controllo delle impronte digitali ha origine nel Bengala coloniale57. Al di là dei conti che non abbiamo mai fatto con il colonialismo moderno, l’attuale aspetto dell’Europa è cioè postcoloniale perché siamo (inevitabilmente o inconsapevolmente) segnati culturalmente da questa storia: è l’esperienza coloniale, il confronto con l’alterità del colonizzato (che sia ex-, neo- o post-) ad aver costituito e a costituire il senso di un’appartenenza europea. La nostra è una realtà in cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio per le modalità con cui il suo superamento si è realizzato (o meglio, non si è realizzato), si installa occultamente al centro dell’esperienza sociale contemporanea58. Le colonie sono lo specchio attraverso cui si riflette un senso dell’identità europea e, per questo motivo, tutti noi viviamo una condizione postcoloniale. Il post- non si riferisce quindi a un superamento, a un dopo rispetto a un’archiviazione, a un cambio di orientamento prassico, piuttosto a un’età che appare segnata, marchiata da un’esperienza coloniale mai conclusa. Possiamo cioè dire che la nostra condizione postcoloniale è costituita da relazioni (economiche, politiche, 56 S. Weil, Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente, Milano, Medusa, 2003, p. 36. 57 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 27. 58 Ibid., p. 25. 81 Giuseppe Burgio sociali, sessuali, simboliche…) di dominio/subordinazione che affondano le radici nella storia del colonialismo e dell’imperialismo europeo e che, nell’attuale epoca di neocolonialismo globalizzato, continuano a essere ancora attive59 e costantemente riprodotte all’interno del vecchio continente attraverso le politiche migratorie. La dinamica coloniale che prima contrapponeva i cittadini-colonizzatori-autoctoni della madrepatria agli stranieri colonizzati che stavano fuori dei confini (e che si è riprodotta all’interno del vecchio continente durante la tragedia nazifascista, sulla falsariga del confine tra la razza pura e quelle impure) continua a fornire purtroppo il senso alla segregazione dello Straniero che oggi si trovi dentro i nostri confini. Il lager nazista, il C.I.E. (Centro di Identificazione ed Espulsione degli immigrati irregolari) e il “campo nomadi” per i rom costituiscono esempi di una extraterritorialità, di una sospensione della democrazia, di una normale eccezionalità che si pone in continuità con l’esperienza coloniale60. La condizione postcoloniale si (ri)costituisce così ogni giorno, rafforzata dall’esempio che l’Impero Europeo fornisce come spazio differenziale e neocoloniale, tanto all’esterno (con il controllo proiettato su Paesi come il Marocco o l’Ucraina), quanto all’interno (con i centri di detenzione amministrativa per migranti), sia con i “campi nomadi” per i rom (in realtà campi di reclusione per gente che, in stragrande maggioranza, 59 B. Moore-Gilbert, Postcolonial Theory. Contexts, Practices, Politics, London-New York, Verso, 1997, p. 12. 60 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., pp. 84-6. 82 Colonie, imperi e migrazioni nomade non è affatto61), sia attraverso le dinamiche con cui si è realizzato il processo di allargamento dell’U.E., che hanno posto le basi per un colonialismo interno, per lo sfruttamento degli europei dell’Est62. Già da tempo, infatti, la differenziazione della popolazione, la frammentazione sociale e la precarizzazione dei diritti (elementi storicamente caratterizzanti la politica coloniale) si è applicata a quote sempre crescenti di popolazione, autoctona o immigrata in Europa. Ciò è stato possibile perché il dispositivo coloniale stesso si è trasformato: il dominio si dispiega oggi tanto all’interno dei paesi ex colonizzati quanto nelle ex potenze imperialiste. È lo sfruttamento di élites ormai transnazionali su genti inferiorizzate e marginalizzate. Proprio questa nuova dimensione del dispositivo coloniale ci permette di interpretare le migrazioni internazionali e il contatto interculturale all’interno di una cornice postcoloniale. L’Europa multiculturale L’Europa Unita ha adottato come sua piattaforma ideologica il multiculturalismo, concezione che convive però con le concrete politiche migratorie della Fortezza Europa, basate sulla chiusura, l’internamento, il controllo, la marginalizzazione63. La mia tesi è che la mancata problematizzazione del nostro passato colonialista ha portato a interpretare il multiculturalismo come giustapposizione di culture ipostatizzate, in una 61 Cfr. M. Mannoia, Zingari, che strano popolo! Storia e problemi di una minoranza esclusa, Roma, XL, 2007. 62 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 100. 63 A. Sciurba, Campi di Forza. Percorsi confinati di migranti in Europa, Verona, ombre corte, 2009. 83 Giuseppe Burgio maniera fintamente neutrale che occulta le relazioni di dominio che esistono tra e dentro le “culture”. In questo modo, col multiculturalismo si è riprodotto (e moltiplicato) all’interno dell’Europa quel dominio sull’Altro che si annida già nelle viscere del culturalismo, quella concezione che interpreta i processi di cambiamento, acculturazione, evoluzione – che seguono ai contatti tra i popoli – in termini puramente «culturali», senza tenere conto delle forze economico-politiche all’opera64. Anche la nostra concezione di cultura va allora riletta attraverso una prospettiva postcoloniale. Non solo infatti la cultura e la colonizzazione sono spesso state alleate in passato (si pensi solo ad antropologi e geografi) ma, come colonia, anche il termine cultura ha origine nel verbo latino colĕre. L’etimologia suggerisce cioè che il colonialismo si annidi nel senso stesso della nostra concezione della cultura. L’origine del termine cultura contrappone infatti immediatamente l’ordine del giardino coltivato al disordine della silva, il dentro al fuori. Cicerone per primo usa nelle Tusculanae l’espressione cultura animi o, come suo sinonimo, humanitas: coltivare il proprio animo corrispondeva per lui al diventare pienamente umani. Non deve stupire, quindi, il rapporto che il mondo antico manteneva con l’alterità, con i bàrbaroi: se la cultura è rappresentata dalla raffinatezza intellettuale – dal coltivarsi – è possibile ritenerne privo un altro popolo, che sarà quindi incolto e incivile. In questo quadro, le differenze tra i popoli non sono qualitative e incommensurabili, ma misurabili in quanto variazioni quantitative, gradazioni di maggiore o minore umanità. Il concetto di cultura contiene cioè il modello (per altri 64 V. Lanternari, Antropologia e imperialismo, Torino, Einaudi, 1974, p. 371. 84 Colonie, imperi e migrazioni versi teoricamente utile e progressista) dell’antropopoiesi. Secondo Remotti, mentre le altre specie animali sarebbero caratterizzate da una loro intrinseca completezza, l’uomo sarebbe segnato da un’incompletezza di fondo: «alla determinatezza degli altri esseri si oppone la relativa indeterminatezza dell’essere umano»65. Per completarsi, l’essere umano ha bisogno di un processo di socializzazione, di educazione, insomma di vera e propria antropizzazione che si costituisce come «passaggio da una forma di umanità vicina all’animalità a una forma di umanità che se ne distacca per dare luogo a una socialità tipicamente umana»66. Comparato agli animali, l’uomo differisce cioè perché “si addomestica” grazie all’educazione67. L’essere umano che (come i bàrbaroi) non affronti questo passaggio rimane semplicemente ciò che era in partenza: animale. Abbandonato alla sua incompletezza e alla sua indeterminatezza di base, un umano non arriva a essere tale pienamente. A segnare infatti la differenza tra gli uomini greci e i non-greci non-uomini era la paidèia, termine che significa tanto cultura quanto educazione. Chiaramente, la concezione della cultura come differenziale tra i popoli appare necessaria al dispositivo coloniale tanto che, ricorda Weil, non per caso il colonialismo moderno ha significato anche la privazione del loro passato e delle loro tradizioni per i popoli conquistati, resi così senza 65 F. Remotti, Sull’incompletezza, in Affergan, F. et alii, Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi, 2005, p. 31. 66 Ibid., p. 20. 67 C. Calame, Modalità rituali di fabbricazione dell’uomo: l’iniziazione tribale, in Affergan, F. et alii, Figure dell’umano, cit., p. 199. 85 Giuseppe Burgio radici, ridotti allo stato di semplice “materia umana”, privi di “cultura”68. Il rimando etimologico al verbo colĕre spinge inoltre a riflettere sul legame semantico che il termine cultura ha con la coltivazione di piante in vista del loro miglioramento, del loro benessere, della loro “resa” in termini di produttività delle loro potenzialità: questo campo metaforico lega ancora una volta la cultura al concetto di educazione, che nell’antica Grecia nasce come ortopedìa, come volontà di raddrizzare una pianta che abbisogna di sostegno69. Successivamente, nella storia europea anche la Bildung ha trovato nella crescita biologica il primo riferimento educativo per lo sviluppo dell’individuo-persona70. All’interno di questo paradigma agricolo, l’educazione si è così tradizionalmente costituita come il processo attivo di coltivazione di cui la cultura è il risultato ipostatizzato. Il concetto dell’antropopoiesi che ha informato di sé la concezione europea tanto della cultura quanto dell’educazione esprime insomma una gradazione di perfezionamento dell’umanità, pensata su una scala valoriale unica. Avere consapevolezza di queste valenze simboliche appare di grande importanza perché il temine cultura, e le sue interpretazioni differenzialiste, si collocano oggi al centro di ogni discorso sulla definizione del Noi71. Ancora oggi infatti la “cultura” come 68 S. Weil, Sul colonialismo, cit., pp. 37-9. Cfr. V. Andò, La relazione pedagogica nella Grecia classica tra violenza e cura, in «Studi sulla formazione», XI (2008), n. 1, pp. 73-86. 70 F. Cambi, La formazione nel disincanto. Quale neo-Bildung?, in «Paideutika. Quaderni di formazione e cultura», nuova serie, V (2009), n. 9, pp. 91-102. 71 R. Borghi - M. Camuffo, Differencity: postcolonialismo e costruzione delle identità urbane, in P. Barbieri (a cura di), È successo 69 86 Colonie, imperi e migrazioni gradazione di perfezionamento educativo contribuisce all’esclusione dell’Altro, come risulta evidente se pensiamo, ad esempio, che le credenziali educative dei migranti stentano ancora molto a trovare riconoscimento e valorizzazione, e che «secondo l’Istat, oltre la metà degli occupati stranieri possiede il diploma o la laurea (54,1% contro il 62,3% degli autoctoni), ma circa i tre quarti svolgono una professione operaia o non qualificata (73,4% a fronte del 32,9% degli italiani)»72. Il nesso cultura-educazione è a pieno titolo parte di un dispositivo di differenziazione (post)coloniale. La storia genealogica del nostro concetto di cultura – e, per tramite della paidèia greca, di educazione – rende insomma difficile per noi europei pensare allo Straniero fuori da quella cornice di inferiorizzazione dell’Altro, di gerarchizzazione delle varie forme di umanità, di disimpegno etico e di attitudine allo sfruttamento disumanizzante che abbiamo descritto come coloniale. È allora quanto mai necessario, contro la retorica culturalista e multiculturalista delle istituzioni europee, esplicitare il vincolo genealogico che ci spinge implicitamente a pensare il contatto interculturale nelle forme del dominio/sfruttamento/disconoscimento dell’Altro. qualcosa alla città. Manuale di antropologia urbana, Roma, Donzelli, 2010, p. 138. 72 M. Ambrosini, Richiesti e respinti. L’immigrazione in Italia. Come e perché, Milano, il Saggiatore, 2010, p. 65. 87 Giuseppe Burgio Riferimenti bibliografici Affergan, F., et alii, Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi, 2005. Barbieri, P. (a cura di), È successo qualcosa alla città. Manuale di antropologia urbana, Roma, Donzelli, 2010. Benhabib, S., La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, il Mulino, 2005. Bettini, M. (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari, Laterza, 2005. Burgio, A., Senza democrazia. Un’analisi della crisi, Roma, Derive Approdi, 2009. Dal Lago, A., Giovani, stranieri & criminali, Roma, Manifestolibri, 2001. Finley, M. I., - E., Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, Roma, Donzelli, 2000. Lanternari, V., Antropologia e imperialismo, Torino, Einaudi, 1974. Palumbo, A., - V., Segreto (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali, Milano-Udine, Mimesis, 2011. Said, E.W., Culture and Imperialism, London, Vintage, 1993. 88 Roger Garaudy: mon tour du siècle Francesco Mattei Dipartimento di Scienze dell’Educazione Via dei Mille, 23 - 00185 Roma Università Roma Tre - [email protected] 1. Mon tour du siècle en solitaire1 Il 13 giugno di quest’anno, a Chennevières-surMarne, si è spento Roger Garaudy. Era nato a Marsiglia il 17 luglio 1913. Scrittore, filosofo, politico, esponente di spicco, per lunghi decenni, del mondo politicofilosofico francese, per altri lunghi decenni era scivolato nell’oblio, ma era tornato sulle prime pagine grazie alle polemiche sorte attorno alle sue ultime posizioni radicalmente negazioniste e molto critiche verso la politica di Israele. E così, lo scenario politico-culturale internazionale, che lo aveva visto protagonista dalla grande visibilità, lo riscopriva, inaspettatamente, come elemento di spicco di posizioni esecrabili e quasi unanimemente esecrate. Era questa l’ultima svolta2, una delle tante, della sua lunga biografia politica e intellettuale. Delle svolte e delle conversioni egli era in effetti frequentatore assiduo, e mai 1 R. Garaudy, Mon tour du siècle en solitaire: mémoires, Paris, R. Laffont, 1989 (trad. it., Fiesole, Cultura della pace, 1991). È l’autobiografia intellettuale di Garaudy. 2 Cfr. R. Garaudy, La grande svolta del socialismo, Milano, Feltrinelli, 1970 (ed. or., Paris, Gallimard, 1969). Non era questa la prima “svolta”. Altre ne aveva operate: filosofiche, religiose, politiche. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 89-108. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Francesco Mattei era stato prudente nell’uso manifesto ed esibito di conversioni e rotture spesso brusche e radicali. È stato detto, e credo a ragione, che Garaudy ha sempre ricercato un suo Dio e una sua fede. E ciò che egli tenne desto, nel lungo peregrinare per partiti, fedi e religioni, fu una sostanziale fedeltà all’uomo e ad una idea di Dio non nemico dell’uomo e della Terra3. Un Dio dai molti volti e un uomo in continuo movimento di trascendenza, ma in direzione di un assoluto che già egli scorgeva essere in sé. Anche lui, insomma, aveva fatto del Deus manet in nobis (I Gv, 4,12) – espressione antica nel pensiero filosofico della dizione dell’immanenza – un suo punto fermo. E quel convincimento si era configurato in lui, che proveniva dalla più pura e dura tradizione marxista, come una sostanziale adesione all’esigenza di trascendenza presente (per alcuni) nell’uomo e nella storia. Un’esigenza, a suo parere, di marcata ascendenza religiosa: protestante e cattolica insieme. Come dire, ci troviamo ancora una volta, con Garaudy, nel lungo e conflittuale capitolo ermeneutico di immanenza e trascendenza. Ma ciò non va letto, credo, come una novità nella narrazione dei trascendentismi e degli immanentismi. A questa tradizione di polemica alta, spesso raffinata e spesso aspra, che ha scritto pagine significative e laceranti nella storia del pensiero filosofico, egli ha però offerto un suo apporto specifico. Ha fatto dei tre monoteismi un sincretismo prima diacronico, poi sincronico. Ma esula, e molto, questo suo sincretismo, dalle posizioni tradizionali che hanno attraversato il XX secolo. E il volto del Dio biblico gli è apparso spesso, nonostante gli 3 Ho sottolineato questo aspetto del suo umanesimo in anni lontani: cfr. F. Mattei, Roger Garaudy: in nome dell’uomo, in «I problemi della pedagogia», XXVII (1981), n. 1-2, ora in F. Mattei, Scienza Religione Filosofia, Roma, Anicia, 2002, pp. 117-132. 90 Roger Garaudy: mon tour du siècle appelli alla pace e alla comprensione, “sfigurato” dalla politica aggressiva del popolo e del governo di Israele. Queste le ultime posizioni. Posizioni azzardate, credo, almeno nella sovrapposizione eccessiva che egli opera fra mondo religioso-culturale e mondo politico. Ed è sovrapposizione che mai egli aveva spinto così in avanti, nemmeno quando si riconosceva nel marxismo ortodosso o in quello critico. Ma, forse, è un altro dei segni evidenti dell’inquietudine e dell’insoddisfazione che hanno accompagnato la sua lunga e mai pacificata esistenza. Nato in una famiglia atea, egli fu dapprima giovane protestante, convinto e affascinato da Schopenhauer e da Barth, nei circoli di Strasburgo4; poi fu neofita marxista (1933), intellettuale, militante e politico di primo piano, fino a diventare deputato, senatore e infine segretario – poi espulso – del Partito comunista francese (1970). In seguito fu cristiano preso dal dialogo e nel dialogo marxismo-cristianesimo sorto attorno al fervore teologico-culturale inaugurato dalla Pacem in terris (1962) e dal concilio Vaticano II (1962-65), un dialogo che aveva visto tra i suoi protagonisti teologi e filosofi cristiani come Metz, Moltmann, Cottier, K. Rahner, Carré, Chenu, Gonzalez Ruiz, Girardi, Balducci5. Partecipò a quel dialogo con passione vera. Ne maturò un’adesione convinta al cristianesimo, ma pari convinzione egli mise, presto, nell’adesione all’Islam (1982), fino ad assumere il nome di Ragaa e a formalizzare un’altra sua esplicita conversione. Una conversione che prese dapprima la forma di un’accettazione convinta, poi quella di una critica radicale ad ogni in4 Fu presidente, in gioventù, della Unione universitaria degli studenti ugonotti. 5 Cfr. R. Garaudy, Dall’anatema al dialogo, Brescia, Queriniana, 1969, pp. 23-114 (ed. or., Paris, 1965), con risposta di J. Metz. 91 Francesco Mattei tegrismo e integralismo religioso e politico (compreso quello islamico)6. Fu proprio in questo clima di dialettica politico-religiosa – lui sempre attento alle ragioni antioccidentali e filoarabe – che maturò la sua avversione sfrenata nei confronti della politica israeliana e la sua esplicita professione negazionista7. E si trovò così, di nuovo, in contrasto con i suoi appelli alla pace e alla tolleranza (presenti anche nella tradizione islamica)8, al centro del dibattito internazionale, creando sconcerto e confusione tra coloro che avevano seguito con simpatia o critica non preconcetta la sua parabola politico-filosofica. La sua figura di intellettuale, che aveva attraversato con originalità la seconda metà del XIX secolo, uscì da quella vicenda fortemente sfigurata e ridimensionata. E a poco valse, data l’indifendibile radicalità, la difesa appassionata dell’antico amico, l’abbé Pierre: la sua condanna, da parte della magistratura francese (1998), non potè suscitare, in definitiva, dibattiti significativi in nome della sempre invocata libertà di pensiero. 6 Per le vicende concernenti il fenomeno Islam, culminato nel 2002 con l’assegnazione a Garaudy del Premio Gheddafi per i diritti umani, cfr. R. Garaudy, Promesses de l’islam, Paris, Seuil, 1981; Id., Pour un islam du XX siècle, Paris, Tougui, 1985; Id., La Palestine, terre des messages divins, Albatros, 1986; Id., Où allons-nous? Paris, Ed. Messidor, 1990; Id., L’Islam en Occident. Cordoue capitale de l’esprit, Paris, L’Harmattan, 2000; Id., Intégrismes Paris, Belfond, 1990; Id., L’Islam et l’intégrisme, Le Temps des cerises, Pantin, 1996. 7 R. Garaudy, Les mythes fondateurs de la politique israélienne, Paris, la Vieille Taupe, 1995 (trad. it., Genova, Graphos, 1999). I tre capp. del saggio (I miti teologici; I miti del ventesimo secolo; L’utilizzazione politica del mito) non fugano il sospetto di un’opera militante, storicamente debole, molto segnata da un antisionismo ormai in lui conclamato e poco solido dal punto di vista storico. 8 A questo scopo, dopo la sua conversione all’Islam, istituì una Fondazione Garaudy a Cordova, nella Torre di Calahorra, proprio per ricordare lo splendore di un tempo islamico non più aggressivo. 92 Roger Garaudy: mon tour du siècle Questi i veloci passaggi del quasi secolo di vita di Garaudy. Passaggi non scontati. Che provocano nell’osservatore un senso di disorientamento. Il che dovrebbe consigliare, credo, una cautela di giudizio e un bilancio critico non troppo segmentato: pur dovendo sfidare, e con qualche forzato pudore, la stringente e inesorabile dialettica hegeliana «della radice e del frutto». Mi sembra insomma che sia poco generoso, e poco intellettualmente onesto, costringere una vita così lunga e così proteiforme nella camicia di forza di una esecrabile sconfitta di un’ideologia-filosofia (marxista) di cui Garaudy sarebbe stato, insieme, profeta e alfiere dal superamento “nefasto”. E dico ciò perché i ricordi che di lui sono stati tracciati, sulle pagine culturali della stampa nazionale e internazionale, sono stati improntati, in genere, a smaccata sottovalutazione o a derisione e insignificanza: tanto della sua pagina hegelo-marxista quanto di quella dialogica marxismo-cristianesimo9. Perciò mi sembra giusto restituire Garaudy ad una dimensione culturale e ad una evoluzione (o involuzione) filosofico-politica che non si arresti alle cadute acerbe e sconcertanti di una lunga e fragile vecchiezza oscurata da sentimenti radicalmente antisionisti. Non mi sembra il caso, perciò, di cedere il passo a spiegazioni dalle venature psicoanalitiche aventi come sfondo ermeneutico le dinamiche tipiche del fenomeno religioso: anche se Garaudy, dopo il giovanile fervore protestante, ha abbracciato il marxismo (1933) o l’islamismo con una adesione degna di fedi e di speranze assolute. E anche se di quel marxismo integro e tetragono egli ha condiviso la fedeltà totale alla “causa”: causa 9 Cfr., ad es., M. Flores, Garaudy, l’ideologia che acceca, in «Il Corriere della sera», 16.06.2012; L. Rolandi, L’involuzione tragica di Roger Garaudy, in «La Stampa», 15.06.2012; L. Cédelle, Roger Garaudy, figure du négationnisme, est mort, in «Le Monde», 15.06.2012. 93 Francesco Mattei filosofico-politica e causa storico-sociale. Basta leggere, in proposito, due tra i suoi primi scritti: Le communisme et la morale o La théorie matérialiste de la connaissance10. Una summa perfetta, questi primi lavori, di ciò che egli avrebbe poi radicalmente rinnegato. Ma lì seguiva, il giovane convertito e militante di partito, la vulgata del canone marxista allora imperante. Si può così scorgere, in quelle pagine, una tale difesa (concettualmente armata) della teoria gnoseologica del “rispecchiamento” oggetto-soggetto che avrebbe fatto poi rabbrividire il Garaudy maturo. Un Garaudy che inclinerà sempre più, una volta allentati i legami con il corpo politico e dottrinale del partito, verso quello che si è soliti chiamare soggettivismo, idealismo, trascendenza, libertà: l’atto spirituale e poietico, insomma, dell’individuo (occidentale). Alludo a queste posizioni iniziali perché ciò può spiegare, in parte, alcune delle sue inaudite contraddizioni. Egli polemizzò infatti, e duramente, con Sartre e con Ricoeur. Polemizzò con Mounier e con il personalismo comunitario. Polemizzò, pur fra qualche distinguo, con ogni declinazione possibile dell’esistenzialismo. Giacché vedeva nel marxismo, e soprattutto in quello di stampo stalinista sovietico, una guida sicura e una risposta efficace ai molti problemi sociali e storici della Francia e della classe operaia. Ma presto vennero la disillusione, come 10 Le communisme et la morale, Paris, Éd. Sociales, 1945; La théorie matérialiste de la connaissance, Paris, PUF, 1953. Questo studio, che è la rielaborazione della sua tesi dottorale discussa con Bachelard alla Sorbona (La théorie de la connaissance d’Helvétius), è un’espressione tipica dello stigma positivistico che affliggeva allora il marxismo ortodosso, una costruzione ben confezionata sulla teoria oggettiva e oggettivistica del “riflesso”. Perciò Garaudy ne vieterà la ristampa. Ma più interessante, dal punto di vista pedagogico, è la confessione che gli farà Bachelard qualche anno dopo: «Je n’étais pas du tout d’accord avec votre thèse, mais je voulais vous aider et non vous influencer» (R. Garaudy, Mon tour du siècle…, cit., p. 142). E giustamente chiosa Garaudy: «Grande leçon…!» (ibidem). 94 Roger Garaudy: mon tour du siècle egli ricorda, e lo sconforto della destalinizzazione, a seguito della relazione di Khruščёv al XX Congresso del PCUS. E si aprì per lui un’altra stagione. Dal marxismo dogmatico passò, o dovette passare, ad un marxismo “critico-attivistico” erede della tradizione tedesca e segnatamente dell’atto fichtiano. E di questa fase sono testimonianza gli studi su Fichte, Hegel e Lenin e un periodo di rinnovata riflessione filosofica più attenta alla tradizione culturale dell’Occidente e alla sua curvatura politica interprete di una soggettività non deterministica11. 2. Il legame Fichte-Hegel e l’interpretazione del marxismo Da qui il nuovo riposizionamento di Garaudy. D'ora in poi egli penserà al marxismo come ad una radicale posizione etica e ad uno strumento metodologico per realizzarne concretamente le indicazioni. Queste le caratteristiche principali della sua posizione. Aggiungo che il primo elemento, quello storico-critico, è senza dubbio teoreticamente prioritario, e che il confronto dialettico con l'esistenzialismo, la tematizzazione della libertà, dell'umanesimo marxista e della soggettività, in lui così preminenti, ne discenderanno come luoghi obbligati di riflessione teorica vincolante per la prassi politica. Tale lavoro di reinterpretazione non può avvenire senza uno studio accurato delle fonti classiche del marxismo. E a ciò egli si applica, dopo il risveglio dal cosiddetto sonno dogmatico. D’altronde, in ciò l’aveva preceduto Engels, secondo il quale, senza la filosofia classica dei 11 Per quanto concerne Fichte, cfr. R. Garaudy, La méthode antithétique de Fichte, in Dieu est mort, Paris, P.U.F., 1962, pp. 140-141; Id., L’héritage fichtéen et l’hérésie de Prométhée, in Karl Marx, Paris, Seghers, 1965, pp. 39-55; Id., Per una discussione sul fondamento della morale, in AA.VV., Morale e società, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 9-30. 95 Francesco Mattei grandi idealisti tedeschi il socialismo non sarebbe mai sorto12. Ma il fatto interessante, in questa reinterpretazione, è che egli mette fra gli antenati del marxismo anche Fichte, solitamente ospite non gradito nella galleria dei padri fondatori. E questi gli serve proprio per ripensare il contributo che egli ha offerto all'elaborazione del metodo dialettico e al superamento che ne ha fatto Hegel. Così un perentorio Garaudy: occorre finirla «con il dogmatismo, sottolineando che il marxismo non è una filosofia pre-critica, che non è possibile pensare da marxista pensando come se Kant e Fichte non fossero mai esistiti. Non bisogna quindi ridurre l’eredità della filosofia classica tedesca, nel marxismo, a Hegel e a Feuerbach e occorre rivalutare l'eredità di Kant e di Fichte, rimettendola a reggersi sui piedi, ossia dimostrando che una concezione materialista dialettica della pratica ci permette di sviluppare una filosofia critica senza cadere nell’illusione idealistica che la nostra attività generi la realtà sulla quale si esercita»13. Dell’eredità fichtiana egli rivendica tre apporti: la teoria della libertà, la teoria della soggettività, la teoria della pratica. Un’eredità preziosa, dunque, anche se molto re-interpretata. Giacché tramite Fichte, nonostante le molte controversie con Sartre, egli tenta di portare nel marxismo la forte corrente vitale che opera nell’esistenzialismo. E Fichte doveva essere, di necessità, l’autore galeotto. Dice infatti Garaudy: «In una parola, troviamo in Fichte tutti i temi chiave della filosofia esistenzialista, ma all'interno di una filosofia razionalista»14. E ancora: «Ho insistito su Fichte perché possiamo forse, marxisti ed esistenzialisti, trovare in lui il 12 Cfr. Id., Pour un modèle français du socialisme, Paris, Gallimard, 1968, p. 105. 13 Id., Per una discussione sul fondamento della morale, cit., pp. 9-10. 14 Ibid., p. 17. 96 Roger Garaudy: mon tour du siècle nostro comune antenato. Ci può aiutare ad afferrare le due estremità della catena, anche a costo di esserne dilaniati. È sul terreno della filosofia di Fichte che il nostro dialogo sulla morale può essere più fecondo: se i marxisti riapprendono a integrare la teoria della soggettività del pensiero esistenziale di Fichte e se gli esistenzialisti attuali non mutilano l'esistenzialismo fichtiano di due dimensioni fondamentali: la dimensione razionale e quella sociale»15. Come a dire: nel nome di Fichte si può operare una reinterpretazione del legame morale-società e ricostruire un diverso legame sociale (un aspetto non proprio secondario nella costruzione teorica del marxismo). O, almeno, in quello che si è soliti chiamare marxismo umanistico, che ha visto Garaudy (insieme a Schaff o a Gramsci) tra i suoi più arditi corifei e Althusser tra i più accaniti detrattori. Perciò Fichte è padre nobile. Perché la sua concezione dell’«io come atto» può essere lo strumento prezioso per una diversa interpretazione del marxismo. E tramite lui si può dare un addio non nostalgico al marxismo dogmatico-positivistico, perché l’io è attività. Dice Garaudy: «La soggettività è prima di tutto l'affermazione dell'impossibilità, per la coscienza, di adeguarsi a se stessa. Se la coscienza può, a volte, adeguarsi all’essere, renderselo trasparente, essa non può adeguarsi al suo atto, per mezzo del quale necessariamente essa si trascende e si crea. La soggettività non è dunque nell'ordine dell'essere, ma nell'ordine dell'atto»16. E dall’atto alla trascendenza il passo è davvero breve. Basta che il legame pensiero-essere non si limiti, per stabilire la verità, ad un rispecchiamento mente-realtà, ma che tale verità si trovi nella realizzazione-trasformazione di un progetto critico sul reale. E 15 16 Ibidem. Ibid., p.15. 97 Francesco Mattei una tale soggettività, non legata esclusivamente al rapporto pensiero-essere, può trovare un posto degno «in un razionalismo critico come quello di Kant, Fichte, Marx, qualora non ci si accontenti di scoprire l'idea marxista immanente all'essere e di ridurvela, ma ci si serva dell'idea per trasformare l'esistenza»17. Il salto di Garaudy credo sia ormai tutto qui consumato. Il primo Garaudy, quello cui sopra accennavo, è davvero lontano. E si stenta a credere che, nel clima culturale che allora si respirava, Garaudy potesse pensare che questo marxismo “idealistico” potesse trovare tranquillamente dimora nel contesto politico-filosofico. I fatti lo dimostreranno: la sua espulsione dal partito, legata alla sua critica aspra dopo i fatti di Praga, non sarà che la presa d’atto di un legame già sciolto. Il deviazionismo di destra, di cui sarà accusato, non sarà che la traduzione canonico-partitica di una scissione già avvenuta nella elaborazione teorica di un mutato Garaudy. Così infatti un Garaudy ora fichtiano: «Il marxismo è una filosofia dell'atto, ossia una filosofia che fa della coscienza e della pratica umana che la genera e l'arricchisce senza posa una realtà vera, radicata nell'attività anteriore e nel reale, che li riflette, ma superando costantemente il dato e aggiungendo senza posa alla realtà con un atto creatore, che non è dato dalla natura e per il quale nulla garantisce il successo in anticipo»18. Non resta allora che allinearsi ai padri fondatori. E Garaudy lo fa legando Fichte a Marx, soprattutto al Marx dei Manoscritti e dell’Ideologia tedesca, il cosiddetto giovane Marx e il Marx teorico dell’alienazione19. Quanto al 17 Ibidem. Ibid., p. 17 (c.m.). 19 Per le diverse interpretazioni del concetto di «alienazione» in cui si muove Garaudy e parte dell’hegelo-marxismo, cfr. Id., Prospettive dell’uomo, Torino, Borla, 1972, p. 406 e sgg. 18 98 Roger Garaudy: mon tour du siècle Marx maturo, quello dei Grundrisse e de Il Capitale, che accentuerà radicalmente il tema della struttura, sarà sotto il segno di Althusser e della sua scuola. E dunque, pochi saranno i motivi plausibili di una riconciliazione Garaudy-Althusser. La loro conflittualità teorica e personale non troverà più quiete. Il clima sarà sempre conflittuale. E, nella polemica, le due posizioni si radicalizzeranno: Garaudy si attesterà su movenze “fichtiane”; Althusser approderà ad uno strutturalismo tanto rigido da riconoscerne poi lui stesso i limiti in Elementi di autocritica20, e parlandone come di una «deviazione teoreticistica». Ad un’altra interpretazione voglio ancora accennare. Garaudy non esita a prendere in prestito da Fichte anche la concezione della prassi. E ne scorge un superamento nel marxismo storico-materialistico. Giacché l’io, per non rimanere chiuso nel dover essere, necessita di una realtà (storica) da modificare e da superare. Perciò la ragion pratica fichtiana, a suo parere, supera quella kantiana: non più conflitto tra il dovere della coscienza e il “limite” della natura, ma «attività creatrice dell'uomo». «La ragione è teorica – egli scrive – allorché si dà una rappresentazione delle cose; è pratica quando sottomette le cose ai suoi concetti, quando le forma o le crea secondo la propria legge. C'è dunque in germe, in Fichte, sotto forma astratta, l’idea dell'unità della teoria e della pratica e l'idea della libertà come necessità cosciente»21. E conclude: «In definitiva, la pratica, in Fichte, nonostante il suo vocabolario kantiano e il suo idealismo, è l'impegno dell'uomo, di tutto l'uomo, nello 20 L. Althusser, Elementi di autocritica, Milano, Feltrinelli, 1976. Per una ricostruzione di questa lunga polemica rinvio a F. Mattei, «Problematicità del fondamento etico in A. Schaff», in Id., Scienza Religione Filosofia, cit., pp. 89-115. 21 Ibid., p. 50. 99 Francesco Mattei sforzo collettivo per fare la storia, per trasformare la natura e costruire la società»22. Cos’altro chiedere a Fichte? La sua annessione in partibus fidelium è ormai compiuta. E compiuta credo sia anche la trasformazione di un Garaudy totalmente umanistico. Come pure, quella del suo marxismo. A Garaudy, Fichte lascia in eredità un profondo attaccamento al soggetto e una radicale esigenza morale che tempererà oltre misura l'aspetto scientifico. E a Fichte egli si richiamerà, quando difenderà la totalità del soggetto contro i riduzionismi del razionalismo cartesiano, del positivismo e dello strutturalismo althusseriano23. Altro passaggio obbligato del recupero teorico-storiografico del patrimonio classico concerne Hegel, l’annoso problema-Hegel. Ma con ciò siamo alla tradizione. Il saggio su Hegel, Dieu est mort, è del 1962. Ed è inutile ricordare che Garaudy è giunto tardi, e per motivi comprensibili, al dibattito sull'hegelismo, giacché i fermenti innovativi legati all’interpretazione su Hegel si svolgevano su altre sponde, ed erano perciò guardati con sospetto dall'ufficialità cui Garaudy apparteneva. La vitalità e la validità dell’hegelismo si è innestata, come noto, sulla riscoperta della Fenomenologia. Il celebre saggio di J. Wahl sull'infelicità della coscienza nella filosofia di Hegel (1929)24 e gli studi sul giovane Hegel hanno offerto potenza interrogante e strumentazione categoriale alla sensibilità esistenzialista. E la riflessione sull'esistenza ha rinnovato l'antica rivalità dialettica (ed etico-politica) tra storia e individuo. In 22 Ibid., p. 51. Cfr. R. Garaudy, Parola di uomo, Assisi, Cittadella, 1975, p. 97 e sgg. (ed. or., Paris, Laffont, 1975). 24 J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Milano, ILI, 1971. 23 100 Roger Garaudy: mon tour du siècle pari tempo, l'empirismo logico e l'interesse per le dimensioni logico-filosofiche della scienza hanno visto rinascere, accanto alle proprie pretese riduzionistiche dell'oggetto formale della filosofia, spazi di riflessione che erano appartenuti alla ricerca filosofica tradizionale. Accanto agli studi di logica ed epistemologia, gli anni Trenta avevano infatti visto nascere quel complesso fenomeno, genericamente denominato “esistenzialismo”, che conoscerà più tardi fortune non trascurabili. E così, esigenze kierkegaardiane troveranno radici in pagine hegeliane. E perciò si parlerà di hegelismo esistenzialista. È in questo clima che si affronterà, in seno al marxismo, il complesso dibattito del rapporto HegelMarx. In Francia vi partecipano Lefebvre, Kojève, Hyppolite. Nel confronto aspro fra dialettica e struttura, Hegel sarà il “libro” dei dialettici e costituirà un passaggio obbligato: nel rifiuto o nell'accettazione. Sempre, comunque, le influenze hegeliane saranno filtrate attraverso connotazioni kierkegaardiane. E ambedue saranno chiamati a contestare Marx. Kojève, Wahl, Hyppolite saranno i rappresentanti principali di tale corrente. Del resto, Posizione analoga assumeranno i collaboratori della rivista “Critique”, che vedranno nel marxismo uno degli esiti dell'hegelismo e ridurranno il discorso di Marx allo sforzo di realizzazione pratica della libertà. Qui sarà privilegiata l'attività creatrice e libera dell'uomo, dalla quale deriveranno le situazioni, le condizioni e le cose, e saranno poste in ombra le condizioni oggettive entro le quali si opera il processo di oggettivazione, alienazione e disalienazione. Sarà il prevalere della coscienza sulla struttura. Le due figure principali dell'hegelismo francese sono, come noto, Hyppolite e Lefebvre. Per Hyppolite il distacco di Marx da Hegel è essenzialmente filosofico: deriva da un’interpretazione critica, spesso infedele, 101 Francesco Mattei dei temi del maestro. La tesi di un Marx filosofico si lega a quella di un Marx umanista. Al centro delle sue preoccupazioni risiede la realizzazione di un’idea dell’uomo, di un’essenza umana di cui Hegel non è stato in grado di garantire la realizzazione pratica. In questo senso, si può dire che, per Marx, il proletariato è «lo strumento grazie al quale l’umanità, l’uomo generico di Feuerbach, potrà superare ogni alienazione, divenendo padrone del proprio destino»25. Ed è, questa, una tendenza dell'hegelismo, quella che lo riduce ad una filosofia della storia e a radicale umanismo. Indaga sui temi della coscienza infelice e della negatività dell'esistenza e rilegge la Fenomenologia. L'altra tendenza ha invece come meta il sapere assoluto, che costituisce una filosofia interna dell'universale immanenza. Riconduce quella stessa negatività al cammino dell'Essere, al movimento dell'Assoluto. E per questa via polemizza con le varie interpretazioni del reale che, riducendo l’Essere a prodotto dell'uomo, cadono in un soggettivismo radicale e mutilano la realtà dei suoi termini essenziali. Testo cardine di questa interpretazione è la Logica hegeliana. La conciliazione delle due posizioni costituisce il problema centrale della filosofia moderna. Hyppolite lo assume con particolare chiarezza. «Come si può conciliare la filosofia hegeliana della storia (che è una filosofia della storia umana) col sapere assoluto della logica?»26. Come può l’autocoscienza inserirsi nella corrente della storia senza interromperla? «La caratteristica dell’autocoscienza consisterebbe nella sua capacità di strappare l’uomo dalla vita istintiva, immediata, e di e25 J. Hyppolite, L’aliénation hégelienne et la critique, in Atti del Congresso internazionale di filosofia promosso dall’Istituto di Studi filosofici. Roma 15-20 novembre 1946, Milano, Castellani, p. 53. 26 Id., Études sur Marx et Hegel, Paris, Marcel Rivière, 1955, p. 203. 102 Roger Garaudy: mon tour du siècle levarlo al di sopra delle strutture statiche dell’essere»27. Il soggetto «contiene in sé la storia umana futura, e non si riduce alla mera storicità di un qualsiasi esistente»28. Da una parte, dunque, si fa largo la tendenza a ridurre la trascendenza a immanenza, con il pericolo per «l’uomo di perdersi ogni volta che si riduce a se stesso». Dall'altra, la concezione del continuo superamento e dell'uomo come essere per sé che continuamente si oppone e si adegua all'essere in sé, con la conseguente perdita della libertà. Il contrasto storia-pensiero assoluto, passaggio da Fenomenologia a Logica, è dunque sintesi difficile e ambigua, e tale ambiguità sarà causa delle diverse interpretazioni. Nemmeno Marx, secondo Hyppolite, è riuscito a superare tale difficoltà: ponendosi al centro della storia reale, quella dell'uomo, e dando una dimensione storica all’umanesimo di Feuerbach, egli è caduto nello storicismo assoluto e ha trasformato l'uomo in un fenomeno della natura. Marx non indaga, come Hegel, sulle condizioni dell’autocoscienza, benché questa sia l'esistenza stessa dell'uomo. A parere di Hyppolite, solo una coscienza soprastorica può fondare la storia. Non sarà inutile, allora, evidenziare come Garaudy finisca con lo scorgere una identità di posizione tra il “suo” Fichte e “questo” Hyppolite. Nelle due prospettive si enfatizza infatti la soggettività e la razionalità. Ma in Fichte essa era idealista e metafisica, in Hyppolite si colora di esistenzialismo dagli esiti mistici. Sostiene del resto Garaudy che chi non incorpora nel divenire storico, come secondo termine, gli elementi razionali derivanti dalle strutture umane, sociali e naturali, rimane vittima di una soggettività esasperata che si esprime come tensione assoluta tra il singolo e l'universale, tra 27 28 Ibid., p. 33. Ibid., p. 40. 103 Francesco Mattei l'individuo e la storia. Non rimarrebbe, come alternativa, che l'invocazione alla trascendenza. Tanto basta, credo, per lumeggiare la posizione di Garaudy in questa fase del suo pensiero. L'apporto hegeliano al marxismo sembra identificarsi in lui con i motivi più profondi dell’esistenzialismo. E l’esistenzialismo, come già rilevato, gli appare insufficiente, quanto a posizione autonoma, per la difesa dell’individuo. Esso è intravisto come tensione esasperata del soggetto che non riesce a trovare in sé consistenza teorica. Per questo esso deve imboccare, logicamente, o la strada della trascendenza (e si risolve in filosofia cristiana), o quella dell'avvenire e della storia umana (e si risolve nella dialettica razionale marxista). Le riserve di Sartre da qui deriveranno. E da qui deriveranno le critiche di Garaudy a Sartre. Come pure, le sue posizioni si differenzieranno da quelle di Kojève o di Lefebvre. In definitiva, mi sembra che Dieu est mort, nonostante qualche positiva recezione, sia stato fondamentalmente un’occasione mancata: Garaudy non ha saputo cogliere per tempo la ricchezza provocatoria degli esponenti dell’hegelismo e dell'hegelo-marxismo. Presto un futuro per lui aspro l’obbligherà a trarre conseguenze secche. Per ora, a questo studio su Hegel fa seguire uno studio su Marx (1965) e uno su Lenin (1968)29. Il lavoro su Lenin si compone di due parti: un saggio introduttivo alla sua filosofia, in cui Garaudy esamina le posizioni di Lenin nelle tre fasi canoniche (dal 1894 al 1905, dal 1905 al 1914, dal 1914 al 1923), e una seconda sezione dedicata agli estratti delle opere. La prima costituisce una discussione di Garaudy sulle tesi principali di Lenin, la seconda una selezione quasi 29 R. Garaudy, Karl Marx, Paris, Seghers, 1965 (trad. it., Milano, 1974); Id., Lénine, Paris, P.U.F., 1968 (trad. it., Roma, 1970). 104 Roger Garaudy: mon tour du siècle garaudiana di brani di (suo) evidente interesse. Basterà citare i titoli dati ai passi per comprenderne il criterio di lettura: Sociologia di Lenin, Sul ruolo della coscienza, Materialismo e dialettica, L'iniziativa storica, Lenin e la dialettica hegeliana, Lenin contro il dogmatismo, Il testamento di Lenin. Come a dire: Lenin secundum Garaudy. Il che non suona travisamento del pensiero leninista, ma lettura eccessivamente mirata. Al punto tale da non evidenziare le diverse “vocazioni” della teoresi di Lenin e da non scorgervi contraddizioni interne e germi di future filiazioni non proprio armoniche con la lettura del marxismo esecrato da Garaudy. Ma del testo, se si dovesse coglierne l’aspetto più interessante, è proprio la lettura che Lenin fa della Logica hegeliana. E Garaudy giustamente valorizza le annotazioni di Lenin apposte sulla sua copia della Logica30. Siamo così, però, alle ultime distrazioni storiografiche. Perché stavano salendo nella società venti di rivolta e di radicale contestazione. Il ’68 bussava alle porte. I carri armati sovietici stavano entrando a Praga. E Garaudy vivrà il ’68 con una duplice preoccupazione: capire le motivazioni profonde del disagio studentesco e manifestare pubblica esecrazione nei confronti dell'URSS per i fatti di Praga, come testimonia in Prague 1968... La liberté en sursis. Sono i prodromi della ma- 30 A Lenin interessava superare l’estrinsecità del meccanicismo empirista e la dualità della gnoseologia kantiana. «La cosa in sé di Kant è una vuota astrazione, Hegel esige invece astrazioni che corrispondono alla cosa: “il concetto oggettivo delle cose costituisce la loro natura stessa”; esige che – per dirla materialmente – esse corrispondano al reale approfondimento della nostra conoscenza del mondo» (Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 80). «...1) in Kant la conoscenza separa (esclude) natura e uomo; in realtà essa li congiunge; 2) in Kant, la “vuota astrazione” della cosa-in-sé, invece del processo vivente, del movimento della nostra conoscenza che va sempre più nel profondo delle cose» (Ibidem). 105 Francesco Mattei tura svolta politica, culminante in Le grand tournant du socialisme e in Toute la vérité31. 3. L’addio al marxismo Dirà Garaudy nel 1986, ricevendo a Ryad il premio Faysal: «Je suis venu à l’Islam avec la Bible sous un bras, et le Capital de Marx sous l’autre. Je suis décidé à n’abandonner aucun des deux»32. Ma erano passati sedici anni dalla sua espulsione dal PCF. Si erano consumati i rapporti con il partito e con il vincente strutturalismo althusseriano, e si era aperta per lui una fase politico-culturale connotata da tematiche legate ad una più generale dimensione umana e ai fermenti che andavano maturando. Le parole che connotano questo passaggio, allora, così suonano: pace, questione femminile, speranza, amore, dialogo delle civiltà, dimensione umana. Il tutto, secondo lui, alla luce di un islamismo meno incrostato e asfittico dell’Occidente, ormai preda di un piccolo razionalismo asfissiante e di una tecnica tesa alla produzione e allo sfruttamento esasperato di risorse e persone. Un vero, deserto Abendland! Ma come era avvenuta questa svolta? Sotto il segno di una ennesima interpretazione dei testi marxiani e delle sue personali (allora perdenti) ermeneutiche, giacché egli avvertiva lo scivolamento inesorabile dell’eredità fichtiano-hegeliana del marxismo verso una razionalità positivistica: «Marx – egli scrive – è uno dei giganti del pensiero occidentale, proprio in quello che esso ha di più occidentale. Ed è stata la sua concezione 31 Id., Prague 1968... La liberté en sursis, Paris, Fayard, 1968; Le grand tournant du socialisme, Paris, Gallimard, 1969; Toute la vérité, Paris, Grasset, 1970. 32 R. Garaudy, Mon tour du siècle…, cit., p. 337. 106 Roger Garaudy: mon tour du siècle del razionalismo a facilitare, nei discepoli, una deviazione e una falsificazione del marxismo. Karl Marx dà alla parola “scienza” il senso di un sapere fondato, alla stessa maniera in cui Hegel intende la “scienza della logica” o Fichte la “dottrina della scienza”. I suoi discepoli hanno interpretato le sue idee in maniera molto positivistica»33. Poco altro resta da aggiungere. Mi limito perciò a ricordare, insieme alla svolta islamista, le sue pubblicazioni più significative e meno politicamente orientate. E mi sembra di poter dire che il marxismo appaia in esse ormai (silenziosamente) “superato” (Reconquête de l'espoir, L'Alternative, Danser sa vie, Parole d'homme, Le projet espérance, Pour un dialogue des civilisations, Comment l'homme devint humain, Appel aux vivants, Pour l'avènement de la femme). Nuclei interessanti, mi pare. Che aprono strade non banali alla riflessione sull’educazione34. Perciò in altri tempi mi ci sono cimentato. E a quei tempi dunque rinvio35. Confessando apertamente che allora, quando vidi Garaudy incamminarsi per sentieri a me poco simpatetici, smisi di seguire i suoi tortuosi percorsi ed espressi giudizi severi su quelle posizioni filosofiche. Ma forse Garaudy vedeva con qualche anno di anticipo, prima di me e di molti altri, l’orizzonte politico-religioso e filosofico-economico che andava mutando. Una mutazione in cui siamo ancora vorticosamente immersi. E nel suo sfondo politico-culturale e in quello educativo. Che egli appartenga, allora, ai nietzschiani Genossen? 33 R. Garaudy, Per un dialogo delle civiltà, Assisi, Cittadella, 1977, p. 183. 34 Cfr. F. Mattei, Prospettiva culturale e istanza educativa in R. Garaudy, in G. Sforza (a cura di), Vitam impendere pulchro, Roma, Anicia, 2007, pp. 51-95. 35 Cfr. F. Mattei, Ragione e antiragione in R. Garaudy. Educazione alla prospettiva, Roma, Bulzoni, 1987. 107 Francesco Mattei Riferimenti bibliografici Scritti di Roger Garaudy Grammaire de la liberté, Paris, Éditions Sociales, 1950. La théorie matérialiste de la connaissance, Paris, P.U.F., 1953. La liberté, Paris, Éditions Sociales, 1955. Humanisme marxiste, Paris, Éditions Sociales, 1957. Du surréalisme au monde réel: l'itinéraire d'Aragon, Paris, Gallimard, 1961. Dieu est mort, Paris, P.U.F., 1962. De l'anathème au dialogue, Paris, Plon, 19653 (trad. it., Brescia, 1969, pp. 23-114). Karl Marx, Paris, Seghers, 1965 (trad. it., Milano, 1974). Marxisme du XXe siècle, Paris, La Palatine, 1966. Lénine, Paris, P.U.F., 1968 (trad. it., Roma, 1970). Pour un modèle français du socialisme, Paris, Gallimard, 1968. La liberté en surcis: Prague 1968, Paris, Fayard, 1968. Peut-on être communiste aujourd'hui?, Paris, Grasset, 1968. Perspectives de l'homme, Paris, P.U.F., 19694 (trad. it., Torino, 1972). Le grand tournant du socialisme, Paris, Gallimard, 1969 (trad. it., Milano, 1970). Pour vous qui est Jésus Christ?, Paris, Éd. du Cerf, 1970). Toute la vérité, Paris, Grasset, 1971 (trad. it., Milano 1970). Reconquête de l'espoir, Paris, Grasset, 1971 (trad. it., Torino, 1971). L'Alternative, Paris, Laffont, 1972 (trad. it., Assisi, 1972). Danser sa vie, Paris, Seuil, 1973 (trad. it., Assisi, 1973). Parole d'homme, Paris, Laffont, 1975 (trad. it., Assisi, 1975). Le projet espérance, Paris, Laffont, 1976 (trad. it., Assisi, 1976). Pour un dialogue des civilisations, Paris, Éditions de Noël, 1977 (trad. it., Assisi, 1977). Appel aux vivants, Paris, Seuil, 1979. Pour l'avènement de la femme, Paris, Albin Michel, 1981. Biographie du XXe siècle: le testament philosophique de Roger Garaudy, Paris, Tougui, 1985. Mon tour du siècle en solitaire: mémoires, Paris, R. Laffont, 1989 (trad. it., Fiesole, 1991). Les mythes fondateurs de la politique israélienne, Paris, la Vieille Taupe, 1995 (trad. it., Genova, 1999). Sartre, J.P., R., Garaudy, J., Hyppolite, Marxisme et existentialisme. Controverse sur la dialectique, Paris, Plon, 1962. 108 La dispersione inapparente* Benedetto Vertecchi Dipartimento di Progettazione educativa e didattica Via Madonna dei Monti 40 - 00184 Roma Università Roma Tre [email protected] Il prevalere nel dibattito educativo, e più ancora nella riflessione scientifica, di elementi che riflettono, o quanto meno si riferiscono in modo prevalente, alle aree favorite del mondo, e in misura del tutto soverchiante a quella anglofona, impedisce di cogliere aspetti specifici che distinguono l’evoluzione dei sistemi educativi nei diversi paesi. L’egemonia culturale, che talvolta trova giustificazioni nella priorità temporale che ha distinto il presentarsi di questo o quel fenomeno, si manifesta come ideologia, perché impone il medesimo schema interpretativo e valoriale nella considerazione di situazioni spazialmente distanti, sincrone solo se si accetta una nozione del tempo che prescinda dalla storia. Un esempio della parzialità di molte interpretazioni (potremmo anche chiamarle pregiudizi, nel significato originale della parola, ossia giudizi espressi prima) dei fenomeni educa* Nell’articolo ho ripreso gli argomenti esposti in una relazione tenuta il 25 settembre 2012 a Città del Messico, nell’ambito dell’incontro promosso dalla Secretaría de Educación Pública su Perspectivas y Tratamiento de la Permanencia Escolar en el Bachillerato: la Experiencia de Europa. Si è trattato di una relazione che ha tenuto conto delle caratteristiche del pubblico, costituito, oltre che da messicani, da dirigenti e amministratori scolastici di altri paesi latinoamericani. Ciò spiega il tono un po’ didascalico di alcuni passaggi, utili oltre l’Atlantico, ma abbastanza scontati al di qua. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 109-120. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Benedetto Vertecchi tivi è offerto dai significati che assume il termine dispersione. È un termine che designa aspetti di grande rilievo nell’evoluzione dei sistemi educativi contemporanei, tali da suscitare allarme circa l’adeguatezza delle politiche per l’educazione a corrispondere alle esigenze che si manifestano nella società. All’allarme si associa generalmente un alone negativo, riducendo tuttavia l’analisi della dispersione alla costatazione della perdita di popolazione che si riscontra all’interno dei percorsi scolastici. È importante osservare che l’alone negativo dà luogo a una sineddoche interpretativa, che limita il significato di dispersione alle sole accezioni sgradite. Se si rinunciasse alla sineddoche, e si considerasse, senza ipocrisie, l’intera estensione del fenomeno, giungeremmo a conclusioni diverse, e cioè che non è infrequente che certe manifestazioni siano consapevolmente perseguite, come modi per liberare la scuola da quanti non possiedono le caratteristiche necessarie per conformarsi ai livelli di qualità attesi negli apprendimenti: in questo secondo caso si preferisce parlare di scelta, di orientamento (è come dire di selezione positiva), di merito (se si segue un approccio moralistico) o di attitudine (se si preferisce dare l’impressione del riscontro obiettivo dei tratti degli allievi). È evidente che il ribaltamento, da negativo a positivo, della polarità del significato segue lo spostamento della linea causale dal piano sociale, comprensivo della pluralità dei fattori umani e delle condizioni materiali nelle quali si pratica l’educazione, a quello che fa ricadere la responsabilità degli insuccessi educativi soprattutto su chi li subisce (e non si tratta solo degli allievi, ma anche delle famiglie e degli insegnanti). Nel seguito di queste riflessioni la dispersione sarà considerata entro un quadro di sistema, alterabile intervenendo su una qualunque delle molte condizioni che lo caratterizzano. È un quadro che assume maggiore evidenza nella fase di snodo del percorso educativo formale, che oggi – per lo più – si colloca al livello secondario superiore. Proprio la differenza che si osserva nel modo in cui si verifica il fenomeno della dispersione nelle scuole secondarie superiori dei diversi paesi costituisce uno degli aspetti della realtà educativa che richiede una considerazione più attenta, perché tale fenomeno non può essere spiegato né solo dal punto di vista del funzionamento delle scuole, né solo da quello del condizionamento esercitato sull’educazione da fattori sociali. La dispersione è, infatti, un sintomo 110 La dispersione inapparente complesso, che cambia nel tempo in concomitanza con le variazioni che intervengono nelle condizioni di vita, negli atteggiamenti, nella percezione del valore sociale della cultura. Non c’è quindi un solo tipo di dispersione, ma più tipi, in relazione ai diversi contesti temporali e spaziali. Quel che rimane, e che consente di riconoscere il fenomeno nonostante la diversità delle caratteristiche che assume, è che da esso derivano alterazioni nei percorsi di studio cui fanno riferimento le regole che disciplinano il funzionamento dei singoli sistemi scolastici. Sotto quest’aspetto, la dispersione si presenta come la manifestazione di una patologia, che indebolisce la capacità di perseguire gli intenti che erano stati dichiarati, rende più difficili le condizioni di funzionamento e richiede un uso improprio delle risorse a disposizione. Occorre, per le ragioni alle quali ho fatto riferimento, considerare la dispersione all’interno della pluralità dei fenomeni che nel complesso distinguono il quadro dell’educazione, E, poiché l’educazione è soggetta a processi di trasformazione che avvengono sugli assi del tempo e dello spazio, non sarà inutile richiamare alcune fasi essenziali che hanno segnato il divenire della scuola in Europa. Alle origini della tradizione educativa europea ci sono la cultura, le concezioni dei ruoli sociali e le interpretazioni dell’infanzia e dell’adolescenza nel mondo antico, in Grecia e soprattutto a Roma. In Grecia ai bambini si rivolgeva un’attenzione specifica in senso educativo solo dopo i primi anni di vita, nei quali ci si limitava a provvedere alle loro esigenze fisiologiche. Non a caso, la parola greca che indicava l’intervento rivolto ai bambini fin verso i cinque anni di età era trof» (trophè), che significa nutrizione. A Roma i bambini entravano a far parte della complessa organizzazione della famiglia: la loro educazione era soprattutto modellata sulla figura del pater familias. Ovviamente, mi sto riferendo ai bambini e ai ragazzi di condizione libera, che in molti casi ricevevano anche un’educazione formale, in famiglia se questa era di condizioni agiate, o per opera di maestri che insegnavano a un certo numero di allievi, se la famiglia era di condizione modesta. Le caratteristiche di quelli che ora si indicano come studi secondari incominciarono ad apparire nella fase terminale della storia della repubblica e si precisarono in età imperiale. 111 Benedetto Vertecchi Con la fine della dominazione romana si dissolsero anche le forme organizzative, peraltro piuttosto incerte e variabili, che l’educazione aveva assunto nel mondo antico. Sotto questo aspetto, l’organizzazione degli studi che si è venuta progressivamente configurando nel secondo millennio è apparsa, fin dagli inizi, del tutto diversa: allo sviluppo delle scuole ha corrisposto la distinzione fra i livelli educativi (scuola primaria, scuola secondaria, università). Le caratteristiche assunte da ciascun livello si collegano alla storia sociale e politica dei paesi d’Europa. La rilevanza che gli studi stavano riprendendo dopo secoli d’instabilità politica, durante i quali una certa continuità nella trasmissione delle conoscenze era stata assicurata solo presso le sedi episcopali e monastiche, spiega perché le università siano state le prime scuole ad assumere caratteristiche definite, fin dagli inizi del secondo millennio (Bologna, Parigi, Oxford eccetera). Alla nascita delle università corrispondeva, infatti, il fiorire, o il rifiorire, di professioni necessarie per assecondare i nuovi stili di vita. Le istituzioni per l’educazione secondaria sono nate in concomitanza con le riforme religiose della metà del secondo millennio: il Gymnasium di Sturm nell’Europa protestante, i collegi (a cominciare da quelli della Compagnia di Gesù, ai quali si affiancarono istituzioni analoghe promosse da altri ordini e congregazioni religiose) in quella cattolica. Con l’affermarsi dell’educazione secondaria (anche se gli allievi che ne fruivano erano solo una piccola minoranza della popolazione dei singoli paesi) le scuole incominciavano ad assumere molte delle caratteristiche che ancora è possibile osservare. Ne elenco le principali: - 112 ogni scuola provvede all’educazione di un numero consistente di allievi; l’attività è scandita secondo piani che sono preventivamente definiti e noti alle famiglie; il lavoro educativo è organizzato e diviso, in relazione alle competenze di chi insegna, ai compiti che gli sono affidati e al livello delle responsabilità da assumere; il tempo è scandito secondo modelli che prevedono attività formali collettive, impegno individuale nello studio, attività ricreative; La dispersione inapparente - l’educazione riguarda sia l’apprendimento, sia l’acquisizione di valori e stili di comportamento; ai comportamenti non conformi corrispondono sanzioni, proporzionali alla gravità delle infrazioni commesse. Le condizioni per il verificarsi dei fenomeni di dispersione incominciarono a esistere solo quando le frazioni di popolazione scolarizzata assunsero una certa consistenza. Condizione per tale crescita è stata la diffusione dell’educazione al livello primario, che ha provvisto quote crescenti di popolazione di cultura alfabetica. La diffusione dell’educazione primaria ha avuto in Europa tempi e finalità diversi nei paesi di religione riformata e in quelli cattolici. Tra i principi della riforma religiosa avviata da Lutero nel 1517 c’era, infatti, l’affermazione del libero esame, ossia del diritto dei cristiani di leggere e interpretare liberamente i testi sacri, prescindendo dalla mediazione del clero. A questo principio della dottrina luterana corrispondeva una condizione, per così dire, strumentale: il libero esame poteva essere effettivamente praticato a condizione di saper leggere. Ciò spiega l’eccezionale moltiplicazione delle iniziative volte a promuovere l’acquisizione della capacità di lettura in popolazioni che nella grande maggioranza ne erano prive. Nei paesi dell’Europa non riformata gli inizi della diffusione delle competenze alfabetiche si sono avuti due-tre secoli dopo, in concomitanza con la trasformazione dei sistemi produttivi (si pensi alle conseguenze della rivoluzione industriale in Inghilterra) o di cambiamenti radicali nei rapporti tra le classi sociali (in Francia, il principio dell’istruzione obbligatoria fu enunciato nell’ambito della Rivoluzione). Se si eccettuano i paesi di religione riformata, dove l’avvio della scolarizzazione deve essere riferito a ragioni immateriali, negli altri paesi il progresso dell’educazione formale (quella impartita nelle scuole) si è soprattutto collegato ad aspettative circa il miglioramento delle condizioni di vita. Anche la crescita della popolazione scolastica è stata più lenta, sia perché la consapevolezza relativa all’utilità dell’educazione non si è diffusa contemporaneamente in tutte le classi sociali, sia per i filtri selettivi (in gran parte di tipo economico) che hanno avuto come effetto quello di tener lontane dalle scuole frazioni più o meno consistenti della popolazione. Col crescere 113 Benedetto Vertecchi dei sistemi scolastici ai filtri destinati a limitare il numero degli allievi si sono quindi aggiunti filtri mirati a favorire la perdita di una parte di popolazione. Si è trattato di filtri ancora una volta di tipo economico, oppure (senza escludere combinazioni tra le due possibilità) almeno apparentemente tesi alla conservazione di un livello desiderato di qualità degli studi. La dispersione scolastica si è manifestata quindi come una pratica selettiva: la perdita di popolazione, almeno se si accolgono interpretazioni del merito dei singoli allievi conformi alle concezioni educative delle classi dominanti, assumeva implicazioni educative, presentandosi come un messaggio che il sistema scolastico indirizzava alla società per legittimarsi. Quel che è stato subito evidente è che si trattava di un messaggio rivolto solo alla quota di popolazione che premeva alle porte delle scuole o che era appena riuscita a superarle. La differenza tra gli allievi appartenenti a classi sociali più o meno favorite era che in un caso all’apparire di difficoltà nell’apprendimento o al manifestarsi di una scarsa motivazione allo studio erano disponibili percorsi integrativi e talvolta sostitutivi, mente nell’altro la sola via percorribile era l’abbandono degli studi. Si può dire che la spinta alla dispersione abbia accompagnato la crescita dei sistemi scolastici e il prolungarsi del numero di anni mediamente dedicati all’istruzione sequenziale. Nella storia sociale dell’educazione si ritrovano aspetti ricorrenti e, al prevalere dell’uno o dell’altro, ha fatto riscontro l’affermarsi delle diverse linee di politica scolastica. In particolare: - - - 114 tranne rare eccezioni, per fruire di educazione secondaria e, a maggior ragione, universitaria occorreva disporre di risorse adeguate. In un’interpretazione storico-sociale questa condizione si è presentata come un dispositivo di moderazione del numero degli allievi; la crescita del numero di allievi ai diversi livelli è stata parallela al miglioramento delle condizioni di vita. Ciò vale in generale per l’insieme della popolazione e, ancora di più, per la possibilità di fruire dell’educazione da parte delle bambine e delle ragazze; solo in un tempo relativamente recente si è affermato il concetto del diritto all’istruzione come condizione per la piena partecipazione alla vita sociale e politica. All’affermazione di tale principio ha corrisposto l’enunciazione, La dispersione inapparente spesso negli stessi ordinamenti costituzionali, del principio del diritto allo studio come parte dei diritti di cittadinanza. Lo sviluppo del sistema scolastico italiano esemplifica quanto finora è stato rilevato. Nel 1861, l’anno del raggiungimento dell’Unità nazionale, solo una parte limitata della popolazione (con sensibili differenze tra le diverse aree del paese, che in precedenza facevano parte di stati diversi e nelle quali, di conseguenza, i sistemi d’istruzione erano diversamente regolati) aveva ricevuto un minimo di educazione nella scuola. Ovviamente, ciò valeva per la grande maggioranza della popolazione, costituita essenzialmente da contadini, mentre esisteva già, per la parte più favorita della popolazione, la possibilità di accedere alle scuole secondarie degli ordini religiosi (Gesuiti, Barnabiti, Scolopi, Orsoline eccetera) e alle università. Il nuovo Stato nazionale, pur tra grandi difficoltà (non solo di tipo economico: per esempio, mancavano gli insegnanti) promosse l’alfabetizzazione, riducendo rapidamente la percentuale della popolazione analfabeta. La crescita della scolarizzazione, che ha proceduto in parallelo con altre importanti innovazioni nella vita economica e sociale, ha incontrato atteggiamenti non favorevoli, quando non del tutto ostili, nella parte più favorita della popolazione. Se in un primo momento la diffusione dell’istruzione primaria è stata interpretata, nel mezzo secolo successivo al raggiungimento dell’unità nazionale, come l’affermazione di un’idea di progresso, il conflitto sociale si è manifestato quando la spinta alla scolarizzazione ha incominciato a investire, agli inizi del Novecento, il livello secondario. In altre parole: si accettava che l’istruzione primaria fosse generalizzata, ma chi già fruiva d’istruzione secondaria e universitaria rifiutava di dividere con altri questo beneficio. Una concezione elitaria degli studi secondari era evidente nella riforma scolastica del 1923, nota come riforma Gentile, dal nome del ministro che ne promosse l’approvazione. E, in effetti, per quanto l’incremento del numero degli allievi, dopo qualche anno di contenuta diminuzione o di stasi, sia stato maggiore di quello desiderato da Gentile, si arrestò la dinamica virtuosa che in precedenza aveva ridotto l’intervallo fra la scuola italiana e quella di altri paesi europei. 115 Benedetto Vertecchi La via all’espansione della scolarizzazione secondaria è stata aperta nel 1962 dalla legge di riforma della scuola media (secondaria di primo grado). Scopo della legge era dare concreta attuazione al principio del diritto allo studio sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Si trattava di porre le condizioni per assicurare a tutti 8 anni di istruzione di base (5 di scuola primaria e 3 di secondaria inferiore). L’obiettivo era molto ambizioso, se si considera che in precedenza solo un quarto degli allievi proseguiva lo studio dopo la scuola elementare e meno di un decimo frequentava le scuole secondarie superiori. Nonostante le difficoltà, la legge del 1962 ha avuto rapidi effetti sia sull’istruzione secondaria inferiore, sia su quella superiore. Già alla fine degli anni ’70 la quasi totalità della popolazione interessata all’istruzione per 8 anni frequentava effettivamente la scuola. Una percentuale crescente di allievi proseguiva gli studi a livello secondario superiore (secondo i tipi di scuole, dal IX al XII o al XIII anno di studio). Di conseguenza, cresceva rapidamente anche il numero degli studenti che, una volta conseguito il diploma di scuola secondaria, decideva di proseguire ulteriormente gli studi all’università. Oggi la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi, dopo aver fruito del periodo d’istruzione obbligatoria, prosegue lo studio nelle scuole secondarie superiori. Sono circa quattro quinti della popolazione interessata gli allievi che giungono a conseguire un diploma di studi secondari. Gran parte di loro si iscrive a un corso di studi universitari o di livello analogo (accademie, istruzione tecnica superiore eccetera). Quello rapidamente tratteggiato è un bilancio che può far pensare ad una situazione sostanzialmente positiva. Invece, non è così. Infatti: - 116 specialmente nelle scuole secondarie superiori sono ancora frequenti fenomeni di dispersione scolastica. Tali fenomeni si verificano in particolare nelle scuole frequentate da allievi di condizione sociale modesta, se non dal punto di vista economico, certamente da quello culturale. Spesso le scuole in cui è maggiore la dispersione sono indirizzate a fornire competenze professionali per un rapido inserimento nel mondo del lavoro; La dispersione inapparente - - a una dispersione esplicita (abbandono della scuola) se ne è gradualmente affiancata una inapparente, costituita da un livello scadente degli apprendimenti conseguiti da parte degli allievi. È accaduto, e continua ad accadere, che l’abbandono che in precedenza seguiva il manifestarsi di difficoltà nello studio a un determinato livello dell’istruzione, sia slittata al livello successivo (dalla scuola primaria alla secondaria inferiore, dalla secondaria inferiore a quella superiore, dalla secondaria superiore all’università); continua a essere molto forte l’effetto del condizionamento sociale sul successo negli studi (non sul successo formale, ma su quello sostanziale). Gli allievi appartenenti a strati favoriti della popolazione possono accedere a un vero e proprio curricolo parallelo (apprendimento delle lingue, fruizione del patrimonio storico-artistico, esperienze di studio in contesti diversi da quello consueto, pratica di attività sportive eccetera), che consente di contenere l’effetto della diminuita capacità delle scuole di modificare secondo progetti impegnativi il loro profilo culturale. Per chiarezza, conviene distinguere in Italia (ma si tratta di tendenze che si riscontrano anche altrove) due tipi di fenomeni di dispersione esplicita, il primo derivante da insuccesso nell’apprendimento, l’altro da fattori sociali. Si ha il primo tipo di dispersione quando un allievo che ha accumulato più insuccessi (sempre che non disponga di opportunità alternative offerte dalla famiglia) decide di abbandonare la scuola. Si verifica una dispersione per fattori sociali quando la decisione di abbandonare la scuola è dovuta a difficoltà economiche o alla volontà delle famiglie, o anche degli adolescenti, di disporre di maggior reddito. Quest’ultimo atteggiamento si rinforza quando diminuisce la fiducia nella capacità della scuola di porre le condizioni per migliori condizioni di vita, o – come non è raro avvenga nelle società industrializzate – la spinta allo studio è solo collegata a motivazioni esterne. Per analizzare i fenomeni di dispersione è opportuno riferirsi a modelli descrittivi del flusso della popolazione attraverso i cicli di studio. La semplice visione sincronica dei fenomeni non ne consente la comprensione, mentre è proprio dalla considerazione del modo in cui determinati cambiamenti investono i 117 Benedetto Vertecchi sistemi educativi che si possono trarre indicazioni utili per la definizione di nuove linee di politica scolastica. Un modello che tiene conto del passaggio di una leva di allievi attraverso uno o più cicli scolastici è quello messo a punto dall’Ufficio Statistico dell’Unesco. Gli elementi essenziali sono rappresentati nella tavola seguente: I a1 iscritti al primo anno nell’anno a sequenza regolare insuccesso iscritti al primo anno nell’anno a+1 2 I a+1 1 Ra+1 iscritti al secondo anno nell’anno a+1 È evidente che non c’è dispersione se 2 I a+1 + 1 Ra+1 = I a1 < I a1 C’è, invece, dispersione, se 2 I a+1 + 1 Ra+1 In particolare: - 118 se il valore di I diminuisce più di quanto si possa giustificare da quello di R, la dispersione è causata soprattutto da ragioni sociali; La dispersione inapparente - se sono elevati i valori di R si può ritenere che la dispersione sia causata soprattutto da insuccesso nell’apprendimento. Di per sé la dispersione inapparente non produce immediatamente variazioni di rilievo nella consistenza della popolazione scolastica: 2 3 I a1 ≈ I a+1 ≈ I a+2 eccetera Le differenze che segnalano fenomeni di dispersione inapparente riguardano pertanto non il numero degli allievi, ma i risultati che essi conseguono negli studi, che sono evidenziati sia da dati nazionali, sia dalla comparazione con i risultati di altri paesi. Al fenomeno della dispersione inapparente corrispondono, infatti, medie basse e varianze elevate nella distribuzione dei punteggi conseguiti. Sono segni dell’operare della dispersione inapparente: - il rinvio del momento in cui gli studi sono formalmente abbandonati; lo spostamento degli effetti formali degli insuccessi conseguiti in un ciclo scolastico al livello successivo; la diffusione di atteggiamenti sociali negativi verso l’educazione scolastica; l’aumento della distanza tra le aspettative che si collegano a un certo titolo di studio e il credito sociale che ad esso effettivamente si riconosce; la riduzione della motivazione allo studio. In conclusione, il quadro della dispersione nel sistema scolastico italiano al momento si caratterizza: - per una forte diminuzione della dispersione esplicita, anche per effetto della critica sociale nei confronti di modelli educativi elitari; per una crescita elevata della dispersione inapparente, come si ricava dall’analisi dei dati ottenuti nell’ambito di rilevazioni internazionali. In particolare al livello se- 119 Benedetto Vertecchi condario è molto alta la varianza fra le scuole e fra indirizzi di studio ai quali si rivolgono in prevalenza allievi appartenenti a strati della popolazione più o meno favoriti. Probabilmente, l’aspetto più denso di implicazioni negative per il manifestarsi dei fenomeni descritti è la caduta della motivazione ad apprendere. A prima vista può sembrare che si tratti di un problema essenzialmente psicologico o di una conseguenza del mancato adeguamento delle procedure d’insegnamento alle nuove esigenze degli allievi. In realtà, le implicazioni che si ricavano dalla caduta della motivazione sono prioritariamente di carattere sociale e politico. In particolare: - alla frequenza della scuola secondaria non si associa, se non debolmente, l’attesa di un miglioramento delle condizioni di vita (motivazione esterna); molti giovani ritengono che al successo nell’apprendimento sia preferibile quello che assicura un rapido e consistente ritorno di denaro; la cultura ha perso progressivamente posizioni nella gerarchia dei valori sociali; la debolezza, o l’improprietà, della motivazione allo studio spingono ad abbandonare la scuola. La caduta della motivazione è anche incoraggiata dall’affermarsi di modelli di successo sociale che prescindono dal profilo culturale acquisito attraverso lo studio. Sono tipi di successo fortemente enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa. È questa una ragione di più per considerare la dispersione un problema non limitato alla scuola, ma che attraversa l’intera società. 120 Abstracts Editoriale When an adjective is needed Educational research theories should be based on a critical perspective, in order to avoid determinism and grasp changes and anomalies of contemporary age. Contrary to what is generally believed, banal and scarcely innovative conclusions derive from empirical and experimental research, rather than from theories and speculative contributions. Indeed, methodology and rules of scientific communication seem the only condition to be met, to the detriment of originality and critical awareness. Keywords: critical pedagogy, interpretative models, innovation, originality, methodology. Se necesita el adjetivo La investigación educativa debe basar su interpretaciónes en una dimensión crítica, lo que implica el escapar del determinismo, y la capacidad de comprender los elementos de cambio junto con las posibles discrepancias de hoy en día. Contrariamente a lo que se podría pensar, más que en los aportes teóricos y especulativos, es en los empíricos o experimental que se encuentran las conclusiones menos innovadoras y rígidas. En este contribuciones, la metodología y el enfoque formal de la comunicación científica parece la única condición que debe cumplirse a expensas de la originalidad y la conciencia crítica. Palabras clave: pedagogía crítica, modelos interpretativos, innovación, originalidad, metodología. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 121-126. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Abstracts Gilberto Scaramuzzo On mimetic nature of speech. A philosophical-educational reading of few pages of Cratylus. Starting from Taylor’s observation on Plato’s Cratylus: «What is of real interest to others than specialists in phonetics is the discernment shown by the insistence on the general principle that speech is to be regarded as a species of mimetic gesture», the issue analyzes 422e ss. to re-consider, in the light of the dialogue between Socrates and Hermogenes, the rule to be assigned to mimesis in educational reflection and praxis, with a particular emphasis on nonverbal communication as a paradoxical way to show the nature of things. Keywords: Mimesis, Plato, Cratylus, nonverbal communication, education. Sobre la naturaleza mimética del diálogo. Una lectura filosófica-educativa de algunas páginas del Crátilo A partir de la observación de Taylor en el Crátilo de Platón: «Lo qué es de verdadero interés para otros, además de los especialistas en fonética, es el discernimiento mostrado por la insistencia en el principio general que el diálogo debe ser considerado como especie de gesto mimético», el tema analiza 422 y ss. para reconsiderar, a la luz del diálogo entre Sócrates y Hermógenes, la regla que se asignará a la mímesis en la reflexión educativa y la praxis, con un énfasis particular en la comunicación no verbal como una forma paradójica de mostrar la naturaleza de las cosas. Palabras clave: Mimesis, Platón, Crátilo, la comunicación no verbal, educación. Cristiano Casalini Adamo magister. The educational code of Cursus Conimbricensis The Cursus conimbricensis is one of the most relevant works edited by the teachers of the Jesuit College of Arts of Coimbra during the 16th century. The importance of these long and heavy eight commentaries on Aristotle has been neglected by the history of 122 Abstracts education until some Portuguese and American scholars showed a scientific interest on the subject. This paper aims at presenting the Cursus as an educational product, with which the Coimbrans responded to specific didactic purposes and as a recognition of the state-of-the-art on many key philosophical questions of the early modern era. In doing so, the Coimbrans’ work stands for us as a unusual example of a culture built by and for education. Keywords: Cursus conimbricensis, Jesuit education, History of 16th Century Education, College of Coimbra, Aristotelian commentaries. Adamo magister. El Código de Educación de Cursus Conimbricensis El Cursus Conimbricensis es una de las obras más relevantes, editada por los profesores del Colegio de los Jesuitas de las Artes de Coimbra durante el siglo 16. La importancia de estes largos y pesados ocho comentarios de Aristóteles ha sido ignorado por la historia de la educación hasta que algunos académicos de Portugal y America hayan recientemente mostrado el interés científico sobre el tema. Este trabajo tiene como objetivo presentar el Cursus como un producto educativo con la que los de Coimbra respondieron a determinados fines didácticos y como un reconocimiento del Estado-de-arte en muchas cuestiones filosóficas fundamentales de la era moderna. De este modo, el trabajo de los de Coimbra es para nosotros como un ejemplo excepcional de una cultura construida por y para la educación. Palabras clave: Cursus conimbricenses, educación jesuítica, Historia de la educación del siglo 16, Colegio de Coimbra, comentarios of Aristóteles. Luana Salvarani «We have only one story». Faithfulness to Text and narrative fiction in American Sunday Schools Sunday Schools, Bible-based classes for children and illiterate adults, were created in the late 18th century against crime and drunkenness in British factory towns. In the growing America of the 19th century, they became the main educational institutions in 123 Abstracts rural areas, the only ones along the Frontier, and a strong counterpoint to public schooling in the cities. With their daily practice of Bible reading and their belief in the historical truth of the Text, they developed a shared web of myths and memories; but also, in their pedagogical strive to feed the imagination of youngsters, the Schools moulded a unique fictional literature that stands at the foundation of American culture and identity. Keywords: Sunday Schools, 19th century America, religious education, children’s literature, Bible criticism. «Tenemos solo una historia». La fidelidad al texto y la ficción narrativa en escuelas Dominicales de America. Escuelas Dominicales, clases basadas en la Biblia para niños y adultos iletrados, se crearon en el siglo 18 contra la delincuencia y la embriaguez en ciudades industriales británicas. En creciente América del siglo 19, se convirtieron en los principales centros de enseñanza en las zonas rurales, los únicos a lo largo de la Frontera, y un fuerte contrapunto a la educación pública en las ciudades. Con su práctica diaria de la lectura de la Biblia y su creencia en la verdad histórica del Texto, desarrollaron una compartida red de mitos y recuerdos, sino también, en su pedagógico ezfuerzo a alimentar la imaginación de los jóvenes, las Escuelas han formado la única literatura ficcional que está en el fundamento de la cultura y la identidad americana. Palabras clave: Escuelas dominicales, America de 19 siglo, educación religiosa, literatura infantil, a crítica de Biblia. Giuseppe Burgio Colonies, empires and migrations. A postcolonial framework of multicultural Europe The article considers the multicultural roots of the European Union from a postcolonial perspective. Therefore, European history is outlined from colonialism to imperialism, concluding with recent regulations on international migration. The etymology of the terms colony and culture, both derived from the Latin verb colĕre (to cultivate), is the link that connects these themes, highlighting a conception of the relationship between Europeans and the otherness based on exploitation and domination. 124 Abstracts Through this view, differential colonialism merges with social self representation (antropopoiesi) inherent in the concepts of culture and education and already disclosed by the Greek paideia. Keywords: multicultural education, Greek paideia, colonialism, migration, cultural identity. Colonias, imperios y migraciones. Un marco postcolonial de Europa multicultural El artículo analiza, desde el punto de vista postcolonial, la plataforma multicultural de la UE. Por lo tanto, la historia europea es bosquejado del periodo de colonialismo hasta el imperialismo, concluyendo con las normas recientes de la migración internacional. La etimología de los términos colonia y la cultura, ambos derivados del verbo latino colĕre (cultivar), es el enlace que conecta estos temas subrayando una concepción de la relación entre los europeos y la alteridad basada en la explotación y la dominación. Según este punto de vista, el colonismo diferencial se fusiona con autorepresentación social (antropopoiesi) inherente a los conceptos de cultura y educación y ya revelada por la paideía griega. Palabras clave: educación multicultural, griego paideía, el colonialismo, la migración, la identidad cultural. Francesco Mattei Roger Garaudy: mon tour du siècle A brief review of the works of Garaudy, who died a few months ago, is outlined in this article. His philosophical and political positions are illustrated, from his initial sympathy for Protestantism in Strasbourg circles to the adherence to Marxism, from Marxism-Christianity to his abandon-expulsion from the French Communist Party, up to his conversion to Islam and to the conviction imposed by the French courts for his negationism. A philosophical and political journey that had many implications in education. Keywords: Garaudy, Marxism-Christianity, Hegelianism, Marxism, Islamism. 125 Abstracts Roger Garaudy: mon tour du siècle En el año de la muerte de Garaudy se hace una breve valoración de su obra. Destacamos las distintas posiciones que había tomado en el campo de la filosofía y de la política, las primeras alianzas con círculos protestantes en Estrasburgo para su adhesión al marxismo, desde el cristianismo marxista a su salida y expulsión del Partido Comunista Francés, hasta su conversión al Islam y la condena impuesta por la justicia francesa por este abandono. Un viaje filosófico y político que tuvo algunas implicaciones en educación. Palabras clave: Garaudy, el cristianismo-marxista, el hegelianismo, el marxismo, el islamismo. Benedetto Vertecchi The invisible drop out Interpretations arising from educational debate are too often partial due to the expression of prejudice, i.e. a partial judgment concerning phenomena that are not duly considered, as school drop out. Instead, diachronic research describing the flows of the population over time should be appropriately and accurately studied. In this sense, the article offers an in-depth historical perspective considering how such changes can affect educational systems in industrialized societies. Keywords: school drop out, selection, social co-optation, secondary school, motivation to study. La dispersión asintomática La parcialidad de muchas interpretaciones que surgen en el debate educativo puede ejemplificarse a través de la expresión del prejuicio, es decir, juicios parciales realizados acerca de los fenómenos que no se consideran cuidadosamente, como el de abandono escolar prematuro. Sería conveniente referirse a los modelos descriptivos de la poblaciòn a través de investigaciones diacrónicas. En este sentido, el artículo ofrece una perspectiva histórica, teniendo en cuenta de cómo ciertos cambios puedan pertenecer a los sistemas educativos en las sociedades industrializadas. Palabras clave: abandono escolar, selección, cooptación social, escuela secundaria, motivación para estudiar. 126 Indice Editoriale L’aggettivo è necessario Sulla natura mimesica del discorso. Una lettura filosofico-educativa di pagine del Cratilo Gilberto Scaramuzzo Adamo magister. Il canone educativo del Cursus Conimbricensis Cristiano Casalini «We have only one story». Fedeltà al Testo e creazione narrativa nelle Sunday Schools americane Luana Salvarani Colonie, imperi e migrazioni. Un inquadramento postcoloniale dell'Europa multiculturale Giuseppe Burgio Roger Garaudy: mon tour du siècle Francesco Mattei 1 7 21 43 65 89 La dispersione inapparente Benedetto Vertecchi 109 Abstracts 121 Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 per conto di Editoriale Anicia da Finsol S.r.l. - www.finsol.it EDIZIONI ANICIA Collana Teoria e storia dell’educazione 130. F. MATTEI, La formazione dell’ánthropos téleios. Parresia e responsabilità in D. Bonhoeffer 131. M. D’ARCANGELI, Nuovo Welfare e società multiculturale 132. A. CAGNOLATI, Madri sociali 133. A. NACCARI, Pedagogia dei cicli di vita 134. R.M. POSTIGLIONE, Formazione e lavoro (1861-2007) 135. R.M. POSTIGLIONE, La formazione professionale 136. P. MULÈ, La formazione del docente in Spagna dal 1945 ad oggi 137. F. MATTEI, La figura e l’opera di Juan Huarte de San Juan 138. M. de MONTAIGNE, L’Educazione. Essais 25-29, tr. di Girolamo Canini (1633), a cura di C. Casalini e L. Salvarani 139. M. MUZI (ed.), Cultura e formazione nella società laica: realtà o utopia? 140. G. SCARAMUZZO (ed.), Mimopaideia. Buone pratiche per una pedagogia dell’espressione 141. E. MANNESE (ed.), Mezzogiorno coscienza civile processi formativi, Scritti di N. Mancino, F. Mattei, G. Minichiello, F. Tessitore 142. M. GIOSI, Come in uno specchio. Teatro e formazione dell’io. Figure e percorsi del Novecento 143. A. PORCHEDDU, Didattica e comunicazione 144. M. MANNO, Lettere a Francesco, Responsio (nunc) brevis di F. MATTEI 145. C. COSTA, L’umano riuscito. Una ermeneusi dei Ricordi di Marco Aurelio 146. F. MATTEI (ed.), La formazione professionale. Scorci storici e problemi aperti 147. F. MATTEI, ANIMI. Il contributo dell’A.N.I.M.I. alla storia dell’educazione (1910-1945) 148. V. CAGGIANO, Educazione imprenditoriale 149. L. VANNI (ed.), Iconografie d’infanzia 150. R. NESTI (ed.), Didattica nella “primaria” 151. F. MATTEI, Tracce di paideia 152. M. MUZI (ed.), Eventi formativi e modelli epistemologici del narrare 153. E. MADRUSSAN, Briciole di pedagogia 154. E. LASTRUCCI, Formare il cittadino europeo 155. C. CASALINI, Aristotele a Coimbra. Il Cursus Conimbricensis 156. L. SALVARANI, Sunday School Literature 157. L. PUGLIELLI, Olindo Giacobbe scrittore per l’infanzia 158. C. LEUZZI, Alfabetizzazione nazionale e identità civile 159. F. MATTEI (ed.), Sul paradigma dell’efficacia in educazione 160. R.M. POSTIGLIONE, Differenze di paideia. Culture lingue migrazioni 161. M.E. ALBERTI, La casa, la villa, il palazzo 162. C. CASALINI et alii, Misurare l’informale. Vinepac: un progetto europeo 163. R. M. POSTIGLIONE, Per una pedagogia strutturale 164. I. MESSURI, La comunicazione pedagogica. Per un nuovo modello formativo