In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione
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In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione
www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 «Dichiarazione di illegittimità costituzionale, reviviscenza della disciplina precedente, patteggiamento ed illegalità della pena concordata» (Cass. pen. Sez. VI, Sent., 02 dicembre 2014 – 14 gennaio 2015, n. 1409) applicazione della pena su richiesta costituzionale stupefacenti – illegittimità In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti (la cui disciplina è mutata a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 4- bis e 4 vicies ter del decreto legge 30 dicembre 30 dicembre 2005, n.272 con conseguente reviviscenza della disciplina illegittimamente modificata dal legislatore) è illegale solo la pena non compatibile con i limiti edittali ripristinati. Quando l’applicazione della pena su richiesta della parti, avvenuta prima della pronuncia di incostituzionalità, rientri comunque in limiti edittali compatibili con quelli ripristinati, essa non può considerarsi illegale. Di conseguenza, non sarà nulla la sentenza giudiziale resa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. *** IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AGRO' Antonio S. - Presidente Dott. LEO Guglielm - rel. Consigliere Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: M.G., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza in data 14/01/2014 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Busto Arsizio; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Guglielmo Leo; www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto Dott. Antonio Gialanella, che ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata e trasmettersi gli atti al Tribunale di Busto Arsizio per l'ulteriore corso. 1. E' impugnata la sentenza del 14/01/2014 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Busto Arsizio, che ha disposto ai sensi dell'art. 444 c.p.p., l'applicazione, nei confronti di M.G., della pena di tre anni e sei mesi di reclusione e di Euro 15.000,00 di multa. La contestazione concerne la detenzione illecita di hashish, del peso lordo di oltre 1.900 grammi, per una quantità di principio attivo THC pari a circa 122 grammi. I fatti sono stati accertati in occasione dell'arresto in flagranza dell'interessato. Alla determinazione della pena si è pervenuti quantificando i valori di partenza in sette anni per la reclusione ed in 30.000,00 Euro per la multa. Esclusa la recidiva, ed applicate le attenuanti generiche, la pena è diminuita fino alla reclusione per quattro anni e otto mesi ed alla multa per Euro 20.000,00. La riduzione finale per il rito ha condotto ai valori indicati in apertura. 2. Propone ricorso il Difensore dell'imputato, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), deducendo violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73. Si assume che, a seguito della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, il provvedimento impugnato dovrebbe essere "riformato", onde pervenire all'applicazione di pena in rapporto ai nuovi valori edittali previsti per le cosiddette "droghe leggere". 3. Il Procuratore generale motiva la propria richiesta di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla recente giurisprudenza di questa Corte, che in tal senso ha disposto in casi simili, in base ai principi di reviviscenza e di necessaria applicazione retroattiva della disciplina più favorevole al reo. Motivi della decisione 1. La sentenza impugnata deve effettivamente essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale di Busto Arsizio, affinchè le parti processuali possano negoziare un nuovo accordo, in base ai parametri edittali vigenti dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 25/02/2014. Con tale decisione, come è noto, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 fennraio 2006, n. 49, art. 1, comma 1. La sostanziale implicazione del decisum, intervenuto per la ritenuta violazione dell'art. 77 Cost., comma 2, è costituita dalla reviviscenza della disciplina illegittimamente modificata dal legislatore. 2 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 Per quanto qui rileva, ha riacquisito rilievo la distinzione delle droghe "leggere" da quelle "pesanti". Dunque, se per l'illecita detenzione di hashish e marijuana le pene edittali erano fissate dal 2005 (salva l'eventuale applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5) sugli stessi valori riguardanti gli oppiacei e la cocaina (cioè la reclusione da sei a venti anni e la multa da Euro 26.000,00 a Euro 260.000,00), dopo l'intervento della Consulta devono considerarsi vigenti i livelli sanzionatori antecedenti, come previsti dal citato art. 73, comma 4: reclusione da due a sei anni e multa da Euro 5.164,00 (lire dieci milioni) a Euro 77.468,00 (lire centocinquanta milioni). 2. Si registra dunque, per i procedimenti in corso concernenti droghe "leggere", la sopravvenienza di una disciplina penale più favorevole, che come tale deve trovare applicazione, a prescindere dalla "causa" per la quale è stata introdotta, riguardo a fatti pur commessi nella vigenza della normativa più severa. L'assunto costituisce l'ovvia implicazione della regola dettata all'attuale art. 2 c.p., comma 4, in punto di retroattività della lex mitior, e non presuppone che la pena in precedenza irrogata risulti incompatibile con i nuovi limiti edittali. Va però ricordato che - in piena e più volte ribadita conformità alla previsione dell'art. 7 della Convenzione edu - il regime di retroattività non è incondizionato, trovando un limite nella intervenuta formazione del giudicato. L'unica recente eccezione è data dal testo vigente dell'art. 2, comma 3, che conferisce rilievo all'intervenuta soppressione della pena detentiva per un fatto preveduto dalla legge come reato: una conferma della regola che la variazione dei limiti edittali della sanzione, di per sè, non esplica effetti riguardo ai fatti posti ad oggetto di sentenze irrevocabili. Proprio le tensioni create da questa tradizionale disciplina, di fronte ad uno ius superveniens introdotto per l'incompatibilità costituzionale della normativa antecedente, e di fronte al drammatico mutamento del regime sanzionatorio, stanno forse alla base di alcune contraddizioni che segnano la risposta giurisprudenziale al novum. La spinta a superare la mera logica della retroattività, attraverso un più radicale giudizio di illegalità della pena in precedenza inflitta, quand'anche la stessa risulti compatibile coi valori edittali sopravvenuti, sembra almeno in parte ispirata dalla necessità di assicurare esigenze di carattere pratico ed equitativo: la sanzione illegale va rimossa anche nel giudizio di legittimità, ed a prescindere dalla presenza nel ricorso di motivi anche genericamente attinenti alla quantificazione della pena; la illegalità della sanzione invalida il negozio sotteso al patteggiamento e la stessa sentenza di 3 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 applicazione della pena; e infine, se si perviene ad una valutazione di illegalità qualificata, in breve (e discorsivamente) ad una qualificazione di incostituzionalità della pena inflitta, la stessa barriera del giudicato diviene permeabile. Il che si nota, fin d'ora, non certo per disconoscere il valore delle esigenze evocate, quanto piuttosto nel tentativo di individuare l'ordine preferibile del discorso, escludendo per quanto possibile contaminazioni tra il piano sostanziale e quello processuale, tra gli effetti d'una soluzione e la giustificazione, argomentata e fondata, della soluzione medesima. 3. Fuori dell'ottica della illegalità sopravvenuta della pena, e dunque nella mera prospettiva del "diritto" all'applicazione della norma più favorevole, la differenza tra giudizi di pieno merito e procedura di patteggiamento risulta assai sensibile. Per i primi si pone il problema del giudicato, anche soltanto parziale, in assenza del quale restano solo da definire la sede ed il criterio per la rideterminazione del trattamento alla luce dei nuovi valori edittali (infra). La sentenza di patteggiamento, invece, trova legittimazione logica, ancor prima che giuridica, in un negozio avente ad oggetto proprio la quantità della pena. A fronte di variazioni favorevoli della previsione edittale si delinea un possibile interesse dell'imputato a rinegoziare l'accordo, senza le preclusioni che sarebbero opponibili alla parte pubblica nel caso opposto di un inasprimento delle sanzioni. E' dunque logico porre il quesito se la variazione in melius in corso di procedimento produca effetti sulla sentenza, già pronunciata, di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.. Per quel che risulta, prima dell'attuale contingenza, non era stata mai enunciata una soluzione positiva. In particolare, non possono classificarsi nel senso indicato alcune decisioni che avevano preso in considerazione proprio l'ipotesi della sopravvenienza di una lex mitior dopo la formulazione di una richiesta di applicazione della pena, o dopo la prestazione del relativo consenso. La giurisprudenza di questa Corte, com'è noto, era divisa sulla revocabilità del consenso prestato dall'imputato dopo la formazione dell'accordo con il pubblico ministero e prima della pronuncia della sentenza. In alcuni casi si era affermato che proprio la sopravvenienza della lex mitior avrebbe legittimato la soluzione di un accordo altrimenti inscindibile: "il difensore aveva sollecitato il giudice ad applicare una pena inferiore a quella già concordata: ndr tale invito peraltro deve intendersi avere il contenuto di una revoca della richiesta, nella specie ammissibile, essendo fondato sullo jus 4 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 superveniens, avuto riguardo all'art. 2 c.p., comma 4. Il giudice avrebbe dovuto dunque non applicare la pena a suo tempo richiesta ma invitare le parti a pervenire a un nuovo accordo o, in difetto a procedere all'ulteriore corso della procedura" (così Sez. 6, Sentenza n. 26976 del 10/04/2007, rv. 237095). Ancora si era notato, ribadendo il principio: "il consenso prestato deve ritenersi sempre revocabile qualora, dopo la stipulazione del patto e prima della pronunzia della sentenza ex art. 444 c.p.p., sia intervenuta una novella legislativa più favorevole, o tale comunque ritenuta dall'interessato, che alteri la precedente valutazione di convenienza sulla base della quale la parte si sia indotta a chiedere o consentire all'accordo... del resto, la comparizione delle parti in sede di udienza di patteggiamento e la possibilità di sottoporre al giudice ogni utile conclusione per l'eventuale (art. 444 nuovo c.p.p., comma 2) applicazione dell'art. 129 c.p.p. (immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità) corroborano tale tesi, sicchè ben può la parte in quella sede e, nel caso di specie, l'imputato, recedere dal consenso prestato o dalla richiesta formulata per invocare, contestualmente, l'applicazione della nuova normativa" (Sez. 4, Sentenza n. 11209 del 23/02/2012, rv. 252173). I precedenti appena citati non esprimono un atteggiamento consolidato e sono anzi contrastati - oltrechè dall'orientamento di carattere generale che nega sempre la revocabilità del consenso ad accordo concluso - da decisioni specificamente pertinenti a casi di normativa sopravvenuta considerata dall'imputato più favorevole (Sez. 4, Sentenza n. 38051 del 03/07/2012, rv. 254367). Ma pare comunque assorbente un diverso rilievo. Si trattava, nei casi in esame, di sentenze di applicazione della pena pronunciate sebbene fosse già intervenuta una contraria manifestazione di volontà dell'imputato. Ben altra questione è quella della efficacia "invalidante" dello ius superveniens in ordine ad un provvedimento già deliberato. Si è detto sopra come una tale efficacia non fosse stata mai affermata. Va aggiunto che la soluzione si sarebbe male armonizzata con le correnti indicazioni giurisprudenziali circa l'oggetto essenziale della manifestazione di volontà sottesa all'accordo sulla pena. Si notava comunemente come, fuori dai casi di pattuizione illegale (infra), il consenso prestato e l'accordo concluso non potessero essere posti in discussione sulla base della sopravvenuta conoscenza di elementi che avrebbero consigliato un diverso atteggiamento, e neppure in caso di errore. Si era fatta eccezione, talvolta, per la sola evenienza di un errore dovuto a dolo della controparte, confermando la diversa e più rigorosa disciplina per le "ipotesi di colposa, erronea percezione della realtà, fisiologicamente connessa all'esame degli atti 5 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 processuali e superata dalla manifestazione di volontà" (Sez. 5, Sentenza n. 7445 del 03/10/2013, rv. 259512). In effetti, si diceva, "la divergenza tra volontà e dichiarazione non può essere dedotta come motivo di impugnazione poichè al negozio processuale concluso dalle parti, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., non si applica la disciplina dell'errore dei negozi di diritto sostanziale, bensì il regime delle nullità degli atti processuali il quale non prevede detta divergenza come causa di nullità" (Sez. 6, Sentenza n. 6580 del 15/02/2000, rv. 217101; in precedenza, Sez. 6, Ordinanza n. 3560 del 25/11/1993, rv. 197720). In altri termini, "una volta intervenuta la ratifica del giudice, non è dato poi alla parte successivamente prospettare asseriti vizi della volontà o errori nella proposizione dell'istanza" (Sez. 4, Sentenza n. 888 del 19/03/1999, rv. 214592; in precedenza, nel senso che "non sono proponibili ripensamenti o proposizioni di asseriti vizi di volontà o di intelligenza, irrilevanti se non si traducono in censure di nullità, per le quali vige peraltro il principio di tassatività che regola la materia delle nullità processuali", Sez. 6, Sentenza n. 2099 del 24/05/1995, rv. 202152; in senso analogo Sez. 6, Ordinanza n. 3560 del 25/11/1993, rv. 197720). A prescindere dal riferimento formale al regime delle nullità, la ratio essenziale dell'orientamento risiede nella stabilità che deve caratterizzare il negozio sulla pena, in armonia tra l'altro con le esigenze di rapida definizione che legittimano la parziale rinuncia al principio di proporzionalità, e sulla indifferenza dei motivi che inducono ciascuna delle parti a considerare per sè conveniente la sanzione concordata, semprechè naturalmente l'accordo sia stato accettato con la consapevolezza del suo oggetto e delle sue conseguenze. Se è vero poi che, a seguito del noto intervento della Consulta, il patto deve essere ratificato dal giudice anche in punto di congruenza tra fatto e pena, è vero anche che dopo la valutazione positiva del giudice di merito detta congruenza non può più essere sindacata, nè direttamente nè indirettamente (da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 13/02/2013, rv. 254980). Inoltre, la nettezza del principio di congruenza è stata progressivamente attenuata dalla prassi, che nega ad esempio l'ammissibilità di una valutazione condotta con riguardo ai singoli reati confluenti in una fattispecie continuata, od ai singoli passaggi compiuti nel computo, ed assume che l'adeguatezza della pena concordata va stimata sul valore complessivamente applicato, "in quanto è unicamente il risultato finale che assume valenza quale espressione ultima e definitiva dell'incontro delle volontà delle parti" (da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 28641 del 28/05/2009, rv. 244582) Occorre tra l'altro ricordare che la convenienza a travolgere un accordo già raggiunto può riguardare tanto l'imputato che il pubblico ministero. Se alcune 6 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 implicazioni negative sarebbero comunque prevenute dal principio di inefficacia retroattiva della legge sfavorevole (così che la variazione in peius dei valori edittali di pena non potrebbe comunque giustificare una revoca di consenso della parte pubblica), lo stesso non potrebbe dirsi a fronte di errori o sopravvenienze di carattere anche decisivo rispetto alla manifestazione di volontà. E' in questa logica ad esempio, sempre prescindendo dal caso di accordo illegale, che la giurisprudenza ha costantemente escluso l'ammissibilità di impugnazioni che si sostanzino in un recesso dall'accordo da parte del pubblico ministero, anche quando istituzionalmente rappresentato da soggetto diverso da quello che l'accordo aveva espresso (ex multis; Sez. 3, Sentenza n. 41137 del 23/05/2013, rv. 256692). Sempre in tema di incidenza delle sopravvenienze, è stata negata la vanificazione dell'accordo e della sentenza pur quando sopravvenga il proscioglimento per una parte dei reati presi in considerazione (purchè si tratti dei reati satellite), sebbene sia chiara la loro influenza, in ipotesi anche molto rilevante, nella valutazione di convenienza e congruenza della pena inizialmente concordata (Sez. 3, Sentenza n. 4713 del 11/04/1997, rv. 207620). Si trattava di un quadro frammentario, e per la verità non del tutto coerente, dal quale però emergeva con chiarezza un dato unificante, e cioè che non ogni variazione (per sopravvenienza o per diversa percezione) del quadro degli elementi sottesi alla scelta negoziale può incidere sull'accordo raggiunto tra le parti e comunque sulla sentenza che l'abbia già positivamente recepito; anzi, accordo e provvedimento restano tendenzialmente stabili, fuori dai casi di constatata illegalità, a meno che non si dimostri un vizio concernente l'oggetto essenziale della fattispecie negoziale: l'applicazione di una data pena per un certo fatto. 4. Ovviamente, va considerato come, nella specie, la legge più favorevole sopravvenga in forza della dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione sanzionatola vigente al momento del fatto. Non sembra dubbia la revocabilità di una dichiarazione di consenso e di un accordo riferiti alla pena divenuta illegale (revocabilità già talvolta ammessa, come si è visto, anche a fronte di mutamenti non invalidanti delle cornici edittali) e, del resto, la domanda delle parti non potrebbe che essere respinta dal giudice. Nel contempo, la sentenza di applicazione non irrevocabile va certamente annullata, data appunto la illegalità della pena cui si riferisce. 7 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 La giurisprudenza aveva da tempo stabilito che l'accordo pertinente ad una pena illegalmente computata ed applicata va considerato nullo, e comunque inidoneo a legittimare la sentenza giudiziale, che si considera a sua volta nulla (da ultimo, Sez. 1, Sentenza n. 16766 del 07/04/2010, rv. 246930; si veda anche Sez. U, Sentenza n. 35738 del 27/05/2010, Calibe, rv. 247841). Insomma, una volta stabilito il connotato di illegalità della pena concordata tra le parti, e posta a fondamento di una sentenza non definitiva di applicazione, non v'è dubbio possibile circa la sorte del provvedimento, o almeno circa la necessità del suo annullamento (diversa è la questione delle sentenze divenute irrevocabili, che qui non interessa direttamente). Non è un caso, del resto, che quasi tutte le decisioni che hanno annullato sentenze di patteggiamento concernenti droghe "leggere" (infra) si siano basate sulla qualificazione della pena applicata come illegale, conservando quindi coerenza con la stratificata elaborazione precedente. Per quanto consta (ma si deve avvertire che il quadro muta rapidamente, ed è influenzato dai flussi della massimazione), in un solo caso questa Corte ha inteso prescindere, almeno in parte, dalla qualifica indicata, concentrando invece l'attenzione sui vizi del consenso attribuiti al negozio fondante, considerati rilevanti in forza (ed in funzione) della retroattività "rafforzata" della lex superveniens sostitutiva di una disciplina incostituzionale (Sez. 3, Sentenza n. 21259 del 03/04/2014, rv. 259384: cfr. infra). 5. Resta dunque necessario stabilire quando una pena sia stata concordata ed applicata illegalmente. Nei casi di positivo riscontro - e per quanto qui interessa - la sentenza ex art. 444 c.p.p., non può che essere annullata. I casi trattati dalla giurisprudenza fino alla recente sentenza della Consulta si riferivano a provvedimenti assunti in violazione della legge vigente. Oggi si discute invece di provvedimenti ad illegalità sopravvenuta, perchè dovuta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa della quale avevano fatto applicazione. Il principio cosiddetto di iperretroattività delle pronunce della Consulta che riguardino norme poste a fondamento d'un trattamento punitivo comporta appunto che, finanche per le situazioni cosiddette esaurite, la legalità di una sanzione debba essere valutata alla luce della disciplina vigente in luogo di quella rimossa, con effetti ex tunc, dall'ordinamento giuridico. Sul punto, ovviamente rilevantissimo per ciò che concerne l'eseguibilità di pene inflitte con sentenze divenute irrevocabili prima della sentenza dichiarativa della illegittimità, sono intervenute di 8 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 recente le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, rv. 260695-700). Con la relativa pronuncia, per un verso, si è ulteriormente argomentato e consolidato l'approdo cui già parte della giurisprudenza era pervenuta, e cioè che la legalità costituzionale va affermata, in fase esecutiva, non solo nei casi di abolitio criminis (e quindi, in termini di piana applicazione dell'art. 673 c.p.p., mediante revoca della sentenza di condanna), ma anche quando una quota della pena eseguibile è stata inflitta in applicazione di una norma penale sostanziale poi dichiarata illegittima. Per altro verso, ed in termini di novità, il massimo Collegio ha chiarito che le quote di pena concernenti gli elementi accidentali del reato devono considerarsi illegalmente date non solo nel caso di eliminazione della previsione circostanziale, ma anche quando i relativi effetti di aggravamento siano stati imposti in forza di una illegittima previsione concernente il bilanciamento con altre circostanze ("la stessa conclusione deve essere adottata allorquando oggetto della declaratoria di incostituzionalità non è una circostanza aggravante come nel caso della sentenza 249 del 2010, ma il divieto normativo che inibiva al giudice la possibilità di trarre dalle sue autonome valutazioni il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti"). Enunciando in forma sintetica il principio stabilito (art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3), le Sezioni unite hanno scritto: "successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione". Il che non equivale all'esplicito conferimento d'una qualificazione di illegalità della sanzione già inflitta, ma sembra logicamente presupporla. 6. Resta però da stabilire, ancora, se e quando possa considerarsi illegale una pena i cui termini qualitativi e quantitativi risultino compatibili sia con la legge concretamente applicata, sia con quella che avrebbe dovuto applicarsi nel quadro della legalità costituzionale. Il dubbio sorge - del tutto ragionevolmente - considerando come la determinazione della pena nel caso concreto sia orientata dalla fisionomia strutturale della fattispecie e dai valori edittali indicati dal legislatore (infra), e come dunque non sia detto che nei singoli casi, applicando la disciplina costituzionalmente compatibile, si sarebbe pervenuti ad una quantificazione coincidente con quella in effetti operata dal giudice (potrebbe anzi ritenersi probabile l'esito diverso). 9 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 E' questo propriamente l'oggetto della discussione apertasi nella giurisprudenza e nella dottrina, ove si stanno manifestando, per quanto emerso soprattutto dopo la deliberazione della presente sentenza, orientamenti in sostanziale contrasto. Stando al quadro che emerge dalle sentenze massimate, sembra prevalere (ma in un recente provvedimento di rimessione alle Sezioni unite si legge ad esempio di flussi contrari sottesi alle dichiarazioni di inammissibilità presso la settima sezione penale: Sez. 6, Ordinanza 08/01/2015, rie. Jazouli) un orientamento favorevole all'annullamento delle sentenze concernenti "droghe leggere". Non tutte le decisioni, per altro, si fondano sulla ritenuta illegalità delle pene inflitte o applicate. In diverse sentenze, infatti, la ratio decidendi sembra piuttosto consistere nella necessaria retroattività dello ius superveniens più favorevole (si vedano ad esempio le motivazioni di Sez. 4, Sentenza n. 47750 del 16/10/2014, rv. 260671; Sez. 4, Sentenza n. 46318 del 27/06/2014, rv. 260668; Sez. 4, Sentenza n. 21064 del 14/05/2014, rv. 259382; Sez. 4, Sentenza n. 27724 del 14/05/2014, rv. 260267; Sez. 6, Sentenza n. 14995 del 26/03/2014, rv. 259359). Contrarie alla tesi della illegalità dovrebbero ragionevolmente considerarsi, a prescindere da rilievi espliciti in tal senso, le decisioni che hanno escluso l'annullamento in caso di ricorsi inammissibili o di impugnazioni non segnate da censure concernenti il trattamento sanzionatorio (Sez. 6, 26 marzo 2014, n. 14995, rv. 259358; Sez. 6, 20 marzo 2014, n. 15157, rv. 259254; Sez. 4, 12 marzo 2014, n. 24606, rv. 259365). Deve ammettersi che non mancano enunciati (almeno impliciti) circa la illegalità delle pene in ragione della declaratoria di illegittimità delle previsioni edittali poste a fondamento della relativa determinazione. Il che vale per giudizi a cognizione piena (Sez. 4, Sentenza n. 47296 del 11/11/2014, rv. 260674; Sez. 4, Sentenza n. 47280 del 03/10/2014, rv. 260670; Sez. 4, Sentenza n. 33423 del 27/06/2014, rv. 260125; Sez. 4, Sentenza n. 36244 del 27/05/2014, rv. 260630; Sez. 6, Sentenza n. 14293 del 20/03/2014, rv. 259062; Sez. 6, Sentenza n. 14984 del 05/03/2014, rv. 259355) ed anche per sentenze di patteggiamento (Sez. 4, Sentenza n. 47329 del 09/10/2014, rv. 260669; Sez. 4, Sentenza n. 41820 del 02/07/2014, rv. 260635; Sez. 4, Sentenza n. 34274 del 01/07/2014, rv. 260633; Sez. 4, Sentenza n. 21085 del 14/05/2014, rv. 259386). Occorre però ulteriormente distinguere, perchè in molti casi la connotazione di illegalità della pena è stata affermata con riguardo a sanzioni incompatibili con i valori edittali sopravvenuti, e quindi effettivamente riconducibili, anche a parere di questo Collegio, alla 10 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 nozione propriamente intesa di pena illegale (si vedano ad esempio Sez. 3, Sentenza n. 25176 del 21/05/2014, rv. 259396, nonchè, con specifico riguardo al patteggiamento, Sez. 3, Sentenza n. 27426 del 16/05/2014, rv. 259394; Sez. 4, Sentenza n. 22326 del 10/04/2014, rv. Rv. 259374). Solo per una parte delle sentenze già sopra citate sembra assumere rilievo preponderante il mutamento in sè dei parametri di riferimento utilizzati per la quantificazione. E solo in un numero ancora minore di casi la Corte si è spinta consapevolmente a qualificare illegali pene quantificate in termini compatibili con i valori edittali vigenti (si vedano Sez. 3, Sentenza n. 26346 del 22/05/2014, rv. 259398; Sez. 3, Sentenza n. 26340 del 25/03/2014, rv. 260058). Ora, quando non è oggetto di mera asserzione, la qualifica di illegalità delle pene in questione è giustificata mediante un riferimento alla incongruenza sopravvenuta tra valori applicati in concreto e relativa giustificazione. Si ritiene, cioè, che i parametri più o meno espliciti utilizzati dal giudice per la gradazione non siano ancorabili ai limiti edittali della legge sopravvenuta: un riferimento alla minima offensività del caso concreto, per esempio, non sorreggerebbe più legalmente l'irrogazione di una pena ormai orientata verso il massimo della previsione edittale (si veda ad esempio la già citata sentenza n. 26340/2014). Nel caso delle sentenze di applicazione della pena su richiesta si nota, talvolta, che la valutazione di congruità, ad opera del giudice, costituirebbe un fattore essenziale di legittimazione del negozio tra le parti, e che l'inadeguatezza sopravvenuta di quella valutazione comporterebbe, di conseguenza, una carenza di legalità della sanzione concordata ed applicata (ad esempio, Sez. 4, Sentenza n. 46395 del 16/10/2014, rv. 260736; Sez. 4, Sentenza n. 44131 del 25/09/2014, rv. 260641). Subito però si constata - senza con ciò minimizzare la portata del problema - che una logica siffatta attiene alla legittimità della sentenza, e non alla legalità della pena; riguarda la regolarità del procedimento (sotto il profilo della motivazione) e non la disciplina sostanziale del trattamento sanzionatorio. Tanto che, in ipotesi (ed a prescindere dai congegni interni al sistema delle impugnazioni), una identica pena potrebbe essere inflitta od applicata con diversa motivazione. Non sembra un caso ad esempio che, riguardo al trattamento di reati concernenti "droghe leggere" sanzionati mediante aumenti ex art. 81 c.p., comma 2, una parte cospicua della giurisprudenza neghi la necessità di annullamento (Sez. 3, Sentenza n. 27066 del 30/04/2014, rv. 259392; Sez. 4, Sentenza n. 21558 del 11/04/2014, rv. 259751; 11 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 Sez. 6, Sentenza n. 21608 del 25/03/2014, rv. 259698; Sez. 6, Sentenza n. 25807 del 14/03/2014, rv. 259201; Sez. 6, Sentenza n. 12727 del 06/03/2014, rv. 258777). A parte la possibile incidenza di considerazioni pratiche connesse al valore trascurabile degli aumenti, si nota la coerenza tra un atteggiamento siffatto e gli enunciati correnti in punto di (non) motivazione sui singoli incrementi di pena. Sembra evidente, però, che in una logica sostanziale "pura" la congruità andrebbe assicurata anche per le quote di pena in regime di cumulo giuridico. Ed infatti diverse decisioni postulano anche nei casi in esame la illegalità sopravvenuta della pena (Sez. 4, Sentenza n. 19267 del 02/04/2014, rv. 259372; Sez. 4, Sentenza n. 22257 del 25/03/2014, rv. 259203; Sez. 4, Sentenza n. 24606 del 12/03/2014, rv. 259366; Sez. 4, Sentenza n. 16245 del 12/03/2014, rv. 259364; Sez. 4, Sentenza n. 25211 del 28/02/2014, rv. 259361), tanto che la questione è stata di recente rimessa alle Sezioni unite (Sez. 3, Ordinanza 02/12/2014, ric. Sebbar). La contaminazione risulta ancor più evidente considerando le decisioni che, pur esigendo una congruenza attuale tra pena e fatto, considerano legale la pena stessa, separando dunque il piano sostanziale da quello della motivazione (Sez. 4, Sentenza n. 44098 del 24/06/2014, rv. 260632; Sez. 3, Sentenza n. 27957 del 12/06/2014, rv. 259401). Nella stessa prospettiva possono richiamarsi le decisioni secondo cui andrebbero preservate le sentenze applicative di pene "vicine" al minimo edittale, quando lo stesso sia rimasto invariato (Sez. 3, Sentenza n. 27957 del 12/06/2014, rv. 259401; Sez. 3, Sentenza n. 26474 del 03/04/2014, rv. 259387; Sez. 3, Sentenza n. 11110 del 25/02/2014, rv. 258353). Potrebbe discutersi della coerenza di siffatte prese di posizione, ma resta chiaro come le accomuni una opinione essenziale: che non basti cioè la variazione sopravvenuta dei parametri edittali a connotare una pena inflitta od applicata nel senso della illegalità. Ciò che del resto esprime chiaramente una parte ulteriore della giurisprudenza, sia pur con le medesime riserve, più o meno accentuate, a fronte di pene che risultino in ipotesi gravemente sproporzionate: "in tema di stupefacenti... l'annullamento della sentenza per illegalità sopravvenuta della pena è possibile soltanto nel caso in cui sia stata inflitta una pena non più prevista dalla legge oppure quando la favorevole portata della circostanza attenuante sia stata elisa in ragione del giudizio di bilanciamento con circostanze aggravanti (in applicazione del principio la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di patteggiamento con cui era stata applicata all'imputato, previa concessione dell'attenuante di cui al D.P.R. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ritenuta prevalente sulla contestata recidiva, la pena di anni uno e mesi due di reclusione per 12 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 detenzione illecita di hashish)" (Sez. 3, Sentenza n. 16699 del 19/03/2014, rv. 259375). 7. Tutto ciò premesso, il Collegio non ritiene che una pena compresa entro la forbice edittale delle norme "ripristinate" dalla sentenza della Corte costituzionale sia illegale nel senso proprio del termine, pur condividendo l'opinione che debba essere assicurato nella massima misura possibile il diritto di ogni imputato all'applicazione della legge sopravvenuta più favorevole, anche attraverso una considerazione assai riduttiva dei casi di giudicato parziale. L'unica argomentazione sviluppata per il contrario orientamento, pur molto suggestiva, non è completa nè facilmente completabile, neppure per il caso, particolarmente significativo, della sentenza di patteggiamento. Lo "errore" giudiziale nella valutazione di congruenza è un vizio del provvedimento, e non della pena. Non si spiega, in effetti, perchè una determinata sanzione dovrebbe essere illegale in sè, cioè sul piano del diritto sostanziale, sol perchè applicata per mezzo di un provvedimento eventualmente erroneo. Quel provvedimento sarà in ipotesi suscettibile di sindacato, nei termini che già si sono visti (invero assai ristretti, per la sentenza ex art. 444 c.p.p.), ma non invalido in quanto applicativo, appunto, di una pena sostanzialmente illegale. Potrebbe obiettarsi che le Sezioni unite - con la già citata sentenza n. 42858/2014 (rie. Gatto) - sono parse orientate ad escludere che una determinata pena debba considerarsi legale per il sol fatto della astratta sua reiterabilità (è reiterabile, in particolare, una pena cui potrebbe pervenirsi attraverso un rinnovato giudizio di comparazione tra circostanze). Tuttavia va rilevato che, nella pronuncia in questione, l'intervento del giudice in executivis (e dunque, si direbbe, la stessa connotazione di illegalità della pena) sono stati espressamente subordinati alle verifica di una incidenza risolutiva del divieto incostituzionale di subvalenza della circostanza aggravante: pena illegale in quanto effettivamente sottratta, in punto di congruenza, ai criteri di determinazione ordinaria; pena illegale in quanto non effettivamente reiterabile, perchè nel caso concreto interamente dipendente, nei suoi profili quantitativi, dalla norma dichiarata illegittima. Ed infatti si legge nella sentenza: "nell'esercizio di tale potere-dovere, il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione, dovendo procedere - non diversamente da quanto è previsto negli artt. 671 e 675 c.p.p. - nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione, ossia potrà pervenire al giudizio di prevalenza sempre che lo stesso non sia stato precedentemente escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di merito, cioè indipendentemente dal divieto posto dall'art. 69 c.p., 13 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 comma 4: in sintesi, le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile". Si consideri, per inciso, che la sentenza n. 32 del 2014 non ha toccato affatto il tema della proporzionalità delle pene previste con la disciplina dichiarata illegittima, essendosi limitata a riscontrare un vizio della procedura di approvazione di quella stessa disciplina. 8. Se dunque la sentenza di patteggiamento non è sempre annullabile in forza della intrinseca illegalità della pena applicata, resta da stabilire se non ricorra un vizio propriamente riferibile alla sentenza, privata di un valido supporto negoziale e, per altro verso, della indispensabile valutazione di congruità della pena. I valori edittali ormai superati parrebbero atteggiarsi a motivi del negozio processuale, estranei all'oggetto essenziale del patto, così come l'ha progressivamente delineato la giurisprudenza (supra, 3), negando rilevanza all'errore, anche incolpevole, ed alla sopravvenienza di circostanze in astratto suscettibili di incidere sulla valutazione di convenienza della determinazione negoziale. In questo senso l'orientamento qui disatteso sembra implicare una profonda revisione degli approdi finora correnti, che però è stata proposta e argomentata, con coerenza, in un solo caso (supra). Esplicito, nella sentenza in questione (n. 21259/2014), l'accostamento "alla tipologia contrattuale civilistica", per la quale "il mutamento dello stato dei fatti in cui e per cui il contratto è stato stipulato in una determinata forma e con un determinato regolamento negoziale può condurre alla risoluzione del contratto stesso qualora aggravi la posizione di una delle parti (ex art. 1467 c.c., anche nella fattispecie della presupposizione...: è configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'art. 1467 c.c. (...)". La prospettiva contraddice però un orientamento consolidato e, per la verità, non rende adeguatamente conto delle ragioni per le quali la "presupposizione" dovrebbe restare indifferente a fronte dei casi di "normale" successione tra leggi e nelle ipotesi di errore (solo 14 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 incolpevole?) sui valori edittali della pena o addirittura, più in generale, sulla disciplina di diritto sostanziale applicabile al caso di specie. Ancora. Se non per vizio essenziale del negozio legittimante, la sentenza di patteggiamento potrebbe essere nulla perchè mancante del giudizio di congruità della pena cui il giudice è chiamato in piena autonomia, ed a prescindere dai motivi riferibili alle parti. Si è già descritta la linea di alcune delle decisioni sul tema: quel giudizio sarebbe travolto, per l'efficacia iperretroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale, con la conseguenza che la pena applicata sarebbe illegale. Anche in questo caso, tuttavia, la soluzione implica nei fatti un superamento dei limiti tradizionalmente posti al sindacato sul merito e sulla motivazione del giudizio di congruità, e trasforma in vizio della pena una pretesa patologia della sentenza. Il negozio di patteggiamento, di norma estremamente vantaggioso per l'interessato, ha una fisionomia tipica, essenzialmente centrata sulla disponibilità a subire l'applicazione di una data pena (eseguibile o non) e sull'accettazione di modalità contratte e teoricamente assai veloci di ricostruzione del fatto e di verifica della procedura. Se la volontà della parte non può prevalere sui limiti legali posti dalla fattispecie incriminatrice e dalle norme sostanziali per la determinazione del trattamento sanzionatorio, quegli stessi limiti costituiscono il perimetro entro il quale l'accordo non è poi nuovamente negoziabile (e sindacabile a prescindere dagli effetti devolutivi delle impugnazioni). Se prevalesse l'opinione qui disattesa, sembrerebbe necessario ammettere che ogni variazione dei parametri edittali presi a riferimento dal giudice debba comportare la nullità della sua sentenza, indipendentemente dalla incompatibilità costituzionale della previsione originaria: la illegalità della pena deriverebbe infatti dalla sopravvenuta incongruenza del giudizio di proporzionalità, e non appunto dall'eliminazione in sè della previsione sanzionatoria. Con il che, tra l'altro, si porrebbe l'ulteriore problema della rilevanza di acquisizioni sopravvenute, diverse dal mutamento normativo, capaci di incidere a posteriori sulla valutazione giudiziale. Per altro verso, ricondotta (inevitabilmente) al genus della pena illegale la patologia individuata per le fattispecie in questione, dovrebbe ammettersi la necessità di rilevazione officiosa del vizio, anche in assenza di qualunque impugnazione concernente la quantificazione della pena medesima, e perfino in presenza di una ipotetica valutazione di congruenza alla luce della normativa sopravvenuta. E dovrebbero considerarsi comunque ineseguibili - in assenza di una nuova determinazione in executivis (per se stessa assai problematica) - tutte le 15 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 sentenze di patteggiamento per fatti concernenti "droghe leggere", indipendentemente dai livelli di pena concordati. Conseguenza che, come sopra si era già visto, viene tratta solo da una parte davvero minoritaria della giurisprudenza sul tema. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che, quando il negozio di patteggiamento abbia preso in considerazione un valore di pena compatibile con i limiti edittali ripristinati dalla Consulta (cioè, in sostanza, la reclusione per sei anni), la pena stessa non possa considerarsi "illegale", e dunque non possa considerarsi nulla, per questa causa, la sentenza giudiziale resa ex art. 444 c.p.p.. L'assunto concerne, com'è ovvio, l'identificazione della "pena base", e non il risultato finale ottenuto per effetto di aumenti o diminuzioni connessi all'eventuale concorso di reati e di circostanze, nonchè alla riduzione dovuta in forza del ricorso al rito speciale. Dovrà considerarsi "illegale", di conseguenza, anche la pena inferiore, nella specie detentiva, al massimo di sei anni che attualmente segna la fattispecie incriminatrice relativa alle c.d. "droghe leggere", quando il valore di partenza sia stato comunque superiore alla soglia indicata. 10. Alla luce delle indicazioni fornite in apertura, si constata agevolmente che nel caso di specie la pena applicata deve ritenersi "illegale", per la sola ed essenziale ragione che il Giudice, nel fissare il valore di partenza, ha indicato per la specie detentiva una quantità superiore al massimo edittale, da ritenersi cogente, in base alle ragioni ormai ampiamente illustrate, ora per allora. L'illegalità della pena applicata comporta l'annullamento della relativa sentenza. E tale annullamento, il Collegio, deve essere disposto senza rinvio, così restituendo il processo alla fase che aveva preceduto l'accordo poi risultato invalido. 11. Non può ritenersi, in particolare, che "spetti" al ricorrente un trattamento sanzionatorio corrispondente ai nuovi minimi edittali della fattispecie, e che dunque il trattamento medesimo possa essere disposto direttamente da questa Corte. Sebbene l'assunto abbia trovato qualche riscontro nella giurisprudenza, specie ed appunto in casi nei quali il giudice territoriale abbia fissato nel minimo di legge la pena inflitta prima della pronuncia della Corte costituzionale, il Collegio ritiene di dovere aderire ad un diverso orientamento, che nega ogni automatismo fondato su pretese simmetrie, ed esige dunque una rinnovata valutazione del giudice di merito circa la pena più adeguata al caso concreto (tra le altre, Sez. 6, Sentenza n. 39924 del 23/09/2014, rv. 16 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 260711; Sez. 4, Sentenza n. 21064 del 14/05/2014, rv. 259382; Sez. 6, Sentenza n. 14995 del 26/03/2014, rv. 259359; Sez. 3, Sentenza n. 25176 del 21/05/2014, rv. 259396). Con specifico riguardo al rito di patteggiamento, poi, il preteso automatismo (che implicherebbe la definitiva applicazione di una pena senza accertamento del fatto) risulta tanto più ingiustificabile quanto maggiore sia il peso conferito ai valori edittali nella formazione della volontà negoziale dell'interessato e nella perdurante validità della medesima. E' appena il caso di notare come la quantità della sanzione minacciata dall'ordinamento costituisce spesso elemento non secondario nella valutazione di convenienza dell'accesso ai riti speciali. Va notato, d'altra parte, come la congruenza della pena non sia valutata dal giudice in termini assoluti, ma nell'ambito di una certa delimitazione del fatto punibile e con riferimento a specifici valori edittali della sanzione. Il giudizio di disvalore è infatti rimesso, sul piano astratto, alla discrezionalità legislativa, che viene esercitata tanto attraverso la scelta dei comportamenti da ricondurre ad un'unica previsione incriminatrice, tanto attraverso la individuazione di soglie sanzionatorie che si caratterizzano, tra l'altro, per l'escursione variabile tra un minimo ed un massimo (e dunque per una maggiore o minore omologazione in termini di gravità delle condotte sanzionate). Al giudice spetta di collocare il fatto concreto nella scala dei comportamenti riconducibili alla figura criminosa, e di tarare la pena, rispetto ai parametri oggettivi e soggettivi di misurazione, tenuto conto del cursore assegnatogli dal legislatore. Un medesimo fatto storico, quindi, può essere diversamente valutato, in termini di gravità, a seconda dell'ampiezza della fattispecie astratta cui deve essere ricondotto, e deve essere sanzionato, nella logica della proporzionalità, anche in ragione dei valori edittali di pena fissati dal legislatore. Nella situazione determinata dalla citata sentenza n. 32 del 2014, la gravità obiettiva di condotte concernenti droghe cosiddette "leggere" non va più misurata anche rispetto a comportamenti concernenti droghe "pesanti", come prima accadeva per effetto dell'equiparazione stabilita dal legislatore, ma nell'ambito di un sistema ove tutte le condotte riguardano ormai stupefacenti considerati meno pericolosi. Nel contempo, avuto anche riguardo alla "meritevolezza" di pena soggettivamente riferibile al reo, una valutazione riferita al valore minimo edittale non deve essere necessariamente stabile (salve le preclusioni nascenti dal divieto di reformatio in peius) nonostante la variazione (nella specie sensibilissima) di quello stesso minimo edittale. Occorre dunque una valutazione globale del fatto, che non spetta a questa Corte. Valutazione che - si osserva in modo del tutto incidentale, 17 www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823 esulando il tema dall'oggetto del presente giudizio - dovrà intendersi rimessa al giudice dell'esecuzione nel caso di sentenze di patteggiamento divenute irrevocabili e relative a pene illegali nel senso proprio del termine, non essendo più discutibile la forma dell'accertamento e restando a questo punto da reiterare, in termini ormai sottratti alla dinamica negoziale, la valutazione officiosa di congruità del trattamento sanzionatorio. 12. Conviene forse aggiungere, in chiusura, che le notazioni appena proposte non sembrano al Collegio contraddire la posizione assunta in punto di illegalità della pena compatibile coi valori edittali vigenti, eppur quantificata alla luce di valori diversi. Altro - ancora una volta - è il diritto sostanziale sanzionatorio, altro sono i meccanismi di controllo sul procedimento e sulla motivazione, che attengono al processo e sono soggetti ai limiti indicati. Altro è l'annullamento della sentenza per l'illegittimità del deliberato (ed eventualmente per la illegalità del medesimo), altro è l'adozione di un analogo provvedimento per vizi della procedura o della motivazione. 13. La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio, di modo che le parti siano rimesse innanzi al giudice della cognizione al fine di verificare se possa pervenirsi ad un nuovo accordo sulla pena o se il procedimento debba, piuttosto, proseguire in altra forma. Con la precisazione, già implicita nei rilievi che precedono, che nel primo caso il Giudice del rinvio non potrà riconoscere all'imputato il "diritto" ad una pena computabile secondo criteri percentuali o di corrispondenza (del genere: a vecchio minimo corrisponde il nuovo minimo). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Busto Arsizio per l'ulteriore corso. Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2014. Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2015. 18