In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione

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In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione
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«Dichiarazione di illegittimità costituzionale, reviviscenza della disciplina
precedente, patteggiamento ed illegalità della pena concordata»
(Cass. pen. Sez. VI, Sent., 02 dicembre 2014 – 14 gennaio 2015, n. 1409)
applicazione della pena su richiesta costituzionale
stupefacenti
–
illegittimità
In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione
illecita di sostanze stupefacenti (la cui disciplina è mutata a seguito
della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 con cui è stata
dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 4- bis e 4 vicies ter del
decreto legge 30 dicembre 30 dicembre 2005, n.272 con conseguente
reviviscenza della disciplina illegittimamente modificata dal legislatore)
è illegale solo la pena non compatibile con i limiti edittali ripristinati.
Quando l’applicazione della pena su richiesta della parti, avvenuta
prima della pronuncia di incostituzionalità, rientri comunque in limiti
edittali compatibili con quelli ripristinati, essa non può considerarsi
illegale. Di conseguenza, non sarà nulla la sentenza giudiziale resa ai
sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
***
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO' Antonio S. - Presidente Dott. LEO Guglielm - rel. Consigliere Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 14/01/2014 del Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Busto Arsizio;
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Guglielmo Leo;
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lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto
Dott. Antonio Gialanella, che ha chiesto annullarsi senza rinvio la
sentenza impugnata e trasmettersi gli atti al Tribunale di Busto Arsizio
per l'ulteriore corso.
1. E' impugnata la sentenza del 14/01/2014 del Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Busto Arsizio, che ha disposto ai
sensi dell'art. 444 c.p.p., l'applicazione, nei confronti di M.G., della pena
di tre anni e sei mesi di reclusione e di Euro 15.000,00 di multa.
La contestazione concerne la detenzione illecita di hashish, del peso
lordo di oltre 1.900 grammi, per una quantità di principio attivo THC
pari a circa 122 grammi. I fatti sono stati accertati in occasione
dell'arresto in flagranza dell'interessato.
Alla determinazione della pena si è pervenuti quantificando i valori di
partenza in sette anni per la reclusione ed in 30.000,00 Euro per la
multa. Esclusa la recidiva, ed applicate le attenuanti generiche, la pena
è diminuita fino alla reclusione per quattro anni e otto mesi ed alla
multa per Euro 20.000,00. La riduzione finale per il rito ha condotto ai
valori indicati in apertura.
2. Propone ricorso il Difensore dell'imputato, a norma dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. b), deducendo violazione del D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73.
Si assume che, a seguito della sentenza n. 32/2014 della Corte
costituzionale, il provvedimento impugnato dovrebbe essere
"riformato", onde pervenire all'applicazione di pena in rapporto ai
nuovi valori edittali previsti per le cosiddette "droghe leggere".
3. Il Procuratore generale motiva la propria richiesta di annullamento
senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla recente
giurisprudenza di questa Corte, che in tal senso ha disposto in casi
simili, in base ai principi di reviviscenza e di necessaria applicazione
retroattiva della disciplina più favorevole al reo.
Motivi della decisione
1. La sentenza impugnata deve effettivamente essere annullata senza
rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale di Busto Arsizio, affinchè
le parti processuali possano negoziare un nuovo accordo, in base ai
parametri edittali vigenti dopo la sentenza della Corte costituzionale n.
32 del 25/02/2014.
Con tale decisione, come è noto, la Corte ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies ter,
convertito, con modificazioni, dalla L. 21 fennraio 2006, n. 49, art. 1,
comma 1. La sostanziale implicazione del decisum, intervenuto per la
ritenuta violazione dell'art. 77 Cost., comma 2, è costituita dalla
reviviscenza della disciplina illegittimamente modificata dal legislatore.
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Per quanto qui rileva, ha riacquisito rilievo la distinzione delle droghe
"leggere" da quelle "pesanti". Dunque, se per l'illecita detenzione di
hashish e marijuana le pene edittali erano fissate dal 2005 (salva
l'eventuale applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5)
sugli stessi valori riguardanti gli oppiacei e la cocaina (cioè la reclusione
da sei a venti anni e la multa da Euro 26.000,00 a Euro 260.000,00), dopo
l'intervento della Consulta devono considerarsi vigenti i livelli
sanzionatori antecedenti, come previsti dal citato art. 73, comma 4:
reclusione da due a sei anni e multa da Euro 5.164,00 (lire dieci milioni)
a Euro 77.468,00 (lire centocinquanta milioni).
2. Si registra dunque, per i procedimenti in corso concernenti droghe
"leggere", la sopravvenienza di una disciplina penale più favorevole,
che come tale deve trovare applicazione, a prescindere dalla "causa" per
la quale è stata introdotta, riguardo a fatti pur commessi nella vigenza
della normativa più severa.
L'assunto costituisce l'ovvia implicazione della regola dettata
all'attuale art. 2 c.p., comma 4, in punto di retroattività della lex mitior,
e non presuppone che la pena in precedenza irrogata risulti
incompatibile con i nuovi limiti edittali.
Va però ricordato che - in piena e più volte ribadita conformità alla
previsione dell'art. 7 della Convenzione edu - il regime di retroattività
non è incondizionato, trovando un limite nella intervenuta formazione
del giudicato. L'unica recente eccezione è data dal testo vigente dell'art.
2, comma 3, che conferisce rilievo all'intervenuta soppressione della
pena detentiva per un fatto preveduto dalla legge come reato: una
conferma della regola che la variazione dei limiti edittali della sanzione,
di per sè, non esplica effetti riguardo ai fatti posti ad oggetto di
sentenze irrevocabili.
Proprio le tensioni create da questa tradizionale disciplina, di fronte ad
uno ius superveniens introdotto per l'incompatibilità costituzionale
della normativa antecedente, e di fronte al drammatico mutamento del
regime sanzionatorio, stanno forse alla base di alcune contraddizioni
che segnano la risposta giurisprudenziale al novum. La spinta a
superare la mera logica della retroattività, attraverso un più radicale
giudizio di illegalità della pena in precedenza inflitta, quand'anche la
stessa risulti compatibile coi valori edittali sopravvenuti, sembra
almeno in parte ispirata dalla necessità di assicurare esigenze di
carattere pratico ed equitativo:
la sanzione illegale va rimossa anche nel giudizio di legittimità, ed a
prescindere dalla presenza nel ricorso di motivi anche genericamente
attinenti alla quantificazione della pena; la illegalità della sanzione
invalida il negozio sotteso al patteggiamento e la stessa sentenza di
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applicazione della pena; e infine, se si perviene ad una valutazione di
illegalità qualificata, in breve (e discorsivamente) ad una qualificazione
di incostituzionalità della pena inflitta, la stessa barriera del giudicato
diviene permeabile.
Il che si nota, fin d'ora, non certo per disconoscere il valore delle
esigenze evocate, quanto piuttosto nel tentativo di individuare l'ordine
preferibile del discorso, escludendo per quanto possibile
contaminazioni tra il piano sostanziale e quello processuale, tra gli
effetti d'una soluzione e la giustificazione, argomentata e fondata, della
soluzione medesima.
3. Fuori dell'ottica della illegalità sopravvenuta della pena, e dunque
nella mera prospettiva del "diritto" all'applicazione della norma più
favorevole, la differenza tra giudizi di pieno merito e procedura di
patteggiamento risulta assai sensibile.
Per i primi si pone il problema del giudicato, anche soltanto parziale, in
assenza del quale restano solo da definire la sede ed il criterio per la
rideterminazione del trattamento alla luce dei nuovi valori edittali
(infra).
La sentenza di patteggiamento, invece, trova legittimazione logica,
ancor prima che giuridica, in un negozio avente ad oggetto proprio la
quantità della pena. A fronte di variazioni favorevoli della previsione
edittale si delinea un possibile interesse dell'imputato a rinegoziare
l'accordo, senza le preclusioni che sarebbero opponibili alla parte
pubblica nel caso opposto di un inasprimento delle sanzioni. E' dunque
logico porre il quesito se la variazione in melius in corso di
procedimento produca effetti sulla sentenza, già pronunciata, di
applicazione della pena ex art. 444 c.p.p..
Per quel che risulta, prima dell'attuale contingenza, non era stata mai
enunciata una soluzione positiva. In particolare, non possono
classificarsi nel senso indicato alcune decisioni che avevano preso in
considerazione proprio l'ipotesi della sopravvenienza di una lex mitior
dopo la formulazione di una richiesta di applicazione della pena, o
dopo la prestazione del relativo consenso.
La giurisprudenza di questa Corte, com'è noto, era divisa sulla
revocabilità del consenso prestato dall'imputato dopo la formazione
dell'accordo con il pubblico ministero e prima della pronuncia della
sentenza. In alcuni casi si era affermato che proprio la sopravvenienza
della lex mitior avrebbe legittimato la soluzione di un accordo
altrimenti inscindibile: "il difensore aveva sollecitato il giudice ad
applicare una pena inferiore a quella già concordata:
ndr tale invito peraltro deve intendersi avere il contenuto di una revoca
della richiesta, nella specie ammissibile, essendo fondato sullo jus
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superveniens, avuto riguardo all'art. 2 c.p., comma 4. Il giudice avrebbe
dovuto dunque non applicare la pena a suo tempo richiesta ma invitare
le parti a pervenire a un nuovo accordo o, in difetto a procedere
all'ulteriore corso della procedura" (così Sez. 6, Sentenza n. 26976 del
10/04/2007, rv. 237095). Ancora si era notato, ribadendo il principio: "il
consenso prestato deve ritenersi sempre revocabile qualora, dopo la
stipulazione del patto e prima della pronunzia della sentenza ex art. 444
c.p.p., sia intervenuta una novella legislativa più favorevole, o tale
comunque ritenuta dall'interessato, che alteri la precedente valutazione
di convenienza sulla base della quale la parte si sia indotta a chiedere o
consentire all'accordo... del resto, la comparizione delle parti in sede di
udienza di patteggiamento e la possibilità di sottoporre al giudice ogni
utile conclusione per l'eventuale (art. 444 nuovo c.p.p., comma 2)
applicazione dell'art. 129 c.p.p. (immediata declaratoria di determinate
cause di non punibilità) corroborano tale tesi, sicchè ben può la parte in
quella sede e, nel caso di specie, l'imputato, recedere dal consenso
prestato o dalla richiesta formulata per invocare, contestualmente,
l'applicazione della nuova normativa" (Sez. 4, Sentenza n. 11209 del
23/02/2012, rv. 252173).
I precedenti appena citati non esprimono un atteggiamento consolidato
e sono anzi contrastati - oltrechè dall'orientamento di carattere generale
che nega sempre la revocabilità del consenso ad accordo concluso - da
decisioni specificamente pertinenti a casi di normativa sopravvenuta
considerata dall'imputato più favorevole (Sez. 4, Sentenza n. 38051 del
03/07/2012, rv. 254367). Ma pare comunque assorbente un diverso
rilievo. Si trattava, nei casi in esame, di sentenze di applicazione della
pena pronunciate sebbene fosse già intervenuta una contraria
manifestazione di volontà dell'imputato.
Ben altra questione è quella della efficacia "invalidante" dello ius
superveniens in ordine ad un provvedimento già deliberato.
Si è detto sopra come una tale efficacia non fosse stata mai affermata.
Va aggiunto che la soluzione si sarebbe male armonizzata con le
correnti indicazioni giurisprudenziali circa l'oggetto essenziale della
manifestazione di volontà sottesa all'accordo sulla pena.
Si notava comunemente come, fuori dai casi di pattuizione illegale
(infra), il consenso prestato e l'accordo concluso non potessero essere
posti in discussione sulla base della sopravvenuta conoscenza di
elementi che avrebbero consigliato un diverso atteggiamento, e
neppure in caso di errore. Si era fatta eccezione, talvolta, per la sola
evenienza di un errore dovuto a dolo della controparte, confermando la
diversa e più rigorosa disciplina per le "ipotesi di colposa, erronea
percezione della realtà, fisiologicamente connessa all'esame degli atti
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processuali e superata dalla manifestazione di volontà" (Sez. 5,
Sentenza n. 7445 del 03/10/2013, rv. 259512). In effetti, si diceva, "la
divergenza tra volontà e dichiarazione non può essere dedotta come
motivo di impugnazione poichè al negozio processuale concluso dalle
parti, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., non si applica la disciplina dell'errore
dei negozi di diritto sostanziale, bensì il regime delle nullità degli atti
processuali il quale non prevede detta divergenza come causa di
nullità" (Sez. 6, Sentenza n. 6580 del 15/02/2000, rv. 217101; in
precedenza, Sez. 6, Ordinanza n. 3560 del 25/11/1993, rv. 197720). In
altri termini, "una volta intervenuta la ratifica del giudice, non è dato
poi alla parte successivamente prospettare asseriti vizi della volontà o
errori nella proposizione dell'istanza" (Sez. 4, Sentenza n. 888 del
19/03/1999, rv. 214592; in precedenza, nel senso che "non sono
proponibili ripensamenti o proposizioni di asseriti vizi di volontà o di
intelligenza, irrilevanti se non si traducono in censure di nullità, per le
quali vige peraltro il principio di tassatività che regola la materia delle
nullità processuali", Sez. 6, Sentenza n. 2099 del 24/05/1995, rv. 202152;
in senso analogo Sez. 6, Ordinanza n. 3560 del 25/11/1993, rv. 197720).
A prescindere dal riferimento formale al regime delle nullità, la ratio
essenziale dell'orientamento risiede nella stabilità che deve
caratterizzare il negozio sulla pena, in armonia tra l'altro con le esigenze
di rapida definizione che legittimano la parziale rinuncia al principio di
proporzionalità, e sulla indifferenza dei motivi che inducono ciascuna
delle parti a considerare per sè conveniente la sanzione concordata,
semprechè naturalmente l'accordo sia stato accettato con la
consapevolezza del suo oggetto e delle sue conseguenze. Se è vero poi
che, a seguito del noto intervento della Consulta, il patto deve essere
ratificato dal giudice anche in punto di congruenza tra fatto e pena, è
vero anche che dopo la valutazione positiva del giudice di merito detta
congruenza non può più essere sindacata, nè direttamente nè
indirettamente (da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 13/02/2013, rv.
254980). Inoltre, la nettezza del principio di congruenza è stata
progressivamente attenuata dalla prassi, che nega ad esempio
l'ammissibilità di una valutazione condotta con riguardo ai singoli reati
confluenti in una fattispecie continuata, od ai singoli passaggi compiuti
nel computo, ed assume che l'adeguatezza della pena concordata va
stimata sul valore complessivamente applicato, "in quanto è
unicamente il risultato finale che assume valenza quale espressione
ultima e definitiva dell'incontro delle volontà delle parti" (da ultimo,
Sez. 3, Sentenza n. 28641 del 28/05/2009, rv. 244582) Occorre tra l'altro
ricordare che la convenienza a travolgere un accordo già raggiunto può
riguardare tanto l'imputato che il pubblico ministero. Se alcune
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implicazioni negative sarebbero comunque prevenute dal principio di
inefficacia retroattiva della legge sfavorevole (così che la variazione in
peius dei valori edittali di pena non potrebbe comunque giustificare
una revoca di consenso della parte pubblica), lo stesso non potrebbe
dirsi a fronte di errori o sopravvenienze di carattere anche decisivo
rispetto alla manifestazione di volontà.
E' in questa logica ad esempio, sempre prescindendo dal caso di
accordo illegale, che la giurisprudenza ha costantemente escluso
l'ammissibilità di impugnazioni che si sostanzino in un recesso
dall'accordo da parte del pubblico ministero, anche quando
istituzionalmente rappresentato da soggetto diverso da quello che
l'accordo aveva espresso (ex multis; Sez. 3, Sentenza n. 41137 del
23/05/2013, rv. 256692).
Sempre in tema di incidenza delle sopravvenienze, è stata negata la
vanificazione dell'accordo e della sentenza pur quando sopravvenga il
proscioglimento per una parte dei reati presi in considerazione (purchè
si tratti dei reati satellite), sebbene sia chiara la loro influenza, in ipotesi
anche molto rilevante, nella valutazione di convenienza e congruenza
della pena inizialmente concordata (Sez. 3, Sentenza n. 4713 del
11/04/1997, rv. 207620).
Si trattava di un quadro frammentario, e per la verità non del tutto
coerente, dal quale però emergeva con chiarezza un dato unificante, e
cioè che non ogni variazione (per sopravvenienza o per diversa
percezione) del quadro degli elementi sottesi alla scelta negoziale può
incidere sull'accordo raggiunto tra le parti e comunque sulla sentenza
che l'abbia già positivamente recepito; anzi, accordo e provvedimento
restano tendenzialmente stabili, fuori dai casi di constatata illegalità, a
meno che non si dimostri un vizio concernente l'oggetto essenziale della
fattispecie negoziale:
l'applicazione di una data pena per un certo fatto.
4. Ovviamente, va considerato come, nella specie, la legge più
favorevole sopravvenga in forza della dichiarazione di illegittimità
costituzionale della previsione sanzionatola vigente al momento del
fatto.
Non sembra dubbia la revocabilità di una dichiarazione di consenso e
di un accordo riferiti alla pena divenuta illegale (revocabilità già
talvolta ammessa, come si è visto, anche a fronte di mutamenti non
invalidanti delle cornici edittali) e, del resto, la domanda delle parti non
potrebbe che essere respinta dal giudice. Nel contempo, la sentenza di
applicazione non irrevocabile va certamente annullata, data appunto la
illegalità della pena cui si riferisce.
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La giurisprudenza aveva da tempo stabilito che l'accordo pertinente ad
una pena illegalmente computata ed applicata va considerato nullo, e
comunque inidoneo a legittimare la sentenza giudiziale, che si
considera a sua volta nulla (da ultimo, Sez. 1, Sentenza n. 16766 del
07/04/2010, rv. 246930; si veda anche Sez. U, Sentenza n. 35738 del
27/05/2010, Calibe, rv. 247841).
Insomma, una volta stabilito il connotato di illegalità della pena
concordata tra le parti, e posta a fondamento di una sentenza non
definitiva di applicazione, non v'è dubbio possibile circa la sorte del
provvedimento, o almeno circa la necessità del suo annullamento
(diversa è la questione delle sentenze divenute irrevocabili, che qui non
interessa direttamente).
Non è un caso, del resto, che quasi tutte le decisioni che hanno
annullato sentenze di patteggiamento concernenti droghe "leggere"
(infra) si siano basate sulla qualificazione della pena applicata come
illegale, conservando quindi coerenza con la stratificata elaborazione
precedente. Per quanto consta (ma si deve avvertire che il quadro muta
rapidamente, ed è influenzato dai flussi della massimazione), in un solo
caso questa Corte ha inteso prescindere, almeno in parte, dalla qualifica
indicata, concentrando invece l'attenzione sui vizi del consenso
attribuiti al negozio fondante, considerati rilevanti in forza (ed in
funzione) della retroattività "rafforzata" della lex superveniens
sostitutiva di una disciplina incostituzionale (Sez. 3, Sentenza n. 21259
del 03/04/2014, rv.
259384: cfr. infra).
5. Resta dunque necessario stabilire quando una pena sia stata
concordata ed applicata illegalmente. Nei casi di positivo riscontro - e
per quanto qui interessa - la sentenza ex art. 444 c.p.p., non può che
essere annullata.
I casi trattati dalla giurisprudenza fino alla recente sentenza della
Consulta si riferivano a provvedimenti assunti in violazione della legge
vigente. Oggi si discute invece di provvedimenti ad illegalità
sopravvenuta, perchè dovuta alla dichiarazione di illegittimità
costituzionale della normativa della quale avevano fatto applicazione.
Il principio cosiddetto di iperretroattività delle pronunce della Consulta
che riguardino norme poste a fondamento d'un trattamento punitivo
comporta appunto che, finanche per le situazioni cosiddette esaurite, la
legalità di una sanzione debba essere valutata alla luce della disciplina
vigente in luogo di quella rimossa, con effetti ex tunc, dall'ordinamento
giuridico. Sul punto, ovviamente rilevantissimo per ciò che concerne
l'eseguibilità di pene inflitte con sentenze divenute irrevocabili prima
della sentenza dichiarativa della illegittimità, sono intervenute di
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recente le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 42858 del
29/05/2014, Gatto, rv.
260695-700).
Con la relativa pronuncia, per un verso, si è ulteriormente argomentato
e consolidato l'approdo cui già parte della giurisprudenza era
pervenuta, e cioè che la legalità costituzionale va affermata, in fase
esecutiva, non solo nei casi di abolitio criminis (e quindi, in termini di
piana applicazione dell'art. 673 c.p.p., mediante revoca della sentenza di
condanna), ma anche quando una quota della pena eseguibile è stata
inflitta in applicazione di una norma penale sostanziale poi dichiarata
illegittima. Per altro verso, ed in termini di novità, il massimo Collegio
ha chiarito che le quote di pena concernenti gli elementi accidentali del
reato devono considerarsi illegalmente date non solo nel caso di
eliminazione della previsione circostanziale, ma anche quando i relativi
effetti di aggravamento siano stati imposti in forza di una illegittima
previsione concernente il bilanciamento con altre circostanze ("la stessa
conclusione deve essere adottata allorquando oggetto della declaratoria
di incostituzionalità non è una circostanza aggravante come nel caso
della sentenza 249 del 2010, ma il divieto normativo che inibiva al
giudice la possibilità di trarre dalle sue autonome valutazioni il
giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti").
Enunciando in forma sintetica il principio stabilito (art. 173 disp. att.
c.p.p., comma 3), le Sezioni unite hanno scritto:
"successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la
dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa
dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento
sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia
stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione". Il che
non equivale all'esplicito conferimento d'una qualificazione di illegalità
della sanzione già inflitta, ma sembra logicamente presupporla.
6. Resta però da stabilire, ancora, se e quando possa considerarsi illegale
una pena i cui termini qualitativi e quantitativi risultino compatibili sia
con la legge concretamente applicata, sia con quella che avrebbe dovuto
applicarsi nel quadro della legalità costituzionale.
Il dubbio sorge - del tutto ragionevolmente - considerando come la
determinazione della pena nel caso concreto sia orientata dalla
fisionomia strutturale della fattispecie e dai valori edittali indicati dal
legislatore (infra), e come dunque non sia detto che nei singoli casi,
applicando la disciplina costituzionalmente compatibile, si sarebbe
pervenuti ad una quantificazione coincidente con quella in effetti
operata dal giudice (potrebbe anzi ritenersi probabile l'esito diverso).
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E' questo propriamente l'oggetto della discussione apertasi nella
giurisprudenza e nella dottrina, ove si stanno manifestando, per quanto
emerso soprattutto dopo la deliberazione della presente sentenza,
orientamenti in sostanziale contrasto.
Stando al quadro che emerge dalle sentenze massimate, sembra
prevalere (ma in un recente provvedimento di rimessione alle Sezioni
unite si legge ad esempio di flussi contrari sottesi alle dichiarazioni di
inammissibilità presso la settima sezione penale:
Sez. 6, Ordinanza 08/01/2015, rie. Jazouli) un orientamento favorevole
all'annullamento delle sentenze concernenti "droghe leggere".
Non tutte le decisioni, per altro, si fondano sulla ritenuta illegalità delle
pene inflitte o applicate. In diverse sentenze, infatti, la ratio decidendi
sembra piuttosto consistere nella necessaria retroattività dello ius
superveniens più favorevole (si vedano ad esempio le motivazioni di
Sez. 4, Sentenza n. 47750 del 16/10/2014, rv. 260671; Sez. 4, Sentenza n.
46318 del 27/06/2014, rv.
260668; Sez. 4, Sentenza n. 21064 del 14/05/2014, rv. 259382; Sez. 4,
Sentenza n. 27724 del 14/05/2014, rv. 260267; Sez. 6, Sentenza n. 14995
del 26/03/2014, rv. 259359). Contrarie alla tesi della illegalità dovrebbero
ragionevolmente considerarsi, a prescindere da rilievi espliciti in tal
senso, le decisioni che hanno escluso l'annullamento in caso di ricorsi
inammissibili o di impugnazioni non segnate da censure concernenti il
trattamento sanzionatorio (Sez. 6, 26 marzo 2014, n. 14995, rv. 259358;
Sez. 6, 20 marzo 2014, n. 15157, rv. 259254; Sez. 4, 12 marzo 2014, n.
24606, rv. 259365).
Deve ammettersi che non mancano enunciati (almeno impliciti) circa la
illegalità delle pene in ragione della declaratoria di illegittimità delle
previsioni edittali poste a fondamento della relativa determinazione. Il
che vale per giudizi a cognizione piena (Sez. 4, Sentenza n. 47296 del
11/11/2014, rv. 260674; Sez. 4, Sentenza n. 47280 del 03/10/2014, rv.
260670; Sez. 4, Sentenza n. 33423 del 27/06/2014, rv. 260125; Sez. 4,
Sentenza n. 36244 del 27/05/2014, rv. 260630; Sez. 6, Sentenza n. 14293
del 20/03/2014, rv.
259062; Sez. 6, Sentenza n. 14984 del 05/03/2014, rv. 259355) ed anche
per sentenze di patteggiamento (Sez. 4, Sentenza n. 47329 del
09/10/2014, rv. 260669; Sez. 4, Sentenza n. 41820 del 02/07/2014, rv.
260635; Sez. 4, Sentenza n. 34274 del 01/07/2014, rv. 260633; Sez. 4,
Sentenza n. 21085 del 14/05/2014, rv. 259386).
Occorre però ulteriormente distinguere, perchè in molti casi la
connotazione di illegalità della pena è stata affermata con riguardo a
sanzioni incompatibili con i valori edittali sopravvenuti, e quindi
effettivamente riconducibili, anche a parere di questo Collegio, alla
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nozione propriamente intesa di pena illegale (si vedano ad esempio Sez.
3, Sentenza n. 25176 del 21/05/2014, rv.
259396, nonchè, con specifico riguardo al patteggiamento, Sez. 3,
Sentenza n. 27426 del 16/05/2014, rv. 259394; Sez. 4, Sentenza n. 22326
del 10/04/2014, rv. Rv. 259374). Solo per una parte delle sentenze già
sopra citate sembra assumere rilievo preponderante il mutamento in sè
dei parametri di riferimento utilizzati per la quantificazione. E solo in
un numero ancora minore di casi la Corte si è spinta consapevolmente a
qualificare illegali pene quantificate in termini compatibili con i valori
edittali vigenti (si vedano Sez. 3, Sentenza n. 26346 del 22/05/2014, rv.
259398; Sez. 3, Sentenza n. 26340 del 25/03/2014, rv. 260058).
Ora, quando non è oggetto di mera asserzione, la qualifica di illegalità
delle pene in questione è giustificata mediante un riferimento alla
incongruenza sopravvenuta tra valori applicati in concreto e relativa
giustificazione. Si ritiene, cioè, che i parametri più o meno espliciti
utilizzati dal giudice per la gradazione non siano ancorabili ai limiti
edittali della legge sopravvenuta: un riferimento alla minima offensività
del caso concreto, per esempio, non sorreggerebbe più legalmente
l'irrogazione di una pena ormai orientata verso il massimo della
previsione edittale (si veda ad esempio la già citata sentenza n.
26340/2014).
Nel caso delle sentenze di applicazione della pena su richiesta si nota,
talvolta, che la valutazione di congruità, ad opera del giudice,
costituirebbe un fattore essenziale di legittimazione del negozio tra le
parti, e che l'inadeguatezza sopravvenuta di quella valutazione
comporterebbe, di conseguenza, una carenza di legalità della sanzione
concordata ed applicata (ad esempio, Sez. 4, Sentenza n. 46395 del
16/10/2014, rv. 260736; Sez. 4, Sentenza n. 44131 del 25/09/2014, rv.
260641).
Subito però si constata - senza con ciò minimizzare la portata del
problema - che una logica siffatta attiene alla legittimità della sentenza,
e non alla legalità della pena; riguarda la regolarità del procedimento
(sotto il profilo della motivazione) e non la disciplina sostanziale del
trattamento sanzionatorio. Tanto che, in ipotesi (ed a prescindere dai
congegni interni al sistema delle impugnazioni), una identica pena
potrebbe essere inflitta od applicata con diversa motivazione.
Non sembra un caso ad esempio che, riguardo al trattamento di reati
concernenti "droghe leggere" sanzionati mediante aumenti ex art. 81
c.p., comma 2, una parte cospicua della giurisprudenza neghi la
necessità di annullamento (Sez. 3, Sentenza n. 27066 del 30/04/2014, rv.
259392; Sez. 4, Sentenza n. 21558 del 11/04/2014, rv. 259751;
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Sez. 6, Sentenza n. 21608 del 25/03/2014, rv. 259698; Sez. 6, Sentenza n.
25807 del 14/03/2014, rv. 259201; Sez. 6, Sentenza n. 12727 del
06/03/2014, rv. 258777). A parte la possibile incidenza di considerazioni
pratiche connesse al valore trascurabile degli aumenti, si nota la
coerenza tra un atteggiamento siffatto e gli enunciati correnti in punto
di (non) motivazione sui singoli incrementi di pena. Sembra evidente,
però, che in una logica sostanziale "pura" la congruità andrebbe
assicurata anche per le quote di pena in regime di cumulo giuridico. Ed
infatti diverse decisioni postulano anche nei casi in esame la illegalità
sopravvenuta della pena (Sez. 4, Sentenza n. 19267 del 02/04/2014, rv.
259372; Sez. 4, Sentenza n. 22257 del 25/03/2014, rv. 259203;
Sez. 4, Sentenza n. 24606 del 12/03/2014, rv. 259366; Sez. 4, Sentenza n.
16245 del 12/03/2014, rv. 259364; Sez. 4, Sentenza n. 25211 del
28/02/2014, rv. 259361), tanto che la questione è stata di recente rimessa
alle Sezioni unite (Sez. 3, Ordinanza 02/12/2014, ric. Sebbar).
La contaminazione risulta ancor più evidente considerando le decisioni
che, pur esigendo una congruenza attuale tra pena e fatto, considerano
legale la pena stessa, separando dunque il piano sostanziale da quello
della motivazione (Sez. 4, Sentenza n. 44098 del 24/06/2014, rv. 260632;
Sez. 3, Sentenza n. 27957 del 12/06/2014, rv. 259401). Nella stessa
prospettiva possono richiamarsi le decisioni secondo cui andrebbero
preservate le sentenze applicative di pene "vicine" al minimo edittale,
quando lo stesso sia rimasto invariato (Sez. 3, Sentenza n. 27957 del
12/06/2014, rv. 259401; Sez. 3, Sentenza n. 26474 del 03/04/2014, rv.
259387; Sez. 3, Sentenza n. 11110 del 25/02/2014, rv. 258353). Potrebbe
discutersi della coerenza di siffatte prese di posizione, ma resta chiaro
come le accomuni una opinione essenziale: che non basti cioè la
variazione sopravvenuta dei parametri edittali a connotare una pena
inflitta od applicata nel senso della illegalità.
Ciò che del resto esprime chiaramente una parte ulteriore della
giurisprudenza, sia pur con le medesime riserve, più o meno
accentuate, a fronte di pene che risultino in ipotesi gravemente
sproporzionate: "in tema di stupefacenti... l'annullamento della
sentenza per illegalità sopravvenuta della pena è possibile soltanto nel
caso in cui sia stata inflitta una pena non più prevista dalla legge
oppure quando la favorevole portata della circostanza attenuante sia
stata elisa in ragione del giudizio di bilanciamento con circostanze
aggravanti (in applicazione del principio la Corte ha dichiarato
inammissibile il ricorso avverso la sentenza di patteggiamento con cui
era stata applicata all'imputato, previa concessione dell'attenuante di
cui al D.P.R. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ritenuta prevalente sulla
contestata recidiva, la pena di anni uno e mesi due di reclusione per
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detenzione illecita di hashish)" (Sez. 3, Sentenza n. 16699 del 19/03/2014,
rv. 259375).
7. Tutto ciò premesso, il Collegio non ritiene che una pena compresa
entro la forbice edittale delle norme "ripristinate" dalla sentenza della
Corte costituzionale sia illegale nel senso proprio del termine, pur
condividendo l'opinione che debba essere assicurato nella massima
misura possibile il diritto di ogni imputato all'applicazione della legge
sopravvenuta più favorevole, anche attraverso una considerazione assai
riduttiva dei casi di giudicato parziale.
L'unica argomentazione sviluppata per il contrario orientamento, pur
molto suggestiva, non è completa nè facilmente completabile, neppure
per il caso, particolarmente significativo, della sentenza di
patteggiamento. Lo "errore" giudiziale nella valutazione di congruenza
è un vizio del provvedimento, e non della pena. Non si spiega, in effetti,
perchè una determinata sanzione dovrebbe essere illegale in sè, cioè sul
piano del diritto sostanziale, sol perchè applicata per mezzo di un
provvedimento eventualmente erroneo. Quel provvedimento sarà in
ipotesi suscettibile di sindacato, nei termini che già si sono visti (invero
assai ristretti, per la sentenza ex art. 444 c.p.p.), ma non invalido in
quanto applicativo, appunto, di una pena sostanzialmente illegale.
Potrebbe obiettarsi che le Sezioni unite - con la già citata sentenza n.
42858/2014 (rie. Gatto) - sono parse orientate ad escludere che una
determinata pena debba considerarsi legale per il sol fatto della astratta
sua reiterabilità (è reiterabile, in particolare, una pena cui potrebbe
pervenirsi attraverso un rinnovato giudizio di comparazione tra
circostanze). Tuttavia va rilevato che, nella pronuncia in questione,
l'intervento del giudice in executivis (e dunque, si direbbe, la stessa
connotazione di illegalità della pena) sono stati espressamente
subordinati alle verifica di una incidenza risolutiva del divieto
incostituzionale di subvalenza della circostanza aggravante: pena
illegale in quanto effettivamente sottratta, in punto di congruenza, ai
criteri di determinazione ordinaria; pena illegale in quanto non
effettivamente reiterabile, perchè nel caso concreto interamente
dipendente, nei suoi profili quantitativi, dalla norma dichiarata
illegittima. Ed infatti si legge nella sentenza: "nell'esercizio di tale
potere-dovere, il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del
giudice della cognizione, dovendo procedere - non diversamente da
quanto è previsto negli artt. 671 e 675 c.p.p. - nei limiti in cui gli è
consentito dalla pronuncia di cognizione, ossia potrà pervenire al
giudizio di prevalenza sempre che lo stesso non sia stato
precedentemente escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di
merito, cioè indipendentemente dal divieto posto dall'art. 69 c.p.,
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comma 4: in sintesi, le valutazioni del giudice dell'esecuzione non
potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal
testo della sentenza irrevocabile".
Si consideri, per inciso, che la sentenza n. 32 del 2014 non ha toccato
affatto il tema della proporzionalità delle pene previste con la disciplina
dichiarata illegittima, essendosi limitata a riscontrare un vizio della
procedura di approvazione di quella stessa disciplina.
8. Se dunque la sentenza di patteggiamento non è sempre annullabile in
forza della intrinseca illegalità della pena applicata, resta da stabilire se
non ricorra un vizio propriamente riferibile alla sentenza, privata di un
valido supporto negoziale e, per altro verso, della indispensabile
valutazione di congruità della pena.
I valori edittali ormai superati parrebbero atteggiarsi a motivi del
negozio processuale, estranei all'oggetto essenziale del patto, così come
l'ha progressivamente delineato la giurisprudenza (supra, 3), negando
rilevanza all'errore, anche incolpevole, ed alla sopravvenienza di
circostanze in astratto suscettibili di incidere sulla valutazione di
convenienza della determinazione negoziale.
In questo senso l'orientamento qui disatteso sembra implicare una
profonda revisione degli approdi finora correnti, che però è stata
proposta e argomentata, con coerenza, in un solo caso (supra).
Esplicito, nella sentenza in questione (n. 21259/2014), l'accostamento
"alla tipologia contrattuale civilistica", per la quale "il mutamento dello
stato dei fatti in cui e per cui il contratto è stato stipulato in una
determinata forma e con un determinato regolamento negoziale può
condurre alla risoluzione del contratto stesso qualora aggravi la
posizione di una delle parti (ex art. 1467 c.c., anche nella fattispecie
della presupposizione...: è configurabile la presupposizione tutte le
volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di
fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede
di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della
volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di
circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto
che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a
poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata
convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del
contratto stesso ai sensi dell'art. 1467 c.c. (...)".
La prospettiva contraddice però un orientamento consolidato e, per la
verità, non rende adeguatamente conto delle ragioni per le quali la
"presupposizione" dovrebbe restare indifferente a fronte dei casi di
"normale" successione tra leggi e nelle ipotesi di errore (solo
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incolpevole?) sui valori edittali della pena o addirittura, più in generale,
sulla disciplina di diritto sostanziale applicabile al caso di specie.
Ancora. Se non per vizio essenziale del negozio legittimante, la
sentenza di patteggiamento potrebbe essere nulla perchè mancante del
giudizio di congruità della pena cui il giudice è chiamato in piena
autonomia, ed a prescindere dai motivi riferibili alle parti. Si è già
descritta la linea di alcune delle decisioni sul tema: quel giudizio
sarebbe travolto, per l'efficacia iperretroattiva della dichiarazione di
illegittimità costituzionale, con la conseguenza che la pena applicata
sarebbe illegale.
Anche in questo caso, tuttavia, la soluzione implica nei fatti un
superamento dei limiti tradizionalmente posti al sindacato sul merito e
sulla motivazione del giudizio di congruità, e trasforma in vizio della
pena una pretesa patologia della sentenza.
Il negozio di patteggiamento, di norma estremamente vantaggioso per
l'interessato, ha una fisionomia tipica, essenzialmente centrata sulla
disponibilità a subire l'applicazione di una data pena (eseguibile o non)
e sull'accettazione di modalità contratte e teoricamente assai veloci di
ricostruzione del fatto e di verifica della procedura. Se la volontà della
parte non può prevalere sui limiti legali posti dalla fattispecie
incriminatrice e dalle norme sostanziali per la determinazione del
trattamento sanzionatorio, quegli stessi limiti costituiscono il perimetro
entro il quale l'accordo non è poi nuovamente negoziabile (e sindacabile
a prescindere dagli effetti devolutivi delle impugnazioni).
Se prevalesse l'opinione qui disattesa, sembrerebbe necessario
ammettere che ogni variazione dei parametri edittali presi a riferimento
dal giudice debba comportare la nullità della sua sentenza,
indipendentemente dalla incompatibilità costituzionale della previsione
originaria: la illegalità della pena deriverebbe infatti dalla sopravvenuta
incongruenza del giudizio di proporzionalità, e non appunto
dall'eliminazione in sè della previsione sanzionatoria. Con il che, tra
l'altro, si porrebbe l'ulteriore problema della rilevanza di acquisizioni
sopravvenute, diverse dal mutamento normativo, capaci di incidere a
posteriori sulla valutazione giudiziale.
Per altro verso, ricondotta (inevitabilmente) al genus della pena illegale
la patologia individuata per le fattispecie in questione, dovrebbe
ammettersi la necessità di rilevazione officiosa del vizio, anche in
assenza di qualunque impugnazione concernente la quantificazione
della pena medesima, e perfino in presenza di una ipotetica valutazione
di congruenza alla luce della normativa sopravvenuta. E dovrebbero
considerarsi comunque ineseguibili - in assenza di una nuova
determinazione in executivis (per se stessa assai problematica) - tutte le
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sentenze di patteggiamento per fatti concernenti "droghe leggere",
indipendentemente dai livelli di pena concordati.
Conseguenza che, come sopra si era già visto, viene tratta solo da una
parte davvero minoritaria della giurisprudenza sul tema.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che,
quando il negozio di patteggiamento abbia preso in considerazione un
valore di pena compatibile con i limiti edittali ripristinati dalla Consulta
(cioè, in sostanza, la reclusione per sei anni), la pena stessa non possa
considerarsi "illegale", e dunque non possa considerarsi nulla, per
questa causa, la sentenza giudiziale resa ex art. 444 c.p.p..
L'assunto concerne, com'è ovvio, l'identificazione della "pena base", e
non il risultato finale ottenuto per effetto di aumenti o diminuzioni
connessi all'eventuale concorso di reati e di circostanze, nonchè alla
riduzione dovuta in forza del ricorso al rito speciale. Dovrà considerarsi
"illegale", di conseguenza, anche la pena inferiore, nella specie
detentiva, al massimo di sei anni che attualmente segna la fattispecie
incriminatrice relativa alle c.d.
"droghe leggere", quando il valore di partenza sia stato comunque
superiore alla soglia indicata.
10. Alla luce delle indicazioni fornite in apertura, si constata
agevolmente che nel caso di specie la pena applicata deve ritenersi
"illegale", per la sola ed essenziale ragione che il Giudice, nel fissare il
valore di partenza, ha indicato per la specie detentiva una quantità
superiore al massimo edittale, da ritenersi cogente, in base alle ragioni
ormai ampiamente illustrate, ora per allora.
L'illegalità della pena applicata comporta l'annullamento della relativa
sentenza. E tale annullamento, il Collegio, deve essere disposto senza
rinvio, così restituendo il processo alla fase che aveva preceduto
l'accordo poi risultato invalido.
11. Non può ritenersi, in particolare, che "spetti" al ricorrente un
trattamento sanzionatorio corrispondente ai nuovi minimi edittali della
fattispecie, e che dunque il trattamento medesimo possa essere disposto
direttamente da questa Corte.
Sebbene l'assunto abbia trovato qualche riscontro nella giurisprudenza,
specie ed appunto in casi nei quali il giudice territoriale abbia fissato nel
minimo di legge la pena inflitta prima della pronuncia della Corte
costituzionale, il Collegio ritiene di dovere aderire ad un diverso
orientamento, che nega ogni automatismo fondato su pretese
simmetrie, ed esige dunque una rinnovata valutazione del giudice di
merito circa la pena più adeguata al caso concreto (tra le altre, Sez. 6,
Sentenza n. 39924 del 23/09/2014, rv.
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260711; Sez. 4, Sentenza n. 21064 del 14/05/2014, rv. 259382; Sez. 6,
Sentenza n. 14995 del 26/03/2014, rv. 259359; Sez. 3, Sentenza n. 25176
del 21/05/2014, rv. 259396).
Con specifico riguardo al rito di patteggiamento, poi, il preteso
automatismo (che implicherebbe la definitiva applicazione di una pena
senza accertamento del fatto) risulta tanto più ingiustificabile quanto
maggiore sia il peso conferito ai valori edittali nella formazione della
volontà negoziale dell'interessato e nella perdurante validità della
medesima. E' appena il caso di notare come la quantità della sanzione
minacciata dall'ordinamento costituisce spesso elemento non
secondario nella valutazione di convenienza dell'accesso ai riti speciali.
Va notato, d'altra parte, come la congruenza della pena non sia valutata
dal giudice in termini assoluti, ma nell'ambito di una certa
delimitazione del fatto punibile e con riferimento a specifici valori
edittali della sanzione. Il giudizio di disvalore è infatti rimesso, sul
piano astratto, alla discrezionalità legislativa, che viene esercitata tanto
attraverso la scelta dei comportamenti da ricondurre ad un'unica
previsione incriminatrice, tanto attraverso la individuazione di soglie
sanzionatorie che si caratterizzano, tra l'altro, per l'escursione variabile
tra un minimo ed un massimo (e dunque per una maggiore o minore
omologazione in termini di gravità delle condotte sanzionate).
Al giudice spetta di collocare il fatto concreto nella scala dei
comportamenti riconducibili alla figura criminosa, e di tarare la pena,
rispetto ai parametri oggettivi e soggettivi di misurazione, tenuto conto
del cursore assegnatogli dal legislatore. Un medesimo fatto storico,
quindi, può essere diversamente valutato, in termini di gravità, a
seconda dell'ampiezza della fattispecie astratta cui deve essere
ricondotto, e deve essere sanzionato, nella logica della proporzionalità,
anche in ragione dei valori edittali di pena fissati dal legislatore.
Nella situazione determinata dalla citata sentenza n. 32 del 2014, la
gravità obiettiva di condotte concernenti droghe cosiddette "leggere"
non va più misurata anche rispetto a comportamenti concernenti
droghe "pesanti", come prima accadeva per effetto dell'equiparazione
stabilita dal legislatore, ma nell'ambito di un sistema ove tutte le
condotte riguardano ormai stupefacenti considerati meno pericolosi.
Nel contempo, avuto anche riguardo alla "meritevolezza" di pena
soggettivamente riferibile al reo, una valutazione riferita al valore
minimo edittale non deve essere necessariamente stabile (salve le
preclusioni nascenti dal divieto di reformatio in peius) nonostante la
variazione (nella specie sensibilissima) di quello stesso minimo edittale.
Occorre dunque una valutazione globale del fatto, che non spetta a
questa Corte. Valutazione che - si osserva in modo del tutto incidentale,
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esulando il tema dall'oggetto del presente giudizio - dovrà intendersi
rimessa al giudice dell'esecuzione nel caso di sentenze di
patteggiamento divenute irrevocabili e relative a pene illegali nel senso
proprio del termine, non essendo più discutibile la forma
dell'accertamento e restando a questo punto da reiterare, in termini
ormai sottratti alla dinamica negoziale, la valutazione officiosa di
congruità del trattamento sanzionatorio.
12. Conviene forse aggiungere, in chiusura, che le notazioni appena
proposte non sembrano al Collegio contraddire la posizione assunta in
punto di illegalità della pena compatibile coi valori edittali vigenti,
eppur quantificata alla luce di valori diversi. Altro - ancora una volta - è
il diritto sostanziale sanzionatorio, altro sono i meccanismi di controllo
sul procedimento e sulla motivazione, che attengono al processo e sono
soggetti ai limiti indicati. Altro è l'annullamento della sentenza per
l'illegittimità del deliberato (ed eventualmente per la illegalità del
medesimo), altro è l'adozione di un analogo provvedimento per vizi
della procedura o della motivazione.
13. La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio, di modo
che le parti siano rimesse innanzi al giudice della cognizione al fine di
verificare se possa pervenirsi ad un nuovo accordo sulla pena o se il
procedimento debba, piuttosto, proseguire in altra forma.
Con la precisazione, già implicita nei rilievi che precedono, che nel
primo caso il Giudice del rinvio non potrà riconoscere all'imputato il
"diritto" ad una pena computabile secondo criteri percentuali o di
corrispondenza (del genere: a vecchio minimo corrisponde il nuovo
minimo).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione
degli atti al Tribunale di Busto Arsizio per l'ulteriore corso.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2015.
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