Fallimento - Casa e Associati

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Fallimento - Casa e Associati
Giurisprudenza
Fallimento
Credito fondiario
Cassazione Civile, Sez. I, 30 marzo 2015, n. 6377 - Pres. Ceccherini - Est. Didone - P.M. Velardi
(conf.) - Fallimento Le Terme S.r.l. c. Italfondiario S.p.a.
Fallimento - Effetti per i creditori - Credito fondiario - Privilegio processuale - Conseguenze
(legge fallimentare artt. 51, 52, 93 e 110; D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 41 comma 2)
L’art. 41, comma 2, D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, nel prevedere che il creditore fondiario può iniziare o
proseguire l’azione esecutiva sui beni ipotecati anche successivamente alla dichiarazione di fallimento del debitore, deroga al divieto di azioni esecutive individuali previsto dall’art. 51 l.fall., ma non anche alla norma imperativa di cui all’art. 52 l.fall., secondo la quale ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o esentato dal divieto di azioni esecutive, deve essere accertato nelle forme previste dalla legge fallimentare. L’insinuazione al passivo costituisce, pertanto, un onere per la banca mutuante (sancito espressamente, a seguito
della riforma della legge fallimentare, anche per i creditori esentati dal divieto di cui all’art. 51 l.fall.) al fine
dell’esercizio del diritto di trattenere definitivamente, nei limiti del “quantum” spettante a ciascun creditore
concorrente all’esito del piano di riparto in sede fallimentare, le somme provvisoriamente percepite a titolo di
anticipazione in sede esecutiva.
La Corte (omissis).
1.- Con ricorso depositato il 7/12/2005 la s.p.a. Intesa
Gestione Crediti ha proposto opposizione ex art. 617
c.p.c., comma 2, nell’esecuzione immobiliare riunita
promossa da Unieco scarl ed Intesa Gestioni Crediti
contro la s.r.l. Le Terme impugnando il provvedimento
del GE 10/11/05 che nell’accogliere la richiesta del curatore del fallimento Le Terme aveva disposto che venisse consegnato alla procedura fallimentare l’intero ricavato dell’espropriazione pari ad Euro 534.902 previa
detrazione delle sole spese di ufficio e aveva ordinato alla Intesa Gestione Crediti di restituire alla curatela le
somme riscosse D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 41, maggiorate dagli interessi.
Sosteneva il ricorrente che essendo stata disposta con il
decreto di trasferimento a seguito di aggiudicazione la
cancellazione dell’ipoteca la eventuale domanda di insinuazione nello stato passivo avrebbe comportato la perdita del beneficio di creditore ipotecario.
Rilevava inoltre che per il disposto dell’art. 52 della legge fallimentare il creditore fondiario poteva proseguire
l’azione esecutiva, pur con l’intervento del curatore del
fallimento. Chiedeva pertanto la revoca dell’ordinanza
e la prosecuzione della procedura mediante formazione
del progetto di distribuzione.
Costituitosi in giudizio il curatore del fallimento ha
chiesto il rigetto del ricorso sostenendo che l’eventuale
intervento del curatore non avrebbe potuto comportare
una differente distribuzione delle somme ricavate dalla
procedura concorsuale e che l’opponente avrebbe dovuto intervenire tempestivamente per impedire la cancellazione dell’ipoteca.
Si è costituito anche l’aggiudicatario M.D. rilevando
che già aveva patito un danno allorché, avendo corrisposto il prezzo con un contratto preliminare, si era visto costretto a ricomprare quanto in definitiva era già di
sua proprietà.
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Ha chiesto quindi la conferma dell’ordinanza impugnata
e la formazione di un progetto di distribuzione che tenesse conto del suo privilegio ex art. 2775 bis c.c. Il Tribunale, con il provvedimento impugnato, ha accolto
l’opposizione per la ragione che il curatore non aveva
provato la graduazione dei crediti e l’eccedenza di quanto ricavato rispetto al credito fondiario in esecuzione.
Ha annullato, pertanto, l’ordinanza del giudice dell’esecuzione.
Contro il provvedimento del tribunale la curatela fallimentare ha proposto ricorso per cassazione affidato a un
solo motivo.
L’aggiudicatario ha proposto ricorso incidentale affidato
a un motivo concluso da due quesiti.
Ha resistito con controricorso la società Italfondiario
che rappresenta Intesa Sanpaolo spa incorporante Intesa gestione crediti.
Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c. le parti hanno depositato memorie.
2.- Con l’unico motivo di ricorso la curatela fallimentare denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 1
settembre 1993, n. 385, art. 41, comma 2, in combinato
disposto con l‘art. 52 l.fall. e formula - ai sensi dell’art.
366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis - il seguente
quesito: “se nei confronti dell’istituto di Credito Fondiario che, ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385,
art. 41, comma 2, abbia proseguito e portato al termine
l’azione esecutiva individuale contro il debitore di cui
sia nelle more sopravvenuto il fallimento, possa essere
ordinata la restituzione al curatore fallimentare delle
somme ivi percepite anche prima del riparto finale e
dell’annessa definitiva graduazione dei crediti, allorché,
non avendo l’istituto proposto domanda di insinuazione
al passivo per le proprie ragioni creditorie, di queste ultime non sia possibile tener conto, in sede di graduazione medesima”.
3.- È noto che con il testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia, approvato con D.Lgs. 15 settembre
1993, n. 385, ed entrato in vigore il 15 gennaio 1994,
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Fallimento
la disciplina del credito fondiario è stata sintetizzata in
quattro articoli (artt. 38, 39, 40 e 41 t.u.l.b.). Fra questi
interessa la presente fattispecie l’art. 41, secondo comma.
Quest’ultima disposizione così recita: “L’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari
può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo
la dichiarazione di fallimento del debitore. Il curatore
ha facoltà di intervenire nell’esecuzione. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede
di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al
fallimento”.
Una suggestiva interpretazione letterale della norma di
cui all’art. 41 t.u.l.b., ha indotto parte della dottrina ad
escludere qualsiasi onere od obbligo della banca ad insinuare il proprio credito nel passivo fallimentare. Invero,
dalla disposizione dell’art. 41, secondo comma t.u.l.b.,
secondo la quale “la somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante
alla banca, viene attribuita al fallimento” si è tratta la
conclusione che il riparto menzionato dalla norma sia
quello dell’esecuzione individuale. Ciò in quanto altrimenti “non avrebbe alcun senso la previsione dell’attribuzione al fallimento della somma residua, essendo, in
caso di riparto fallimentare, ogni somma già detenuta
dal fallimento”. Ne conseguirebbe, quindi, la conferma
dell’insussistenza di un obbligo di insinuazione al passivo fallimentare del credito soddisfatto esecutivamente.
Sennonché, tale ricostruzione appare inconciliabile con
la facoltatività dell’intervento del curatore fallimentare
nell’esecuzione individuale, la quale contrasta con l’obbligo di attribuzione al fallimento della somma residua.
Talché, si giunge ad ipotizzare una tale attribuzione “anche in assenza dell’intervento del curatore” senza spiegare, però, sulla base di quale meccanismo processuale
si realizzerebbe questa attribuzione d’ufficio. La verità è
che l’art. 41 t.u.l.b. deroga soltanto al divieto di azioni
esecutive individuali previsto dall’art. 51 legge fallimentare, ma non alla norma imperativa di cui all’art. 52
legge fallimentare, secondo la quale “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme” della legge fallimentare, “salvo
diverse disposizioni della legge”. Eccezione, questa, certamente non rinvenibile nell’art. 41 t.u.l.b.
Anzi, è proprio il riferimento da parte della norma all’adempimento del riparto che rende insostenibile la tesi
qui criticata. Infatti, in difetto di intervento del curatore che rappresenta tutti i creditori del fallito non si vede quale riparto debba ordinare il giudice dell’esecuzione individuale, posto che gli altri creditori, per il divieto di cui all’art. 51 legge fallimentare, non possono intervenire nell’espropriazione promossa per crediti fondiari (ciò che rende inammissibile l’intervento in giudizio di M.D., da rilevare d’ufficio ex art. 382 c.p.c.).
Talché, l’insinuazione al passivo fallimentare va vista
come onere per la banca mutuante al fine dell’esercizio
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del diritto di trattenere definitivamente quanto percepito (Sez. 1, n. 23572/2004; conf. Sez. 1, n. 17368/2012),
sì che i privilegi processuali mantenuti per i crediti fondiari si risolvono in una mera “anticipazione di valuta”
in favore delle banche erogatrici di finanziamenti fondiari, “nel senso, cioè, di consentire alle stesse di disporre di quanto loro spettante ma non di importi superiori
in via anticipata rispetto al momento nel quale si determina, con la conclusione dell’attività di liquidazione e
con l’esecuzione del piano di riparto, il quantum spettante a ciascun creditore concorrente”.
La lettura offerta dalla giurisprudenza di legittimità, peraltro, è stata ora codificata dalla riforma della legge fallimentare, con la previsione espressa (nel nuovo art. 52,
ult. comma, l.fall.) dell’onere di insinuazione anche per
i creditori esentati dal divieto di cui all’art. 51 l.fall. e
dalla previsione, nel progetto delle somme da ripartire
“nel fallimento”, anche dei “crediti per i quali non si
applica il divieto di azioni esecutive” di cui alla medesima norma (nuovo art. 110, comma 1, l.fall., come modificato dal D.Lgs. correttivo).
Alle argomentazioni innanzi esposte va aggiunto che
non è possibile considerare come dato pacifico che la
distribuzione del ricavo nell’esecuzione a istanza del credito fondiario fosse avvenuta prima della dichiarazione
di fallimento, circostanza bensì affermata dal credito
fondiario, ma dal curatore non ammessa esplicitamente.
D’altra parte, tale questione, accennata dal credito fondiario, non essendo stata accertata e neppure discussa
nel giudizio di merito, va ritenuta nuova e come tale
non prospettabile per la prima volta in sede di legittimità.
Nella concreta fattispecie è mancata l’insinuazione al
passivo della banca per il credito azionato nella procedura esecutiva. Talché il provvedimento impugnato deve essere cassato con rinvio per nuovo esame e per il regolamento delle spese.
In forza dell’art. 382 c.p.c., decidendo sul ricorso incidentale proposto da M.D., occorre dichiarare inammissibile l’intervento da questi spiegato nel giudizio nella
qualità di creditore, con compensazione delle relative
spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, cassa il provvedimento impugnato e rinvia per nuovo esame e per le
spese al Tribunale di Parma, in diversa composizione
per nuovo esame; provvedendo sul ricorso incidentale
dichiara inammissibile l’intervento di M. D. nel giudizio
di opposizione agli atti esecutivi, dichiarando compensate tra le parti le spese di tutti i gradi tra quest’ultimo
e le altre parti.
(omissis).
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Appunti sul credito fondiario tra privilegio processuale e concorso formale
Esecuzione individuale del creditore
fondiario e fallimento del debitore
Con la sentenza n. 6377 del 17-30 marzo 2015,
alla quale non trova applicazione “ratione temporis”
il D.Lgs. n. 169 del 2007, la Corte di cassazione ribadisce l’orientamento ormai del tutto prevalente
in tema di rapporti tra l’esecuzione individuale del
creditore fondiario e quella concorsuale, risolvendo, ci pare coerentemente, alcune questioni che
prima delle novelle del 2005-2007 rimanevano ancora dubbie. Sia allora consentito qualche breve riferimento all’evoluzione legislativa e alle indicazioni giurisprudenziali in tema di disciplina dei rapporti tra la procedura esecutiva fondiaria e quella
fallimentare, l’elencazione dei problemi ormai del
tutto risolti, quelli che ancora oggi generano qualche discussione.
La disciplina fondamentale del credito fondiario
era contenuta nel R.D. 16 luglio 1905, n. 646 (Testo Unico sul credito fondiario), poi modificato
con il D.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7 e con la L. 6
giugno 1991, n. 175; materia quasi del tutto riformulata con il D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385
(Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), il quale da subito consentiva di risolvere
alcuni casi che risultavano ancora controversi: la
possibilità per gli istituti di credito fondiario di iniziare o proseguire l’azione esecutiva sui beni del debitore fallito senza la necessità di notificare il titolo
esecutivo anche dopo il fallimento del debitore
(ora prevista nel secondo comma dell’art. 41 del
T.U.B.); acquisizione dei beni ipotecati all’attivo
fallimentare e facoltà del curatore di provvedere alla loro liquidazione (soluzione confermata dal terzo
comma dell’art. 41 del T.U.B; sul tema cfr. G. Bozza, Il credito fondiario nel nuovo T.U. bancario, Padova, 1996, 47 ss.). Rimanevano ancora non del
tutto chiariti, quantomeno dal punto di vista legislativo, sia l’obbligo in capo al curatore, che avesse
provveduto alla vendita dei beni ipotecati, di versare immediatamente il ricavato alla banca ipotecaria oppure di distribuirlo ai creditori secondo i
tempi e le modalità dei piani di riparto fallimentare, sia il problema, simmetrico e molto significativo, anche statisticamente, relativo alla posizione
giuridica dell’istituto di credito che avesse proceduto alla vendita del bene, di subire o meno la regolamentazione fallimentare. Alla prima domanda si
rispondeva, pur con una certa cautela, perlopiù negativamente (cfr. in giurisprudenza Cass. 10 no-
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vembre 1981, n. 5944, in questa Rivista, 1982, 288;
eppure, di segno opposto, Cass. 23 novembre 1990,
n. 11324, ivi, 1991, 558), poiché, venuto meno
ogni appiglio testuale che consentisse di ricostruire
in termini dogmatici l’esecuzione del curatore quale sostituto dell’istituto di credito, non potevano
più dirsi prevalenti gli interessi del creditore fondiario rispetto a quelli concorsuali. A dire il vero,
il secondo quesito, ripensato e riproposto in una
prospettiva teorica, coincideva con il tema della
natura solo processuale oppure anche sostanziale
del privilegio dell’istituto fondiario. La soluzione
poteva dirsi sufficientemente delineata probabilmente già nella vigenza del T.U. del 1905 (Cass.
18 settembre 1992, n. 10695, in questa Rivista,
1993, 276), dal momento che prevaleva il convincimento che l’istituto fondiario potesse trattenere
la somma ottenuta dalla vendita del bene, a condizione che il credito fosse insinuato al passivo del
fallimento e il bene fosse capiente (cfr. Cass. 11
marzo 1987, n. 2532 in questa Rivista, 1987, 943;
Cass. 23 novembre 1990, n. 11324, ivi, 1991, 558).
Si osservava infatti che non poteva essere in discussione l’attribuzione immediata all’istituto di
credito fondiario del ricavato della vendita, ma
nemmeno l’obbligo per il creditore fondiario di insinuarsi allo stato passivo, dal momento che escludere la necessità di tale condotta significava, per
converso, imporre al curatore (intervenuto nell’esecuzione individuale) la tutela dei creditori di grado posteriore rispetto al creditore fondiario; ciò si
poteva attuare o attribuendo all’accertamento contenuto nello stato passivo la natura di giudicato extra-fallimentare, costruzione dogmatica che non
poteva essere nemmeno ipotizzabile (cfr. M. Fabiani, L’efficacia dello stato passivo, in questa Rivista,
2011, 1093 ss.), oppure riconoscendo possibili contrasti tra il giudice delegato e quello dell’esecuzione, che avrebbe significato però conseguire un risultato interpretativo di per sé inconferente. Non
restava allora che onerare il creditore fondiario
dell’insinuazione allo stato passivo, rappresentando
il privilegio dello stesso come solo processuale, proprio perché tale qualità del credito risultava inscindibilmente riannodata all’ammissione e al riconoscimento dello stesso nello stato passivo del fallimento, essendo invece irrilevante l’eventuale mancanza del bene alla data della verifica, assenza la
quale non avrebbe inciso né sulla causa del credito
né sulla qualificazione della prelazione, ma unicamente nella fase dell’esecuzione, come impedimen-
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to fattuale all’esercizio del privilegio, a meno che
naturalmente non si fosse già certi nella fase di accertamento che il privilegio non sarebbe stato in
alcun modo attuabile (cfr. Cass., SS.UU., 20 dicembre 2001, n. 16060, in Pluris, 2001). A tale argomento, rovesciato, nel senso che non sarebbe
necessaria l’insinuazione allo stato passivo, se nell’esecuzione fondiaria fosse già intervenuto il decreto di trasferimento e la distribuzione del ricavato, vi è anche un pur timido riferimento da parte
del creditore fondiario nella sentenza oggetto di
commento (al fine di paralizzare la domanda del
curatore), disatteso però dalla Corte, perché proposto per la prima volta nel giudizio di cassazione; in
ogni caso, si tratterebbe, a bene vedere, di un falso
problema, poiché se la procedura esecutiva fondiaria alla data del fallimento fosse conclusa, non ci
sarebbe alcun concorso da regolare.
Senza voler ragionare per paradossi, sia consentito però affermare che probabilmente sarebbero state alcune disposizioni del nuovo testo dell’art. 41 a
suggerire una ricostruzione del credito fondiario
nel senso di privilegio speciale sostanziale, non assoggettabile come tale al concorso formale: il quarto comma dell’art. 41 del T.U.B. del 1993 non prevedeva più espressamente l’obbligo dell’istituto di
credito, che avesse riscosso l’importo della vendita,
di restituire alla curatela la quota eccedente rispetto la sua collocazione nel piano di riparto; il quinto
comma (del medesimo art. 41) inoltre consentiva
all’aggiudicatario di subentrare nel contratto di finanziamento perfezionato dall’esecutato, e così pagare il debito direttamente al creditore fondiario.
Ciò nonostante, pur anche nel vigore del T.U.B.
del 1993, la dottrina più avveduta avanzava tre
obiezioni alla ricostruzione del credito fondiario
quale privilegio escluso dal vaglio dello stato passivo fallimentare, a dire il vero, non così agevolmente confutabili. La prima risultava fondata sul rapporto tra la regola generale (il concorso formale) e
quella speciale (l’esenzione dal concorso), nel senso che, per poter derogare al principio generale e
cioè all’insinuazione al passivo del fallimento di un
credito (anche se fondiario), sarebbe occorso un
preciso riferimento letterale in tale direzione e non
semplicemente la mancata previsione di un siffatto
obbligo (V. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, II, 913). Un’altra a partire dall’idea che,
se l’attività esecutiva del creditore fondiario si potesse realizzare, come se non vi fosse la procedura
concorsuale, significherebbe derogare non solo al
principio della “par condicio” dei creditori concorsuali, ma anche alla regola generale, ancora più
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pregnante, dell’universalità della procedura concorsuale maggiore (G. Bozza, La perpetuazione dei
privilegi degli istituti di credito fondiario, in questa Rivista, 1994, 785-802). L’ultima, fondata sul secondo comma dell’art. 41 del T.U.B., secondo il quale
l’intervento (facoltativo) del curatore nella procedura esecutiva intrapresa dal creditore fondiario, fino al 1994 ritenuta ammissibile solo a seguito di
una interpretazione sistematica della disposizione
del 1905, costituiva invece il contrappunto del riconoscimento al credito fondiario del privilegio
processuale: come il creditore individuale poteva
incassare il ricavato dell’esecuzione individuale,
così il curatore poteva intervenire per vigilare e
pretendere la corresponsione di ciò che il creditore
fondiario aveva ricevuto in eccedenza rispetto al
credito del fallimento (cfr. L. Panzani, Credito fondiario, esecuzione immobiliare e fallimento, in questa
Rivista, 1994, 1161-1168).
Il T.U.B. del 1993 e alcuni significativi
problemi ancora irrisolti
Benché il T.U.B. del 1993 avesse senza dubbio
reso più sicure alcune soluzioni sulle quali si agitavano non pochi contrasti, legiferando peraltro nella direzione indicata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (anche se autorevole dottrina proponeva soluzioni diverse, cfr. C.M. Tardivo, Credito fondiario e procedure concorsuali: problemi recenti,
in Dir. fall., 1988, I, 205), occorre evidenziare che,
a prescindere dalle diverse emergenze casistiche,
che pure rivelavano tutte il medesimo nodo teorico, il nocciolo della questione rimaneva appunto
la necessità (cfr. Cass. 17 dicembre 2004, n.
23572, con riferimento peraltro alla disciplina ante
T.U.B. del 1993, sicuramente la più significativa,
con nota del tutto adesiva di A. Patti, Credito fondiario tra esecuzione individuale e fallimento: accertamento del credito e liquidazione dei beni, in questa Rivista, 2005, 1143-1151) o meno di sottoporre il
credito fondiario al vaglio del concorso formale
(per la negativa cfr. Cass. 15 giugno 1994, n. 5806,
con nota critica di L. Panzani, Credito fondiario,
cit., 1161-1168).
Tutte le altre questioni che dovevano essere dipanate nella pratica, infatti, altro non erano se
non il corollario di tale discussione, compresa quella, effettivamente non solo operativa, di capire se
l’esecuzione individuale comportasse rispetto ai beni oggetto della stessa una indisponibilità che resistesse al vincolo fallimentare; compresa, quella più
pratica, proposta nella sentenza oggetto del presen-
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te commento dal creditore fondiario (che aveva
anche trovato riscontro nel tribunale di Parma),
secondo la quale il curatore non aveva provato la
graduazione dei crediti e quindi il diritto di credito
di natura restitutoria della curatela.
Ne derivava, secondo parte della giurisprudenza
di legittimità (cfr. Cass. 19 febbraio 1999, n. 1395,
in questa Rivista, 2000, 80), che il riferimento, di
cui all’art. 41 del T.U.B. del 1993, all’intervento
facoltativo del curatore nell’esecuzione individuale,
il quale non si sostituiva al creditore fondiario ma
faceva valere gli interessi dei creditori concorsuali,
era decisivo nel senso di non onerare il creditore
fondiario del concorso formale (cfr. V. Sangiovanni, Le particolarità fallimentari del credito fondiario, in
questa Rivista, 2011, 1154; di diverso avviso però
G. Pellizzoni - N. Fiorentin, Osservazioni sul privilegio processuale fondiario ex art. 41, comma 2
T.U.L.B. alla luce del decreto correttivo, ivi, 2008,
616, secondo i quali il curatore potrebbe sostituirsi
al creditore individuale sia in caso di accertata inesistenza del credito fondiario, sia per l’ipotesi di
inerzia del creditore medesimo; cfr. Cass. 8 settembre 2011, n. 18436, con nota del tutto adesiva di
L. Abete, Creditore fondiario ed ufficio fallimentare:
le reciproche prerogative, il relativo rapporto e le correlate conseguenze, in questa Rivista, 2012, 324-333, il
quale sottolinea come, ai sensi del sesto comma
dell’art. 107 l.fall., il curatore potrebbe anche procurare l’interruzione della procedura esecutiva individuale).
In tale ricostruzione, pertanto, l’intervento pur
facoltativo del curatore rappresentava il raccordo
tra la disciplina giuridica della procedura esecutiva
individuale e quella fallimentare; tale previsione
consentiva al creditore fondiario di evitare di affrontare il vaglio del concorso formale; certo, in tal
modo rimaneva irrisolto il problema che, così facendo, era il curatore (che interveniva nella procedura esecutiva individuale) a determinare o meno
il concorso formale del creditore fondiario. Infatti,
altra giurisprudenza, sempre di legittimità, propendeva per la tesi opposta (Cass. 19 marzo 1998, n.
2922, in questa Rivista, 1999, 363), a partire dall’analisi della disciplina del concordato preventivo,
nella quale il divieto di cui all’art. 168 l.fall., di
proseguire le azioni esecutive dopo il deposito del
concordato preventivo, sicuramente trovava applicazione anche alla procedura esecutiva intrapresa
dal creditore fondiario, poiché nel concordato non
è prevista una disamina dei crediti assimilabile a
quella prevista nel fallimento. La conseguenza era
che l’insinuazione allo stato passivo del fallimento
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non sarebbe stata condizione di procedibilità dell’esecuzione individuale ma il creditore fondiario
avrebbe dovuto restituire tutto quanto ottenuto
dall’esecuzione individuale, se non avesse ottenuto
l’insinuazione allo stato passivo (occorrerebbe a
questo punto affrontare il tema del rapporto tra la
nullità del mutuo fondiario e l’avvenuta insinuazione allo stato passivo fallimentare del credito fondiario; cfr. L. Balestra, Il superamento dei limiti di finanziabilità nel mutuo fondiario tra regole di validità e
regole di comportamento: a proposito di un (clamoroso
equivoco) della Cassazione, in questa Rivista, 2014,
410-422; G. Tarzia, Il credito fondiario ed i limiti di
finanziabilità nella precedente e nell’attuale normativa,
in questa Rivista, 2013, 214 ss.; A. Patti, Revocabilità dell’uso distorto del credito fondiario, in questa Rivista, 2006, 75 ss.).
Era pertanto questa la disputa teorica (la natura
processuale o sostanziale del privilegio fondiario),
la quale faceva da sfondo ad alcune discussioni che
si agitavano nella pratica: il problema di comprendere se l’istituto di credito, il quale avesse proceduto nell’esecuzione nonostante il fallimento e avesse
incassato l’intero prezzo della vendita, potesse
provvisoriamente trattenere tale somma nonostante non fosse ancora divenuto definitivo lo stato
passivo; la questione concernente il diritto del curatore di ottenere l’importo ricavato dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulterebbe spettante alla banca, benché egli non fosse
intervenuto nella procedura esecutiva; la disputa
in ordine alla graduazione dei crediti eseguita dal
giudice dell’esecuzione, se avesse il carattere della
definitività oppure comunque prevalesse il riparto
del giudice fallimentare; ai quali temi, naturalmente, occorreva aggiungere quello della scadenza del
credito fondiario in relazione alla sentenza di fallimento, considerato il testo dell’art. 55 l.fall., nonché quello della decorrenza degli interessi, preso
atto che l’art. 54 l.fall. richiama ancora oggi l’art.
2855 c.c.
Ciò detto, prima di affrontare tali quesiti, occorre volgere lo sguardo alla sentenza oggetto di commento, sottolineando che va condivisa non solo la
soluzione proposta dalla Suprema Corte, nel senso
di assoggettare il credito fondiario al concorso formale, così confermando la separazione delle sorti
dei principi indicati nell’art. 51 l.fall. da quelli deducibili dall’art. 52 l.fall., ma anche la motivazione, solo forse eccessivamente stringata, allorché
confuta la tesi principale avanzata dal creditore
fondiario. Afferma infatti la Corte che il ragionamento, errato ma suggestivo, mirante a comprovare
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la natura sostanziale del credito fondiario sarebbe
fondato sul secondo comma dell’art. 41, secondo il
quale “la somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante
alla banca, viene attribuita al fallimento”, in cui il
“riparto” (secondo tale prospettiva) sarebbe quello
dell’esecuzione individuale non quello della procedura fallimentare, dato che in tal caso la somma
sarebbe già stata detenuta dal fallimento. Non vi è
dubbio, evidenzia la Corte, che invece l’art. 41 del
T.U.B. non poteva derogare all’art. 52 l.fall., anche
nella sua versione ante 2008. È in questo passaggio
logico che andava probabilmente chiarito che “il
riparto”, cui si riferisce l’art. 41 del T.U.B., è quello eseguito dal giudice fallimentare sulla base degli
accertamenti contenuti nello stato passivo. Lungo
tale percorso giuridico, e così venendo ai quesiti
sopra delineati, l’istituto di credito fondiario può
vendere il bene anche prima che sia divenuto definitivo lo stato passivo, nonché trattenere il ricavato della vendita fino a copertura del credito azionato in sede esecutiva, ma solo provvisoriamente, fino alla formazione del riparto fallimentare, cui il
creditore fondiario parteciperà nei limiti in cui il
suo credito sia stato accertato in sede concorsuale,
restituendo al curatore, anche se non intervenuto
nell’esecuzione individuale, la somma ricavata dalla vendita coattiva eccedente la quota che in sede
di riparto gli spetterebbe oppure l’intero, se il suo
credito non fosse stato indicato nel riparto per non
avere egli ottenuto l’insinuazione (con riferimento
all’esecuzione individuale non si dovrebbe parlare
di un vero e proprio riparto ex art. 510 c.p.c. ma
della presa d’atto da parte del giudice dell’esecuzione di un pagamento già ricevuto ai sensi del quarto
comma dell’art. 41 del T.U.B.). Correttamente la
Corte respinge l’obiezione del creditore fondiario,
che invece il tribunale di Parma aveva condiviso,
fondata sulla circostanza che in giudizio il curatore
non aveva dato la prova della sussistenza di un proprio credito restitutorio pari alla somma eccedente
il credito incassato dall’istituto di credito; è sicuro
- osserva il Giudice delle leggi - che il riparto fallimentare non può equivalere all’accertamento proprio dello stato passivo.
Il D.Lgs. n. 169 del 2007; ancora qualche
questione
Esso modifica l’art. 52 l.fall. (sul quale era già intervenuto il D.Lgs. n. 5 del 2006 imponendo il
concorso formale sia ai crediti prededucibili sia a
quelli muniti di diritti di prelazione), statuendo
il Fallimento 7/2015
che “le disposizioni del secondo comma [verifica
dello stato passivo] si applicano anche ai crediti
esentati dal divieto di cui all’art. 51 l.fall.”, cui corrisponde una aggiunta al primo comma dell’art.
110 l.fall., a mente del quale oggi nel progetto del
piano di riparto “sono collocati anche i crediti per
i quali non si applica il divieto di azioni esecutive
e cautelari di cui all’art. 51 l.fall.”, il quale disposto
della legge fallimentare riformata ammette che per
alcuni crediti non viga il divieto di azioni esecutive
e cautelari. Sciolto il nodo teorico, nel senso dell’universale obbligatorietà dei creditori di sottostare alle regole dell’insinuazione allo stato passivo e
alle indicazioni della legge fallimentare (cfr. A.
Penta, I rapporti tre esecuzione individuale ed esecuzione concorsuale. Il credito fondiario, in Dir. Fall.,
2010, 286 ss.), dopo la Novella del 2007, e sempre
con riferimento ai quesiti di cui al paragrafo precedente, diventa più agevole sostenere non solo il
potere del creditore fondiario di proseguire nell’esecuzione individuale nonostante il fallimento del
debitore, ma anche l’obbligo di restituire al curatore quanto eccedente il piano di riparto predisposto
dal giudice fallimentare ex art. 110 l.fall., che prevale su ogni determinazione del giudice dell’esecuzione. A tal proposito (cfr. App. Torino 5 settembre 2007, con nota critica di G.B. Nardecchia, Il
difficile rapporto tra credito fondiario e fallimento: irrisolte incertezze interpretative e recenti novità legislative, in questa Rivista, 2008, 186-193), va senza dubbio disatteso il ragionamento secondo il quale,
qualora il curatore sia intervenuto nel procedimento e abbia svolto una domanda non meramente
processuale, l’accertamento del giudice dell’esecuzione prevale sulla verifica esercitata dal giudice
fallimentare nello stato passivo, poiché, così facendo, si ammette la natura disponibile della verifica
dello stato passivo. Infine, pare sopita ogni discussione sia sulla naturale scadenza del credito capitale alla data del fallimento a prescindere dal piano
di ammortamento del mutuo fondiario, come prescrive l’art. 55 l.fall., sia sulla decorrenza degli interessi ai sensi dell’art. 54 l.fall., il quale rinvia alla
disciplina codicistica contenuta nell’art. 2855 c.c.,
che equivale ad affermare, del tutto correttamente,
che l’art. 51 l.fall. concerne la fase traslativa dell’esecuzione forzata mentre quella distributiva è regolata dal principio fissato nell’art. 52 l.fall.
Inoltre, sempre ponendo attenzione alle questioni ormai risolte, se risulta discussa l’idea che il creditore fondiario possa incassare le somme ottenute
in sede di esecuzione anche se il suo credito non
sia stato definitivamente insinuato allo stato passi-
789
Giurisprudenza
Fallimento
vo, pur prevalendo la risposta affermativa (cfr.
Trib. Torino, 10 ottobre 2008, in questa Rivista,
2009, 1229 ss., con nota adesiva di G.P. Macagno,
Rapporti tra esecuzione individuale e concorsuale di
credito fondiario: conferme dal legislatore della Riforma, ivi, 1233 ss.; contra V. Sangiovanni, Le particolarità fallimentari, cit., 1154), avallata però sia dal
secondo comma dell’art. 41 del T.U.B. e dal primo
dell’art. 510 c.p.c. sia dalla natura stessa del privilegio processuale, è invece oggi sicuro che il fallito
non sia parte di tale procedimento. È peraltro altrettanto pacifico che il giudice fallimentare abbia
la facoltà di disporre la vendita coattiva degli stessi
beni oggetto dell’esecuzione fondiaria, risultando la
priorità temporale della data dell’asta per la vendita del bene il criterio per attribuire prevalenza all’una o all’altra procedura (cfr. Cass. 8 settembre
2011, n. 18436, cit., 326); infine, non si discute
che il privilegio processuale possa essere oggetto di
cessione (cfr. G. Tarzia, Cessione di credito fondiario
e privilegi processuali, in questa Rivista, 2006, 686690). Si ritiene anche che, in deroga al primo
comma dell’art. 114 l.fall., il creditore fondiario,
insinuato allo stato passivo, debba comunque restituire la differenza tra quanto ricevuto a soddisfazione del proprio credito in sede di esecuzione individuale e quanto risulti dal riparto fallimentare non
reclamato ex art. 110 l.fall. (L. Abete, Creditore
fondiario, cit., 332).
Da ultimo, occorre evidenziare che dopo la sentenza n. 23572 del 2004 della Corte di cassazione
(Cass. 17 dicembre 2004, n. 23572, cit.), è oggi
possibile affermare che il rapporto tra l’esecuzione
fondiaria e le spese in prededuzione del fallimento
è regolato dal principio generale, in virtù del quale
al creditore fondiario devono essere imputate le
spese della liquidazione fallimentare sostenute per
la specifica conservazione del bene nonché i costi
generali che siano stati affrontati nell’interesse dell’ipotecario (fondiario); molto più discussa è invece
la ripartizione delle spese generali della procedura
concorsuale. Il fondamento del dibattito ha ancora
una volta una complessa radice teorica. Infatti, venuta meno ogni differenza tra la procedura esecutiva individuale e quella fallimentare (se non per
quanto riguarda le spese per la vendita dell’immo-
790
bile che nella esecuzione fondiaria vengono sostenute dal creditore ipotecario; cfr. Trib. Mantova
27 marzo 2006, in DeJure, 2006), la Suprema Corte
è costante nel sostenere che, in mancanza di specifici elementi di confronto, l’incidenza delle spese
di procedura prededucibili non incide in modo
omogeneo sul ricavato della vendita, dovendosi, di
volta in volta, verificare l’utilità delle attività svolte dal curatore a favore dei creditori garantiti (cfr.
Cass. 10 maggio 1999, n. 4626, in questa Rivista,
2000, 624-626; Cass. 6 giugno 1997, n. 5104, ivi,
1998, 261 ss.), nelle quali vi si fanno rientrare, comunemente, i costi per l’accertamento del credito
e per la predisposizione del riparto. La discussione
attiene al concetto dell’“autonomia dei riparti”,
poiché, laddove si ammetta, come insegna la Corte
di cassazione, che il riparto del ricavato dai beni
ipotecati sia una operazione autonoma, i creditori
titolari della relativa prelazione non concorrono
con i creditori aventi titolo ad un soddisfacimento
in prededuzione, se non nei limiti della utilità conseguita dai creditori garantiti. Qualora invece, come spiega autorevole dottrina (cfr. G. Bozza, La ripartizione delle spese generali nel fallimento, in questa
Rivista, 2000, 626-637), si ritenga che la legge fallimentare non contempli riparti distinti e separati
per la distribuzione del residuo attivo, anche i creditori ipotecari (e quelli fondiari) concorrono con
gli altri creditori concorsuali, compresi quelli chirografari; l’attivo ricavato pertanto confluisce in
una unica massa sulla quale concorrono tutti i creditori secondo l’ordine prefissato dall’art. 111
l.fall., cosicché l’unico criterio di ripartizione dei
costi in prededuzione che possa essere riconosciuto
è quello dell’imputazione proporzionale, cioè quello del rapporto tra il ricavato dalla vendita di un
bene e il realizzo complessivo della procedura fallimentare. Secondo questa prospettiva, che ci pare
preferibile anche in termini di certezza dei rapporti
giuridici, al creditore fondiario verranno imputati
una percentuale dei costi in prededuzione corrispondente al rapporto tra l’attivo fallimentare conseguito e quanto ricavato dalla vendita del bene
sul quale insisteva il privilegio fondiario.
Federico Casa
il Fallimento 7/2015