Jean-Michel Basquiat: contro il muro
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Jean-Michel Basquiat: contro il muro
Jean-Michel Basquiat: contro il muro Francesco Pellizzi Noi siamo dei feticisti civilizzati. Strappiamo l’anima ad ogni cosa: dalla montagna alla tabacchiera. Alberto Savinio, Arte=Idee Moderne (1918) Lui alzava l’asta e la lanterna e correva sbracciandosi, con i titoli e le frasi che gli svolazzavano intorno, come un uomo che scaccia uno stormo di piccioni. Elizabeth Bishop, Il mare e la sua sponda (1937) Si comincia normalmente dalle radici, ma le radici di Jean-Michel Basquiat sono ibride e molteplici, come per la maggior parte di noi, solo in modo più radicale1. Pur essendo, prima e più di ogni altra cosa, “solo un ragazzo di New York” (come ebbe a dire suo padre), già a causa dei suoi antenati afro-caraibici era diviso tra un elemento franco (attraverso Haiti) e uno ispanico (attraverso Portorico). Così, in questo caso, è stata la sua negritudine (o africanitudine) a costituire un punto di riferimento e una mediazione tra le sue diverse origini. È un fatto risaputo, ma vale la pena di ricordare come questo giovane haitianoportoricano-americano, dalle origini così eterogenee, sia diventato una presenza aggregante per la sua e per la successiva generazione. A parte la produzione di immagini, vi sono due principali canali di espressione che trasmettono quello che chiamo l’universo espressivo di Basquiat: la musica e la parola. Non è un caso che si rispecchi in entrambe la sua triplice origine. Penso, come altri, che il jazz e il blues siano stati per lui i primi elementi unificanti: un linguaggio americano con un’anima africana nel cuore. Tuttavia, di questi due poli iniziali di ispirazione – la musica e la parola – è forse la seconda che ha rappresentato più direttamente l’appartenenza “occidentale” di Basquiat, con le sue radici europee, mentre la prima ha incarnato l’eredità della diaspora nera. Questa dicotomia ha implicazioni sia per la persona sia per l’artista perché corrisponde alla tensione – presente ovunque nel suo lavoro e nella sua vita – tra parola e immagine. Laddove la seconda viene gradualmente assorbita nello spazio interiore della sua fedele devozione alla musica afro-americana. L’immagine “proiettata” dall’artista, divenuta parola, si identificava sempre più in quella di un soggetto che inventa, o trova, i suoi propri mezzi di espressione. Non a caso Basquiat scrisse inizialmente i testi per un gruppo musicale di cui faceva parte lui stesso (come batterista); poi, le due componenti dinamiche, parole e musica, confluirono nella pittura che così per lui conservò sempre qualcosa della performance. Forse perché sono italiano, la rara combinazione di talenti e passioni di Jean-Michel Basquiat mi ricorda la figura di un artista attivo agli inizi del movimento modernista che non avrebbe potuto essere più diverso da lui: Alberto Savinio, che fu anche (a volte simultaneamente) un musicista, uno scrittore, un artista visivo, e sempre un poeta. In una esecuzione di una delle sue composizioni musicali (1914) Savinio fu descritto da Guillaume Apollinaire come “un dandy con il monocolo in maniche di camicia che ‘si dimena e urla’ finché il pianoforte non lo asseconda”. Il profeta dell’avanguardia si dichiarava “affascinato e stupito dalla brutalità con cui [Savinio] maltrattava lo strumento fino a spaccarne i tasti”, e André Breton ricordava che “dopo ogni pezzo bisognava pulire i tasti dal sangue che li macchiava”. Savinio firmò le note che scrisse per il programma del suo concerto Artisan dyonisiaque, e osservò, in un articolo pubblicato poco dopo, che “il Dioniso della Modernità si manifesta in una forma terribile”2. Non è difficile proiettare un nesso analogico tra questo evento e alcuni di quelli a cui Jean-Michel Basquiat partecipò attivamente quasi settant’anni dopo, per esempio al Soho Mudd Club di New York, e altrove nel Lower East Side3. Basquiat e Savinio erano agli antipodi, eppure vedo tra loro sia pur improbabili analogie spirituali e artistiche, non solo nel “narcisismo” deliberato e in ultima analisi liberatorio della loro affermazione di un Essere in divenire, ma nel loro creare sempre, in modi differenti, “danze, danze, danze” – anche se per Savinio si trattava più di danze di idee, come se “l’involucro del suono non potesse che tradirle”, mentre, ancora una volta, immagini e parole insieme, per Basquiat, sembrano evocare suoni4. Forse si tratta di qualcosa di simile a quello a cui si riferisce Federico García Lorca (in un’ispirata conferenza sudamericana) come l’arte posseduta dal duende (spirito), ovvero musica, danza, poesia “come interpretata da un corpo”. E questi suoni del corpo, secondo Lorca, erano suoni neri, “e non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte”5. L’intensità e la concentrazione, cupe eppure di piede leggero, che sono evidenti nei suoi inizi di graffitista non fanno dubitare che Basquiat fosse posseduto da tale spirito – uno spirito non esclusivo dell’Africa o dell’America nere. È uno “spirito della Terra” che esplode in molte immagini, come faceva dalla tromba di Charlie Parker (“The Bird”) o dal sassofono di Dizzy Gillespie – quale “dionisiaco grido sgozzato” (ibidem). Non si tratta qui di un “agire” quanto di un “potere”, e di una “lotta” più che di un “pensare” (ibidem)6. La lotta è, in ultima analisi, quella con il duende stesso, e come tale una lotta sacrificale: una lotta fino alla morte7. Si può vedere e sentire che Basquiat concepiva anche le parole stesse come performance: non soltanto come “scritte sul muro” ma come l’atto di scrivere sul muro, come i suoni in una jam session o, di nuovo, come nel cante jondo – con la sua ricerca della possessione attraverso la messa in atto di una “struttura” dell’improvvisazione – come trasporto fuori del corpo e imprevedibilità ancora immersa nell’innocente saggezza della danza, o risonanza del corpo stesso (una sorta di sagesse du corps in versione jazz, forse paradossalmente espressa anche da Matisse nel suo stato di semiparalisi finale). Quello che abbiamo allora nei quadri di Basquiat non è principalmente la rappresentazione del corpo, ma piuttosto una traccia dell’impegno del corpo nella rappresentazione. Tracce sul muro e fuori Nel genere di attività semiclandestina di graffitista con cui Basquiat iniziò ad affermare la sua presenza artistica, il corpo reale dell’autore, talvolta incappucciato, è nascosto alla vista e reso anonimo, mentre la pseudoidentità dell’autore può manifestarsi agli iniziati nella “firma” rappresentata dallo stile dell’opera stessa, oppure, occasionalmente da un eteronimo a un tempo criptico e ben evidente. Il graffitismo è l’avventura notturna di giovani cacciatori urbani (sono rare le donne graffitiste), che cercano, in modo furtivo e rapido, di appropriarsi di una porzione della superficie cittadina – ferma o in movimento (come sui treni) – per essere poi visti ogni giorno da milioni di persone. Non esiste forma d’arte più intrinsecamente contraddittoria – allo stesso tempo così intensamente privata, quasi solipsistica, e così dichiaratamente pubblica, o liberamente condivisa. La sua eloquenza si basa su un linguaggio da un lato comune, e come tale soggetto alle mode, e dall’altro idiosincratico, poiché le sue tendenze sono per la maggior parte autogenerate, sia anonime sia spiccatamente personali: una sorta di firma, come si è detto, ma inevitabilmente quella di un “delinquente”. Mentre un dipinto può valorizzare effettivamente il luogo che lo ospita, e la scultura tradizionale magnifica i materiali di cui è fatta, i graffiti tendono a nascondere e a camuffare – si potrebbe dire a deturpare ma anche a nobilitare – le superfici su cui vengono tracciati: la presenza stessa di graffiti in un luogo urbano pone la questione spinosa della loro origine. Basquiat traspose alcuni di questi tratti – adeguatamente ma, come vedremo, non sempre “agevolmente” – nel suo lavoro in studio8. Se iniziò quasi subito a firmarsi con il suo nome sul retro dei quadri, il lato nascosto che i graffiti non hanno, la sua immagine personale continuò ad apparire per lo più come una sorta di caricatura, o talvolta (nei primi tempi) sotto la forma del suo vecchio eteronimo di graffitista: “SAMO”. Come in Twombly, che egli venerava, forse riconoscendo anche nel suo percorso alcune delle pulsioni e delle alienazioni di un esule, anche per Basquiat ogni superficie costituiva un’occasione per una proiezione oggettivata del suo Sé. Ma è come se per lui l’esilio interiore di un estraneo nella sua terra richiedesse, quanto meno inizialmente, una duplice protezione, e un duplice travestimento: quello del suo alter ego e quello della sua grottesca autocaricatura, che si intrecciano nel disvelarsi del suo personaggio narrante. Molto spesso, tuttavia, il discorso all’interno del dipinto, anche quando è ampio, avviene per esplosioni prive di nesso, come quelle di uno strumento a fiato nel jazz – o di una batteria suonata con silenzi frequenti, meditativi e intermittenti – e a volte, proprio quando l’ispirazione musicale può essere più diretta, le parole e la discorsività – che però non è eloquenza – scompaiono del tutto dal dipinto. La storia del modernismo corre parallela a quella del muralismo, e le due storie si intersecano in vari modi9. Al culmine dell’era borghese-industriale, i muri erano stati la principale destinazione dei quadri realizzati su cavalletto. Ma i muri modernisti non erano intrinsecamente pensati come supporto per la decorazione; come decretato da Adolf Loos, le loro superfici tendevano a essere pulite, spoglie, sobrie; sfoggiavano l’estetica della loro funzione e diventavano più desolate che venerabili quando erano segnate dalle rughe e dallo scolorimento naturale del tempo. Le loro occasionali deturpazioni e decorazioni popolari testimoniano spesso l’intenzione di minare in qualche modo le vestigia dell’ordine costituito e i valori che sembravano ancora proteggere e incarnare. Non a caso, i pittori muralisti della prima metà del XX secolo si consideravano rivoluzionari (di qualunque razza) e nemici della borghesia (di ogni matrice, o quasi). Tuttavia anche le strade desolate sono ancora fiancheggiate da muri, ed è come se Jean-Michel Basquiat avesse manifestato una bruciante e precoce consapevolezza di questa tensione fra lo studio come dis-locazione della strada e dei suoi “muri”, nonché tra l’irregolare flusso urbano, visibile e nascosto, e i suoi ambienti rigidamente costruiti che fornivano il luogo per l’espressione della sua identità frammentata. È anche una dicotomia – evidente in tutte le sue esuberanti manifestazioni – tra autopresentazione e idioma, immagine e parola, l’ingenuità quasi infantile della sua persona e le profondità seminascoste della storia e dei linguaggi che l’hanno determinata. La vita come un viaggio attraverso le foreste, i deserti e la desolazione di cose e uomini, con tutti i loro mostri e i loro labirinti mitici. Nell’opera di Basquiat tutto questo può assumere la forma di autoritratti quasi narrativi. Per esempio, già nel piccolo dittico Untitled [Senza titolo] (1981, presentato in questa mostra), “SAMO” è detto avere “qualcosa di pazzo” (in spagnolo “Está en algo loco”, quest’ultima parola – “loco” – ripetuta più volte). Ma si noti l’accento posto sulla qualifica: solo una “parte” di lui è pazza o, se preso nel suo insieme, è “un po’” pazzo, mentre l’evocazione di uno specifico viaggio in auto attraverso il profondo sud degli Stati Uniti – da Washington D.C. a Los Angeles – viene trascritta, rappresentata metonimicamente, e simbolizzata come “versus melon”, in riferimento e contrapposizione con la condizione di schiavitù (i “raccoglitori di meloni” del periodo della Ricostruzione americana), e una croce bianca del Ku Klux Klan che torreggia sopra una scritta “Pepsi”, a evocare il quartier generale dell’azienda ad Atlanta, Georgia eccetera10. In questo dipinto, apparentemente rozzo – con le sue due metà montate su telai irregolari che non combaciano del tutto – è come se il personaggio emergente dell’artista-viaggiatore fosse evocato “al negativo”, sia verbalmente sia mediante simboli iconici, come in una registrazione solo parzialmente visibile e disturbata. Mediante l’uso della parola “versus”, ossia “contro”, termine prediletto dall’artista e usato anche in altri dipinti di questo periodo, per significare opposizione, paradosso o il lato nascosto di quello che è esternamente denotato, Basquiat espone qui la sua multipolarità interiore e le tensioni razziali dovute all’essere cresciuto in America. Il lato sinistro del dipinto, dove la “pazzia” dell’ispanico “ragazzo-nero-in-viaggio” si contrappone agli stereotipi delle conseguenze della schiavitù, ha come controparte, sul pannello di destra, un cuore rosso su cui è trionfalmente piantata l’infausta croce bianca del KKK (un “geroglificofirma” che appare anche altrove nel lavoro di questo periodo). È un’immagine inquietante e carica di ansia, circondata da insicurezza e contraddizioni, ma è anche la testimonianza di un’esperienza abbastanza straordinaria di esplorazione personale. Una combinazione di vulnerabilità quasi infantile e audacia, che si riverbera nella maggior parte delle figure nate dall’immaginazione di Jean-Michel Basquiat attraverso tutta la sua troppo breve esistenza. Elmar Elmar Di fronte all’ingannevole sfoggio di ingenua spontaneità e di esuberante espressività, ci si potrebbe aspettare che la raffinatezza formale fosse l’ultima preoccupazione di JeanMichel Basquiat; tuttavia, quello che non cessa di sorprendere, fin dai suoi inizi e quasi in ogni opera, è l’equilibrio apparentemente istintivo nelle sue composizioni di dinamismo e integrazione. È come se fosse nato con dentro un “genio” (di nuovo, un duende?) che si impossessava della sua mano per dare vita ad audaci abbinamenti di forme e di linee, spesso con un’aggiunta più o meno elaborata di parole, o a collage di grafismi preparati a mano sulla carta, talvolta riprodotti meccanicamente prima di essere applicati sui dipinti. Untitled [Senza titolo] (Elmar, 1982), presente in questo catalogo, è un esempio valido – quanto altri – di questo misterioso connubio di sensualità naturale e premeditazione, come se un sottile ricordo dell’eredità di Robert Rauschenberg e Jasper Johns avesse “formato”, forse subcoscientemente, lo spirito e la mano del giovane artista “emarginato”. Come in molti altri casi (si vedano, per esempio, in questa mostra, il magistrale Crowns [Corone], chiamato anche Peso Neto, 1981, e Untitled (Black Figure), [Senza titolo (Figura nera)] 1982), c’è una ripartizione un po’ asimmetrica dell’immagine che ne organizza il contenuto energetico: sulla destra, vediamo la figura che ci è familiare, quasi un autoritratto, qui in rosso scuro su uno sfondo giallo vivo, ma con sparse chiazze blu e verde intenso e lumeggiata da una sorta di aura bianca, con le braccia allungate verso l’alto nel consueto gesto di danza estatica (o forse in preda a un attacco di panico?). Questa silhouette del corpo “nudo” dell’artista – quasi fosse un’ombra colorata proiettata su una parete da fari accesi all’improvviso – è sormontata, di nuovo come in molti altri dipinti di questo periodo, da una testa- teschio dagli stilizzati capelli scarmigliati, a sua volta incoronata da un’aureola “a spunzoni”, nonché, enigmaticamente, da quello che pare uno scarabocchio della figura che sta sulla britannica sterlina. La testa, che ha anch’essa l’aspetto di una sorta di radiografia, è ulteriormente disgiunta dalla figura dipinta, essendo disegnata con inchiostro nero su carta applicata sulla tela: quasi a sottolineare la frammentazione dell’identità del soggetto, e della sua rappresentazione – ridotta qui a uno sgorbio grottesco – come anche, forse, la distanza tra l’artista e l’immagine pubblica del suo mestiere. È interessante paragonare questo anti-autoritratto con quello, sempre grottesco, ma anche piuttosto espressivo, del pastello a olio su carta Untitled (Self-Portrait) [Senza titolo (Autoritratto)] dello stesso anno (nella presente mostra), in cui i capelli fluttuanti dell’artista e un accenno di aureola serpeggiante sono risolti con grazia quasi calligrafica11. Segni neri e dorati intersecano a caso l’immagine della figura principale di Elmar, che sembra anche tenere un arco nella mano destra: nelle loro giustapposizioni paratattiche, il gesto e gli oggetti ci possono ricordare certe pitture rupestri antropomorfe, come quelli che raffigurano cacciatori sulle pareti rocciose del Sudafrica, o quelli che si pensa siano un’immagine di Kokopelli, mitologico eroe culturale e dio burlone, nel sud-ovest americano. Ma è anche come se l’arco avesse appena scoccato la sua strana freccia, che curva verso l’alto e quindi può forse essere destinata a mancare il bersaglio, oltre a fornire il nesso iconografico tra le due metà del quadro. Nessi più “astratti” si possono individuare nella vernice blu, che domina lo sfondo sulla sinistra, e forse ancora di più nel bianco che incornicia un elemento “architettonico” vuoto, forse una “finestra”, proprio al centro del dipinto. La freccia stessa — raddoppiata da una seconda più piccola che si arricciola ancor più bruscamente all’insù, in un motivo a forma di doppia “e” che ricorda certe “calligrafie” di Twombly — rammenta un motivo decisamente priapico: si può pensare a quei falli in miniatura dell’antica Roma, spesso alati, che i musei archeologici per pruderie nascondono alla vista. Sembra puntare verso un piccolo uomo-uccello nero (un’altra icona per Basquiat), che ha anch’egli un’aureola di spine e due ali spiegate con alcune penne cascanti. Sotto i lineamenti indistinti di questa creatura, sempre contornata di bianco, ma separata da un tratto marrone, è iscritta la parola-nome “Elmar”. Altri scarabocchi, della forma usata per indicare una sorta di scritta incomprensibile, circondano la parola. Nel correlato Untitled (Black Feathers) [Senza titolo (Piume nere)], l’artista-(anti)-eroe appare in rosa, di nuovo con la sua aureola di spunzoni, proprio al centro del dipinto e come appollaiato tra la figura dell’uomo-uccello – qui in bianco, e sempre circondata da “frecce” – e una figura femminile gialla (fatto raro in tutta l’opera dell’artista). In Elmar, ancora una volta, si rimane colpiti dallo straordinario equilibrio di elementi apparentemente casuali – colori, immagini, segni – all’interno del dipinto. L’uso del collage di carta rafforza qui l’aspetto eterogeneo e ibrido della composizione, così come i “rozzi” colori acrilici e le figure schematiche, simili a sagome (uomo, uccello) mantengono l’affinità con i graffiti di strada in primo piano. Ma questa apparente semplicità e questo “primitivismo” sono ingannevoli (si potrebbe quasi parlare di “trucco”, riferendosi a un’espressione usata da de Kooning) non solo per la forza formale delle loro articolazioni, ma anche perché tendono a nascondere, o mascherare — proprio come l’uso occasionale che Basquiat fa di pseudonimi (o eteronimi) — il contenuto “narrativo” dell’opera. L’artista è qui raffigurato nei panni di un cacciatore che cerca, a un tempo comicamente e quasi disperatamente, di scagliare frecce contro un uccello nero, o “aquila decaduta” – forse il suo alter ego animale12. Quest’ultimo, che compare nei dipinti di questo periodo iniziale con quasi la stessa frequenza della “silhouette-autoritratto” con le consuete mani alzate — è quello che si fa quando si è sorpresi dalla polizia a imbrattare edifici nel cuore della notte? — potrebbe essere letto come la visualizzazione un po’ da fumetto dell’“animale guida”, lo spirito compagno che molti indiani americani appartenenti a varie tradizioni ancor oggi identificano con una parte fondamentale della loro natura e del loro destino. E tuttavia, ci potrebbe anche essere, in questa e in altre simili immagini, un riferimento a un reale alter ego di Basquiat, il collega graffitista Rammelzee, famoso all’epoca nei circoli artistici newyorkesi del Lower East Side e suo amico-rivale: l’enigmatica parola “Elmar” è infatti composta dalle prime due sillabe — lette al contrario, come in una sorta di geroglifico — di “Rammelzee”13. Non potremmo vedere, allora, in questo dipinto, un’immagine del nostro artista, che ha già raggiunto quasi fulmineamente il successo e affronta il superamento, per lui problematico ma ormai diventato necessario, dei limiti raffigurativi della formula “di strada”, abbattendo umoristicamente nel suo volo impacciato il suo alter ego più convenzionalmente graffitista? Forse, allora, la già citata “finestra” bianca, vuota, al centro del dipinto, potrebbe non essere così “astratta”, dopo tutto, ma indicare un’evasione di misura – una sorta di punto di fuga non prospettico – sia dalla vecchia prigione della negritudine e dei graffiti sia da quella nuova della pubblica identità artistica e della fama14. Native Carrying some Guns, Bibles, Amorites on a Safari [Indigeno che porta fucili, bibbie, Accadi in un safari] Non si vuol dire, con ciò, che una componente di gioco non resti essenziale per questa danza di gesti, di figure che cantano e declamano, mosse da una forza possente, e di parole che spuntano come dal nulla sulla superficie di queste tele e pannelli che si offrono come i succedanei dei muri di strada, quasi fossero tracciate dall’ospite supremamente cosciente di una prigione autoimposta15. Ma se il tutto è come pervaso di humor – e di ironia, come si conviene a ogni degno erede di quella “grande invenzione che l’epoca moderna deve a Cervantes”16 – è anche di certo terribilmente serio: l’autore presenta spesso la propria immagine come quella di una sorta di anti-don Chisciotte (malgrado le sue corone e aureole), personificazione di uno stereotipo di distaccata servilità, dolore e abiezione – perfino di vera e propria “bruttezza”, in netto contrasto con la bellezza quasi angelica dell’immagine reale dell’artista (si veda, di nuovo, Fallen Angel [Angelo caduto] 1981). Può servire qui come esempio un dipinto dei suoi inizi ma “maturo”, Native Carrying Some Guns, Bibles, Amorites on Safari [Indigeno che porta fucili, bibbie, Accadi in un safari] (1982), non compreso in questa mostra, ma si veda anche Thermopilae [Termopili] (1985, che a sua volta richiama il titolo di una fragile e potente scultura di Cy Twombly, di quegli stessi anni). Qui, questa canonica autocaricatura è mostrata, come di consueto, come una piatta silhouette con occhi vivi, spiritati, schizzata con energia in bianco e nero con un po’ di rosso, le braccia ancora una volta alzate, come per reggere il suo carico altrettanto grafico-schematico. La sua controparte “bianca”, invece, è vista dal portatore-artista (si noti la freccia che va da occhio a occhio) come apparizione assolutamente diafana, fino al casco da esploratore e al fucile – una presenza spettrale – priva di qualsiasi caratterizzazione, anche in senso negativo o demoniaco: agli occhi di Basquiat-in-vestedi-portatore (che però non lo guarda) è lui in realtà “l’uomo invisibile” della tradizione letteraria afro-americana. C’è, nel dipinto, un inimitabile miscuglio di consapevolezza storico-culturale e ironia, che è anche – inevitabilmente – autoironia. È come se l’artista ci ricordasse, tra le altre cose, che, in contrasto con quella negritudine inventata dall’Occidente euro-americano, e con cui il negro della post-schiavitù e del postcolonialismo non può fare a meno di identificarsi – anche se, come nel caso di Basquiat, in modo grottesco e sarcastico – la bianchitudine è meno di niente, un ricordo senza ombra, o un elemento appena schizzato, privo di ogni qualità. Come in molti altri esempi (per un caso estremo, si veda la grande serigrafia su tela Tuxedo [Smoking], 1982 in questa mostra), le estese iscrizioni di parole suonano come una sorta di enciclopedia personale, idiosincratica e frammentaria, che trasmette echi di elementi reali e immaginati del nostro panorama di culture in conflitto, seppure evocati da una certa distanza e forse abbinati al vago ricordo di letture scolastiche – e così non privi di un implicito giudizio etico, e di un ghigno sardonico: COLONIALIZZAZIONE. PARTE SECONDA IN UNA SERIE, VOL. VI “GRAN BEI QUATTRINI COI SELVAGGI” ZANNE CONTRO MISSIONARI. NOBILI PROVVISTE. BRACCONIERI DI DIO. TUSK$ TUSK$ (ZANNE) $KIN$ $KIN$ (PELLI, PELLICCE) LANDAU BISHOP CORTEZ/ CORTE$/ CORTE$ NON ACCENNERÒ SENZA NEPPURE ALL’ORO (ORO) Sarebbe difficile trovare un esempio migliore del modo unico in cui parola e immagine possono combinarsi ed entrare in risonanza nell’arte di Basquiat. Non si può negare un riferimento post-pop ai libri di fumetti; ma qui la distribuzione visiva del testo intorno alle due figure può e non può essere trasposta in un discorso lineare. Come di consueto in Basquiat, alcune parole e lettere sono barrate, quasi a sottolineare un rapporto speciale e spesso antagonistico (di nuovo “versus”, contro) con quello che la parola evoca: “jolly”, avverbio tipicamente associato con le buone maniere della sportività militare britannica (“jolly good show!”, “ben fatto!”), o “Landau/Bishop” (ossia il vescovo de Landa, con errore di ortografia, forse voluto per evocare anche un campo nazista), o la trasformazione di “skins” (pelli) in “kin” (ceppo, stirpe, ossia uno scambio con un concetto molto “antropologico”) eccetera. Il tutto si conclude con una menzione sardonica: “gold”, in cui il termine ispanico “oro” (tra parentesi) è, in tutti i sensi, l’ultima parola17. Tre vettori solcano il dipinto in tre direzioni diverse: da “versus” fino a “God”, da “(oro)” fino a “Cortez”, e, come già menzionato, dalla testa del portatore indigeno per la “Royal Salt Inc. @” fino alla testa del suo padrone-datore di lavoro dall’aspetto fantomatico. Ed è in questa dialettica che si inscrive il testo del dipinto, con tutti i suoi tentennamenti e contraddizioni: la satira della sintesi di una dissertazione etnografica, che si riferisce a una “seconda parte” della storia di una presunta “civiltà” che non può trovare un giusto equilibrio tra il suo “centro” e la sua “periferia”. Si veda l’associazione di sauvagerie e profitto, l’opposizione-associazione di tutto questo con la “nobility” (nobiltà) dei “missionaries” (missionari), e con “God” (Dio) in persona, tra “provisions” (vettovaglie, ma per chi?) e “poachers” (ossia bracconieri, siamo ben sul continente africano), e quella tra le “tusks” (zanne) di elefante (il bottino forse ottenuto con la caccia di frodo) e le “skins”, pelli, il trofeo da riportare in Occidente, dove le “S” sono barrate per evocare anche il simbolo del dollaro. E c’è anche un gioco sull’assonanza tra “skin” e “kin”, di nuovo con molteplici allusioni all’importanza primaria della stirpe e dei rapporti ancestrali nelle società “tribali”, però nel contempo al commercio di pellicce, e alle pelli di diversi colori eccetera. Poi abbiamo uno spostamento di fuoco dall’Africa all’America, attraverso l’Atlantico caraibico di cui Basquiat è originario, mediante il riferimento al vescovo “Diego de Landa” (“Landau”), che bruciò un’infinità di codici pittografici precolombiani nella penisola dello Yucatán ma che ci ha anche fornito alcune delle migliori descrizioni di culti “idolatrici” nelle civiltà mesoamericane precolombiane. E finalmente arriviamo a “Cortés”, naturalmente riferito al “Conquistador”, ma che è forse anche un riferimento abbastanza trasparente al critico-curatore Diego Cortez (anch’esso uno pseudonimo) che ebbe un ruolo cruciale nel promuovere il giovane Basquiat come “artista da galleria”, nella New York degli anni tra il 1980 e il 1982, migliorandone così notevolmente la situazione finanziaria e la fama. Potrebbe essere infatti con una sarcastica allusione a questi sviluppi della sua vita che si conclude il discorso-nel-quadro, nell’angolo in basso a destra: “I won’t even mention gold (oro)” [Non accennerò neppure all’oro] – come se fosse superfluo parlare del saccheggio di “oro” dalle colonie, che alimentò il primo sviluppo del moderno accumulo di capitale in Europa, e della tratta degli schiavi, proprio come “non c’è bisogno” di parlare del mercato dell’arte contemporanea. Non credo che questo o qualsiasi altro dipinto di Basquiat contenga un messaggio univoco (nell’arte vera non ce n’è mai); tuttavia, per le parole è forse più difficile che per le immagini conservare un carattere ambivalente o ambiguo, da cui forse la necessità di cancellature nelle iscrizioni di Basquiat – un modo per dire-e-non-dire che probabilmente riflette una tensione esistenziale irrisolvibile, durante tutta la sua meteorica ascesa, tra articolazione ed espressione – un dilemma forse solo in parte placato dalla sua passione per la musica. Per Basquiat, la sintesi tra espressione e appropriazione è nel congiungimento di corpo-e-linguaggio, in cui il corpo agisce nei quadri come simbolo di un’identità che cerca una “iscrizione” – il corpo-con-un-nome, ma anche il corpo nero che evoca una presenza con cui fare i conti – mentre il testo iscritto diventa una sorta di meccanismo ritardante, un groviglio linguistico in cui il mondo delle “cose” diventa storia immediata, un caleidoscopio di parole, inframmezzato da colori e figure, i cui schemi sono tenuti insieme da un impulso dinamico e irreprimibile: tanto nei gesti da cui vengono generati quanto nella configurazione di parole e immagini in cui i gesti si traducono. A volte, il testo diventa quasi un discorso, e altre volte la figura prende il sopravvento assorbendo in sé ogni possibile discorso (di nuovo, come se fosse un grido). C’è in questi casi una possibile affinità con il pathos al tempo stesso proclamato e contenuto di molti soggetti raffigurati da Francis Bacon. Indigeno… è un esempio della prima tendenza, e l’altrettanto straordinario Riding with Death (Cavalcare con la morte) (1988) – uno degli ultimi quadri dipinti da Basquiat (di cui parlerò in seguito) – è un esempio della seconda18. Nel primo caso, parole e immagini si avvicendano in un gioco, postduchampiano, per cui la forza compositiva ed espressiva di quello che si può effettivamente vedere, e toccare, non è inferiore a quella di quanto viene solo nominalmente suggerito all’immaginazione. Si noti anche, in Indigeno…, il contrasto tra il colore – prevalentemente nero, con un po’ di bianco, su uno sfondo liscio e uniforme color salmone, sicuramente degno di Andy Warhol, ma anche il rosso del collo e del contorno del viso e dei capelli – e la configurazione grafica del testo e dell’icona dell’esploratore-mercante bianco, in rapporto forse al modo in cui si parla di certi critici-curatori e mercanti d’arte come “scopritori” della terra incognita (e degli “indigeni”) del “nuovo talento”. Da un lato ci viene offerta l’immagine della solidità terrigena dell’“indigeno”, come quella di un Calibano, o spirito-della-foresta, sotto il peso del suo carico sproporzionato e incongruo – quasi evocasse a un tempo l’immagine “missionaria” della punizione per un insondabile peccato, o carenza dell’essere, e la caricatura di una di quelle illustrazioni, in era coloniale, della prestanza fisica dei portatori africani. D’altro canto, abbiamo anche il documento di una astrazione – analoga alla concettosità insita nelle parole: non veramente una presenza, allora, ma l’idea, e (come in Lewis Carroll) il racconto, di una presenza. Ma di nuovo, la freccia che va dall’occhio del duende a quello del mercante, passando attraverso il gomito sinistro del portatore, rappresenta anche lo sguardo “indigeno” che vede l’intruso soltanto come nome generico (buana) senza un corpo individuale, un “viso pallido” i cui occhi non vedono – sono infatti senza pupille – e la cui bocca non ha denti (quindi “non-umano”: Dio solo sa cosa possa mangiare). Il rapporto tra i due sguardi potrebbe essere così espresso: “Io vedo te e tu non vedi me, e tuttavia io non vedo che uno spettro”. Indigeno… è anche insolito perché è un’immagine tutta in primo piano: non solo senza spessore, ma le due figure sono tagliate all’altezza della vita, come fotografate da distanza ravvicinata, e come se si muovessero verso di noi, cosicché l’intera composizione ha qualcosa del sapore didattico dei cartelloni pubblicitari. Anche in questo possiamo vedere Basquiat che assorbe e trasforma la lezione della pop art, ma mentre Warhol (e Roy Lichtenstein) si appropriano di una data immagine – e così facendo la trasmettono e distillano, facendole esprimere molto meno e significare molto di più di quanto facesse in origine – Basquiat genera pseudo-manifesti da affiggere che sono come dichiarazioni personali, ma per interposta persona. “SAMO” è e non è “J.M.B.”, proprio come l’immagine di se stesso può essere definita il suo autoritratto solo in un senso molto speciale. Per certi versi, è in realtà l’opposto di un “autoritratto”: se un “vero” autoritratto rappresenta un confronto faccia a faccia con il narcisismo dello specchio, e quindi una sorta di sfoggio di introspezione (o del suo superamento: nel nostro tempo, si può pensare a Francesco Clemente, contemporaneo un po’ più vecchio e amico dell’artista), le icone di Basquiat che assomigliano a se stesso sono più come tracce di uno stereotipo, un segno che esprime più il passaggio di una presenza corporea che la sua permanenza, la sua fuggevole registrazione, nel contesto di una drammatica narrativa di transitorietà, contro il fondale e i muri cadenti della condizione euro-africana19. Così la questione diventa, letteralmente, quella della natura di tale corpo (esso stesso quasi un fantasma) tra due mondi: Jean-Michel Basquiat proiettava tutto “là fuori”, ma come traccia di una assenza, per così dire, in un gesto sempre ripetuto di autodifesa proprio attraverso la massima esposizione. Come se liberando veramente dal corpo la sua presenza nel mondo – un mondo ancora bianco, nel quale tuttavia egli era pericolosamente chiamato dal suo talento (o, di nuovo, dal suo duende) ad “alzarsi in piedi ed essere considerato” – egli potesse documentare artisticamente, in tal modo, attraverso la piatta proiezione della sua presenza su muri veri e succedanei, l’emblematicità della sua condizione personale, oltre che le spaccature irrisolte dell’epoca, e del luogo, in cui fu chiamato a compiere il suo tragico destino. Aveva il fascino irresistibile di un angelo nero – ammesso che si possa ancora immaginare che gli angeli abbiano un corpo (e un sesso, questione dibattuta all’infinito nel Medioevo) – ma la sua maledizione era anche quella di doversi aggrappare alla consistenza inafferrabile di un’ombra. Riding with Death In Riding with Death (Cavalcare con la Morte), 1988, il corpo-scheletro di Basquiat inforca silenziosamente lo scheletro di una montatura – canonico topos rivisitato della rappresentazione occidentale della morte. Il cavaliere è colui che amministra la giustizia, colui che rischiando costantemente la propria vita può disporre della vita e della morte degli altri — ed è quindi un “eroe” (ricordiamo le già citate iscrizioni di Eroica I). Ma qui sembra significare tanto la consapevolezza di una consumazione finale quanto quella di un’origine problematica mai dimenticata. Gli spiriti grandi e illuminati sono spesso tormentati e al tempo stesso arricchiti da un precoce presagio dell’imminenza della propria morte: nelle società arcaiche e tradizionali questa conoscenza veniva deliberatamente perseguita – e a volte efficacemente indotta – attraverso riti iniziatici, spesso raccapriccianti, di morte e rinascita. Ma in questo straordinario dipinto la “morte” esplorata da Basquiat – dopo le prove per diventare pittore attraverso la Discesa all’Inferno dei graffiti – potrebbe non essere solo quella dell’Artista quanto quella della stessa pittura “ufficiale”, che aveva trasformato anni prima il paladino delle strade di New York in un fantasma di se stesso, che magicamente si erge contro un fondo di argentea e luccicante astrattezza (stile Warhol). L’altezzosità del Cavaliere è anche il culmine della Vanitas, e l’immagine allo specchio della sua nemesi, ossia dell’estrema umiliazione della morte: “Deponi la tua vanità…” recita un famoso verso di Ezra Pound. Ma il cavaliere ridotto a scheletro è anche umiliato nella sua condizione fisica da vivo, nella sua presenza come corpo nel mondo: la sua immagine non è quella di una solida “identità” inequivocabile, ma un’apparizione piatta quasi trasparente la cui schematicità radiografica, ancora una volta, è come un diagramma infuso di dinamismo. Perché perfino nelle frequenti immagini anatomiche e negli elenchi di parole, lo specifico impegno performativo di Basquiat e la sofisticatezza dei suoi schemi grafici si combinano, come in questa opera, in una Gestalt dagli accenti “ultraterreni”20. Corpo rosso e ossa bianche; ma che cosa sono i contorni neri? È il segno che definisce lo scheletro, dentro e fuori. Lo scheletro, come in certi autoritratti di Julio Galán – giovane pittore messicano anch’egli vicino a Warhol e il cui destino non fu meno tormentato – trasporta ed è trasportato. Cavaliere e cavallo: cavallo bianco – scheletro di un cavallo, tranne per la coda, e la briglia sul collo – e poi il cavaliere con un occhio solo, il mostruoso gigante Polifemo, tornato in parte a godere della sua nobiltà: era, dopo tutto, uno dei Ciclopi e quindi, come figlio di Poseidone, un semidio. Qui ci guarda come da un piccolo schermo televisivo, definito da una linea dorata. Attraversa uno spazio obliquo. Quelle “x” negli occhi del cavallo indicano forse, come in certi fumetti, una sorta di sofferenza (se non la morte stessa). L’oro delinea anche il polso destro del cavaliere. Che cosa vede, che cosa non vede? Con un solo occhio non si può percepire la profondità, la tridimensionalità delle cose, dei corpi – proprio come i dipinti di Basquiat eludono qualsiasi rappresentazione illusionistica della profondità e sono in questo ancora simili a graffiti. Ma nel racconto omerico Polifemo, accecato al di là della piattezza della sua percezione monocola, può ancora sentire il volume e la consistenza dei corpi lanosi delle pecore, e questo lo condurrà fuori strada: è pastore e mangiatore di uomini, ma la cecità lo priva della sua preda, se non del suo gregge. Il corpo umano, ridotto alla sua percezione tattile, non è niente altro che un “corpo di animale”: “Nessuno” (come Ulisse dice di chiamarsi). Ma se Polifemo-Basquiat è accecato da “Nessuno” (outis), è perché la sua visione “nera” con un solo occhio aveva già fatto di lui un’entità piatta, obliqua, “in-credibile” nello spazio virtuale della vita e dell’arte americana in cui viaggiava. Al di là dell’evocazione mitologica, Riding with Death ripercorre il viaggio del cavaliere solitario, dal popolare Lone Ranger, fino a Der Blaue Reiter (1903) di Kandinskij, strettamente correlato alla rivoluzione atonale di Shönberg, ma anche al ritorno del malinconico crociato di Dürer, perseguitato dalla peste (nera) (così come il laconico giocatore di scacchi nella versione propostane da Ingmar Bergman), ma soprattutto al Cavaliere polacco di Rembrandt, che è a Manhattan, nella Frick Collection21. Malgrado tutti questi “precedenti” (di cui Basquiat era certamente consapevole) il topos del Rider with Death non è più, per Basquiat, una visione miticofantastica (e storica) ma l’emblema della condizione estrema della sua presenza corporea: il limite della sua rappresentabilità, nonché il simbolo di un tempo – un tempo personale – in cui egli percepiva se stesso come impossibile, e perfino in-visibile (quindi nessun paesaggio, e nessuna parola). “Nessuno” acceca Polifemo – il suo grande occhio è spalancato in modo da vedere il vuoto che lo circonda, e che lo attende. Ed è proprio questa ombra ora diventata rossa su uno scheletrico cavallo bianco, che attraversa lo spazio libero in questo dipinto tardivo ma di capitale importanza, che è come il testamento di Basquiat, una summa dell’eredità anche fisica di un artista se ne fu mai dipinta una. Il parallelismo più impressionante che viene in mente è quello con La punizione di Marsia, “testamento” del Tiziano conservato a Praga22. Sangue e ossa: è come se Basquiat non avesse mai avuto particolare interesse per la carne; forse – essendo figlio di un medico – quei due elementi chiave rappresentavano per lui la struttura e il flusso dell’essere, la permanenza (relativa) e il movimento vitale di tutti noi, creature vertebrate. La morte cavalca invisibile con il cavaliere e tuttavia la morte è anche visibile perché realmente trasporta lo spettrale cavaliere, è in effetti il suo veicolo scheletrico, garanzia della sua permanenza. Ed è anche, forse, come se proprio al termine del suo meteorico passaggio tra noi, Jean-Michel Basquiat avesse voluto dirci che durante tutto il suo viaggio tormentato ed entusiasmante, egli fu sospinto non solo contro i limiti, ma anche dai limiti stessi dell’espressione artistica occidentale, e che a verificare quei limiti, e a pagarne il terribile prezzo, era stata la sua vocazione. Ma non era certo ignaro del modo in cui, in tutte le tradizioni, l’esperienza della morte-in-vita, e il viaggio attraverso la morte, può essere lo strumento, e il requisito, per la Risurrezione, o per l’affermazione di una vita dello spirito di cui il sangue (come sostentamento) e le ossa (come reliquia) sono il necessario sostegno e il simbolo. Questa interpretazione sembrerebbe confermata dall’“autoritratto” con un solo occhio dello stesso artistacavaliere: da una parte una sorta di gigante grottesco, cieco e sperduto, facilmente ingannato nella sua innocenza primitiva dall’astuzia di tutti gli abili manipolatori di questo mondo, dall’altra un cavaliere ormai senza-armatura, nemmeno quella della carne, sua e del suo cavallo, che si muove impercettibilmente attraverso (e verso) un’altra dimensione, guidato solo dal suo terzo occhio, l’occhio di una saggezza impossibile, forse da acquisire – a un prezzo terribile – solo in extremis. Jean-Michel Basquiat ha dipinto le sue immagini in gran parte “a mano”— anche quelle che sono ripetute o riprodotte in fotocopia, e che ha incollato su molti suoi dipinti. Come Robert Rauschenberg, ci ha proposto “immagini trovate” – collages, combines, alcuni con l’aggiunta di oggetti: per entrambi questi artisti americani qualunque cosa potesse ancora essere “rappresentata” già lo era stata – quello che rimaneva era una miriade di possibili associazioni e combinazioni, messe in moto da nuove intenzioni. Così si costruisce una sorta di storia fluida, istantanea – storie nel presente – la cui destinazione è costituzionalmente problematica, perché non si inscrive in alcun rapporto organico tra gli elementi della storia e della “pittura”, o dell’oggetto d’arte. Ma oggi, una riflessione così composita del presente è già stata a sua volta, come sappiamo, meccanicamente riprodotta: la macchina ormai, ossia il mezzo, non segue ma precede la mano. In Basquiat, proprio come con i “graffitisti” – suoi fratelli di minor talento e valore – è come se ci fosse stato un ritorno al primato della mano (come in Gorky, de Kooning, Kline e altri), ma qui è radicato, una volta di più, in un rischioso coinvolgimento del corpo: come se una manifestazione di quel (cosiddetto) “espressionismo” che un tempo aveva virato verso l’astrazione, avesse, dopo la pop art, riscoperto non soltanto la figura mediata (dalla tecnologia) – ora disorganicamente giustapposta, frammentata, schematizzata, appiattita e alienata da ogni riferimento allo spazio reale (di nuovo, come in Rauschenberg) – ma anche portatrice di un gesto emblematico, e maschera del suo Essere intenzionale. È come se qui il simbolo visivo recuperasse una sorta di valore linguistico, forse come la traccia di una lingua segreta trasmessa senza rumore ai quattro venti. Vengono in mente quei dipinti murali che circondano lo spazio abitato dalle mummie egizie, o i sarcofaghi etruschi, che ricreavano l’illusione di una vita nascosta negli inferi, che nessun essere vivente doveva vedere. È per camuffare quello che si può vedere alla luce del giorno che le superfici sono ricoperte di simboli, riagganciandosi a una realtà virtuale che non esiste se non attraverso il gesto che le dà vita. Però Basquiat resta un muralista, anche quando dipinge e incolla sulla tela, sul legno o su materiali di recupero, e questo significa che la sua pittura – nella magia stessa del suo farsi (la sua fattura) – ha una vocazione fondamentalmente pubblica. Dipinge come “in terza persona”, anche e soprattutto quando, come spesso avviene, egli espone – o forse si dovrebbe dire, ancora una volta, mette in gioco – un’immagine, e una presentazione, del proprio essere. Si tratta in effetti di un essere artistico che è tanto inequivocabilmente personale quanto ostentatamente distaccato – audacemente, seppure vulnerabilmente, catapultato nell’arena delle immagini, e delle parole, di cui è ricoperta la nostra realtà mediata dalla tecnologia. E così la sua espressione ha una dimensione irriducibilmente romantica, anche quando si appropria di frammenti verbali e di immagini per trasformare la sua idiosincrasia in una sorta di declamazione visiva e corale. La storia del modernismo è sempre intrinsecamente, se non esternamente, collegata a quella del primitivismo. Talvolta è stata un’alleanza controversa: mentre in Russia Malevicˇ postulò una continuità tra la metafisica delle icone liturgiche e la postmetafisica delle sue icone suprematiste, in Europa occidentale Alberto Savinio poteva denigrare con veemenza l’interesse tardoromantico per i “primitivi” italiani medievali23. Ma ora siamo all’estremità opposta della curva modernista, e quello che si trova, in Jean-Michel Basquiat, non è primitivismo, in realtà, ma una sorta di decostruttivismo visuale, ossia un “neo-primitivo” dotato di tutta la memoria intrinseca, e l’esperienza visiva di tre millenni di arte occidentale erudita e colta. Decostruzione significa qui anche “brachigrafia”: quello che non può essere scritto, o raffigurato, in tutti i suoi dettagli e le sue sfumature – perché non c’è più alcun discorso storico-culturale generalmente accettabile, o credibile, a sostenerlo – può solo essere indicato da gesti pittorici quasi rituali che alludono alla densità enigmatica dei simboli. Non voglio dire che le immagini di Basquiat siano “simboliste”, ma che i loro elementi costitutivi sono intrinsecamente contraddittori – come lo sono i simboli tradizionali – per il modo in cui le une e gli altri possono dire e non dire quello che sembrano dire. Compongono evidenze antagonistiche ricavandole dall’esperienza come dalle frammentarie raccolte di tesori della cultura occidentale, che sono qui – quasi casualmente, ma è proprio quel caso a governare oggi il nostro perduto senso di un centro – compattate, o anche fatte esplodere, nel divampare di fuochi d’artificio esistenziali. La danza della vita e la danza della morte, come abbiamo visto, e tutti gli stati intermedi: anatomici, fisiologici, culturali e spirituali. In questa prospettiva – e malgrado il fatto che potrebbe davvero essere l’ultimo grande esponente della pittura modernista in America – la questione della cosiddetta “arte emarginata”, e della marginalità contrapposta alla centralità, non può essere del tutto evitata quando si evoca Jean-Michel Basquiat: considerarlo un “disadattato” o solo un altro protagonista affermato dell’arte americana degli anni ottanta sarebbe grossolanamente fuorviante. Pensando alla sua posizione storica e al suo ruolo nella nostra cultura, sono attratto ancora una volta verso Savinio e il modo in cui egli vide che Gauguin era il vero punto di svolta per la nascita del modernismo, perché esaminando se stesso in ambienti non-urbani ed esotici (Bretagna, Tahiti), cercò di evocare quella che Savinio chiamò lo “spettro”, o “l’essenza vera, spirituale e sostanziale di ogni aspetto” nella sua “potenzialità espressiva”, rivelando così “quel che di mostruosamente doloroso [l’enfasi è mia], quell’angosciosa tristezza che […] è l’indizio più palese di questa fatalità medesima, nella quale si potrebbe discernere la sua necessità prettamente antropologica”24. Il valore dell’analisi di Savinio – condizionata com’è dall’epoca in cui fu formulata – sta nel modo in cui ricollega considerazioni sia formali sia ideali, come è essenziale che si faccia anche quando si considera il contributo assolutamente unico fornito da JeanMichel Basquiat all’arte mondiale di oggi. Se si può dire che il primitivismo sia stato, almeno in qualche modo, un primo tentativo di raggiungere, attraverso l’ispirazione di manufatti arcaici, una radicale semplificazione delle forme e un’elaborazione parallela di contenuti “ideali”, o “concettuali”, ben oltre qualsiasi preoccupazione per questioni di raffigurazione, il “neo-primitivismo” di Basquiat prende tutto questo come acquisito, ma può anche simultaneamente “respingerlo”, quasi per istinto, e passare oltre, come se ci dicesse: “Guardate, io stesso sono un primitivo, più di quanto avreste mai potuto sognare di essere voi – ‘un ragazzo di New York’, un primitivo urbano, proprio come voi siete tutti ‘primitivisti’ urbani – per cui la lavagna che desideravate cancellare rivolgendovi alla sauvagerie arcaica non può essere una mia preoccupazione (in parte grazie a voi); il mio mondo, e quindi la mia arte, è, in partenza, trans-realistica e postmetafisica, in essa i gesti – quelli artistici, in primo luogo – hanno significato solo nell’immediatezza del loro contesto. Ma questa immediatezza è fatta di contenuti e di forme già elaborate e mediate da vari stadi di ‘riproduzione’ – compresi quelli di altri artisti, come Rauschenberg, Warhol, Cy Twombly o anche Francesco Clemente – così che hanno la qualità di un’astrazione di secondo o terzo grado, proprio come in tutta la vera arte modernista, ma nel mio caso si tratta di un’astrazione dalle modalità popolari di narrazione visiva/verbale, che può innalzarle a un distillato ancora superiore di intensità personale-universale. Questo sono io, ‘il primitivo’, con la mia corona di fama istantanea, come quella degli eroi dello sport e della musica che hanno anch’essi radici urbane ed etniche ‘marginali’. Ma anche voi siete dei selvaggi, con i vostri secoli e millenni di storia dell’arte e discorso sull’arte, la vostra rappresentazione classica e le vostre avanguardie primitiviste, la vostra riproduzione meccanica e i vostri sfruttamenti visivi. So giocare al vostro gioco – forse anche meglio di voi, a questo punto – anche se mi costa la vita; ma voi sapete davvero giocare al mio, e siete disposti, così facendo, a rischiare la vostra vita?”. 1 Desidero ringraziare in modo speciale Olivier Berggruen per avermi gentilmente invitato a scrivere questo saggio, Gini Alhadeff per il suo inestimabile aiuto nel tradurne alcuni passaggi originariamente scritti in italiano e nel curare la versione finale inglese, e Mario Prosperi per la sua revisione di questa traduzione (cui ho apportato leggere modifiche). 2 Giuseppe Montesano, Sotto il segno di Anadioménon, prefazione ad Alberto Savinio, La Nascita di Venere. Scritti sull’Arte, Milano 2007, pp. 9-28, pp. 11-13. “Alberto Savinio” era lo pseudonimo adottato dal fratello minore di Giorgio de Chirico (Andrea) che, come Basquiat in alcuni dei suoi primi lavori, si riferiva talvolta a se stesso con altri nomi (per esempio “Signor Dido” e “Nivasio Dolcemare”). 3 Ma è anche come se i due artisti avessero preso su di sé – ai due estremi di un secolo di stragi e orrori in tutto il mondo – una accettazione artistica della loro condizione senza scampo di “vittime del loro tempo”. La prima opera importante di Savinio, dopo aver abbandonato i suoi primi esperimenti musicali (sarebbe tornato alla composizione più avanti nella vita), fu significativamente denominata Hermaphrodito, simbolo alchemico di una – qui e ora – dis-armonica conjunctio oppositorum (questo è il modernismo, dopo tutto). Vale la pena di citare – avendo ancora in mente Jean-Michel Basquiat – la descrizione che fa Giuseppe Montesano di questo “romanzo” protosurrealista: “Gli anni di guerra sono torbidi e frenetici, Hermaphrodito è un bric-à-brac dove sono messi a cuocere pezzi interi di cultura fin-de-siècle […] in un miscuglio di lingue che cozzano tra loro senza fondersi, francese, italiano, dialetti, greco, onomatopee, turco, inglese, ebraico: e poi, a tratti, misteriose e sussurranti accensioni liriche in cui si intravede una nuova mitologia, costruita con i frammenti spaiati dell’antico e gli oggetti ancora indecifrabili del presente” (ivi, p. 14). Basquiat raggiunge la sua precoce, e sempre problematica, maturità alla fine dell’atroce Guerra del Vietnam, con il suo milione di morti, indigeni e innominati. 4 Ivi, pp. 12-13. Sebbene sia irrilevante per il mio paragone, si dà il caso che Annina Nosei, lungimirante gallerista che tra i primi promosse l’arte di Basquiat a New York, fosse certamente a conoscenza del lavoro di Alberto Savinio, di cui potrebbe aver parlato al giovane americano. Qualche anno dopo, Francesco Clemente espose al Museum of Modern Art di New York una serie di acquarelli, ispirati alla Partenza dell’Argonauta di Savinio, che Basquiat, ch’era spesso a casa sua o nel suo studio, vide sicuramente. 5 Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende (Buenos Aires, ottobre 1933), tr. Enrico di Pastena, Milano, 2007; pp. 12-13. [da Federico García Lorca, Juego y teoria del duende, in Conferencias, Madrid 1984, vol. II, pp. 89-109.] 6 Nelle parole di Goethe su Paganini, citate da García Lorca, un “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega” (ivi, p. 13). 7 “Angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme. […] Il duende, al contrario, bisogna risvegliarlo nelle più recondite stanze del sangue. E bisogna respingere l’angelo e sferrare un calcio alla musa […] La vera lotta è con il duende” (ivi, pp. 15-16). [“Ángel y musa vienen de fuera; el ángel da luces y la musa da formas […] En cambio, al duende hay que despertarlo en las últimas habitaciones de la sangre. Y rechazar al ángel y dar un puntapié a la musa […] La verdadera lucha es con el duende”]. 8 Basquiat, come è risaputo, lavorò e “visse” anche, per un lungo periodo iniziale della sua carriera, nello scantinato della Galleria di Annina Nosei, al numero 100 di Prince Street, Soho, New York. Ma non rinunciò mai completamente al suo impulso graffitista: lo ricordo disegnare furtivamente uno dei suoi geroglifici-firma, appoggiato con la schiena a un muro bianco del Whitney Museum of Art, a New York, mentre faceva finta di socializzare al party di inaugurazione della retrospettiva di Julian Schnabel, l’artista allora di grido. Circolò anche la voce che la sua rottura definitiva con la sua seconda e importante galleria fosse stata precipitata dal suo arrivo minaccioso, un giorno, con in mano un grosso pennello e una latta aperta di pece nera: sui muri c’erano i suoi propri dipinti (forse in parte già venduti) e viene in mente la famosa deturpazione (seppur reversibile) di Guernica di Picasso, qualche anno prima, al Museum of Modern Art di New York, per mano dell’allora artista Tony Shafrazi, che è oggi uno dei maggiori promotori dell’“eredità” artistica (e commerciale) di Basquiat. 9 È stato Jasper Johns, alla fine, ad adottare concettualmente il nuovo rapporto del pittore contemporaneo nel suo studio con lo spazio che lo circonda, scambiando provocatoriamente la tela con il muro, e interrogando così, senza mai oscurarla, la distinzione tra i due modi di rappresentare. 10 So da Annina Nosei che il dittico è in realtà una sorta di diario – quasi evocasse un frammento del famoso diario di viaggio di Kerouac (l’artista si era fatto fotografare, una volta, con in mano una copia logora di Sulla strada) – di un viaggio che Basquiat fece veramente con un amico afro-americano. Era all’epoca, e forse è ancora, abbastanza rischioso per due giovani neri del nord-est degli Stati Uniti, con le loro trecce di capelli crespi, viaggiare in quella parte del paese (probabilmente con droga in macchina), senza una “guida”, e senza avere una precedente esperienza personale della sensibilità razziale e dei tabù locali. In questa prospettiva, il dittico può considerarsi anche dotato di qualità apotropaiche (seppure a posteriori), e può essere correlato a un “oggetto” anch’esso straordinario: To Repel Ghosts [Fantasmi da scacciare], 1986 (presente nella mostra), che attesta la fondamentale unità dell’ispirazione di Basquiat per tutta la sua carriera. 11 Qualche tempo dopo, durante una visita alla mia casa, e alla mia biblioteca, Jean-Michel Basquiat rimase estasiato dal catalogo di una grande collezione privata di calligrafia cinese classica (che naturalmente subito gli donai). 12 Le piume delle ali dell’uccello puntano invariabilmente in basso, come se fossero “bagnate”. Una nota canzone tradizionale mariachi messicani – con connotazioni umoristiche di autocommiserazione e che Basquiat probabilmente conosceva – si intitola El Zopilote Mojado (“L’avvoltoio fradicio”). Una delle principali rappresentazioni di questa figura importantissima nell’opera di Basquiat di questo periodo appare in primo piano, in forma antropomorfa, in Untitled (Fallen Angel) [Senza titolo (Angelo caduto)], 1981. 13 Si veda la fotografia (scattata da Steve Torton) di Jean-Michel Basquiat e Rammellzee ritratti insieme in piedi durante un viaggio a Los Angeles, nel 1983. Jean-Michel Basquiat, Whitney Museum of American Art, New York 1993, p. 242. 14 Immagini di duelli artistici hanno continuato a riaffiorare nell’iconografia di Basquiat, dentro e fuori dal suo lavoro: si veda per esempio la famosa fotografia di lui e Andy Warhol in tenuta da pugili professionisti, all’epoca della loro collaborazione, riprodotta sul manifesto per la mostra di Warhol e Basquiat (curata da Tony Shafrazy e Bruno Bischofberger), Paintings, del 1985, in Jean-Michel Basquiat, Tony Shafrazy Gallery, New York, 1999, p. 299. 15 Mi viene in mente, per associazione spontanea, quello immaginato da Elizabeth Bishop, che, ancora libero, progettava di scrivere un giorno le sue opere sul muro di una prigione volontaria, “forse […] in una serie [che…] lascerò al mio successore”. Elizabeth Bishop, In Prison, Partisan Review, 1938 [In prigione, in Il mare e la sua sponda, Milano 2006, pp. 25-42]. 16 Octavio Paz, citato da Milan Kundera, Il Sipario, Milano 2005, p. 121. 17 “Oro” compare anche in un dipinto (Untitled [Senza titolo], 1982), riprodotto nel catalogo di un’asta di Sotheby’s del novembre 2007, e strettamente correlato, nella struttura, a Untitled (Elmar). Qui è sormontato da una corona rossa, collegata da una freccia a “Half Smokes” [specie di hot dog] e circondato di improperi (“shit”, “Mother Fuckers”) e “Link Sausages” [Salamelle]. 18 Ma si veda come l’iconografia di Riding with Death si riferisca alle parole iscritte su Eroica I, tela quasi “svuotata di figure” e abbastanza in stile Twombly, anch’essa del 1988, dove quella che sembra la parola “hibrid” è per metà coperta dal colore e “man dies” [uomo muore] è ripetuto quattro volte sotto un geroglifico antropomorfo dall’aspetto arcaico accanto, penso significativamente, alla citazione di determinate parti del corpo (pene/inguine), uno strumento musicale (sassofono baritono) “blues”, “power, gas” eccetera. 19 È come se Jean-Michel Basquiat avesse incarnato personalmente – in una sorta di incarnazione al tempo stesso occidentale e africana, ossia transatlantica – gli obiettivi fondamentali del grande progetto Menil di archiviazione e storia dell’arte intitolato The Image of the Black in Western Art [L’immagine del nero nell’arte occidentale]. 20 Potrebbe venire in mente Dubuffet, ma nel caso del francese è come se il materiale e gli elementi grafici fossero esogeni e non intrinsecamente fusi come lo sono in Basquiat. In Twombly un impulso principalmente grafico può talvolta congelarsi in “esplosioni” gestuali (si veda la serie Commodus, già nei primi anni sessanta, e più vicini a noi, Lepanto, 2003, e Peonies del 2007), in cui il segno diventa puro colore (ed emozione). Per Basquiat, è come se i colori si manifestassero come parte di un codice simbolico (virtuale) che esprime empatia sotto forma di discorso visivo – ed è per questo che dobbiamo vedere anche in Rauschenberg uno dei suoi principali punti di partenza. 21 Ho già scritto sul possibile rapporto di Riding with Death con il Cavaliere polacco e sulla possibilità meno probabile ma intrigante che Basquiat abbia anche visto un disegno di quest’ultimo “in guisa di monumento” disegnato da Alberto Giacometti. Si veda Francesco Pellizzi, The Gathering of the Birds, in Mito y Magia en America: Los Ochenta, catalogo della mostra, Museo de Arte Contemporaneo de Monterrey, Monterrey 1991, pp. 53-89 (nella traduzione spagnola) e pp. 134-155 (in quella inglese), e Jean-Michel Basquiat: The Writing on the Wall, in Jean-Michel Basquiat, Tony Shafrazi Gallery, New York 1999, pp. 312317. 22 Per avere il senso di questa estrema modalità di ispirazione, potrebbe essere opportuno chiamare in causa, un’ultima volta, la conferenza di García Lorca sul duende: “[…] il duende non arriva se non vede una possibilità di morte […] ama il margine della ferita e si avvicina ai luoghi dove le forme si fondono in un anelito superiore alle loro espressioni visibili” (op. cit., pp. 25, 27). 23 “Bisogna guardarsi dai primitivi. Gli indagatori dell’arte, le persone di buon fiuto, pretendono di rintracciare nelle opere dei primitivi delle qualità eccezionali. […] Mancando loro la maestria, essi divenivano degli stilisti […]” (ivi, p. 37). Con una posizione forse contraddittoria (la contraddizione è un privilegio del genio), Savinio ammirava molto quello che considerava “atavismo semitico” nell’interpretazione rivelatrice che Rembrandt offriva del misticismo letterario e storico della Bibbia, benché egli li vedesse, con Spinoza, come “esemplari in ritardo del patriarcalismo ancestrale” (ivi, p. 36). 24 Alberto Savinio, “Anadiomenon”: Principi di valutazione dell’arte contemporanea (maggio 1919), in A. Savinio, La Nascita di Venere: Scritti sull’arte, Milano, 2007, pp. 45-65; pp. 59-61.