La cultura del Banco

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La cultura del Banco
 La cultura del Banco
di Salvatore Butera
CULTURA E SOCIETA’
Si ripercorrono alcune vicende che hanno caratterizzato la storia del Banco di Sicilia in alcuni
decenni del Novecento, ricostruendo l’impegno della Banca per la scoperta e la valorizzazione
del patrimonio artistico siciliano.
Nel 1923, Ignazio Mormino di recente nominato alla guida del Banco di Sicilia (allora le
due cariche di presidente e direttore generale erano riunite in unica persona: per una più moderna
disciplina più aderente allo schema civilistico bisognerà attendere lo statuto del 1951) fece
approvare dal Consiglio di amministrazione una triplice delibera: la creazione dell’Ufficio Studi
che risulterà in tal modo più o meno coeva con quelle di altri grandi istituti del Nord Italia
(Credit e Comit); la raccolta sistematica a fini di studio ma anche di suggerimenti pratici agli
operatori economici dei dati del commercio estero della Sicilia, resa possibile dalla insularità
della Regione. Quella raccolta sarà proseguita e pubblicata dal Servizio Studi del Banco e
conclusa con un volume su cinquanta anni di commercio estero della Sicilia edito nel 1976. La
terza decisione riguardava la creazione di una Fondazione per l’incremento culturale, economico
e turistico della Sicilia.
Era una grande intuizione in larga misura anticipatrice di quella che ispirò quasi settanta
anni dopo la legge 218 del ’90 detta “Amato-Carli”, per la privatizzazione delle banche
pubbliche. Attraverso una apposito strumento operativo, si trattava di restituire almeno in certa
misura al territorio (e si pensi alla Sicilia di quegli anni) il risultato economico di una banca
senza azionisti, attraverso iniziative di moderna ispirazione nei settori dell’agricoltura, del
turismo, della cultura che non rimasero lettera morta ma che furono attivati lungo tutti gli anni,
peraltro molto difficili, tra le due guerre. Guerre che peraltro (la seconda soprattutto) segnarono
la condanna definitiva del Mezzogiorno e della Sicilia, tagliati fuori dai processi di sviluppo del
Paese.
Dalla lungimiranza di Mormino viene fuori un Banco di Sicilia tutt’altro che chiuso in un
bozzolo tutto siciliano di arretratezza, quanto piuttosto permeato di modernità e ricco di
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prospettive. Sarà lo stesso Mormino che, nel triennio 1924–1926, prenderà in locazione prima e
acquisterà poi dagli eredi di Francesco Zito Scalici la villa di Via Libertà (Villa Zito) che tuttora
contiene e mette in mostra la quadreria del Banco di Sicilia di recente arricchita da quella di
Sicilcassa, confluita per vicende che qui sarebbe troppo lungo rievocare in quella dell’istituto che
veniva definito nei lunghi anni di storia comune “concorrente”.
Qua è necessario fare un salto temporale di trenta anni, fino alla metà degli anni ’50,
quando Carlo Bazan, stretto collaboratore di Mormino (esiste alla Fondazione Sicilia una
fotografia dello stesso Mormino con lunga dedica autografa a Bazan, che scrive testualmente
“amato come figlio”), divenuto nel 1951 presidente del Banco, rilancia su nuove basi la
Fondazione intestandola proprio a Ignazio Mormino e iniziando a operare in vari campi di
intervento, in primo luogo l’archeologia.
Ne parleremo più avanti, ma qui giova ricordare come né nel primo caso (anni ’20), né
nel secondo (anni ’50), la Fondazione venne costituita come tale, dotata cioè di personalità
giuridica distinta dal Banco, cosa che purtroppo si ritorcerà nella posizione processuale di Bazan
nel doloroso procedimento penale istruito contro di lui negli anni ’60. Ma per tornare all’ufficio
studi esso aveva cominciato ad operare pubblicando un primo volume di raccolta dati aperto da
una prefazione a firma di Giovanni De Francisci Gerbino titolare della cattedra di economia
politica della facoltà giuridica palermitana, una tradizione questa della integrazione con
esponenti della scienza economica che durerà a lungo sia pure in varie forme. A quel volume
altri ne seguirono con crescente numero di pagine. Quello relativo al 1928 è in possesso di chi
scrive e consta di oltre mille pagine oltre alla appendice statistica. Ma la storia degli studi
economici al Banco merita una ben più ampia trattazione.
Veniamo ora alle vocazioni culturali del Banco che per la verità non possono definirsi
originali. Tutte le banche italiane hanno acquisito nel tempo ingenti patrimoni artistici. Basta per
tutte fare i nomi della Banca Commerciale Italiana, della collezione del Banco di Napoli, del
Monte dei Paschi di Siena. Quello che qui in Sicilia fu particolare fu l’attività di vero e proprio
mecenatismo svolta dal Banco nei confronti della scuola pittorica siciliana fiorita alla fine
dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento. Una scuola di eccellenza, certo in parte
debitrice della napoletana Scuola di Posillipo e tuttavia ricca di personalità, di soggetti e
tematiche del tutto originali relativi al meraviglioso paesaggio siciliano ma anche a figure e
figurine che nel frattempo il verismo in letteratura metteva in evidenza. I nomi di Francesco
Lojacono, Antonino Leto, Michele Cortegiani, Michele Catti, Ettore De Maria Bergler, detti così
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dicono poco ma ammirati nelle loro tele di grandi o di piccole dimensioni appunto a Villa Zito a
Palermo, strappano espressioni di meraviglia e di ammirazione per la loro “grande bellezza”.
Il Banco e in misura minore la Cassa di Risparmio V. E. acquistarono in quantità questi
dipinti in una prima fase destinati ad abbellire uffici e ambienti di lavoro, naturalmente di alto
rango così come avveniva nelle case private dell’alta borghesia cittadina. Naturalmente non
siamo in grado di ricostruire i processi di acquisizione di questi capolavori, mentre per quanto
riguarda il Novecento, il secondo dopoguerra e la fase finale della vita del Banco qualche
informazione si può avere. Esisteva una ristrettissima commissione preposta agli acquisti
integrata da esperti esterni (fra tutti ricordo l’illustre prof. Ubaldo Mirabelli, purtroppo
scomparso) e ad essa va attribuita la responsabilità (o il merito) di aver acquistato ad esempio il
grande dipinto di Mario Schifano, alcune opere di Renato Guttuso, alcune di Fausto Pirandello.
Quanto a due altre collezioni, quella numismatica e quella filatelica, esse devono esser
fatte risalire alle passioni private ma anche al mecenatismo di alti dirigenti del Banco: la
numismatica al dottor Roberto Volpes direttore centrale negli anni Cinquanta e nei primi
Sessanta, molto vicino a Bazan nella sua meritoria attività culturale (lo vedremo a proposito del
rapporto con Vincenzo Tusa); la filatelica allo steso Bazan uno dei maggiori collezionisti italiani
che lavorava però non solo alla propria collezione ma anche a quella del Banco di Sicilia, poi
amorosamente curata fino alla fine dal dottor Nino Aquila, una straordinaria figura di medico
radiologo ma anche di collezionista filatelico noto in tutto il mondo che assicurò al Banco (e
sono in mostra a Palazzo Branciforte) i francobolli rarissimi del passaggio in Sicilia fra i Borboni
e Garibaldi nel 1860.
Ma l’archeologia era stato il campo più arato dalla Fondazione poi Mormino fin
dall’inizio. I primi scavi archeologici finanziati risalgono al 1929 sotto la guida di Pirro Marconi,
figura leggendaria di protagonista dell’archeologia, precisamente a Himera. Ma è negli anni ’50
che la rinnovata Fondazione intestata a Mormino e guidata da suo figlio Vincenzo opera più
decisamente in quel settore, dapprima con l’acquisto della importante collezione privata Politi
(vedi G.Volpe nel volume Palazzo Branciforte, Sellerio ed. 2012) e poi con il finanziamento di
campagne di scavo fra il ’58 e il ’62 a Solunto, Terravecchia di Cuti e di nuovo a Himera. E’
evidente che un giovane archeologo militante come era allora Vincenzo Tusa non poteva non
essere a conoscenza di questa imponente attività. Ed infatti egli stesso lo conferma nella sua
autobiografia, Selinunte nella mia vita (La Zisa editrice 1990). Ma la narrazione è tutta godibile e
vale la pena di ripercorrerla sia pur brevemente,anche per chi come me ha avuto la ventura di
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ascoltarla dalla viva voce dell’autore. Tusa abitava allora in una piccola casa a ridosso della
necropoli selinuntina, un luogo magico che divenne presto meta di tutta la intellettualità non solo
italiana ma europea. Un giorno Tusa si accorse che alle prime luci dell’alba quando anch’egli si
levava alcune figure di operai e pescatori di Marinella, soprattutto nelle giornate in cui il mare
non prometteva bene, si aggiravano apparentemente senza scopo nell’area archeologica e che ad
un certo punto furtivamente iniziavano a scavare dove in quel momento non c’era uno scavo
iniziato. In pratica questi locali, che dovevano “fare la giornata” per mantenere stentatamente le
famiglie, avevano un fiuto del tutto particolare per trovare i luoghi buoni della necropoli dove
era possibile trovare materiale interessante. Tusa dopo averli spiati si avvicinò e parlò loro con
franchezza. Non negarono, anzi confermarono di scavare clandestinamente nonostante che Tusa
stesso li avesse ammoniti sui divieti relativi. Ma si trincerarono, come c’era da aspettarsi, dietro
la necessità di un tozzo di pane per loro e le loro famiglie. Tusa capì al volo la situazione:da solo
non avrebbe potuto fare niente ma la fama di Bazan gli era giunta. Si precipitò a Palermo e venne
subito ricevuto. Bazan lo ascoltò, comprese e, coadiuvato da Roberto Volpes e da Vincenzo
Mormino, stanziò subito una prima somma per assumere e compensare quella trentina di persone
esperti scavatori che non avrebbero più lavorato in proprio ma avrebbero lavorato per lo Stato
retribuiti dal privato Banco di Sicilia. Quella campagna di scavi durò quattro anni e mise in luce
5000 sepolture contenenti circa ventimila pezzi, di cui un quarto, secondo la legge Bottai del ’39,
toccò al Banco di Sicilia. Questi oltre 4000 pezzi sono oggi esposti a piano terra nella
cavallerizza di Palazzo Branciforte, sistemata in modo magistrale da Gae Aulenti, fra il 2008 e il
2012.
Imponenti sono anche la collezione di grafica, stampe, incisioni e antiche carte
geografiche oggi esposte a Villa Zito in appendice alla quadreria. Meravigliose infine le
maioliche siciliane e non siciliane, in splendide condizioni di conservazione, anch’esse ora a
Palazzo Branciforte.
In conclusione un patrimonio d’arte e di cultura che la Fondazione Sicilia ha saputo e sa
conservare e valorizzare al meglio, arricchito fra l’altro da una biblioteca di oltre 70.000 volumi.
Certo forse altre banche hanno saputo fare meglio e di più, ma nella lontana e isolata Sicilia era
difficile fare di meglio.
Vorrei concludere con un ricordo personale: a metà degli anni ’80 in banca venne
ravvisata l’esigenza di cambiare il look, la grafica, i simboli del Banco. Fu chiamata una
primaria società milanese specializzata. Seguii personalmente la vicenda che rientrava fra le mie
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competenze di dirigente centrale. Questi signori vennero, parlarono, incontrarono e visitarono fra
le altre cose Villa Zito che era allora ben lontana dagli splendori odierni. Il risultato fu il logo che
forse ancora alcuni ricordano o possono andare a ripescare in qualche vecchio estratto conto: un
BDS disegnato i n modo che la B e la S traccino la linea di un’anforetta. Era stato quel museo,
quella parte della storia che aveva colpito di più la fantasia di quei disegnatori.
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