Napoli e S. Gennaro

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Napoli e S. Gennaro
Napoli e S. Gennaro
La particolare morfologia, le complesse vicende geologiche, lo straordinario, multiforme aspetto storico-artistico, fanno di Napoli e dei suoi dintorni un luogo estremamente stimolante sia per approfondimenti di carattere culturale che per esperienze puramente emozionali.
I numerosi viaggiatori del “Grand Tour”, e non solo loro, ne sono testimoni.
Nel momento in cui abbiamo deciso di intraprendere il nostro viaggio, non è stato facile privilegiare un
percorso piuttosto che un altro.
Ci hanno convinti, alla fine, il desiderio di inserire nel nostro itinerario il “Pio Monte della Misericordia”,
monumento del centro storico adottato dalla nostra scuola, e la curiosità di comprendere, su basi scientifiche, la ricca fenomenologia tipica di Napoli che colloca il “fuoco” del Vesuvio in un intreccio fittissimo
di relazioni con l’ambito scientifico, con l’esperienza religiosa e con la produzione artistica della città.
Il nostro viaggio si è, pertanto, svolto sia nello spazio fisico compreso tra il Vesuvio, la nostra scuola
ed il centro storico, sia nello spazio della memoria in cui si concentrano ricordi, racconti, leggende, miti,
riti e superstizioni di Napoli.
Sul piano cognitivo la chiave di lettura è stata duplice: nostro intento è stato, infatti, l’osservazione
rigorosa di luoghi e fatti, di una serie di documenti, quali testimonianze, immagini antiche, vedute di
Napoli, sia dal punto di vista scientifico che storico-artistico.
Il nostro itinerario, a parte la visita al Vesuvio ed al Santuario della Madonna dell’Arco, dove abbiamo
cercato ex-voto che testimoniassero l’eruzione del 1631, è stato sostanzialmente circolare. Siamo partiti
da Piazza Carlo III, dove si trova la nostra scuola e, percorrendo via S. Antonio Abate, ci siamo immessi
nel centro storico attraverso Porta Capuana. Percorse via Tribunali e via Duomo, siamo tornati in Piazza
Carlo III attraverso via Foria.
Pur analizzando le più importanti emergenze architettoniche incontrate lungo il nostro percorso, le
tappe più significative sono state quelle in cui il legame “Vesuvio-Fuoco-Fede-Arte” risultasse evidente.
L’elemento fisico “fuoco”, anche se in forma ancora implicita, connette, simbolicamente, il Vesuvio con
la Chiesa di S. Antonio Abate, situata nei pressi della nostra scuola. Del Santo che nel suo ospedale
curava l’”herpes zoster” (il cosiddetto “fuoco di S. Antonio”) abbiamo tracciato la storia ed analizzato
l’iconografia.
Dalla Piazza Enrico De Nicola, situata subito dopo Porta Capuana, è iniziato l’esame di un’area in cui il
legame “Fuoco-Magma-Sangue”, fattosi evidente, si è esplicitato attraverso una serie di strutture architettoniche, busti, edicolette, testimonianze iconografiche che hanno trovato nel Duomo il loro culmine.
Qui, due volte l’anno, le convinzioni religiose dei napoletani, sospese tra Fede e superstizione, si realizzano pienamente nell’attesa del miracolo del Sangue del Santo. Attraverso le straordinarie testimonianze storico-artistiche, l’analisi di documenti, l’indagine diretta ai luoghi del Vesuvio, abbiamo imparato a guardare la città con i nostri occhi e con quelli di chi l’ha guardata prima di noi, conoscendola e
riconoscendola al tempo stesso.
L’impatto emotivo della visita al vulcano e delle emergenze artistiche esaminate ci ha permesso di
continuare un viaggio cominciato tanto tempo fa e di iniziarne, da soli, un altro completamente nuovo.
L’itinerario comincia in Piazza Carlo III, dominata dall’Albergo dei Poveri, commissionato da Carlo di
Borbone a Ferdinando Fuga nel 1751 per accogliere i poveri del Regno, all’epoca circa ottomila e da
sempre punto di arrivo nella città.
Nel lato della piazza che si collega alla Via Foria, il cui nome deriva da Caracciolo Forino, Principe del
luogo, incrociamo quella che è la prima tappa del nostro viaggio nella Fede e nel fuoco: la Chiesa di S.
Antonio Abate, la cui fondazione è stata significativa ai fini dell’urbanizzazione del borgo e dell’omonima strada che, attraverso Porta Capuana, rappresenta la principale via d’accesso alla città. La chiesa
esisteva già nel 1313, al tempo di Roberto D’Angiò, ma fu ricostruita e dotata di un ospedale nel 1370,
nell’ambito di un vasto programma di edilizia religiosa e assistenziale voluto dalla regina Giovanna I.
La struttura gotica della chiesa è stata più volte restaurata, per cui oggi rimane poco del suo aspetto
originario.
Al di là della facciata settecentesca si intravedono elementi risalenti al periodo di fondazione, come due
portali ogivali e i battenti lignei della porta centrale, gli stemmi della nobile famiglia Capano. Accanto
all’attuale facciata si scorge anche un portale gotico murato, frammento dell’antico ingresso al convento. Alle spalle della stessa, invece, si innalza una torre quadrata, che in passato deve aver avuto
funzione difensiva. All’interno la chiesa presenta un’unica navata, un soffitto cassettonato del XVI sec.
e cappelle sul lato sinistro, che sono quel che resta di una struttura che aveva sei cappelle per lato.
Della prima epoca costruttiva della chiesa sono due affreschi rappresentanti la “Madonna che allatta il
Bambino” e la “Crocifissione di S. Antonio” e una statua della “Madonna col Bambino”. Al periodo quattrocentesco risalgono, invece, due statue rappresentanti S. Antonio e S. Baculo.
L’Ospedale era tenuto dai monaci ospedalieri antoniani (un ordine istituito a Vienna nel 1085 e soppresso nel 1630 da Urbano VIII), che nell’“apoteca” del convento ricavavano dal lardo dei maiali la “sacra
tintura” che veniva usata per curare l’”herpes zoster”, da sempre chiamato a Napoli “fuoco di S. Antonio”, e, in genere, le scottature.
Tra i Napoletani si diffuse così l’abitudine di allevare maialini, per donarli al monastero. Nonostante le
precarie condizioni igieniche derivate da tale usanza, ogni tentativo di vietarla fu vana fino al 1665,
quando il viceré bandì i maialini definitivamente, dopo che durante una processione in onore di S. Gennaro un maiale in fuga rischiò di travolgerlo.
I monaci di S. Antonio Abate si occuparono del fuoco “d’’a carne” sino a tutto l’Ottocento, anche se,
perdute le conoscenze esoteriche, si limitavano ad offrire un simbolico pezzetto di lardo avvolto nelle
immaginette del santo, in quelli che furono detti “coppetielli”.
S. Antonio Abate nacque a Coma in Egitto nel 251 da una nobile famiglia. Convertitosi al Cristianesimo
rinunciò alle sue ricchezze e uniformò la sua vita all’insegnamento evangelico. Fu eremita nel deserto
e, pur essendo sorretto dalla fede, si ritrovò più volte a combattere con i demoni, che, si racconta, gli
comparivano, talvolta, sotto forma di maiali.
Egli viene rappresentato come un vecchio barbuto (a simboleggiare la saggezza), che indossa un mantello su cui è disegnata una TAU ed ha nelle mani un bastone (che ricorda l’”abacus” dei templari ed è
simbolo del comando sulle forze occulte) ed un libro (che alcuni hanno assimilato al Libro della Sapienza
degli alchimisti) sormontato da una fiamma, la “fiamma dell’adepto” (a sottolineare il carattere iniziatico
della conoscenza). Accanto a lui c’è spesso un porco accovacciato, simbolo dei demoni, testimonianza
del ruolo fondamentale del Santo nella messa a punto dell’unguento curativo e del suo essere protettore
di grossi animali.
Ed infatti questi, il diciassette gennaio, giorno dedicatorio del santo nel passato, venivano condotti,
inghirlandati secondo un’usanza che ricorda le feste pagane, nella sua chiesa e battezzati nel cortile
antistante.
Altra tradizione di questa giornata erano, e sono ancora oggi nelle zone popolari della città e in altre
località (ma svuotati di significato), i famosi “cippe e’ Sant’Antuono”: vengono bruciati nelle vie, in
improvvisati falò, tutti gli oggetti lignei dei quali ci si vuole disfare.
Il fuoco di queste pire acquista la valenza scaramantica dell’esaltazione del fenomeno (il calore intenso
del morbo temuto) e rappresenta la speranza che non accada la contaminazione.
In senso più ampio, la festa in onore di S. Antonio Abate, la prima delle feste invernali napoletane, dà
l’impressione di essere stata vissuta nel passato come un inizio d’anno, più del I° gennaio. I “cippi”
sembrano essere una forma di eliminazione del male in genere, un modo per iniziare l’anno senza macchie, eliminazione che continuava nel Carnevale, anch’esso connesso a riti propiziatori che si concludevano nel funerale del martedì grasso.
Aspetto curioso: la festa della benedizione degli animali e i cippi di S. Antuono ebbero origine nel XIV
sec., dopo la distruzione nell’attuale Piazza Riario Sforza di un cavallo di bronzo antico che, si diceva,
possedesse capacità di curare le malattie degli animali.
Attraverso una stradina che affianca la Chiesa, entriamo nel Borgo di S. Antonio Abate, che comprende
oggi via S. Antonio Abate e la fitta rete di vicoli circostanti che s’immettono su via Foria, da un lato, e
su corso Garibaldi, dall’altro. La strada principale è un grande mercato dove, confusi tra il commercio
di alimentari, di abbigliamento e di generi vari, hanno preso piede il contrabbando e la vendita di droga.
L’edilizia della zona è popolare con l’eccezione di alcuni bei palazzi antichi, trascurati e abbandonati
all’iniziativa personale degli abitanti.
Il Borgo all’origine si snodava sull’area dell’antico “Campo di Napoli”, vasta pianura paludosa e insalubre, compresa tra le mura orientali e la collina di Poggioreale. Vari interventi di bonifica della palude,
avviati da Carlo I d’Angiò e continuati dagli Aragonesi, resero la zona su cui sorgeva così bella e ricca
di orti, giardini e boschetti, da spingere l’aristocrazia angioina e aragonese a costruire bellissime ville
di cui ancora oggi si conserva il ricordo (tra tutte la Casa Nova di Carlo II d’Angiò e la villa aragonese di
Poggioreale da cui traggono il nome via Casanova e via Poggioreale).
Le paludi furono completamente urbanizzate nell’Ottocento. Venne sistemato lo stradone dell’Arenaccia, si aprì via Cesare Rossaroll e il Borgo venne sventrato dal corso Garibaldi. Tutta l’area orientale fu
destinata a contrada per il basso popolo e per le industrie, mentre le case costruite lungo corso Garibaldi
dal Risanamento furono affittate a prezzi molto alti, accessibili solo alla borghesia che, con la sua presenza, modificò il tessuto sociale originario.
Lo sviluppo urbanistico avvenuto sulla superficie, un tempo coperta da orti e giardini, ha privato tutta
l’area del suo caratteristico aspetto di zona agraria e la destinazione a caotico mercato rionale dell’antichissima via S. Antonio Abate ha reso il luogo uno dei più degradati della città.
Superata la Via S. Antonio Abate ed il Borgo, arriviamo in Piazza S. Francesco di Paola in cui sono
visibili due torri cilindriche, avanzi della cinta muraria aragonese, l’attuale Pretura, che occupa l’edificio
dell’antico ospizio cinquecentesco di S. Francesco, e la Porta Capuana, attraverso la quale entriamo nel
centro antico della città.
Essa venne eretta dall’architetto toscano Giuliano da Maiano, nel 1488, per volere del re Ferrante I
d’Aragona, il quale, quattro anni prima, aveva decretato l’allargamento delle mura della città, a causa
del continuo aumento della popolazione, e aveva fatto spostare una porta più antica, che si trovava,
secondo alcuni studiosi, nei pressi di Castel Capuano, secondo altri, nei pressi della Piazza Riario
Sforza.
La porta, nata per celebrare l’incoronazione di Ferrante a re di Napoli, è alta 23 metri, nella parte esterna
è rivestita di marmo di Carrara, ha un fornice (che attualmente è di 12 metri) decorato lungo la fascia da
un bassorilievo scolpito con trofei d’armi e fiancheggiato da lesene corinzie.
Una lunga chiave a squame segna il centro dell’arco. Al di sopra di questo, all’epoca della costruzione,
un bassorilievo descriveva la scena dell’incoronazione di Ferrante I. Questa scultura venne poi sostituita
con le insegne di Carlo V, l’aquila bicipite con le ali piegate, per celebrare la sua entrata trionfale nella
città nel 1535. Ai due estremi del fregio ci sono le statue dei due Santi protettori, S. Gennaro e S. Agnello.
Ai lati del fornice si levano due torri di piperno, dette dell’Onore e della Virtù, che sono sorrette da uno
stilobate con basamento cilindrico; i nomi delle torri furono assegnati nel 1555 e incisi su tavolette di
marmo bianco, incastrate nel piperno.
La porta fu terminata entro il 1495, e, infatti, fonti storiche ci informano che per l’entrata di Carlo VIII
essa era provvista di battenti.
Nel gennaio del 1656 Napoli fu funestata da una grave pestilenza e, per questo, gli Eletti della città,
invocando l’aiuto della SS. Vergine e dei Santi Protettori, decisero di far realizzare, sopra ciascuna porta
della città, un’immagine dell’Immacolata Concezione con il bambino in braccio e con Santi Protettori.
Il 30 ottobre 1656 gli Eletti disposero che si desse esecuzione ai dipinti e la scelta dell’artista cadde sul
pittore Mattia Preti. Porta Capuana fu la prima ad essere affrescata, ma l’opera, che rappresentava S.
Gennaro, S. Agnello, S. Michele Arcangelo e S. Rocco in atto di pregare la Vergine Maria perché intercedesse per i Napoletani, non c’è più.
Subito dopo la Porta si incrocia sulla destra una delle più interessanti chiese del Rinascimento napoletano, Santa Caterina a Formiello, chiamata così per l’acqua della Bolla che, attraverso un acquedotto,
detto in passato “formale”, alimentava una fontana addossata al Castel Capuano, che si staglia, possente, sulla sinistra.
La tradizione vuole che questo edificio, ultimato nel 1154, fosse stato costruito dal re normanno Guglielmo I e, infatti, raggiungendo il portale d’ingresso sormontato dallo stemma di Carlo V, si nota ancora
l’originaria funzione di reggia fortificata, grazie all’imponenza dei grigi e mastodontici muri perimetrali.
La reggia conservò la sua funzione difensiva fino all’avvento degli Svevi che, nel XIII secolo, volendo
dare al castello un’immagine di maggiore sontuosità, chiamarono l’architetto Giovanni Pisano. Nelle
cronache dell’epoca ci sono numerose testimonianze sul lavoro svolto dall’artista che ai contemporanei
apparve assolutamente magnifico.
Nel periodo angioino, invece, con la costruzione di Castel Nuovo, Castel Capuano ospitò principi, dignitari, ambasciatori e personaggi illustri e divenne sede di sontuose feste e importanti celebrazioni.
Le modifiche alla struttura del castello continuarono nel periodo vicereale e, infatti, nel periodo in cui
governò Don Pedro di Toledo, l’edificio divenne sede di tutte le Corti di Giustizia napoletane.
La storia delle ristrutturazioni di Castel Capuano continuò fino al 1858, quando l’architetto Giovanni
Riegler, ispettore dei Ponti e delle Strade, iniziò nuovi lavori che interessarono tutto il Castello.
Sul sagrato della Chiesa di Santa Caterina a Formiello, in un’edicola di marmo bianco e piperno, sormontata da un timpano spezzato, ispirata agli altari effimeri creati per le feste, salta all’occhio il busto
di S. Gennaro che sembra si affacci sulla piazza per benedire i passanti, con il volto rivolto al Vesuvio.
L’opera progettata da Ferdinando Sanfelice, fu però realizzata, tra il 1706 e il 1708, in parte da Lorenzo
Vaccaro e in parte da Domenico Antonio Vaccaro, il figlio, a cui si deve il busto del Santo.
Comincia qui l’altra tappa, la più importante, del nostro viaggio nella fede e nel fuoco, che ora diventa
magma e sangue. E’ qui, infatti, che i Napoletani hanno spesso “fatto i conti” con il Vesuvio, il mostro
sacro, il cuore, l’anima, “il rubino gigantesco” che domina il golfo di Napoli.
E’ qui che incontriamo San Gennaro ed è nella zona che troviamo i luoghi e i monumenti più significativi
eretti in suo onore e cominciamo a cogliere lo strettissimo legame che lo unisce alla città e al Vesuvio
stesso, a cui viene assimilato come una forza contrastante.
Qualche notizia scientifica: studiando la morfologia e la storia del Vesuvio abbiamo scoperto che non
è ancora chiaro per gli studiosi quando esso abbia assunto l’attuale forma, costituita dalle due cime del
Monte Somma e del Gran Cono.
Uno dei principali problemi sollevati in merito a ciò è se realmente il Vesuvio presentasse, prima
dell’eruzione del 79 d.C., quella che distrusse Pompei ed Ercolano, una cima singola oppure se fosse
già presente la caldera del Monte Somma. Del resto a suffragare la prima ipotesi vi sono la testimonianza
di Strabone e l’affresco pompeiano della casa del Centenario che mostra un monte che viene identificato come il Vesuvio monocipite. Secondo la testimonianza di Strabone: “il Vesuvio è una montagna
rivestita di terra fertile e alla quale sembra che abbiano tagliato orizzontalmente la cima: codesta cima
forma una pianura quasi piatta, totalmente sterile, del colore della cenere, nella quale si incontrano di
tratto in tratto caverne piene di fenditure, formate da pietre annerite come se avessero subito l’azione
del fuoco; di modo che si può congetturare che lì vi fosse stato un vulcano il quale si è spento dopo
aver consumato tutta la materia che gli serviva da alimento” (Rerum Geographicarum, V. 8).
Uno studioso, il Rittmann, nella prima metà del ‘900, ha proposto una ricostruzione dell’attività del
Somma–Vesuvio, in accordo con queste testimonianze: egli data, infatti, la formazione del Gran Cono e
della caldera del Somma al 79 d.C.. Secondo lo stesso Rittmann, il modello morfologico del Vesuvio,
prima dell’eruzione pliniana del 79 d.C., sarebbe un unico monte costituito dalla cima monocipite del
Monte Somma. E’, però, da osservare come, in un affresco delle catacombe di San Gennaro, del VII sec.
d.C., il Santo in una immagine sia rappresentato fra due picchi, identificabili con il Gran Cono e l’attuale
Monte Somma.
Ciò lascerebbe intuire che già a quell’epoca il Vesuvio avesse la configurazione attuale, con il Monte
Somma costituito dalla sommità della caldera del Vulcano Somma, mentre il Gran Cono si sarebbe,
secondo l’ipotesi di Rittmann, formato nell’arco del tempo fra il 79 d.C. e il VII sec. per progressivo
accumulo di prodotti eruttivi attorno alla bocca principale, cosa alquanto difficile in soli 500 anni di
tempo.
Oltre a ciò vi è un altro elemento che contrasta con l’ipotesi del Rittmann: Ritmann stesso ed altri
studiosi alla fine degli anni settanta hanno osservato che nei centri e nelle zone a Nord-Nord-Est del
Vesuvio, quali Ottaviano e Pomigliano d’Arco, cioè i centri alle spalle della Valle dell’Inferno, sono assenti tracce di colate laviche posteriori a 17.000 anni fa, mentre sono stati rinvenuti soltanto materiali
piroclastici.
Tutto ciò è significativo: infatti la Valle del Gigante che divide il Gran Cono dall’orlo della caldera del
Somma costituiva, nella parte chiamata Valle dell’Inferno, uno sbarramento naturale al magma. L’assenza della lava nei territori al di là dalla Valle del Gigante fa supporre che tale valle e, dunque, la caldera
del Somma fossero presenti già 17.000 anni fa.
Basandosi su queste analisi si può retrodatare la formazione della caldera del Monte Somma e del Gran
Cono tra i 17.000 e i 14.000 anni or sono.
Indagando, inoltre, sull’iconografia abbiamo verificato che il Vesuvio, nonostante la sua importanza
simbolica, religiosa, economica e scientifica, non è sempre stato un elemento centrale della rappresentazione classica di Napoli.
La storia dell’ immagine di Napoli è dominata, infatti, nel corso di tre secoli, dal ‘400 al ‘600, da modelli
descrittivi che, a metà strada tra vera e propria cartografia e vedutismo, utilizzano Castel Sant’Elmo
come elemento rappresentativo dominante.
Solo quando Napoli fu colpita, nel 1631, da una terribile eruzione subpliniana, i Napoletani, testimoni
dello spaventoso fenomeno, come ringraziamento dello scampato pericolo, fecero realizzare, dagli artisti del tempo, molte pale votive a S. Gennaro, considerato il vero protagonista dell’evento vulcanico.
L’eruzione venne vista, infatti, come espressione del mondo sovrannaturale. Il sangue versato dal martire, con il suo ciclico passaggio dallo stato solido allo stato liquido, diventò agli occhi dei Napoletani
un magma che si contrapponeva, simbolicamente, a quello del Vesuvio: il sangue-magma del Santo,
misticamente contrastava il magma-sangue del vulcano. L’immagine tradizionale del Vesuvio che si affaccia sul golfo della città cominciò ad apparire nel ‘700, epoca in cui il nostro vulcano diventò topoV
per eccellenza.
Il Vesuvio nei secoli è stato alla ribalta per numerose eruzioni e la più conosciuta è sicuramente quella
del 79 d.C., che distrusse le città romane che si trovavano alle sue falde. L’eruzione di cui noi, invece,
ci siamo interessati nel nostro viaggio è quella del 16 dicembre 1631, anch’essa particolarmente violenta
e distruttiva.
Il Vesuvio era rimasto inattivo e silente per 131 anni, ovvero dall’eruzione del 1500.
Da allora non vi erano stati segni di attività alcuna: un’eruzione come quella del 1631, quindi, provocò
panico e terrore. Non vi era memoria nelle menti della gente di un tale cataclisma, il più violento dal 79
d.C..
Il vulcano eruttò cenere e lapilli che arrivarono fino ai confini del regno di Napoli; il mare retrocesse
dalla spiaggia tanto che le navi rimasero in secca e i morti si contarono a migliaia. La stessa cima del
vulcano si abbassò di ben 450 m..
Così un militare, Alfonso de Contreras, al seguito del viceré, conte di Monterrey, descrive l’evento:
“Una mattina, martedì 16 dicembre, si vide un gran pennacchio di fumo sulla montagna di Somma che
altri chiamano “Vesuvio”, e a mano a mano che avanzava il fumo, il sole si oscurò e cominciò a tuonare
e a piovere cenere […] La gente, vedendo che tutto il giorno e anche la notte continuava a piovere cenere, cominciò a spaventarsi e ad abbandonare la città. Fu quella una notte così orrenda che credo non
ci sia l’uguale nemmeno il giorno del giudizio.” Secondo la testimonianza di Contreras il giorno successivo all’eruzione il cielo restò scuro e il sole fu nascosto dalla cinerea coltre di nubi. A seguito dell’eruzione il panico dilagò fra coloro che erano rimasti in città, ma anche i danni alle case ed alle strutture
furono ingenti a causa della pioggia di “fuoco e cenere” mentre l’acqua che colava dal vulcano si incanalava in un torrente e scorreva verso Nola. Fu l’acqua stessa a provocare gravi danni e devastazioni.
Lo stesso Contreras e i suoi soldati, che avevano prestato soccorso alle popolazioni colpite dal cataclisma, furono messi in grave pericolo dalla potenza distruttiva del vulcano. Afferma Contreras: ”Arrivammo a Capua che facevamo proprio pena, così sfigurati che sembrava venissimo dall’Inferno, la maggior parte dei soldati erano scalzi ed avevano i vestiti e il corpo bruciacchiati” [1].
Per fermare l’eruzione del 1631 le autorità della città decisero di portare in processione la testa e il
sangue di S. Gennaro e si è sempre sostenuto che, non appena le sacre reliquie giunsero in vista del
Vesuvio, presso la chiesa di Santa Caterina a Formiello, il fenomeno eruttivo cessò.
A tal proposito riportiamo la testimonianza di Giovan Battista Manso, osservatore diretto della processione: “Parve al Cardinale in questo estremo pericolo […] di fare una processione per condur parimente
la testa e il sangue di San Gennaro alla chiesa dell’Annunziata, e così fu fatto […]. Ma nell’uscir la Santa
Reliquia fuor la porta del Duomo cessò del tutto la pioggia […] dapoi s’è inteso che nel finestrone che
sta su la porta del Duomo […] apparve palesemente al popolo che stava nella Piazza il glorioso San
Gennaro stesso in habito pontificale, che da su la finestra benedisse il popolo e poi disparve. Io non lo
viddi perché stava come ho detto col Cardinale tuttavia dentro la porta della Chiesa […] Egli è ben vero
che ritornando la processione indietro, come il miracoloso sangue entrò alla porta Capuana, così di
nuovo cominciò a sorger la nuvola nella medesima altezza, ma non verso la Città […] [2]
L’eruzione del 1631 ha dato luogo a varie leggende tra cui quella sull’origine di Pulcinella, che sarebbe
nato dalle viscere del Vesuvio, considerato emblema della napoletanità, ma anche bocca dell’Inferno e
luogo di portenti. Del resto un ricco filone di trattati e libelli sull’origine infernale delle viscere del Vesuvio scaturì proprio da questa associazione Vesuvio–Inferno, giustificata forse dalla violenza delle eruzioni e di quella in particolare del 1631.
L’incidenza del cataclisma fu tale che si svilupparono e vennero discusse in dibattiti accademici anche
nuove teorie, madri della vulcanologia e il fenomeno fu osservato con stupore e sgomento da intellettuali, viaggiatori, pittori e letterati. Fatto sta che le osservazioni compiute in quell’occasione furono importanti per lo studio più scientifico delle altre eruzioni minori avvenute negli anni 1660, 1682, 1685, 1689
e 1694.
L’interesse verso il Vesuvio in seguito ad un evento così ricco di suggestivo orrore si manifestò non
solo a livello scientifico, ma anche culturale ed artistico. Vi sono infatti molte testimonianze pittoriche
non solo dell’eruzione nei suoi aspetti catastrofici, ma anche della reazione immediata, quasi spontanea,
del popolo napoletano di rifugiarsi nella fede, nella preghiera, nell’aspettativa mistica di un aiuto da
parte del Santo Patrono della città.
Accanto alle raffigurazioni del vulcano, dei territori circostanti prima, durante e dopo l’eruzione, vi sono
moltissimi dipinti, opere, pale, statue, che sono stati realizzati o come ex voto al Santo Patrono o a
ricordare la devozione e la fedeltà del popolo e delle autorità cittadine a San Gennaro.
In un dipinto di Micco Spadaro, per esempio, viene rappresentata la processione svoltasi il 17 gennaio
1631, in cui vengono portati il busto reliquiario e le ampolle col sangue del Santo, in una piazza fuori
Porta Capuana, gremita di gente.
L’affresco sull’Eruzione del 1631 di Domenichino nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, rappresenta, su di uno sfondo, in cui si vedono gli “effetti orrendi del funesto incendio del Vesuvio” e l’intervento salvifico di S. Gennaro, un frate che alza al cielo una croce, incitando la folla alla penitenza, al
centro il pietoso affetto di due donne che piangono sopra un fanciullo arso dal fuoco, a destra “un
confessore” che sospende la mano sulla testa di un penitente”, mentre in lontananza, sotto un baldacchino, vengono portati in processione il busto del Santo e il suo reliquiario.
L’affresco di Battistello Caracciolo, nella Certosa di S. Martino, del 1632, oltre alla processione consueta
in cui è possibile riconoscere il conte di Monterrey ed il cardinale Buoncompagni, evidenzia lo scontro
fra il Santo e le fiamme infernali del Vesuvio.
Il nostro viaggio continua lungo Via Tribunali, dove scopriamo che in vico Sedil Captano, un tempo, vi
era una piccola cappella dedicata a San Gennaro, denominata inizialmente “Pozzobianco” (per la presenza di un pozzo che riceveva l’acqua da Santa Caterina a Formiello), di cui resta ancora la semplice
facciata settecentesca ed il portale in piperno.
Proseguendo il nostro percorso, di fronte al Pio Monte della Misericordia, incrociamo una piazzetta dedicata a Sisto Riario Sforza, da sempre intrinsecamente legata al culto del Santo Patrono di Napoli e, più
in generale, al clima devozionale della città partenopea, clima che scaturiva da una religiosità mista a
superstizione, che trova le sue origini già nel paganesimo prima ancora che nel culto cristiano.
Nella piazza, secondo una tradizione viva ed in uso già nel 1600, si teneva una festa in onore del Santo,
una vera e propria”cantata” per S. Gennaro. Così la festa per la celebrazione dell’avvenuto miracolo di
S. Gennaro, una delle più importanti insieme alla fiera dinanzi al palazzo reale ed alla parata di Piedigrotta, viene descritta da un viaggiatore del ’700: ”la sera si fa la cantata fuori della portella del Duomo
, nel qual luogo vi è una piazza sufficiente con una guglia di marmo nel mezzo.Viene formato un prospetto a guisa di teatro ben artificiosamente illuminato con figure tutte dipinte che vengono a formare
qualche fatto della vita di S. Gennaro. Poi d’intorno alla piazza e insieme al prospetto di esso teatro nel
quale vi è [posto per] i palchi, per i musici e sonatori e gli altri d’intorno sono quelli che concorrono a
tale funzione, ed essi palchi vengono a formare un teatro formale con una piazza e palchetti che illuminati la notte fanno bella comparsa degna vedersi” [3].
Nella stessa piazza, per tener fede al voto fatto dai Napoletani durante l’eruzione del 1631, la Deputazione del Tesoro di San Gennaro decise di innalzare una statua al Santo e diede l’incarico a Cosimo
Fanzago di progettare l’opera, che inizialmente doveva consistere in una colonna di cipollazzo verde,
rinvenuta durante i lavori per la realizzazione della Cappella del Tesoro di S .Gennaro , adiacente alla piazza.
Con la realizzazione di questo ex-voto si ha un’idea, dunque, del clima generale al quale accennavamo
prima, in cui fede e credenze superstiziose si mescolano, fino a divenire quasi indistinguibili.
Del resto è probabile che la Guglia sorga proprio nel luogo in cui era situato il famoso cavallo bronzeo
che, secondo la tradizione, fu dotato da Virgilio di poteri taumaturgici. Poteri che sarebbero andati
perduti, dopo che alcuni maniscalchi, che vedevano insidiato il loro lavoro, forarono la scultura in vari
punti. Il cavallo, privato di queste capacità, fu fuso nel XIV secolo per ricavare le campane del Duomo.
Fanzago sviluppò l’idea originaria di questa che fu la prima guglia dedicatoria barocca. Essa è stata
concepita come sintesi formale fra architettura e scultura, presentandosi con un alto basamento su cui
si erge una colonna con capitello ionico. Per indicare la destinazione dell’opera e la sua funzione di exvoto vi è un’iscrizione leggibile al di sopra della base, mentre sul lato verso il Duomo della base stessa
vi è lo stemma della città di Napoli. La guglia marmorea oltre ad avere delle statue di putti nella parte
superiore è sormontata dalla statua di S. Gennaro, opera di Tommaso Montani.
Essa raffigura il Santo con l’elemento simbolo delle due ampolle del sangue, proprie della iconografia
del Santo.
La piazza è luogo di grande interesse storico e culturale, al di là dei riferimenti a S. Gennaro, pure innegabili e che non è assolutamente possibile ignorare. In epoca greco-romana è probabile che abbia ospitato un tempio dedicato ad Apollo o a Nettuno. Queste ipotesi devono essere ancora accertate, ma nel
‘600 sono stati ritrovati, nel largo, una grande colonna di marmo cipollino ed altri materiali, questi ultimi,
non portati in superficie, che potrebbero confermare la presenza sul posto di architetture antiche significative.
Il popolo napoletano, fin dall’inizio della sua millenaria storia, ha sempre invocato, in situazioni difficili
o palesemente disperate, l’aiuto di un’entità soprannaturale, un protettore e salvatore che avrebbe dovuto risolvere velocemente e in modo efficace problemi quali pestilenze, terremoti, eruzioni del Vesuvio.
Ciò è chiaramente testimoniato nelle numerose opere d’arte e antiche edicole, sparse in tutta la città
con cui si ringrazia San Gennaro (ma anche altri santi) di questa o di quella grazia concessa alla cittadinanza.
Pochi, però, sanno che il primo personaggio a cui i Napoletani hanno dato l’onere (e, perché no, l’onore!)
di proteggere la loro città è conosciuto dai più per le sue doti di poeta e letterato piuttosto che di protettore dai poteri miracolosi: Virgilio, proprio il Publio Virgilio Marone dell’Eneide.
La figura di Virgilio, dunque, nella tradizione popolare napoletana è estremamente interessante sia per
la sua importanza ai fini dello studio delle leggende e dei miti di Napoli, sia per il fatto che egli rappresentò il primo protettore della città; prima ancora che il culto di Ianuario prendesse il sopravvento grazie
anche alla diffusione della religione cristiana.
D’altra parte attraverso il culto di San Gennaro sopravvivono ancora oggi alcune peculiarità e poteri
prima attribuiti al poeta latino e poi al santo protettore.
Nel medioevo normanno e angioino Virgilio era il prototipo del mago protettore, liberatore e salvatore
che, grazie a straordinari incantesimi (quelli che in San Gennaro chiamiamo “miracoli”) riusciva a liberare la città da varie iatture come invasione di insetti, di serpenti e altre sventure.
Molti luoghi di Napoli sono legati all’immagine di Virgilio che, è accertato, è davvero vissuto a Napoli.
Ma uno più di tutti fa da intrigante sfondo ad una delle leggende nate attorno al poeta: il Castel dell’Ovo.
Virgilio, narrano molte “cronache” medievali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un
uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell’uovo tutta la città sarebbe crollata.
Ma, al di là dei racconti popolari, come nasce la figura di Virgilio mago?
Di ipotesi ne sono state fatte tante ma una in particolare si presta (o si è prestata!) ad essere manipolata
dalla tradizione popolare: si pensa che Virgilio abbia appreso i metodi di “distillazione” di non si sa quali
sostanze taumaturgiche da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana,
operando in laboratori ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate e Ottaviano, renderanno al Nostro del tutto sereno il soggiorno napoletano. Virgilio opera con aiutanti ed allievi che diffonderanno poi queste conoscenze facendo trapelare qualche notizia nel mondo “profano”.
E così gli alchimisti medievali scriveranno dell’“acqua dello mago Virgilio” e questa notizia a sua volta
trapela. Ancora un’ ipotesi che lega in modo più concreto questa attività di Virgilio con Castel dell’Ovo:
il poeta, per esigenze di segretezza maggiore, opera in un antro sull’isola di Megaride ed i pescatori
notano (e tramandano) i traffici ed i “fumi” di quelle distillazioni.
Ma allora Publio Virgilio Marone è veramente un mago pre-alchimista? E quali “poteri” aveva effettivamente acquisito? E quanto di tutto questo i Napoletani sapevano tramandandolo sotto forma di leggenda? E se a liberare Napoli da pestilenze, serpenti ed insetti nocivi non si fosse trattato di incantesimi
ma solo di segretissimi preparati naturali?
Di certo Napoli l’amò moltissimo e lo ritenne, come già detto, prima di S. Gennaro protettore a tutto
tondo. Dopo alcuni anni da Virgilio passerà lentamente al vescovo Ianuario il compito di liberare la città
da calamità naturali ed umane.
E il fatto che una guglia dedicata a San Gennaro, come quella di Piazza Riario Sforza, sorga proprio
dove si ritiene ci fosse stata la statua di un cavallo dai poteri taumaturgici che si pensava costruita
proprio da Virgilio non è la testimonianza di questo “passaggio di testimone” da un protettore all’altro?
Il popolo napoletano ha sempre saputo a che santo votarsi, anche quando i santi non c’erano!
Il nostro viaggio continua lungo via Duomo, antico cardine della città greco-romana e nella chiesa Cattedrale, dedicata all’Assunta, dove, a metà della navata destra, ci imbattiamo in un maestoso cancello,
il portale che conduce alla Cappella di S. Gennaro, una chiesa nella chiesa.
Questa grande opera in ottone fu progettata da Cosimo Fanzago tra il 1628 ed il 1630, ma la sua completa realizzazione avvenne solo nel 1665.
L’ immagine di S. Gennaro che sormonta il cancello sembra accompagnare il nostro arrivo nel tempio
e guidarci con un delicato gesto della mano e del capo.
Attraverso la scritta in latino all’ingresso della cappella di S. Gennaro, riusciamo a capire con estrema
chiarezza il perché della devozione a questo santo: “DIVO IANUARIO A FAME BELLO PESTA HAC VEASEAVI IGNE MIRI OPE SANGUINI SE EREPTA NEAPOLIS CIVI PATRI VINDICI”, che tradotto testualmente
significa: “A S. Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla peste, dalla
guerra e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue miracoloso, consacra”.
Ma chi è questo santo? E perché proprio lui?
Per rispondere a queste domande partiamo da alcune curiosità molto interessanti: il piccolo Gennaro,
nacque con le mani congiunte in segno di preghiera, passò la sua infanzia facendo opere di bene e,
ancora giovane, cominciò a compiere i primi miracoli fino a quando, martire delle persecuzioni contro i
cristiani, morì dopo aver subìto ogni sorta di tortura proprio a Pozzuoli “portando il capo sotto la scure
per la fede altamente professata”.
Ma la cosa più strana, per la quale è conosciuto in tutto il mondo, è che il suo sangue, custodito gelosamente dai Napoletani, ordinariamente coagulato, due volte all’anno (maggio e settembre) subisce miracolosamente un processo di liquefazione “…appena arriva la piccola ampolla col sangue, le preghiere
e la musica si raddoppiano per poi cedere il posto al più grande silenzio; e nel momento in cui l’arcivescovo la prende tra le mani, tutti si mettono in ginocchio, dentro e fuori dal palco. Un santo terrore si
impadronisce di tutta la folla, non si sentono che sospiri e singhiozzi, la calma e l’attenzione di tutti sono
al massimo, nell’attesa del momento sospirato, quando si produrrà il miracolo. Generalmente è questione di 8-10 minuti, ma se tarda più di tanto, la gente comincia a lasciarsi prendere da una furia incontrollabile, lacerandosi le vesti, strappandosi i capelli, come presi da una disperazione terribile per poi
passare di colpo agli eccessi della gioia più sfrenata…” [4].
Tanta è stata la devozione del popolo partenopeo per questo santo che lo ha scelto come patrono: ogni
qual volta sulla città si sono abbattute o si abbattono sciagure o disgrazie, è a lui che si sono rivolte e
si rivolgono preghiere. Proprio a seguito della terribile pestilenza del 1526 ,“per voto fatto a cagione di
fierissima peste”, fu costruito questo tempio.
La cappella è tuttora considerata testimonianza di devozione storica da parte dei Napoletani, una devozione che si è manifestata nell’elargizione volontaria di doni preziosi, da parte dei cittadini napoletani,
quali Carlo III di Borbone, che regalò al Santo una “modesta” croce di rubini e brillanti, ma anche da
parte di cittadini privati e stranieri, che con le loro donazioni hanno contribuito allo splendore della
struttura.
Essa, costruita tra il 1608 e il 1637, su disegno di Francesco Grimaldi, sull’area di tre cappelle demolite,
presenta uno straordinario ambiente a pianta centrale, dominato da un’ampia cupola poggiante su poderosi piloni e sette altari.
Grande orchestratore della decorazione scultorea e marmorea fu Cosimo Fanzago, cui si deve anche il
disegno del maestoso ingresso, con l’elaborato cancello d’ottone inquadrato da due edicole decorate
dalle statue di Giuliano Finelli, protagonista, insieme ad altri artisti, della fastosa decorazione interna
della cappella (a lui si devono la maggior parte delle sculture in bronzo che raffigurano i “compatroni”
della città).
Il maestoso altare maggiore, disegnato da Francesco Solimena, ha un paliotto a rilievo, d’argento, diviso
in tre scene. Le due laterali furono modellate in cera da Domenico Marinelli, su disegno di Dionisio
Lazzari e realizzate da Gian Domenico Vinaccia che, inoltre, eseguì quella
centrale.
Le scene, separate da colonne tortili e cariatidi, conferiscono un effetto di grande teatralità all’insieme.
In esse si narra l’episodio della traslazione delle reliquie di S. Gennaro da Montevergine a Napoli, avvenuta nel 1497: l’Arcivescovo, a cavallo, seguito da prelati e cavalieri vestiti alla spagnola, porta i resti
del martire mentre lo stesso S. Gennaro, dall’alto, protegge la città impersonata dalla sirena Partenope e
dal fiume Sebeto.
Davanti all’urna reliquiaria fuggono le personificazioni della peste, della fame e della guerra, mentre
sullo sfondo c’è il Vesuvio.
Guardando più attentamente, notiamo sotto gli zoccoli del cavallo il simbolo dell’eresia (Lutero con i
suoi libri). Non possiamo certo dimenticare che siamo in piena Controriforma e l’intera arte cattolica
non può fare a meno di autocelebrarsi.
Sull’altare e lungo i lati della cappella, i preziosi arredi ed i reliquiari in argento sono frutto dell’opera
dei più mirabili argentieri napoletani: il già nominato Vinaccia, Gennaro Monte, Aniello Treglia, Filippo
del Giudice ed altri.
Dietro l’altare, esposti al pubblico solo per due settimane, in occasione del miracolo, si trovano il reliquiario del busto e il reliquiario del sangue di S. Gennaro. Il busto, contenente le ossa del capo del santo,
fu costruito su ordine di Carlo II d’Angiò, che lo donò alla chiesa nel 1305. Il re affidò il lavoro a degli
orafi provenzali, Etienne, Godefroyd, Guillame de Verdelay e Milet d’Auxerre che lavoravano a corte.
Non abbiamo potuto fare a meno di notare che, a differenza della maggior parte dei busti reliquari, quello
di S. Gennaro ha l’aspetto di un vero ritratto: è a grandezza naturale e presenta un volto piuttosto realistico che, severo nella concentrata e sacra fissità dello sguardo e con una fronte molto corrugata, denota la spiccata forza interiore del santo.
Alcuni hanno ipotizzato che esso sia l’immagine giovanile del potente Uberto d’Ormont arcivescovo
della città dal 1308 al 1320.
Su tutta la casula, che rispecchia le vesti liturgiche dell’epoca, evidentissimi sono gli stemmi angioini,
accompagnati da elegantissime pietre preziose lavorate a cabochon.
Per la decorazione pittorica furono chiamati alcuni degli artisti più rinomati dell’epoca, che fecero della
cappella una delle più ricche e complete manifestazioni del barocco in città. A Domenico Zampieri, noto
come Domenichino, che lavorò nella struttura dal 1631 al 1641, anno della sua morte, si devono gli
affreschi delle volte, delle lunette e dei pennacchi. Nelle prime si raccontano le storie della Vita di S.
Gennaro, nelle seconde la Traduzione in catene a Pozzuoli del Santo e dei suoi compagni, la Liberazione
di Napoli dall’assedio di Roberto il Guiscardo e l’Eruzione del Vesuvio del 1631. Nei pennacchi vengono,
invece, rappresentati il Voto dei Napoletani del 1527, l’Incontro del Santo con Cristo, La Vergine mediatrice e protettrice e l’Intercessione dei Santi Gennaro, Agnello e Agrippino. Dell’artista sono anche i “Rametti” per i sei altari minori, che raccontano ancora la vita e i miracoli del Santo, ad eccezione del “San
Gennaro che esce indenne dalla fornace”, realizzato dallo spagnolo Ribera, e del Miracolo dell’ossessa,
che, lasciato in abbozzo dal Domenichino, nell’anno della sua morte, fu dipinto nuovamente da Massimo
Stanzione. La decorazione della cupola con il Paradiso si deve, invece, a Giovanni Lanfranco che subentrò al Domenichino e che la terminò nel 1643.
Il “giallo” della Cappella: La cappella di San Gennaro, oltre ad essere testimonianza della grande devozione dei cittadini napoletani, fu teatro, all’epoca della realizzazione delle opere pittoriche, di alcuni
eventi “oscuri”.
Incredibile fu l’impegno che la città e la Deputazione profusero nella costruzione della cappella: proprio
per questo, quando ancora la costruzione era agli inizi, si cominciarono ad “effettuare sondaggi” per
individuare artisti in grado di realizzare opere di gran prestigio. Iniziò, così, una vera
e propria gara. L’intenzione dei deputati era, infatti, quella di affidare i lavori agli artisti italiani di maggior
grido, tra i quali, però, non compariva nessun napoletano. Ed è proprio a questo punto che ebbe inizio
una serie di avvenimenti poco chiari.
La scelta della Deputazione cadde, inizialmente, sul Cavaliere d’Arpino, già noto a Napoli per gli affreschi della Certosa di San Martino, ma il lavoro presso la cappella del Tesoro non ebbe mai inizio in
quanto l’artista vi rinunziò, per motivi ancora oggi sconosciuti. Fu contattato, allora, il giovane bolognese Guido Reni, ma anche questi rinunziò al lavoro, spaventato dalle minacce - degenerate fino
all’omicidio di un garzone - a lui rivolte per spingerlo ad abbandonare l’impresa.
Si era venuta a creare, infatti, a Napoli una vera e propria “mafia” artistica cittadina che avversava
l’opera degli artisti non napoletani che venivano contattati dalla Deputazione.
Principale esponente di questa “mafia” artistica era il pittore tardo-manierista Belisario Corenzio,
che dopo molti e vani tentativi riuscì, insieme all’artista Simone Papa, a ottenere l’ incarico tanto desiderato di dipingere la Cappella. I loro saggi, però, non piacquero alla Deputazione, che decise di assegnare ad altri il lavoro. L’incarico fu così affidato al Domenichino.
Anche se l’artista riuscì a portare a compimento molte opere non si deve credere, tuttavia, che il suo
lavoro fosse stato privo di problemi; anzi, a causa delle minacce dei locali Corenzio e Ribera, egli fu
addirittura costretto ad allontanarsi da Napoli per un breve periodo. Alla morte, improvvisa ed in sospetto di avvelenamento, del Domenichino, con una contrastata decisione, avallata da una commissione
di cui facevano parte sempre Ribera e Stanzione, si decise di affidare ex novo la decorazione della cupola, nella quale il Domenichino stava lavorando al momento della morte, al pittore emiliano Lanfranco.
Dopo i vari “imprevisti” sorti in relazione agli affreschi, la Deputazione decise alla fine di affidare il completamento del ciclo dei dipinti al Ribera, grande naturalista spagnolo, oramai diventato napoletano, e
a Massimo Stanzione, uno dei maggiori esponenti del classicismo locale.
Finì così, con la vittoria degli artisti del luogo, il tormentato periodo di “lotte civili”, scatenatesi intorno
alla realizzazione della decorazione del tempio dedicato a S. Gennaro.
Un po’ di vita di San Gennaro tra fonti letterarie e tradizione: La figura di San Gennaro è ancora oggi
avvolta in un alone di mistero. Della sua vita, e ancor di più della sua morte, si è detto molto e molto
spesso quelli che erano i netti contorni dei fatti reali sono sfumati fino a dar vita a leggende.
Le maggiori fonti di notizie sulla vita del martire cristiano sono gli Atti Bolognesi (VI-VII sec.) e gli Atti
Vaticani (VII-IX sec.).
Nei primi, in cui la narrazione è piuttosto verosimile, si raccontano gli ultimi giorni del Santo e la sua
morte.
Nel 305 Gennaro, vescovo di Benevento, si recò a Miseno e lì conobbe il diacono Sosio che si batteva
contro la diffusione del culto della Sibilla Cumana. In uno dei giorni che trascorsero insieme, la visione
di una fiammella sul capo di Sosio rese consapevole Gennaro dell’imminente martirio del diacono; di lì
a poco, infatti, Sosio fu denunciato e poi imprigionato, anche se difeso dal Vescovo, che lo considerava
una creatura di Dio e non meritevole di tale trattamento.
Per questa professione di fede Gennaro, Sosio e anche Festo e Desiderio, loro compagni, furono condannati alla decapitazione e, quindi, condotti nei pressi della Solfatara. Durante il tragitto si imbatterono
in un mendico che chiese al vescovo Gennaro un lembo della sua veste, ma ottenne di poter prendere,
dopo l’esecuzione, il fazzoletto con cui Gennaro sarebbe stato bendato.
Quando il carnefice vibrò il colpo mortale recise, assieme al capo, anche un dito che il vescovo aveva
portato alla gola al momento della decapitazione; durante la notte Gennaro apparve in sogno a colui che
avrebbe dovuto portar via il corpo e lo invitò a raccogliere anche il dito.
Negli Atti Vaticani si raccontano, invece, episodi più eclatanti, come quello relativo all’incontro a Nola
del Santo con il giudice Timoteo, il quale lo catturò e lo sottopose alla tortura dell’eculeo, ma non sortendo tale supplizio l’effetto di veder staccati i nodi delle membra, lo fece gettare in una fornace ardente
dalla quale, però, Gennaro uscì comunque illeso .
Altre leggende sono nate intorno alla zona della Solfatara dove San Gennaro fu decapitato e dove i
devoti consacrarono una piccola Chiesa che fu meta d’ininterrotto pellegrinaggio. Al suo interno è custodito un busto marmoreo del Santo, eseguito agli inizi del ‘300 da un seguace romano di Arnolfo di
Cambio, a cui sono legate curiose storie.
La prima deriva da una particolarità della statua, in cui il naso del Santo appare chiaramente giustapposto al volto. A tal proposito si racconta che, durante una scorreria, i Saraceni dopo aver saccheggiato
tutto quello che potevano, recisero il naso di Gennaro come alto sacrilegio e lo portarono via come
trofeo. Un mare infuriato, però, impedì loro di partire. Allora, pensando ad una maledizione, un pirata
gettò il naso in acqua e subito la tempesta si calmò.
Più volte i pescatori del luogo trovarono nelle loro reti quel pezzetto di marmo e puntualmente, senza
avvedersene, lo ributtavano in mare, fino a quando un giorno uno di loro pensò che fosse il naso di San
Gennaro e lo rimise al suo posto. Con grande meraviglia, il naso aderì al viso senza alcun bisogno di
collante.
La seconda storia è nata durante la pestilenza del 1656. In quel periodo i Puteolani portarono in processione il busto del Santo. Sotto l’orecchio di San Gennaro improvvisamente apparve un bubbone che
cresceva lentamente. Il giorno successivo quel bubbone scomparve assieme alla peste che incombeva
su Pozzuoli.
Iconografia del Santo: Dal V secolo al ‘500 non esiste una costante iconografica per S. Gennaro. Le
prime immagini lo vedono giovane, come figura eroica di martire e imberbe, o, nel tempo, rappresentato
come vescovo. Solo in età controriformata il santo, rappresentato come vescovo, assurge a difensore
della città e compaiono nella sua iconografia le ampolle con il sangue, che diventeranno il suo segno
distintivo. In realtà in nessuno degli Atti si parla del sangue di S. Gennaro, che invece si ritrova in un
racconto di un canonico del duomo, Paolo Regio, il quale, in un’opera sulla vita dei sette santi protettori
di Napoli del I579, riferisce che una donna aveva raccolto e conservato in due ampolle il sangue del
Martire.
Il miracolo di S. Gennaro – La tradizione tramanda che le ampolle, ermeticamente sigillate, custodite
nella Cappella del Tesoro, contengono il sangue del Santo. Questo sangue si presenta raggrumato, di
consistenza gelatinosa ed ha la particolare caratteristica di liquefarsi, senza alcun apparente intervento
esterno, a scadenze regolari. Il “prodigio”, mai assurto a rango di miracolo per la prudenza della Chiesa,
è atteso, nel Duomo, tra candele accese e fervidissime preghiere che presentano toni di ansia, di impazienza e di esortazione se l’attesa si prolunga per molte ore o, addirittura, per qualche giorno. Simbolicamente, la liquefazione è, per i Napoletani, un sacrificio che si rinnova e che, placando la collera divina,
allontana il castigo dalla collettività. Dai tempi e dai modi, sempre diversi, che contraddistinguono il
verificarsi del fenomeno, si traggono auspici per le future vicende della città. Accanto a chi vive l’esperienza della liquefazione sul piano della fede, non del tutto immune, tuttavia, da elementi di folclore e di
superstizione, c’è chi sente l’esigenza di un’interpretazione laica del fenomeno.
Da anni numerosi ricercatori, anche all’interno di commissioni nominate dal Vaticano, sono impegnati
nel tentativo di chiarire la natura della sostanza e di spiegarne il comportamento secondo le leggi della
fisica. Per alcuni studiosi il “sangue di S. Gennaro” sarebbe una sostanza tissotropica. Questo tipo di
sostanze è costituito da geli che passano allo stato fluido per effetto di una sollecitazione meccanica,
termica o acustica, per, poi, tornare a coagulare quando la perturbazione cessa. La particolarità di queste sostanze è che esse richiedono, ogni volta che fluidificano, l’applicazione di forze di differente intensità. Questo si spiega se si ammette che, ritornando allo stato di gel, le sostanze assumono livelli di
energia diversi. Più elevato è il livello d’energia, tanto minori saranno la forza ed il tempo perché si
verifichi, nuovamente, la fluidificazione. Questo spiegherebbe la variabilità caratteristica del “miracolo”.
Nel 1991, due ricercatori, in un esperimento di simulazione del comportamento del contenuto delle ampolle, hanno preparato una miscela gelatinosa di carbonato di calcio (CaCO 3), cloruro ferrico (FeCl3) e
cloruro di sodio (NaCl). Con una leggera scossa la miscela si disorganizza e passa allo stato fluido.
L’aspetto interessante di questo esperimento è che esso implica la presenza del cloruro ferrico, minerale
di ferro (molisite) presente sui vulcani e, quindi, sul Vesuvio. Sarebbe, dunque, ancora più stretto il
legame magma-sangue che ci avvince dall’inizio del nostro viaggio? Il fuoco visibile del vulcano potrebbe essere davvero così ricco da evocare il mistero dell’invisibile? Non abbiamo risposte, ma ci piacciono le parole di Jean Noel Schifano: “Vorrei che Napoli si sciogliesse e rimanesse come una goccia
di sangue vivo nel mondo”.
Un breve percorso separa il Duomo dall’ultima tappa connessa al nostro viaggio, la Porta San Gennaro,
chiamata così perché da essa partiva la strada che conduceva alle catacombe di S. Gennaro e all’antica
chiesa di S.Gennaro extra moenia.
Citata già nel X secolo, si trovava fino al cinquecento all’estremità settentrionale di Via Luigi Settembrini
ed era munita di due torri. Con l’avanzamento delle mura urbane, nel periodo vicereale, fu spostata dove
la vediamo oggi.
La struttura, dopo la peste del 1656, fu arricchita di un’edicola in cui Mattia Preti dipinse “I Santi Patroni
della città imploranti dalla Vergine la fine della peste”, l’unico affresco superstite di tutti quelli che ornavano le porte cittadine e che è stato restaurato pochi anni fa. Nel dipinto vengono rappresentati l’Immacolata Concezione con il Bambino in braccio, in mezzo ad una gloria di angeli e i Santi Gennaro, Francesco Saverio e Rosalia. In basso scorrono scene della peste. Sul lato esterno della porta vi sono le
statue di marmo di S. Gennaro e S. Michele. Nel lato interno, invece, c’è un modesto busto di San Gaetano, scolpito in pietra.
Oltre la Porta, Via Foria, che si sviluppa dove era il vallone esterno della murazione settentrionale della
città, spesso invaso dalle acque non canalizzate provenienti dalle vicine colline, e che è il frutto di un
programma ottocentesco di potenziamento urbanistico. Con la realizzazione di questa arteria si volle,
infatti, collegare il Campo di Marte, sorto a Capodichino, con Via Toledo e Capodimonte e si volle dare
una qualificazione residenziale alla zona che, agli inizi dell’Ottocento, conobbe un notevole sviluppo sia
come luogo di abitazione della borghesia agraria e commerciale, sia per la presenza dell’Albergo dei
Poveri, sia per la costruzione dell’Orto Botanico, istituito nel 1807 e aperto al pubblico dal 1813.