progettare i confini aziendali in maniera flessibile

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progettare i confini aziendali in maniera flessibile
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PROGETTARE
I CONFINI AZIENDALI
IN MANIERA FLESSIBILE: SAPERSI MUOVERE
TRA ESTERNALIZZAZIONE
ED INTERNALIZZAZIONE,
SAPER FARE ACCORDI
ARROWELD SPA
“Dicevo, ma dico tuttora, al mio
interlocutore: cedimi una parte della tua
azienda per camminare insieme e andare
lontano. Saremo distinti, ma non distanti ...”
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
Arroweld nasce a Zanè, in provincia di Vicenza, nel 1976 per iniziativa di un
imprenditore locale per produrre saldatrici industriali: nei primi anni di attività il
fatturato era di qualche miliardo di lire. Il primo novembre 1983 Mirco Gasparotto, attuale presidente del gruppo, entra, all’età di diciannove anni, in azienda
con il compito di fattorino. A livello scolastico aveva un titolo di terza media perché gli studi di ragioneria li aveva subito abbandonati: non gli mancavano invece idee e voglia di realizzarle. Ben presto passa al commerciale con ottimi risultati di vendita fino a diventarne direttore nel 1988. Nello stesso anno, il 10 luglio,
muore il fondatore senza lasciare figli: la vedova affida a Gasparotto la responsabilità di gestire l’azienda con la carica di amministratore delegato. Due anni
dopo, realizzando con il supporto della Cassa di Risparmio di Venezia un’operazione di management buy out, con altri tre soci e con il pieno accordo della moglie del fondatore compra la quota di maggioranza dell’azienda. Qualche anno
più tardi, nel 2000, la quota rimanente, nella disponibilità fino a quel momento
della vedova, viene acquistata dal gruppo SIAD guidato da Roberto Sestini e punto di riferimento tra i più importanti a livello europeo nella produzione di gas tecnici industriali, utilizzati nel processo di saldatura, con un fatturato superiore ai
250 milioni di euro annui.
Una chiara impronta strategico-organizzativa
Colpito da sempre dalla scarsa propensione alla collaborazione dell’imprenditore italiano, e veneto in particolare, Gasparotto, dopo aver abbandonato alla fine degli anni novanta la produzione, si dedica esclusivamente alla distribuzione industriale. Inizia qui la parte più originale del suo percorso imprenditoriale fatto di delega all’interno e di accordi interaziendali all’esterno. Con
un fatturato che aveva già raggiunto i 42 milioni, nel 2000, tramite un prestito
obbligazionario convertibile realizzato con il supporto di Banca Antonveneta,
altre sette persone, già operative in azienda, entrano nella compagine proprietaria portando ad undici il numero complessivo dei soci. Un ulteriore punto di
svolta è l’acquisto nello stesso anno di Cenigomma, un’azienda e un marchio
esistenti dal 1947 di proprietà della famiglia Biasi, operante con una sede principale a Verona e con due filiali a Udine e a Brescia per un fatturato complessivo di 14 milioni e un organico di cento persone. L’acquisto fu estremamente
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positivo, tanto che oggi l’impresa è in continua crescita, ma fece anche comprendere le difficoltà in termini di capitali necessari collegate ad uno sviluppo
mediante acquisizioni. La decisione di Gasparotto, condivisa dai soci, fu dunque quella di avviare una politica di alleanze con i piccoli distributori locali
clienti di Arroweld. In sei anni sono stati siglati accordi di partecipazione in minoranza con centocinquanta distributori industriali che tramite i loro venditori
raggiungono mezzo milione di imprese. È questo ciò che Gasparotto chiama
azienda o sistema “allargato”. Nel frattempo il fatturato di Arroweld è salito a
settanta milioni, quello del sistema “allargato” a trecento nei sette settori in cui
opera: tecnologie di saldatura, gomma e tecnoplastici, strumenti di misura e
controllo, utensileria professionale, forniture industriali in senso generale, garden e agricoltura, igienizzanti e detergenti per la pulizia industriale. Si tratta dopo Wurth del più grosso distributore operante nel mercato nazionale con presenze anche in otto aziende estere.
La realizzazione di un’idea
Lo spirito della collaborazione è chiaro: creare sinergia con tutti gli attori del
network mantenendo contemporaneamente l’individualità dei singoli. In un
contesto di old economy, dove la crescita, ma anche la sopravvivenza, è per la
singola impresa sempre più difficile i brillanti risultati raggiunti dimostrano la
bontà della scelta. Il principale problema da superare, come sempre in questi
casi, è stato quello culturale, vincere la ritrosia alla collaborazione tipica dell’imprenditoria nazionale. Gasparotto ha riflettuto a lungo sulle modalità con
cui molti accordi vengono realizzati: la proposta è quasi sempre per l’acquisto
della maggioranza della società con l’immediata successiva sostituzione del
gruppo dirigente. Entrambe queste opzioni provocano una chiusura perché
fanno coincidere l’accordo con l’estromissione di uno dei due partner. La controproposta di Gasparotto è stata quella di chiedere l’acquisto di quote di minoranza in modo da permettere ai protagonisti dell’accordo di valutare gli effetti della collaborazione nel tempo, di lasciare ciascuno operativo nelle proprie realtà originarie e di godere dei reciproci vantaggi: servizi e più ampia visione del mercato ottenuti dal socio partecipato, quasi sempre di più piccole
dimensioni, capillarità di presenza sul territorio senza sostenere gli elevati co-
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sti fissi correlati da parte del socio di minoranza. Per realizzare la quantità di accordi di cui si è detto in precedenza Gasparotto ha dovuto parlare con parecchie centinaia di persone: gli imprenditori, in molti casi le loro mogli, sempre i
commercialisti. Ciò sottolinea la necessità di possedere notevoli capacità relazionali per stabilire rapidamente empatia e per suscitare entusiasmo e fiducia.
Su centocinquanta collaborazioni iniziate solo una decina hanno creato problemi e tutte per le stesse cause: scarsa attenzione alla gestione economico-finanziaria dell’azienda con difficoltà ad anticipare gli accadimenti attraverso
un’oculata lettura dei dati contabili e ridotta visione strategica dell’imprenditore ancorato a decisioni prevalenti di breve periodo. Al contrario in qualche caso, pochi per la verità, c’è stata l’offerta al socio entrante di rilevare la maggioranza della proprietà, ma sempre con motivazioni non direttamente collegate
alla gestione.
Arroweld ha realizzato in parallelo anche una propria rete di vendita diretta
che, però, non si è mai sovrapposta, per prodotti veicolati, al network di imprese partecipate: serve a spingere le novità e a sostenere la componente più
strategica dei beni distribuiti, quelli a più alto contenuto tecnologico e di servizio. La bontà della scelta strategico-organizzativa pensata e poi attuata sta anche nel fatto che nessun produttore, tra i più importanti rappresentati da Arroweld, ha mai cercato di operare sul mercato italiano con una propria rete diretta a riprova che la capillarità della presenza sul territorio, la sua conoscenza
approfondita e la fidelizzazione del cliente finale anche tramite il servizio erogato costituiscono un’insuperabile barriera all’entrata. Per giunta a costi limitati.
La delega
Lo stesso atteggiamento, più manageriale che imprenditoriale se paragonato
all’esperienza italiana, ha portato Gasparotto a dimettersi dalla carica di amministratore delegato, e dalla operatività quotidiana ad essa collegata, per dedicarsi, in quella di presidente, alla gestione strategica dell’azienda. Obiettivo
principale della sua attività è da qualche mese a questa parte quello di individuare i talenti e di farli crescere per affidare loro in futuro il presidio dell’azione. “Non mi interessano i prodotti, ma gli uomini” è una sua tipica espressione
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che, al pari dell’altra “Il mio obiettivo come imprenditore? Rendermi inutile”
sottolinea la grande importanza data alla delega e alla crescita dei propri collaboratori. Arroweld ha un consiglio di amministrazione di sei persone e un comitato di direzione di due responsabili che prendono le decisioni. Al di sotto ci
sono trenta dirigenti che gestiscono millecinquecento persone: il loro compito
principale è quello di valorizzare al meglio le potenzialità delle risorse che da
loro dipendono. Si potrebbe dire che l’imprenditore ha il compito di far lavorare meglio gli altri per lavorare meno lui.
Nella visione di Gasparotto la delega è indispensabile per l’efficacia dell’azione imprenditoriale e manageriale. Con una buona gestione della delega egli
è convinto che si possano guadagnare considerevoli frazioni di tempo, una migliore soddisfazione della propria clientela e dei collaboratori, una maggiore
condivisione dei ruoli, un’integrazione più rapida degli ultimi arrivati ed anche
un rinforzo dell’agire di squadra.
Un compito
Assolutamente non secondario nella specifica cultura di questo imprenditore è anche l’idea di dover restituire parte di quello che ha avuto sotto forma di
impegno nell’aiutare chi ha avuto di meno. Senza alcuna paura di retorica o di
superiorità di sorta, è stata creata un Onlus che ha fondato dieci scuole in giro
per il mondo e che è impegnata a sostenere, tramite missionari conosciuti personalmente, cento microprogetti di varia natura. Quest’azione completa la
comprensione dell’orizzonte culturale entro il quale Mirco Gasparotto si muove.
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Fatto questo, adesso…
“... occorre sempre perseguire l’obiettivo
dell’equilibrio imprenditoriale fatto di visione
strategica, controllo economico e finanziario
e qualità della vita.”
Mirco Gasparotto
PRESIDENTE ARROWELD SPA
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SEVEN SPA
“Avevo capito che non avremmo avuto futuro
se avessimo continuato nella produzione
delle borse sportive per conto dei grandi
marchi. Intuivo che lo zaino si sarebbe
diffuso nel mondo dei giovani ma ci
trovavamo sempre in difficoltà per via del
leader di mercato, un concorrente grande
dieci volte noi e con un marchio forte, eppure
abbiamo deciso di sfidarlo…”
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La diversificazione di prodotto e la creazione del marchio
Per i fratelli Di Stasio fare zaini è da sempre una cosa naturale perché tutti e
sette hanno iniziato questo mestiere da bambini. Nei primi anni ’70 lavoravano
in un garage assieme al papà – ciabattino emigrato dal sud Italia – per produrre manici per borse e cartelle. Nel 1973 si spostano in un piccolo capannone e
realizzano borse sportive per conto di pochi grandi clienti (Tacchini, Wilson,
Converse e altri). Verso la fine degli anni ’70, Bruno Di Stasio intuisce che la
borsa è destinata ad impoverirsi e a diventare esclusivamente un veicolo pubblicitario per i grandi marchi dello sport. Per impiegare al massimo le capacità
tecniche dei suoi fratelli, decide di differenziare la produzione spostandosi nella nicchia degli zaini da alpinismo. Il marchio Seven nasce proprio per distinguere la nuova linea di contenitori tecnici dalle tradizionali borse sportive in
nylon. Questo cambiamento di rotta fa intravedere le potenzialità del mercato
degli zaini ma fa anche capire immediatamente la debolezza di Seven rispetto
a Invicta, allora leader di mercato. Invicta, a metà degli anni ’80, con un prodotto destinato ad avere un enorme successo – lo zainetto Jolly – era riuscita a
cavalcare il fenomeno dei “paninari”, ragazzi che avevano scelto come segno
distintivo felpe e jeans americani, piumini Moncler e scarponcini Timberland. I
contenitori usati fino a quel momento dagli studenti per portare i libri non andavano più bene: le tradizionali cartelle si adattavano male ai nuovi capi di abbigliamento che erano venduti nei migliori negozi di sport. Proprio in questi
punti vendita si trovava il prodotto giusto da abbinare al piumino e alle Timberland: uno zainetto di piccole dimensioni che consentiva anche maggiore libertà di movimento. Nell’arco di pochi anni, Invicta passò dalle 50.000 unità a
1 milione circa di zaini venduti in Italia, con raddoppi continui del fatturato di
anno in anno. Il loro prodotto era diventato il simbolo di una generazione!
Davide contro Golia
Eccoci alla seconda mossa. Dopo l’intuizione di abbandonare le borse sportive e di dedicarsi allo zaino, Bruno Di Stasio decide di prendere le distanze da
Invicta, consapevole che un attacco frontale ad un concorrente così forte sarebbe un suicidio. L’intuizione vincente (siamo nel 1987 con un fatturato di 1,5
miliardi in lire) è quella di proporre gli zainetti ai grossisti del settore scolasti-
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co per far arrivare il prodotto Seven nelle cartolerie. Questi negozi, essendo diminuita la richiesta delle tradizionali cartelle, perdevano fatturato a vantaggio
dei negozi sportivi dove erano posizionati gli zaini Invicta. D’altra parte Invicta aveva sempre rifiutato di veder collocato un prodotto tecnico e di tendenza
come il suo in cartoleria. I risultati di questa scelta distributiva non tardano ad
arrivare e nel 1992 la Seven produce 300.000 zaini per uso scolastico, servendo più della metà dei grossisti esistenti in Italia e raggiunge un fatturato di circa 13 miliardi di lire. Nello stesso anno Invicta, che continua a mantenere la
leadership assoluta del canale sportivo, vende 1,2 milioni di zaini con un fatturato di 110 miliardi di lire. Nonostante la crescita di Seven nel mondo scuola, il
leader è ben sette volte più grande: per dimensioni e forza del marchio, continua ad essere un gigante. Cosa accadrebbe se il leader decidesse di attaccare
Seven usando il marchio Invicta nelle cartolerie o se decidesse di entrare nella
grande distribuzione, con una linea ad hoc, accontentandosi di margini un po’
più contenuti? Non è certo tranquilizzante pensare che il leader investe circa 3
miliardi di lire in campagne pubblicitarie sui principali canali televisivi mentre
Seven destina 300 milioni alla pubblicità, budget che non consente di comunicare al grande pubblico la capacità di innovazione dell’azienda e la validità dei
suoi prodotti!
Le innovazioni di prodotto e la pubblicità
Eccoci allora alla terza mossa. Nel 1993, temendo di essere attaccati da Invicta, i fratelli Di Stasio lanciano un’offensiva diretta al leader. Per differenziarsi dal concorrente, iniziano un’attenta politica di selezione delle materie prime:
gli zainetti devono essere realizzati con materiali e componenti non reperibili
in Cina (per esempio utilizzano tessuti nuovi spesso mutuati dal mondo sportivo). Studiano poi forme di partnership con i fornitori per evitare che il concorrente possa impossessarsi degli stessi materiali. Sul fronte delle soluzioni
tecniche, iniziano a brevettare le loro innovazioni per proteggerle dalle possibili imitazioni. Per esempio, lo zaino triplicabile e quello con la tasca porta
walkman, pensati per un utilizzo del contenitore anche al di fuori di quello
scolastico, sono novità che Seven registra con appositi brevetti. Il prodotto viene arricchito anche dal punto di vista stilistico: i modelli vengono ideati da
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team di creativi spinti a girare il mondo a caccia di tendenze. Ma il vero “uovo
di Colombo” per sferrare l’attacco decisivo al concorrente è fare pubblicità: solo comunicando la novità del prodotto ai giovani consumatori si riesce a contrastare la forza di Invicta. Con un fatturato di 13,5 miliardi di lire, Seven passa
dal budget di 300 milioni ad un investimento di 3 miliardi in comunicazione. In
pieno agosto, nel mese che precede l’apertura delle scuole e che è fondamentale per gli acquisti, viene proposta sulle reti nazionali la prima vera campagna
pubblicitaria. L’investimento, assolutamente spropositato rispetto alle dimensioni economiche di Seven, è possibile poiché, dato il mese e il periodo difficile, l’agenzia che si occupa della vendita dello spazio pubblicitario è disposta,
pur di saturare gli spazi liberi, ad abbassare notevolmente il costo della campagna pubblicitaria, lasciando la possibilità di un pagamento dilazionato. E così, con un pagamento rateale ed aiutati un po’ dalle contingenze, i mitici fratelli debuttano sul grande schermo. Nel 1994, per la prima volta, il fatturato ed i
volumi scuola venduti da Invicta scendono a favore di quelli di Seven (negli anni precedenti Seven aveva “rosicchiato” quote di mercato solo ai produttori di
contenitori tradizionali per il mondo scuola). La campagna pubblicitaria funziona: i ragazzini iniziano a volere lo zainetto Seven, coloratissimo, moderno e
“di tendenza” rispetto a quello più tradizionale del concorrente.
La riorganizzazione interna per sostenere la crescita
La quarta mossa, avviene in parallelo a quanto sopra raccontato, ed è una
azione di tipo organizzativo. Per anni la Seven e gli affari di famiglia sono stati
sulle spalle di Bruno Di Stasio e, nel tempo, oltre ai fratelli ed ai parenti acquisiti, sono entrati in azienda una ventina di persone tra operai ed impiegati non
familiari: tutte persone in più che vanno seguite. Gran parte del lavoro viene decentrato in piccoli laboratori esterni, molti dei quali sono quelli abbandonati anni prima da Invicta a favore della Cina. Anche il coordinamento ed il controllo
di questi terzisti assorbe parecchie energie a Bruno, costretto a passare molto
tempo lontano dall’azienda per gestire i flussi di semilavorati. I limiti di questa
gestione si iniziano a sentire: diventa indispensabile investire nel miglioramento organizzativo. Si avvia un processo di delega e di assegnazione di responsabilità funzionali. Viene ulteriormente potenziata la funzione creativa – in tutto
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una ventina di persone – con l’inserimento di ragazzi in età tra i 18 e i 23 anni.
Per Invicta ha inizio una spirale negativa: il fallimento della linea per le cartolerie, le difficoltà a regolare la distribuzione tra dettaglio e GDO, l’assenza di
risultati brillanti nell’abbigliamento e l’insuccesso nella creazione di una rete di
negozi in franchising, sono accadimenti che spingono i proprietari ad uscire
dal business. Nel 1994, cedono l’azienda (che aveva un fatturato di circa 100
miliardi di lire) ad una società finanziaria che a sua volta, dopo qualche anno,
venderà le quote ad un’altra finanziaria. Il passaggio di mano in mano e l’allargamento del core business all’abbigliamento fa perdere definitivamente la leadership sullo zaino nel canale scuola.
Seven alla fine degli anni ’90 diventa leader italiano nella vendita di zaini per
uso scolastico nel target 8-14 anni raggiungendo un fatturato di 36 miliardi di lire ed una produzione di 600.000 pezzi con settanta dipendenti. Si susseguono
campagne pubblicitarie sempre più costose per difendere la posizione raggiunta. Il target è delineato in modo chiaro, così come sono mantenute regole precise per definire la distribuzione senza creare confusione tra i canali. Gli attributi
di qualità del prodotto, innovatività e creatività sono rinsaldati di giorno in giorno. L’organizzazione viene ulteriormente perfezionata e rafforzata con l’ingresso di persone non appartenenti alla famiglia, giovani e più scolarizzate della generazione dei fondatori. La produzione è concentrata in Italia e realizzata attraverso una rete di laboratori satelliti specializzati in singole fasi di lavorazione.
Il nemico storico è sconfitto ma, ciò nonostante, i Di Stasio si sentono “sotto
tiro”: la loro leadership è minacciata. I marchi Eastpack e Jansport che spopolano nelle scuole superiori, nelle università ed in certi ambienti di lavoro iniziano a suscitare l’interesse dei giovanissimi delle medie inferiori. Dal basso, il
target 8-14 anni, viene minacciato dai gruppi di produttori di giochi per l’infanzia. Società come Giochi Preziosi o Mattel, già in possesso di licenze per l’utilizzo di marchi internazionali – tipo Barbie, Walt Disney, Pockemon, Hello
Kitty – hanno iniziato a far produrre a fornitori.
L’espansione commerciale in Europa e la delocalizzazione
produtttiva
Sentendosi minacciata da nuovi competitors, la direzione della Seven decide
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di uscire dai confini nazionali. L’obiettivo è quello di diventare leader in Europa nel segmento del mondo scuola, sfruttando l’opportunità della mancanza di
un marchio leader a livello europeo. L’espansione avviene lungo tre direttrici.
Dapprima si acquisiscono in esclusiva le licenze di marchi di fama internazionale, appartenenti al mondo dei cartoons. In seconda battuta si creano filiali
nei paesi in cui si vuole penetrare (una filiale commerciale in Spagna, una produttiva in Romania, un polo di coordinamento delle produzioni e per la ricerca delle materie prime a Hong Kong) indispensabili per ottenere la riduzione
di costi necessaria a pagare le royalties sui marchi. In terzo luogo, si usa la delocalizzazione non solo per ottenere l’abbattimento dei costi di manodopera
ma anche per acquisire nuovi bacini di utenza grazie all’affiancamento alle
strutture produttive di nuove società commerciali per la distribuzione.
Contemporaneamente alla strategia di espansione internazionale, Seven ha
scelto di mantenere in Italia alcune funzioni e attività chiave per l’azienda – il
marketing, il commerciale, lo stile, la gestione dei marchi in licenza, gli acquisti, l’amministrazione, il controllo qualità – e di creare un polo logistico centralizzato ove far confluire tutte le produzioni e dal quale inviare la merce finita in
tutta Europa. L’espansione in Europa e la delocalizzazione, lungi dall’impoverire il tessuto economico nazionale, hanno già determinato una crescita qualitativa interna, in termini di profilo dei dipendenti italiani, e ad una crescita
quantitativa esterna, in termini di numero di imprese italiane e non, coinvolte
nell’indotto generato dalla crescita di Seven.
Davide mangia Golia
L’ultima mossa dei fratelli Di Stasio (almeno al momento) è quella che risale
al marzo 2006 e ha riguardato l’acquisizione dello storico concorrente Invicta.
Diadora Spa ha ceduto a Seven Spa il ramo d’azienda Invicta. L’operazione ha
previsto che Diadora mantenesse in essere la licenza del marchio Invicta relativa alle linee di abbigliamento e ha permesso che Seven aggiungesse un tassello importante al suo piano strategico mirato a consolidare il suo ruolo leader sul mercato europeo. Il posizionamento del marchio Invicta consente infatti di acquisire un target di clienti diverso da quello di Seven e di entrare nel
canale sport e tempo libero. La realizzazione completa del progetto di espan-
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sione all’estero e l’acquisizione di Invicta dovrebbero portare la Seven Spa a diventare leader europeo del mercato scuola e tempo libero entro il 2008, con un
fatturato consolidato di circa 100 milioni di euro e circa 150 dipendenti in Italia. Questo piano di sviluppo ha richiesto un adeguamento dell’organizzazione
e, in particolare, l’inserimento di due figure manageriali di calibro internazionale a supporto del gruppo familiare con responsabilità precise rispettivamente nella pianificazione e nel controllo della catena di fornitura internazionale e
nel marketing strategico.
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
Fatto questo, adesso…
“Credo che la nostra storia possa testimoniare
che non bisogna avere timori a cambiare e
mettersi in discussione: siamo passati senza
troppe remore dai borsoni sportivi agli zaini,
dal negozio sportivo alla cartoleria, dallo
zaino tecnico allo zainetto scuola. Allo stesso
modo abbiamo sempre considerato i confini
dell’azienda in modo assolutamente flessibile
in funzione di quello di cui avevamo
bisogno: Italia, Romania, Cina, Seven più
Invicta e avanti così anche per il futuro:
in continuo movimento.”
Bruno Di Stasio
PREDIDENTE SEVEN SPA
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ANTICA MURRINA
SRL
“Negli anni ’60 andavamo in Vespa
a vendere la bigiotteria veneziana in
Germania, negli anni ’70 la importavamo
dai paesi dell’Asia, negli anni ’80
siamo andati tra i primi a produrre in
Marocco ma anche in Romania e in Tunisia.
Di globalizzazione e delocalizzazione
ne sappiamo qualcosa ...”
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
Cittadini del mondo prima della globalizzazzione
La storia di Cristalstrass, azienda presente dal 1983 in Marocco, impegnata
nella produzione di bigiotteria che rifinita e montata in italia viene venduta con
marchio Antica Murrina e di lampadari con il brand Voltolina Lighting, è utile
per mettere a fuoco gli elementi che possono agevolare od ostacolare una iniziativa di delocalizzazione. L’esperienza o forse, per certi aspetti, l’avventura
dei due protagonisti di questo caso, i fratelli Achille e Francesco Voltolina, testimonia che la decisione di delocalizzare è comunque faticosa e deve, a maggior ragione, essere dettata da oggettive caratteristiche del business e supportata da una predisposizione cosmopolita. Achille e Francesco Voltolina, oggi
sessantenni, sono rispettivamente l’ottavo e il nono figlio tra i quindici di una
famiglia di agricoltori dediti da generazioni alla bonifica delle campagne nei
dintorni della laguna veneziana. Sarà per questa tradizione a “conquistare nuove terre e a strapparle al mare” che i due, dopo qualche anno trascorso all’estero accontentandosi di lavori saltuari, a partire dal 1960, iniziano a esportare
in Germania perle e bigiotteria in vetro fatte realizzare da laboratori artigianali. Leggendari restano i viaggi dei due fratelli, fatti prima usando una Vespa e
poi una Fiat 500, per portare la mercanzia da Venezia al loro principale cliente
di allora che si trovava a Dusserdorlf. Dopo dieci anni di esportazioni del “Made in Venezia”, sono costretti a registrare i primi segnali di cambiamento: i loro clienti europei iniziavano a comprare prodotti sostitutivi provenienti da Taiwan e Hong Kong. I Voltolina decidono allora di diventare importatori di bigiotteria etnica dai principali paesi orientali. Per qualche tempo questa attività
di trading funzionò bene ma, anche in questo caso, la posizione dei due commercianti veneziani era strutturalmente debole (non producevano, non avevano un marchio, non avevano contratti di esclusiva) e faticavano a mantenere
un vantaggio competitivo stabile nel tempo. Nell’82 interrompono anche la fase da importatori e decidono di produrre pendenti in cristallo per lampadari in
concorrenza con il gigante austriaco Swarovski (restando comunque nell’ambito delle materie prime e delle lavorazioni di cui si erano occupati in precedenza). Conoscendo molto bene i paesi del Nord Africa per via delle loro precedenti scorribande commerciali e turistiche, la scelta fu quella di localizzarsi
in Marocco.
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Da Venezia a Casablanca
La decisione fu presa valutando positivamente le condizioni socio-politiche
del Paese rispetto all’Algeria, all’Argentina alla Tunisia e trovando il Marocco
estremamente conveniente per la vicinanza e per l’elevata disponibilità di manodopera che consentiva di essere competitivi senza ricorrere ad una costosissima automazione. Con una strategia assolutamente monoprodotto, nel momento di culmine del successo di Cristalstrass, arrivarono a produrre 200 milioni di pendenti all’anno del valore di 80 lire ciascuno, venduti in prevalenza
ai produttori di lampadari nei paesi del golfo arabo, in Europa e nelle Americhe, con un organico di ben 1170 persone e una struttura totalmente integrata.
Ma la strada non era ancora quella definitiva: i prezzi degli ottagoni in cristallo
continuarono a scendere (perché i principali concorrenti ebbero la forza finanziaria per scegliere la via dell’automazione spinta) e l’unica mossa per contrastare tale difficoltà sembrò quella di diversificare il prodotto e il mercato. Rispolverando le competenze accumulate nel passato i Voltolina avviarono nel
1989 in Marocco una produzione di bigiotteria con largo uso delle murrine veneziane, la particolare lavorazione del vetro tipica dell’isola di Murano. La strategia era opposta a quella dei pendenti per i lampadari: si decise di puntare sul
segmento alto del mercato, sul prezzo e sul marchio, con investimenti consistenti per affermare il brand Antica Murrina. In parallelo assistendo alla irrefrenabile discesa del prezzo dei pendenti in cristallo (si é attualmente a meno di
metà del valore degli anni ‘80 per singola unità di prodotto), si optò nel 2000
(pena la chiusura dell’azienda) per integrare quella produzione arrivando a
realizzare lampadari in vetro e cristallo con il marchio Voltolina lighting. In
parallelo, registrando qualche turbamento politico in Marocco, si decise di aprire una unità produttiva anche in Romania dedicata alla produzione di perle di
vetro per la bigiotteria di Antica Murrina. Seguendo questo cammino tortuoso
si arriva al presente: in Marocco, nella sede di Settat, a 70 chilometri da Casablanca, si trovano le due divisioni: da un lato una unità di produzione per Antica Murrina con un fatturato di tre milioni di euro ed un centinaio di dipendenti; dall’altro la divisione lampadari Voltolina lighting che arriva ad un volume d’affari di 13 milioni di euro, realizzato in prevalenza sui mercati esteri e circa 600 dipendenti. In Italia, a Venezia, presso la casa madre operano un’ottan-
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
tina di persone dedicate al design, al marketing, alle vendite e alle principali
funzioni di staff.
La configurazione odierna ovvero il punto di approdo cui sono giunti si comprende meglio sottolineando un tratto della personalità dei due fondatori.
Achille e Francesco, pur nella diversità di temperamento, sono due giramondo,
sono due avventurieri, nel senso positivo del termine, sono persone capaci di
superare indenni periodi di forte incertezza e, senza questa inclinazione, il loro percorso sarebbe stato diverso. Non è un caso che Francesco al compimento dei diciotto anni chiese ai genitori un regalo tanto inusuale quanto significativo come il passaporto ed è altrettanto indicativa la sua scelta alle scuole superiori di studiare francese e tedesco certo che avrebbe poi imparato l’inglese
sul campo.
Il Marocco come opportunità per una piccola impresa italiana
L’esperienza di questi due girovaghi, approdati a Casablanca ben 25 anni fa,
è utile anche per mettere a fuoco i lati positivi e negativi di un possibile insediamento in Marocco secondo la prospettiva di un piccolo imprenditore italiano che si trovasse ad affrontare il tema. Tra i vantaggi i fratelli Voltolina enumerano: la chiarezza ed il rispetto delle leggi (in particolare il recente codice
del lavoro offre basi sicure per la tutela dei diritti e dei doveri delle parti); la lingua (il francese è la lingua ufficiale parlata da tutti seppure a diversi livelli); la
facilità nelle relazioni con l’amministrazione pubblica (che si mostra estremamente favorevole alla collaborazione con chi può creare nuovi posti di lavoro);
la grande disponibilità di manodopera (nonostante una natalità dimezzata, la
progressiva diminuzione delle attività rurali farà convergere sui centri urbani
manovalanza di provenienza dalle campagne); il costo del lavoro attualmente
vicino al 15% della media europea che, date le dinamiche socio-demografiche
in atto, si potrebbe mantenere inalterato per un’altra decina di anni; la produttività delle maestranze pari a quelle europea con un numero di ore annue lavorate che superano le 2000; la vicinanza (dalle tre ore di volo per le persone,
ai dieci giorni per le merci via mare o ai sei giorni su strada); la vivibilità del
paese che spazia dal clima, alla cucina, al turismo, alla cordialità degli abitanti.
Tra le criticità si segnalano invece: la lentezza del sistema giudiziario; la chiu-
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3. PROGETTARE I CONFINI AZIENDALI IN MANIERA FLESSIBILE
sura del sistema bancario che tende a non rispondere in modo efficiente alle
domande del mondo imprenditoriale; la carenza di manodopera specializzata
(i buoni tecnici sono rari e contesi, con livelli retributivi vicini agli standard europei); la tendenza da parte dei fornitori a non rispettare con precisione i termini di consegna. L’esperienza dei Voltolina permette anche di dare un giudizio positivo sul Marocco rispetto alla Romania (che con l’ingresso nella CEE è
destinata ad allinearsi ai livelli medi di costo delle risorse produttive) e rispetto alla Tunisia (un paese giudicato meno libero e democratico). L’evoluzione
seguita di Cristalstrass e Antica Murrina dimostra infine che si può pensare al
Marocco sia come luogo in cui delocalizzare produzioni ad alto contenuto di
manodopera per abbattere i costi medi di produzione ed essere più competitivi nei mercati di sbocco, sia come paese in forte sviluppo economico con 30
milioni di abitanti in media giovani e un aumento medio del PIL negli ultimi
cinque anni superiore al 5%. Insomma, un paese per certi aspetti simile all’Italia degli anni ’50 da cui i Voltolina sono partiti nella loro avventura imprenditoriale, un possibile mercato per le produzioni di chi ha scelto di insediarsi laggiù. Le quattro fasi in cui può essere sintetizzata questa storia imprenditoriale
(esportazione, importazione, delocalizzazione sui volumi e delocalizzazione
sulla qualità) dicono della difficoltà di una gara in cui si è perennemente rincorsi e, dove, appena prima di essere sorpassati e messi fuori strada, conviene
muoversi cambiando circuito. In questo senso la delocalizzazione è una scelta
obbligata per chi produce commodities, a basso valore aggiunto, indistinte e
diventa una necessità anche per chi, senza possibilità di ingenti investimenti in
automazione, realizza beni che impiegando molta manodopera, commercializzati con un marchio. Questo caso dice anche che per sopravvivere alle fatiche
della delocalizzazione occorre avere nelle “corde” delle intonazioni particolari
che vengono da lontano: una propensione ad essere cittadini del mondo anche
quando il mondo non era così comodo da raggiungere, la capacità di non porsi mai limiti di lingua, di religione, di cultura, di stili di vita diversi dal proprio.
Verrebbe quindi da concludere, che, primo, ha senso delocalizzare solo se si è
costretti dalle caratteristiche del business e se si possiede una forte inclinazione al cosmopolitismo. Secondo, che se ci sono queste condizioni di partenza,
il Marocco deve essere senz’altro tra i paesi da prendere in considerazione.
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
Fatto questo, adesso…
“Non tutti possono permettersi di lavorare
in Italia. Non c’è posto per tutti nelle nicchie
dell’eccellenza e a qualcuno tocca di dover
delocalizzare la produzione. Noi ci siamo
riusciti perché non ci siamo mai posti limiti
di lingua, di religione, di leggi, di cultura,
di stili di vita diversi dal nostro.”
Francesco Voltolina
PRESIDENTE DI ANTICA MURRINA SRL
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HTP UNITEX SPA
“Rappresento un caso un po’ particolare: ho
iniziato partecipando nel ‘94 all’acquisizione
della proprietà di un’impresa in una nicchia
che di lì a poco sarebbe quasi sparita. Ho
continuato a restare nel comparto
meccano-tessile incorporando altre aziende e
inseguendo un mercato che si spostava
dall’Italia all’Asia. In certi momenti ho anche
pensato di lasciar perdere ma mi spiaceva
abbandonare un settore poco conosciuto in
cui gli italiani sono sempre stati eccellenti…”
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
L’esperienza di HTP Unitex, impresa impegnata nella produzione di impianti per la preparazione e il finissaggio dei tessuti nelle fasi come il lavaggio, il
candeggio, la tintura e la stampa, può essere un utile spunto di riflessione per
avere indicazioni qualora ci si trovi nella difficile situazione di chi assiste alla
progressiva contrazione del proprio ambito di azione e alla migrazione del
mercato di riferimento dall’Italia a regioni del mondo molto distanti culturalmente e geograficamente. Cercare competenze al di fuori della propria impresa e lavorare sodo per integrarle a quelle esistenti sembra essere il modo scelto da questa azienda per resistere ai cambiamenti epocali che hanno interessato il settore tessile, per “restare in pista” in una gara in cui il traguardo pare spostarsi sempre più in avanti mano a mano che lo si avvicina.
Diventare imprenditore in un nicchia di prodotto
La vicenda si svolge in una dozzina di anni, anche se a ripercorrerla si ha la
sensazione che sia passato molto più tempo. È storia recente così come relativamente giovane, per età e per anzianità di settore, è l’imprenditore protagonista di questo caso. Alberto Sacchi, nato a Milano nel 1959, discendente di una
famiglia di grandi tradizioni industriali, si laurea in Giurisprudenza e consegue
poi un master in direzione aziendale. In queste poche note biografiche c’è già
molto della persona, che appare parecchio distante dallo stereotipo del piccolo imprenditore meccanico. Una preparazione manageriale internazionale, la
conoscenza di due lingue straniere, una limitata competenza tecnica, un forte
impegno nel mondo associativo e uno stile gestionale più anglosassone che italiano. Nel 1993, dopo aver maturato una serie di esperienze da dipendente in
contesti volutamente estranei agli interessi familiari, Sacchi decide di partecipare all’acquisizione della Viero. Si tratta di una piccola impresa situata a Caronno Pertusella in provincia di Varese, specializzata nella produzione di macchine per la stampa dei tessuti serici, con buone potenzialità di prodotto ma
una difficile situazione gestionale e finanziaria. L’operazione viene condotta da
Sacchi in società con un gruppo italiano leader nella produzione di tessuti in
seta per il quale la Viero rappresentava un fornitore strategico: nulla allora lasciava presagire quello che poi sarebbe accaduto. Sacchi per due anni si impegna in una faticosa operazione di turnaround; quando finalmente ha la sen-
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3. PROGETTARE I CONFINI AZIENDALI IN MANIERA FLESSIBILE
sazione di avere raggiunto gli standard organizzativi tipici di una impresa ben
funzionante, inizia ad intravedere il manifestarsi di un problema di mercato: la
nicchia relativa allo stampaggio di tessuti comincia a contrarsi per via della delocalizzazione progressiva del comparto tessile in paesi in cui questo tipo di
stampa può essere fatta con maggiore convenienza a mano, senza alcun ricorso ad investimenti in impianti automatizzati. Non si tratta semplicemente di uno
spostamento nella geografia dei mercati di sbocco ma di una vera contrazione
della domanda su scala mondiale. L’intuizione, purtroppo, si rivela giusta e per
la Viero, come per i suoi concorrenti, inizia una spirale negativa con volumi
d’affari che si riducono drasticamente.
Accorpare aziende per battere la crisi
La risposta del neo-imprenditore ai primi segnali di una riduzione di mercato è quella di entrare in una fase diversa della lavorazione dei tessuti medio-fini, rilevando un’impresa conosciuta fin dagli anni trenta per la produzione di
impianti di finissaggio (lavaggio, candeggio e tintura). Viene così accorpata la
Mezzera da sempre di proprietà della famiglia Jucker. Anche questa seconda
operazione presupponeva il recupero di una realtà, con indiscusse capacità
tecnologiche e con una buona reputazione, in difficoltà per via di problemi nel
gruppo industriale cui apparteneva. Come per la Viero occorreva trasmettere
positività ai dipendenti facendo capire che il nuovo “padrone” non aveva intenzioni speculative ma un piano industriale di lungo periodo teso ad integrare realtà con specializzazioni diverse. La prima battaglia vinta è stata quella dell’integrazione logistica delle due realtà in un’unica sede: la Mezzera viene trasferita da Milano a Caronno Pertusella, da un’area industriale di 10.000 mq ad
una superficie dedicata di 800 mq. Nonostante tutte le resistenze al cambiamento e le rivalità tra i due gruppi, Sacchi compie il miracolo iniziando a eliminare gli sprechi e le inefficienze a partire dalla logistica. Nel 1996 nasce HTP
Unitex come società derivante dalla fusione della Viero e della Mezzera. Risolte le problematiche organizzative e conoscendo sempre meglio il settore, l’imprenditore avverte questa volta il pericolo di una contrazione nella domanda
per quelle macchine di piccole dimensioni che nel passato avevano fatto prosperare la Mezzera nel mercato europeo a favore di grandi impianti per il fi-
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
nissaggio nelle regioni in cui si stava spostando la produzione dei tessuti. Si
tratta di fare un ulteriore salto per poter integrare la gamma offerta da HTP con
impianti molto più complessi per la nobilitazione dei tessuti (non solo serici).
Si intuisce la necessità di salire nella fascia più alta del mercato accollandosi il
rischio di scontrarsi con i concorrenti svizzeri, tedeschi e olandesi che negli anni si erano costruiti una reputazione fortissima nel segmento degli impianti a
ciclo continuo lasciando agli italiani, conosciuti per genio e sregolatezza, la leadership nel mercato delle macchine di piccole dimensioni. A tal fine, Sacchi si
mobilita per trovare all’esterno dell’azienda competenze da acquisire e da integrare. In tempi record, nel mese di luglio del 1997, chiude la negoziazione
che sancisce l’acquisto della Intes, una società di Bergamo che, pur essendo
sottoposta a procedura concorsuale, aveva in sé buone valenze tecniche. In
particolare la Intes era l’unica azienda italiana con un ufficio tecnico capace di
progettare impianti di finissaggio di grandi dimensioni in grado di far concorrenza ai maggiori produttori europei. Per la terza volta in quattro anni, Sacchi
si impegna nel processo di integrazione organizzativa della nuova entrata, decidendo di lasciare l’ufficio tecnico a Bergamo e di portare la produzione e il
commerciale in sede. Il periodo successivo, dal 1997 al 2001, è interamente dedicato a guadagnare credibilità in quel poco che resta del mercato italiano ed
europeo. HTP si presenta come un player nuovo che si candida ad essere un
polo orizzontale nel finissaggio dei tessuti avendo messo insieme le competenze di aziende specializzate.
Fare alleanze per inseguire un mercato che si sposta
In quegli stessi anni il processo di delocalizzazione delle produzioni tessili
dall’Europa ai paesi asiatici segue una fortissima accelerazione e il mercato di
riferimento della HTP si sposta quasi totalmente ad est (in India, Pakistan, Cina, Turchia e Iran). In uno scenario radicalmente cambiato, l’imprenditore avverte la necessità di rinforzare il nuovo indirizzo strategico: ampliare ancor più
la gamma degli impianti proposti mantenendosi nella fascia più alta del mercato. In questa direzione va letta l’acquisizione di una serie di brevetti e del
marchio Looptex per poter disporre anche della tecnologia per tingere il tessuto denim, un processo molto più complicato di quanto non si possa comu-
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3. PROGETTARE I CONFINI AZIENDALI IN MANIERA FLESSIBILE
nemente immaginare. Agli inizi del nuovo millennio HTP ha finalmente le
competenze tecnologiche, produttive e le referenze nazionali per proporsi su
scala globale. Purtroppo le risorse economiche, dopo anni di acquisizioni e di
ristrutturazioni in un settore in piena metamorfosi, scarseggiano e la forza del
commerciale e dell’assistenza post vendita sono decisamente limitate rispetto a
quelle dei concorrenti stranieri. Ancora una volta, instancabile, l’imprenditore
è costretto a trovare fuori dall’azienda ciò che gli serve per quello che sembra
essere stato il leit motiv degli ultimi anni: “saltare un’asta che ogni sei mesi mi
viene spostata un po’ più in alto”. È la volta di un accordo commerciale con una
multinazionale olandese – la Stork, quotata alla borsa di Amsterdam – che mette a disposizione di HTP la sua rete commerciale per vendere impianti di lavaggio e completare così la gamma della sua offerta e con la Karl Mayer tedesca per commercializzare gli impianti per tingere il tessuto denim. I risultati di
queste partnership iniziano a mostrarsi nel 2006 e sono di grandissima soddisfazione per l’imprenditore e per la sua squadra: sfruttando l’entratura olandese in Pakistan viene installato il più grande impianto di candeggio di cotone del
mondo (un impianto in cui corrono 120 chilometri di tessuto al giorno). Un
aneddoto fa capire la portata di questa realizzazione: dopo il collaudo dell’impianto un tecnico che, per stanchezza, aveva deciso di rassegnare le sue dimissioni, entusiasta per il risultato le ha ritirate al ritorno in Italia. Con un portafoglio ordini di circa 20 milioni di euro per il 2007, una settantina di collaboratori di cui 22 concentrati nell’ufficio tecnico, una struttura con un solo dirigente caratterizzata da competenze e responsabilità molto diffuse, HTP è adesso pronta a raccogliere i frutti derivanti da un decennio di fatiche. Non tutte le
operazioni che Sacchi aveva in mente sono andate a buon fine: dal caso in cui
si è trovato improvvisamente solo nell’acquisto, abbandonato a metà del guado da chi doveva supportarlo finanziariamente a quello in cui il potenziale
partner industriale si ritira perché un certo individualismo prevale sui vantaggi
della collaborazione.
La storia di HTP permette di riflettere sulla mentalità e sulle competenze poliedriche che occorre sviluppare per crescere attraverso acquisizioni e fusioni.
Una sensibilità alle evoluzioni di mercato per capire “dove tira il vento” e che
dovrebbe essere tipica dell’imprenditore, senza cadere nella trappola di chi co-
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Fare impresa in Italia: cosa cambiare, come vincere
noscendo il settore da molto diventa prigioniero dei propri schemi mentali;
un’attenzione ai processi organizzativi e un controllo dei costi per risanare e
mettere insieme realtà diverse che è propria del manager, evitando di farsi
prendere troppo la mano dagli strumenti e dalle mode manageriali.
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3. PROGETTARE I CONFINI AZIENDALI IN MANIERA FLESSIBILE
Fatto questo, adesso…
“Ho cercato attraverso acquisizioni
e alleanze commerciali di rafforzarmi
e resistere ai cambiamenti epocali che hanno
interessato il settore tessile. Aggregare realtà
diverse e fare accordi è stata la soluzione
da me sperimentata per restare in pista in
una gara in cui il traguardo pareva spostarsi
sempre più in avanti mano a mano
che lo si avvicinava.”
Alberto Sacchi
PRESIDENTE DI HTP UNITEX SPA
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