LE “COMPLICANZE” DI ALBORGHETTI E LE “VISIONI” DI LIDIA

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LE “COMPLICANZE” DI ALBORGHETTI E LE “VISIONI” DI LIDIA
12 Cultura
GIORNALEdelPOPOLO
SABATO 7 GIUGNO 2014
il palchetto
di GILBERTO ISELLA
LE “COMPLICANZE” DI ALBORGHETTI
E LE “VISIONI” DI LIDIA SELLA
È vero, come afferma Pascal
Mercier nell’esergo scelto da Fabiano Alborghetti per la sua suite
poetica Complicanze e altre forme
(Bloc notes 64, 2014), che «Delle
mille esperienze che facciamo,
riusciamo a tradurne in parole al
massimo una e anche questa solo
per caso e senza l’accuratezza che
meriterebbe». Come tradurre, ad
esempio, quel complicato stato
d’animo fatto di ansia e snervante attesa, di morbosa attenzione
al dettaglio scenografico volta a
eludere il fantasma della fine, che
matura in un individuo ricoverato
all’ospedale per sottoporsi a una
TAC? Scongiurando il rischio di
tradire la specificità di un simile
groviglio emozionale, Alborghetti
affronta la “complicanza” attraverso un processo di ben calcolata
alienazione linguistica: riformulare l’intima, indicibile esperienza
del sentire nel registro “esteriore”
e oggettivante della cronaca, una
cronaca preordinata d’altronde
dall’apparato clinico.
L’ordine ospedaliero, da cui
la parola poetica sembra ormai
dipendere, fa apparire l’interconnettersi delle microsequenze
(ricovero, proiezione del cervello sul video, ecc.) una procedura
assolutamente logica e normale:
«Sembra quasi un telefilm ma
ci manca un qualchecosa/ una
febbre da emergenza, la tensione
del minuto/ ma agli occhi è tutto uguale». Se il qualchecosa vien
meno, la dizione neutra e incline
al parlato potrà solo esprimere un
Lidia Sella e la copertina della sua opera.
Fabiano Alborghetti.
paradossale “plusvalore negativo”
dell’emozione, o, se vogliamo, elevare l’emozione a un’artificiosa seconda potenza, sradicandola per
così dire dalla vita del soggetto. E
nondimeno l’ultimo capitolo del
dolore, ostaggio dei riti tecnologici, sarà ancora la poesia a scriverlo, nel trasformare perfino il vocabolo tecnico in canto.
aneurisma è una parola
mai sentita dentro un testo di poesia
e ricerco le assonanze perché suoni più efficace
non un suono fuori posto, che rovini tutto il testo…
POESTATE Con
Un’atmosfera decisamente diversa si respira in Eros, il dio lontano. Visioni sull’amore in Occidente
(postf. di Armando Torno, Milano,
La Vita Felice, 2012), ultima raccolta poetica della milanese Lidia
Sella. Una serie di liriche distribuite in macrosequenze che si
rimandano l’un l’altra dando luogo a un’architettura unitaria. Nel
poemetto aleggiano, grazie alla
disposizione grafica in strofe che
si susseguono come altrettanti
calligrammi, le visioni enunciate
nel titolo. Protagonista è Eros, il
dio pagano dell’amore.
Con disinvoltura Lidia Sella si
cimenta col tema fondamentale di ogni civiltà, quella forza che
“muove il sole e l’altre stelle”, per
dirla con Dante. Ma l’Amore, una
sorta di “daimon” garante, secondo Platone, del contatto tra mondo
terreno e mondo celeste, è anche
una potenza dissolvitrice, indissolubilmente legata alla Morte.
Lo sa bene la nostra poetessa che,
evitando ogni rivisitazione neoclassica del mito, parla in e per un
mondo segnato da una progressiva
degenerazione degli umani sotto lo
sguardo di Eros. Quel dio, appunto,
è “lontano” e inafferrabile, capace
sia di mostrarsi in forme trascendenti
sia di materializzarsi prosaicamente
nel viagra. In nessuna pagina l’autrice dimentica che viviamo in un
un universo buio e lacerato da mille
contraddizioni. Ma Eros, malgrado la
propria latitanza, è una divinità che
non smettiamo di invocare. Lo consideriamo un soccorritore capriccioso, che nei momenti più struggenti di
nostalgia sembra gratificarci. Come
quando egli, nella sequenza Nostalgia di Eros, «polline di primavera sui
tuoi tormenti cala». Il cosmo, ammirato all’inizio con soggezione (vedi le
sue «pieghe desolate»), si rivela ben
presto un immenso organismo dove
le creature «ricamano il loro destino
d’amore». Tutte, dall’uomo alle più
infime unità viventi: i virus, le molecole, i quarks.
Grazie al dio Eros
-nato dall’uovo pieno di vento
germogliato in seno alla Nottel’amore palpita nel cuore dell’essere
dona senso ai paesaggi
guida gli elementi
s’insinua sottopelle.
Eppure perché tanto impervio
insidioso
il sentiero d’amore?
la serata dedicata ad Israele
I versi di un popolo
di MANUELA CAMPONOVO
L’evento di punta della prima
giornata della rassegna era, giovedì,
l’Omaggio alla poesia israeliana, organizzato in collaborazione con ASI,
Associazione Svizzera Israele Ticino.
Ad aprire la serata, davanti ad una folta platea, i discorsi ufficiali di Stefano
Vassere, in rappresentanza del Cantone e del sindaco di Lugano, Marco
Borradori che hanno lodato Poestate
e la sua tenace “anima”, Armida Demarta, per i preziosi contributi alla
cultura, il coraggio, l’internazionalità. E poi Ofer Berkovitz, vicesindaco
di Gerusalemme, che ha ricevuto
anche una lettera-viatico di Daniele
Finzi Pasca e che ha raccontato della
sua impegnativa città multiculturale. Ma il centro dell’incontro, curato
da Sara Ferrari e Andrea Wais, era
costituito dalla voce dei poeti e dalle
esecuzioni musicali del Nefesh Trio
tra passaggi di struggente lirismo e
trascinante dinamicità.
Interessante, soprattutto, è stato il
percorso storico-geografico-letterario della poesia ebraica, che riflette
quella del popolo, delle sue radici e
contaminazioni, tracciato da Sara
Ferrari con esemplare e chiara concisione. A partire naturalmente dalla
Bibbia e, in particolare, dal misterioso incessante tema ispirativo del
Cantico dei Cantici. E poi, nella diaspora, nel trauma dell’esilio, la fonte di produttiva influenza che sono
stati i territori di emigrazione come
la Spagna e la cultura araba o l’Italia
di Dante (esempio di questo contatto
fu Immanuel Romano). Fino ad arrivare al Sionismo, all’idea di creare la
propria patria, di trasferirsi in terra
di Israele. Con la necessità anche di
reinventarsi una lingua, tra passato
e presente. Una prima voce poetica
Il violinista Daniele Parziani del Nefesh Trio e Giuseppe Farah. (fotogonnella)
del nuovo Stato fu quella di Rachel
(Bluwstein). E il sentimento di divisione tra due patrie, la nostalgia per
l’Europa lasciata che vive ad esempio
in Lea Goldberg. Per giungere alla
contemporaneità con nomi noti e
meno noti, l’ironia e il sarcasmo del
rovesciamento, la sensualità, l’intreccio naturale tra poesia e canzone: i
testi messi in musica che diventano
delle hit. E, ovviamente, passando
attraverso la tragedia delle tragedie
che si traduce nell’icastica contabilità
delle perdite, come nella celebre Sfavorevole agli addii di Nathan Zach.
Il tutto alternato alle letture con
l’interpretazione potente e decisa di
Giuseppe Farah. Poestate si conclude oggi. Segnaliamo per questa sera
(ore 20.30) L’incontro nell’ambito dei
festeggiamenti per il 200° delle Relazioni Diplomatiche Svizzera-Russia.
dimmi un libro
CONFERENZA E LIBRI
Dionisotti
e un doppio
Padre Pozzi
In una serata ben frequentata, nonostante
altre concomitanze culturali, lunedì sera
è stato presentato alla Biblioteca Salita dei
Frati il carteggio Dionisotti-Pozzi, curato da
Ottavio Besomi e pubblicato nelle Edizioni
di Storia e Letteratura (Roma, 2013). A fare
gli onori di casa e ad introdurre, Fernando
Lepori che ha sottolineato come questo
libro sia un contributo fondamentale per la
conoscenza dei due protagonisti e dei loro
rapporti, improntati alla stima reciproca,
franca e senza compiacimenti. Le lettere,
che lasciano poco spazio alle annotazioni
personali trattando soprattutto questioni
legate agli studi, al lavoro, ai progetti in corso,
risultano importanti anche per la cultura
della Svizzera italiana e per i problemi
della ricerca dalla metà del secolo scorso (il
periodo della corrispondenza va dal 1957 al
1997).
Molto circostanziata, la relazione di
Alessandro Martini, che ha messo in
luce, nel tipo di scambio epistolare, anche
l’atmosfera di un’epoca irripetibile: in fondo
non sono trascorsi molti anni eppure sembra
un tempo già remoto. Tra Dionisotti (1908)
e Pozzi (1923), vista la differenza di età, da
una parte correvano consigli, dall’altra
sollecitazioni e anche una certa soggezione,
fino agli anni ‘80, quando Dionisotti
soprattutto segue con interesse le novità del
lavoro di Pozzi che prende la strada della
“parola dipinta”... Nei progetti da consolidare,
saggi da realizzare, considerazioni su libri,
autori del presente e del passato, emergono
i riferimenti al metodo, alla ricerca e alla
scuola, intrinsecamenti legati, all’impegno
del gruppo di studenti per i quali Pozzi
manifestava anche la preoccupazione di
isolamento «E domani saranno in un piccolo
paese col rischio di rimanere soffocati». Sulla
base di un linguaggio comune, «Una degna
amicizia, buona per entrambi», la frase tratta
da una lettera di Dionisotti e diventata il titolo
del volume. Come evidenziato in chiusura
da Ottavio Besomi anche con l’ausilio di un
repertorio fotografico, al centro è il senso
di una comunità che dialoga, si stimola, si
corregge...
E torniamo di nuovo a Padre Pozzi per
un’altra pubblicazione, curata dallo stesso
Fernando Lepori: Metodi e temi della
ricerca filologica e letteraria di Giovanni
Pozzi (Firenze, Edizioni del Galluzzo per la
Fondazione Ezio Franceschini, 2014). Si tratta
degli «atti di un seminario di studi, promosso
ed organizzato dall’Associazione Biblioteca
Salita dei Frati di Lugano e dalla Regione
della Svizzera italiana della Provincia
svizzera dei Cappuccini nell’ottobre
del 2003, con il quale ci si è proposti di
illustrare i metodi e i temi della ricerca
filologica e letteraria di Giovanni Pozzi,
individuando gli aspetti più significativi
per l’originalità dell’analisi e la novità
dei risultati. Le relazioni riguardano in
particolare la topologia, i commenti, gli studi
sull’Umanesimo, sul Seicento, sulla mistica
e su Francesco D’Assisi e il francescanesimo
e quelli su parola e immagine». I contributi
sono di Besomi, Franco Gavazzeni, Mirella
Ferrari, Ezio Raimondi, Claudio Leonardi,
Giovanni Romano. Completano il volume la
bibliografia di Pozzi e l’elenco dei corsi tenuti
(MAN.C.)
a Friburgo.
di MICHELE FAZIOLI
PIERO BIANCONI, SCRITTORE E TESTIMONE
Trent’anni fa moriva Piero Bianconi. Aveva 85 anni e manteneva
un lucidissimo graffio di scrittura
civile. Un banale incidente della circolazione tolse anzitempo al Ticino
una delle sue voci più chiare. 45 anni
fa usciva il suo Albero genealogico,
uno dei libri da leggere e rileggere
su questo Ticino non appena lo si
voglia capire meglio nelle sue radici
per afferrarlo meglio nel suo presente. Il libro ha una misura sua propria,
non è un romanzo puro ma nemmeno è una cronaca storica: è «un libro
creativo fermamente voluto» come
scrive Renato Martinoni nella bella
introduzione all’ultima edizione da
lui curata (Dadò, 2009, con un contributo anche di Dante Isella). Piero
Bianconi parte dalla scoperta, su
nella lobbia della casa dei nonni a
Mergoscia, di un baule pieno di lettere che avevano viaggiato fra Verzasca e America nell’800 e primo ‘900:
da lì egli risale il filo della memoria
personale e collettiva di sé, del suo
casato, della sua terra. E ne trae una
rimembranza accorata, lucida, affettuosa e amara di un’epoca aspra e
povera, solidale e drammatica, vissuta dalla gente della sua valle (e di
tutte le valli nostre) dentro la realtà
della vita contadina e dell’emigrazione forzata e popolare che resta
l’unica vera epica di queste nostre
terre impoverite a lungo ma preservate dalle bufere delle grandi guerre.
L’Albero genealogico costituisce in
questo senso, assieme al Fondo del
sacco di Plinio Martini, il corrispettivo narrativo della poderosa fatica di
ricerca storica di Giorgio Cheda.
Quando uscì nel 1969, il libro
prendeva un avvio attuale: Bianconi ricordava come fosse salito con
suo figlio a guardare alla ciclopica
mutazione indotta dal nuovo lago
artificiale della diga della Verzasca,
le cui acque avevano coperto prati,
sentieri, cascine, memorie, inghiottendo un’epoca. Cogliemmo già allora quel senso di elegia per un tem-
po che fu, figuriamoci
oggi con quale sguardo possiamo ripensare
a quel padre e a quel figlio che nel 1965 cavalcano il presente e che
a 45 anni di distanza
sono già loro stessi un
passato, intenti a guardarne uno più lontano… Già la distanza
— allora — tra il padre
e il figlio era molto
più complessa che
non quella puramente
anagrafica. Era quasi
una cesura di civiltà.
Bianconi annota per
esempio d’avere udito
il battere ritmato del martello sulla lama di una falce poggiata sulla
còte per affilarla e di essersi sentito
chiedere dal figlio quale rumore mai
fosse: lo scrittore constata che quel
suono così antico che riempiva i crepuscoli estivi con i contadini seduti
davanti alle cascine
a battere le lame, sta
morendo; e che l’ultimo testimone diretto
e consapevole è lui,
in tempo per tramandarlo come notizia
al figlio. Dopo quasi
mezzo secolo possiamo ben dire che quel
suono di falci battute
è morto davvero, del
tutto. Piero Bianconi
rievoca i personaggi
singolari, migranti e
ritornanti, eccentrici
e generosi, meschini
e buoni, del suo casato, a partire dal suo
nonno dalla barba rossa, focosa e
talentuosa figura di “pater familias”.
Bianconi risale i rami della propria
genealogia povera e contadina, riaccende storie e ricordi, libera anche
un giudizio a metà fra una personale nostalgia esistenziale e una
critica civile che si affaccia sul presente suo. Alcune scene sembrano
appartenere ad altri mondi, e invece
stanno appena nel nostro mondo di
ieri. Basti pensare alla donna incinta, rimasta sola nella sua cascina (gli
uomini lontani sui monti) e che negli ultimi giorni prima di partorire
si nutre di erba.
Basti pensare alla parsimonia
della madre che all’alba invita il figliolo a spiare da quale camino di
cascina già esca un filo di fumo per
mandarlo poi a chiedere un tizzone
acceso e tornare di corsa per avviare
il fuoco nuovo di casa risparmiando
un prezioso fiammifero. Piero Bianconi queste cose le ha viste con i suoi
occhi o le ha sentite raccontare da
chi lo teneva da piccolo per mano. È
un testimone.
Piero Bianconi
Albero genealogico
Armando Dadò Editore
Piero Bianconi
nacque
a Minusio
il primo giugno
del 1899 e morì
il 5 giugno
del 1984.
In questi giorni
dunque
si ricordano
i trent’anni
dalla scomparsa,
ma anche
la sua opera
più nota,
“Albero
genealogico”.