Corso di Laurea in Discipline Psicosociali

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Corso di Laurea in Discipline Psicosociali
UNIVERSITÀ TELEMATICA INTERNAZIONALE
UNINETTUNO
FACOLTÀDIPSICOLOGIA
CorsodiLaureainDisciplinePsicosociali
Elaboratofinale
In
DidatticaeNuoviMedia
Mentoringneicorsiadistanza
Relatore:Prof.LucianoDiMele
Candidato:FedericoMarcucci
Matricola:2340HHHCLDIPSI
AnnoAccademico
2014/2015
INDICE
INTRODUZIONE
pag.2
CAPITOLO I : IL MENTORING E LA SUA EVOLUZIONE
pag.5
pag.7
pag.12
pag.13
pag.15
pag.15
pag.16
1. Il mentoring: definizione
2. La relazione tra il mentée e il mentor
3. Le fasi di un intervento di mentoring
3.1 L’approccio centrato sulla persona di Rogers
3.2 L’apprendimento sociale
3.3 L’approccio di Vygotsky
4. La diffusione del mentoring in Europa e negli Stati Uniti
CAPITOLO II: LE FORME DI REALIZZAZIONE DEL MENTORING
pag.20
pag.23
pag.25
pag.28
1. Il mentoring one to one
2. Il peer mentoring e il rapporto tra due pari
3. Il group mentoring
4. La cultura partecipativa di Jenkins e il mentorship informale
CAPITOLO III: DAL MENTORING ONE TO ONE ALL’E-MENTORING
1.L’e-mentoring come sviluppo del mentoring tradizionale
2. L’e-mentoring nell’ambito della formazione dell’insegnante
3. Il modello blended
4. Alcuni esempi di e-mentoring nelle Università
5. I vantaggi dell’e-mentoring
pag.33
pag.36
pag.37
pag.40
pag.41
CONCLUSIONE
pag.44
BIBLIOGRAFIA
pag.46
1
INTRODUZIONE
Come è noto la paraola ‘mentore’ ha un’origine piuttosto antica: essa, infatti
risale all’antica Grecia e in modo specifico alla figura di Mentore, uomo a cui Ulisse
affidò suo figlio Telemaco al momento della sua partenza per la guerra di Troia. Egli
era il suo amico fidato e il suo consigliere e, in sua assenza, doveva accompagnare la
crescita di suo figlio e prepararlo a succedergli al trono. Mentore, infatti, insieme ad
Atena, doveva fungere da insegnante, da protettore, infondendo saggezza e fornendo
consigli. Da questa figura poi si è diffuso il termine ‘mentore’ per indicare appunto
colui che ci guida, che ci accompagna e che ci consiglia nei momenti significativi
della vita in generale e nelle tappe formative e lavorative in particolare.
Anche l’espressione ‘mentoring’, trae spunto da tale definizione: si tratta,
infatti di una metodologia formativa che si basa su un rapporto uno-a-uno, di tipo
non critico, in cui un mentore si dedica ad un suo ‘allievo’ o mentèe, consigliandolo
e supportandolo. In genere, questa relazione avviene in un momento di transizione
della vita del mentèe e per un certo periodo di tempo anche se intenso e di durata
significativa.
Nel corso degli anni, come si è cercato di dimostrare nel corso del presente
lavoro, il mentoring come metodologia formativa ha riscosso sempre più successo
affermandosi in ambienti sempre più diversi: dalla scuola alle aziende.
Non sempre la sua definizione è stata univoca e nel corso degli ultimi decenni
si sono succedute diverse definizione ed è stata prodotta una letteratura sempre più
copiosa, con l’intento di chiarirne gli aspetti principali, ma anche i benefici e le
difficoltà legate alla sua applicazione.
Il presente lavoro, articolato in tre capitoli, ha cercato di analizzarne le sue
peculiarità partendo proprio da un esame della letteratura e dalle varie esperienze
verificatesi in diversi Paesi, sia in Europa che in America.
Il primo capitolo comincia con una disamina delle definizioni più accreditate
di mentoring per passare poi all’analisi delle due figure presenti nella relazione: il
mentore e il mentèe: se il mentore rappresenta la guida, il punto di riferimento per
l’inesperto, per l’ ‘apprendista’, al quale garantisce il passaggio delle informazioni
necessarie, il trasferimento di abilità complesse, ecc., il mentèe riconosce il valore di
2
imparare da colui che ha più esperienza, che vuole intraprendere questo percorso con
slancio e convinzione, ma anche con la determinazione di colui che si assume la
responsabilità della propria crescita. Quest’ultimo quindi si fa guidare dal mentore
nel processo di apprendimento e di sviluppo e con il mentore deve contribuire alla
realizzazione di una mentorship, una relazione basata soprattutto sulla fiducia e il
dialogo.
Il presente capitolo si sofferma su queste due figure sottolineando anche
quelle che sono le competenze che il mentore deve avere e le caratteristiche che
invece deve possedere il mentèe. Per avere poi un quadro più chiaro del processo di
mentoring, il capitolo si è soffermato sulle sue fasi di intervento con una breve
riflessione sull’approccio centrato sulla persona di Rogers, sull’apprendimento
sociale e sull’approccio di Vygotsky.
Il capitolo si conclude con una panoramica sui Paesi in cui si è diffuso il
mentoring: America e Europa.
Il secondo capitolo, rappresenta un’analisi delle varie forme di realizzazione
del mentoring. Si è partiti dalla forma più diffusa, ossia, il mentoring one to one,
pratica formativa che prevede interventi atti a privilegiare le esigenze specifiche del
singolo. In questo caso l’individuo viene posto al centro del processo formativo
realizzando una relazione d’aiuto personalizzata anche nel caso si faccia riferimento
ad un gruppo e non ad un singolo. L’altra forma analizzata è quella definita peer
mentoring: tipologia di formazione che prevede un mutuo coinvolgimento e stimolo
all’apprendimento tra due pari che possono essere due colleghi che lavorano nella
stessa azienda occupando gerarchicamente la stessa posizione, o tra compagni di
classe. Viene poi analizzato anche il cosiddetto group mentoring che prevede
l’intervento di un mentor su un gruppo di 6 allievi circa in una sola volta.
Il secondo capitolo si conclude con un breve riferimento alla cultura
partecipativa con particolare riguardo alla definizione data da Jenkins, e quindi al
rapporto tra essa e una mentorship informale. Come prevede quest’ultima, nella
gestione dei progetti assegnati accade che ad ogni collaboratore viene affiancato sia
da un mentor che dai colleghi che hanno un’ esperienza maggiore e che, in quanto
tali, devono rappresentare una sorta di tutor “informali” da cui poter acquisire
consigli personali e professionali.
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Il terzo ed ultimo capitolo è incentrato su un ulteriore sviluppo del mentoring
tradizione: l’e-mentoring. Come si è puntualizzato in questa parte del lavoro, esso si
basa su un rapporto che si stabilisce tra un mentore ed il suo mentèe attraverso
l’utilizzo di strumenti elettronici quali email, chat room, forum di discussione, ecc..
Grazie all’e-mentoring è possibile sviluppare e far crescere le capacità e le
conoscenze dell’allievo e aiutarlo ad aver successo nel lavoro e nella sua vita
formativa.
Dopo aver esaminato la letteratura sul tema, anche se non ricchissima, si è
passati ad una disamina delle possibilità che questa forma di mentoring può offrire
nel campo della formazione degli insegnanti. A seguire si posta l’attenzione sul
blended mentoring, un particolare modello organizzativo in cui attività a distanza ed
attività in presenza sono variamente alternati, e sulla presentazione di alcuni esempi
di e-mentoring presenti in Italia, e all’estero.
Il capitolo si conclude con l’analisi dei vantaggi che questa forma di
mentoring può offrire sia al mentore che al mentèè.
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CAPITOLO I
IL MENTORING E LA SUA EVOLUZIONE
“Triste è quel discepolo
che non avanza con il suo maestro”
Leonardo Da Vinci
1. Il mentoring: definizione
Le definizioni di mentoring che si sono succedute nella letteratura
specialistica sono numerose e spesso anche fuorvianti (Boldizzoni D., Raoul C.,
Nacamulli D., 2004): per Bowen (1985) si tratta di una metodologia di formazione che
prevede che una persona più anziana per età ed esperienza (il mentore) si impegni a
fornire informazioni e supporto emotivo, a fare da guida, ad una persona più giovane
(il mentee) in una relazione durevole che si sviluppa nel tempo, e caratterizzata da un
impegno emotivo da entrambe le parti.
Se ci si cala in un contesto moderno di business il mentoring viene quasi
sempre considerato una fase che ha a che fare con l’acquisizione e l’applicazione di
abilità a lungo termine per lo sviluppo di carriera sotto forma di consiglio e conseling
(Parasole E., 1992).
Molti ritengono che il mentoring costituisca non solo un metodo di
formazione che si basa su una relazione di condivisione tra la figura del mentor e del
mentee, basata innanzitutto sulla fiducia e sul rispetto reciproco, ma anche una valida
opportunità di crescita. Esso è quindi una “relazione intima e reciproca in cui una
persona ‘competente’, il mentor, mette l’altra nelle condizioni di acquisire
consapevolezza e di sviluppare le proprie risorse” (Perucca A., 2003,261).
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Ciò che emerge da queste definizioni è che con il mentoring non si è di fronte
ad una metodologia di formazione nel senso classico, ma di fronte alla realizzazione
di una relazione di fiducia, di un apprendimento guidato, di un percorso fatto di
condivisione, di informazioni non “istituzionali”, della costruzione di legami
trasversali e reti informali, il tutto a vantaggio o della singola persona o dell’azienda
(Boldizzoni D., Raoul C., Nacamulli D., 2004).
Negli Stati Uniti, luogo in cui il mentoring ha conosciuto per la prima volta
un grande sviluppo, esso indica il percorso strutturato di apprendimento e crescita
personale e professionale che si è sviluppato a partire dalla fine degli anni ’80 per
diffondersi poi in quasi tutti i paesi di lingua anglosassone, assumendo la forma
lessicale del tutto americana espressa dal verbo to mentor. Con questa definizione si
fanno rientrare nel mentoring azioni che presentano diverse funzioni, tra cui quella di
coaching, e, inoltre, si identifica un particolare tipo di relazione one to one di
accompagnamento alla crescita di un soggetto più giovane o comunque inesperto, da
parte di uno con più esperienza (Boldizzoni D., Raoul C., Nacamulli D., 2004).
In realtà, se si fa riferimento alla forma grammaticale del termine mentoring,
si può osservare che esso si riferisce ad un concetto che dura nel tempo; esso dà
infatti il nome ad una relazione con precise caratteristiche, le stesse che venivano
attribuite alla figura epico-mitologica di Mentore1, da cui è poi derivata appunto la
parola mentoring, che vede come elementi fondamentali la relazione mentor e meteé,
fattori complementari della stessa relazione (Perucca A., 2003).
Va detto che il mentoring non rappresenta una novità specie negli ambienti
lavorativi, dove è già stato adottato con lo scopo di accrescere la professionalità di
soggetti più giovani e meno esperti, attingendo all’esperienza di persone che
lavorano in quello stesso settore da più anni e che hanno il compito di trasferire
competenze e conoscenze acquisite durante il loro percorso lavorativo.
Ciò che bisogna precisare è che il mentoring si basa sulle prestazioni di
personale non professionista; i mentor, infatti, sono spesso individui estranei al
mondo dell’istruzione e della formazione, o meglio, sono individui che se pure sono
in possesso di detti titoli non li utilizzano a fini didattico-formativi (Perucca A.,
2003).
1
Mentore era il personaggio dell’Odissea a cui Ulisse affida il figlio Telemaco prima di partire per la
guerra di Troia
2
Il progetto CAMEO è stato uno dei primi progetti di ricerca comparata in Europa (Spagna, Italia,
6
Al di là delle sfumature di significato, va precisato che in letteratura c’è
unanimità sul fatto che sia possibile parlare di una relazione di mentoring efficace
solo se essa si basa sulla fiducia tra i due soggetti, inizialmente estranei, appartenenti
a generazioni diverse; affinché si crei questa relazione è necessario del tempo che
non è possibile stabilire a priori, seguendo uno standard a causa della natura
assolutamente peculiare di ogni abbinamento. Va detto, tuttavia, che è stato
empiricamente stimato un tempo minimo, prima del quale è molto difficile che si
instauri tale fiducia, pari a circa sei mesi di incontri regolari (Perucca A., 2003).
2. La relazione tra il mentée e il mentor
Come si può evincere da quanto appena descritto, con il termine mentore in
genere si indica la guida esperta o il consigliere fidato. In realtà, anche la ricerca
educativa non è riuscita completamente a descriverne i caratteri, le competenze e le
funzioni, tanto da considerare tale figura “complessa, sfuggente, misteriosa” (Gay B.,
1994, 4).
In ogni caso molti concordano nel ritenerlo colui che è in possesso di una
grande esperienza e interpreta, nei confronti di colui che ne ha di meno, un ruolo di
facilitatore naturale, una sorta di amico più grande, di guida per il mondo del lavoro e
professionale.
Anche per Clutterbuck (1995), il mentore rappresenta colui che è in possesso
di una maggiore esperienza e che è disposto a condividerla con qualcuno che ne ha
di meno, all’interno di una relazione di reciproca fiducia. Si tratta di una sorta di
combinazione di genitore figlio in cui la funzione primaria del mentore è quella di
rappresentare una figura “tradizionale” nello sviluppo di un’altra persona(Boldizzoni
D., Raoul C., Nacamulli D., 2004).
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Il mentore rappresenterebbe, quindi, un punto di riferimento per l’inesperto,
per l’ ‘apprendista’, poiché garantisce:
a) “il passaggio delle informazioni, relative al lavoro e al contesto e
normalmente inaccessibili (e per questo contribuirebbe alla costruzione del sapere
del soggetto in formazione);
b) il trasferimento di abilità complesse (come l’analisi delle situazioni, il
problem finding e il problem posing), apice per l’elaborazione del saper fare;
c) l’espressione di modi di essere, criteri di scelta e valori che attengono alla
dimensione del saper essere” (Perchiazzi M., 2009).
Il profilo del mentore si colloca all’interno di queste tre aree e il suo compito
è quello di trovare un equilibrio tra i suddetti componenti (sapere, saper fare, saper
essere); è a partire poi da esse che si differenziano le riflessioni sulle peculiarità del
mentoring e i tentativi di attribuirgli una corretta definizione (Clutterbuck D., 1995).
Va detto che nella relazione tra mentor e mentee, come vedremo di seguito,
anche il mentor apprende e cresce, anche se è insita nella pratica del mentoring la
volontà di dare senza ricevere necessariamente qualcosa in cambio (Giangiacomo
M.I, 2012). Infatti, il patrimonio di conoscenze che il mentor possiede è una fonte
unica e preziosa, ma soprattutto irripetibile, una dotazione di competenze ed
esperienze che non può essere valorizzata economicamente e che difficilmente si
esaurisce in una relazione, anche se lunga.
In questa relazione sono necessari, oltre a momenti che prevedono un
approccio razionale, anche molti momenti di affettività, di condivisione di stati
d’animo. Un mentor deve essere quindi disponibile, aperto, empatico (Giangiacomo
M.I, 2012).
A tal proposito, va precisato, che si è molto discusso sulle precise competenze
che tale figura deve possedere. Alcuni studiosi ritengono che sia inutile delineare tali
competenze in quanto esse vanno ricercate all’interno della stessa relazione di
mentoring; essa deve essere situata, temporale e strettamente personale (Agrati L.S.,
2011); altri (Clutterbuck D., & Lane J., 2004), al contrario, sostengono la necessità di
delineare tali competenze così da evitare confusione con le altre relazioni formative
come ad esempio il tutoring e il coaching, in primis (Agrati L.S, 2010).
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Lo schema che segue vuole essere una delle possibili sintesi di tali
competenze (fig. 1).
Fig. 1: Le competenze del mentor
Fig.1. Fonte: rielab. di Agrati (2010) da Perchiazzi (2009) e Clutterbuck-Lane
(2004).
Da questo schema è possibile osservare la formazione di due macro-categorie
di cui la prima riguarda la gestione della situazione, l’aspetto del rapporto con
l’allievo, la capacità di riuscire a dare risposta ai suoi bisogni che evolvono nel
tempo e di conciliare gli obiettivi che sia il mentor che il mentée, pongono alla fine
del rapporto; la seconda riguarda la gestione del rapporto, relativamente all’aspetto
della sua durata temporale, della sua capacità di stabilire sia una direzione che una
progressione, del saper sia gestire che concludere il rapporto.
Per quanto concerne invece le caratteristiche del Mentée, va detto che esso è
una giovane persona che innanzitutto riconosce il valore di imparare da chi è più
adulto e ha più esperienza, che vuole intraprendere questo percorso con slancio e
passione, ma anche con la determinazione di chi si assume la responsabilità della
propria crescita.
Il mentée, quindi, deve avere:
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• “Atteggiamento positivo;
• Disponibilità ad apprendere;
• Responsabilità;
• Orientamento alla creatività e alla trasversalità (Giangiacomo M.I, 2012,
98).
Egli è colui che si fa guidare dal mentore nel processo di apprendimento e di
sviluppo e che può essere chiamato anche allievo-cliente; con il mentor deve
contribuire alla creazione di una mentorship, deve instaurare una relazione basata
soprattutto su grande fiducia e dialogo.
Come il mentor, anche il mentée deve essere spinto da una forte motivazione
individuale. Se applichiamo alla figura del mentée la scala dei bisogni di Maslow
(fig. 2) ne deriva che un mentoring efficace può portare a soddisfare sia i bisogni di
base che quelli di ordine superiore. Sono proprio questi ultimi bisogni in particolare a
determinare la buona riuscita della relazione con il mentor; quest’ultimo così è in
grado di favorire il senso di appartenenza e l’autorealizzazione (Giangiacomo M.I,
2012).
Fig. 2: Piramide di Maslow
Fonte:www.comunicareconvincere.com
In un contesto lavorativo, il profilo della competenze che è possibile
sviluppare attraverso il mentoring muta a seconda che il mentée sia giovane o adulto,
assunto da poco o molto tempo; anche i bisogni di competenza mutano in base ai
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livelli di scala di Maslow: con i primi due bisogni si va dalle competenze operative a
quelle tecniche; per riuscire ad integrarsi e a collaborare è necessario essere in
possesso di buona conoscenza del funzionamento organizzativo e avere competenze
sociali e relazionali. È possibile raggiungere gli obiettivi sfidanti con alcune
competenze gestionali. Infine, per ottenere l’autorealizzazione, è necessario eccellere
in alcune competenze che costituiscono tratti distintivi del proprio profilo
professionale (Giangiacomo M.I, 2012).
Al mentée sono necessarie, in un processo di mentoring che sia efficace, la
disposizione ad un intervento formativo informale e la capacità di stabilire un buon
rapporto interpersonale centrato proprio sulla disponibilità ad apprendere mediante il
confronto di esperienze. Altre caratteristiche necessarie sono l’ascolto attivo, la
fiducia e la trasparenza (Giangiacomo M.I, 2012).
In sostanza, da quanto fin qui esposto si ricava che lo strumento principale del
mentoring è rappresentato proprio dalla relazione mentore-mentée.
Secondo Stone (1999), si tratta di una relazione che scava in profondità e che
guida il cliente-allievo in un percorso di scoperta e conoscenza di sé, di tipo
puramente socio-emotivo.
Per Ferrario (1997) la relazione di mentoring dovrebbe essere caratterizzata
dai seguenti elementi:
• “esperienze: il mentor è una persona che ha vissuto ed è portatore di
esperienze che deve trasmettere e che può pertanto rappresentare un
modello per il giovane mentée;
• investimento affettivo: mentore e mentée investono entrambi
affettivamente nella relazione;
• modelli comunicativi: l’asimmetria relazionale, legata alla differenza
di età, dei vissuti dei due attori, deve tendere verso una simmetria
comunicativa, più vicina alla modalità del fratello maggiore, piuttosto
che quella del rapporto genitoriale;
• reciprocità: la relazione si fonda sullo scambio reciproco e sul dono
simbolico delle esperienze.
• tempi: è importante rispettare i tempi naturali di costruzione del
rapporto;
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• ascolto: la comunicazione deve essere caratterizzata da ascolto
reciproco, da empatia e dalla completa assunzione degli impegni e
dei doveri da parte di entrambi gli attori;
• perseveranza: il mentée deve imparare a sviluppare pazienza e
perseveranza nel perseguire i propri obiettivi” (D’Alessio M., Laghi F.,
Giacalone V., 2010, 4-5).
In conclusione,l’elemento essenziale di tale relazione di medio-lungo termine
è rappresentata dall’azione di guida e supporto nell’individuazione dei punti di forza
sia in possesso del soggetto in quel momento che quelli potenziali; importante è
anche la modalità attraverso cui sviluppare queste potenzialità; essa deve comunque
avvenire attraverso un processo socio-emotivo di scoperta di sé, di scoperta della
persona nel suo complesso.
3. Le fasi di un intervento di mentoring
Per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività di mentoring, secondo
Claudia Piccardo si può parlare, in un percorso “ideale” di mentoring, di 10 fasi: si
parte dalla definizione degli obiettivi, delle risorse e dei vincoli di progetto, per
giungere alla fine al bilancio dei risultati dell’attività svolta. La parte centrale
riguarda la scelta dei candidati sia per il ruolo di mentore che per quello di mentée
(Piccardo C., 2010). In particolare, per quest’ultimo punto, la studiosa si chiede se
sia preferibile favorire le autocandidature oppure lasciare che siano i capi a proporre
le persone verso cui dirigere l’intervento. Nel caso delle autocandidature si
potrebbero avere soggetti più motivati; nel secondo caso, invece, proprio la scarsa
motivazione potrebbe essere l’elemento negativo del processo di mentoring
(Giangiacomo M.I, 2012).
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Al di là della descrizione puntuale delle diverse fasi di un intervento di
mentoring, in questa sede, va sottolineato come molti di questi interventi sono
influenzati da alcune teorie sull’apprendimento sviluppatesi dagli anni ’70 in poi,
come ad esempio la Teoria dell’Apprendimento sociale.
Nella letteratura organizzativa vengono spesso individuate aree di intervento
e applicazione del mentoring; in particolare, sono state individuate le possibili aree
organizzative di sviluppo in cui il mentoring è stato tradizionalmente applicato: si
tratta dei processi di apprendimento organizzativo.
In ognuna delle aree organizzative individuate l’applicazione del mentoring
ha comportato la necessità di implementare alcuni framework teorici consolidati in
letteratura; in particolare, gli studi hanno fatto riferimento alla Teoria
dell’Apprendimento Sociale in base alla quale l’apprendimento individuale è reso
possibile sia dall’esperienza diretta che da quella vicaria, che avviene osservando gli
altri svolgere un’attività (Bandura, A., 1977).
Bandura (1977), sostenitore della Teoria dell’apprendimento sociale, ritiene
che l’apprendimento non implica esclusivamente il contatto diretto con gli oggetti,
ma può avvenire anche attraverso esperienze indirette, sviluppate attraverso
l’osservazione di altre persone.
Questo aspetto, come altri esposti di seguito, hanno influenzato lo sviluppo
del mentoring.
3.1 L’approccio centrato sulla persona di Rogers
Per gli interventi di mentoring sembra utilizzabile anche la concezione teorica
espressa da Carl Rogers.
Si tratta di una teoria che trae la sua ispirazione dalla psicanalisi per poi
allontanarsene. Egli sostiene che ognuno di noi non è solo il risultato di tempeste
pulsionali interne o frustrazioni imposte dalla vita sociale, ma per lui ogni persona è
in grado di porsi degli obiettivi, di compiere scelte autonome e consapevoli.
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Rogers ritiene che ogni uomo è potenzialmente buono ed efficace nelle
relazioni sociali e il comportamento disfunzionale è legato ad un apprendimento
sbagliato, ma reversibile. Gli uomini, per Rogers, vanno incoraggiati a prendere
decisioni autonome in modo da sentirsi più soddisfatte di se stesse, ma divengono
anche capaci di creare e gestire le relazioni in modo significativo e adeguato Mearns
D., Thorna B., 2006).
Come si è esplicitato in precedenza, in un’attività di mentoring ciò che conta
è la relazione che va inquadrata nel qui ed ora, conseguire un grado di competenza
sociale che conduca verso un’autonomia decisionale e sapersi dare obiettivi in linea
con le esigenze individuali e con le proprie risorse interne (Giangiacomo M.I, 2012).
Un altro punto di contatto tra mentoring e la teoria di Carl Rogers si trova
nella grande considerazione della pratica dell’ascolto empatico; quest’ultimo è
considerato lo strumento fondamentale per un intervento efficace. Si tratta di una
risorsa molto importante per un mentore che si avvicina al comportamento del
mentée (Giangiacomo M.I, 2012).
All’ascolto vanno poi aggiunte: l’empatia, l’autenticità nella relazione e la
considerazione positiva, tutte qualità necessarie per una buona relazione tra mentore
e mentée.
Il mentore, inoltre, seguendo anche l’approccio di Rogers, deve assumere
sempre un atteggiamento non valutante; tuttavia, diversamente da quest’ultimo, ciò
non va seguito per un fine terapeutico, ma per consentire l’instaurarsi della relazione
tra i due termini senza negare che essi siano sbilanciati. Quando si assume un
atteggiamento non valutante il processo di imitazione tra mentore e mentée può fluire
con più facilità. Il mentore rimane in ogni caso adulto e modello, ma così il mentée
“si sente in un’area non di giudizio, ma di amichevole modellizzazione del
comportamento”(D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010).
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3.2 L’apprendimento sociale
L’apprendimento di nuove capacità e competenze, come ricordato in
precedenza, ricopre un ruolo centrale nel mentoring.
Knowles (1996) divide le diverse scuole teoriche in tema di apprendimento
sociale, in base a due fattori: “complessità del compito di apprendimento e capacità
di apprendimento individuale. Analizzando questi fattori si rivela che i modelli
comportamentisti hanno fornito pochi strumenti per l’apprendimento individuale,
consentendo l’acquisizione di competenze e conoscenze relativamente semplici”
(D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010, 11).
Per Bruner l’apprendimento rappresenta un’attività da svolgersi in comune e
che coinvolge la costruzione sociale della conoscenza. Si tratta di un principio
ampiamente utilizzato nell’apprendimento cooperativo, che rappresenta “un modello
a ‘mediazione sociale’, contrapposto ad altri definiti ‘a mediazione dell’insegnante’,
in quanto utilizza il ruolo dei pari e la loro influenza come fattore facilitante
dell’apprendimento” (D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010, 11).
Anche se questo modello si incentra particolarmente sul ruolo attivo dei pari,
esso pone comunque le basi che possono facilitare l’attività di mentoring. “La
relazione di aiuto può diventare funzionale e adattiva nella misura in cui vengono
attivate tutte le risorse disponibili, in primis i pari che rappresentano comunque per
i mentée un punto di riferimento affettivo” (D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010,
12).
3.3 L’approccio di Vygotsky
A questo punto è necessario fare un breve riferimento alla concezione
dell’apprendimento di Vygostsky.
Egli ha rivolto principalmente i suoi studi all’acquisizione del linguaggio e ha
sottolineato come il conseguimento di competenze e conoscenze sia legato alle
dinamiche sociali nella quali il soggetto è calato e che in parte contribuisce a creare.
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Vygotsky parla di una zona di sviluppo prossimale ritenuta come il gap tra il livello
di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale. Se si interviene con persone in
possesso di maggiori competenze, questo gap può essere ridotto(D’Alessio, Laghi F.,
Giacalone V., 2010).
Vygotskij ritiene che lo sviluppo psichico sia influenzato dalle condizioni
culturali che caratterizzano il periodo storico in cui il soggetto è inserito e vive.
Anche per questo si parla di approccio “situato”. In un simile contesto, le attività e le
pratiche di apprendimento assumono grande importanza; l’azione, secondo l’autore,
è in grado di plasmare la cognizione e la rappresentazione mentale dei fenomeni.
PerVygotskij la conoscenza è legata quindi all’ambiente e al contesto storicoculturale e l’apprendimento si realizza in un contesto realistico che prevede anche
che i discenti possano anche mettere in discussione le idee stereotipate.
Anche nei confronti di Vygotskij, quindi, il mentoring mostra di avere un
debito culturale: come si è detto, esso prevede, come teorizzato dallo psicologo
russo, che vi sia “un soggetto in uno stato iniziale di minore competenza, spinto da
un soggetto in una condizione di maggiore competenza, può raggiungere e gestire le
qualità personali in modo funzionale rispetto al contesto sociale e culturale in cui è
collocato” (D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010, 13).
4. La diffusione del mentoring in Europa e negli Stati Uniti
Il mentoring, in origine, come si è accennato, si è sviluppato all’interno di un
programma di politiche sociali svoltosi a New York. Nel giro di pochi anni e con i
primi risultati positivi, proprio per l’efficacia della formula organizzativa si è
trasformato in un programma completamente autonomo, la cui gestione si è trasferita
al privato-sociale (Perrucca A, 2010).
Nel tempo il numero di soggetti coinvolti è aumentato enormemente e alla
fine del ’94 si contavano duecentocinquanta scuole e circa seimilaquattrocento
studenti.
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Matilda Raffa Cuomo, moglie dell’ex Governatore di New York, nel 1995 si
è impegnata personalmente per sostenere e diffondere il programma e ha fondato
l’associazione no-profit Mentoring Usa. Si trattava di un’associazione che si poneva
lo scopo di fornire assistenza tecnica e formazione ai programmi già operativi e di
allargare poi l’iniziativa sia in altri Stati dell’Unione che nel resto del mondo
(Perrucca A, 2010).
L’operazione riscosse molto successo e negli anni seguenti i risultati
migliorarono sempre più; così per i soggetti coinvolti i voti a scuola migliorarono, le
assenze diminuirono e le probabilità di diplomarsi e andare al college aumentarono
(D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010).
Se si osserva la situazione ai giorni nostri si nota che il numero di programmi
Mentoring USA è in continua espansione in tutti gli Stati Uniti e il successo che
ognuno di essi consegue non fa altro che favorirne la proliferazione.
Rhides (2002) ha condotto uno studio nel 2002 (Dolan P., Brandy B., 2012),
sempre negli Stati Uniti, ed è risultato che sul territorio sono presenti 4500
organizzazioni che utilizzano il mentoring come metodologia didattica e di sostegno
per gli allievi delle scuole americane.
Va detto che negli ultimi dieci anni la diffusione del mentoring è risultata in
crescita anche in molti paesi europei; questo dimostra ancor di più la sua efficacia e
la sua utilità nel fronteggiare il fenomeno drop out (Felice A., Tagliavini A., 2004).
I progetti Cameo2 e Maitre3 hanno attirato l’attenzione sul mentoring in paesi
in cui non era ancora molto diffuso e hanno sviluppato contenuti specifici a partire
dal contesto che caratterizzava uno specifico paese. Durante questi percorsi una
grande attenzione è stata posta sulla figura del Mentor, sulle definizioni e sulle
competenze necessarie per l’espletamento del suo compito. Sono stati delineati i
punti chiave per la formazione dei potenziali Mentor sia nelle organizzazioni, sia
nelle aziende, sia nel sociale che nelle scuole.
2
Il progetto CAMEO è stato uno dei primi progetti di ricerca comparata in Europa (Spagna, Italia,
Francia, Grecia) che ha indagato lo stato dell’arte degli ambiti di applicazione del Mentoring in paesi
in cui non era molto diffuso (2004).
3
Il progetto MAITRE (Mentoring: trAIning maTerials and REsources), è un progetto finanziato
nell’ambito del programma Leonardo, con un partenariato europeo composto da ICD Riga, CRCI
Bratagne, Scienter Spagna, Ial Toscana, Cisl Toscana, Mentoring USA Italia, Amitiè, Middlesex
University (2004 – 2007).
17
Se il Progetto Cameo ha rappresentato la prima ricerca comparata a livello
europeo sulla metodologia, il progetto Maitre ha prodotto un manuale strutturato in
cui si possono trovare gli strumenti efficaci per la formazione di un Mentor (Felice
A., Tagliavini A., 2004).
Secondo uno studio condotto da Miller nel 2002 è possibile classificare i
programmi di mentoring oggi più diffusi in base alle caratteristiche del mentée:
• “programmi di mentoring aziendale indirizzati a giovani che hanno
bisogno di un aiuto per avviare una loro attività o per inserirsi
all’interno di un’azienda;
• programmi di telementoring in cui il mentée può essere inserito sia in
un contesto sociale sia in uno professionale, puntando sull’impiego di
tecnologie informatiche;
• programmi di mentoring diretti a soggetti a rischio, socialmente
esclusi o con difficoltà di inserimento sociale” (D’Alessio, Laghi F.,
Giacalone V., 2010, 17).
Anche altre ricerche svolte tra la fine degli anni Novanta e il Duemila hanno
dimostrato l’ampia diffusione che il mentoring ha assunto in Europa. Infatti, i
programmi di mentoring, svoltisi tra il ’93 e il 2000, sono stati in numero sempre più
crescente e il numero dei soggetti coinvolti sempre più alto. Ciò che è emerso,
inoltre, è il fatto che i principali programmi di mentoring erano rivolti quasi
esclusivamente ai giovani di età compresa tra i 15 e i 26 anni con lo scopo di aiutarli
sia nell’inserimento scolastico, sia nel mercato del lavoro, che nella formazione
professionale. Tale metodologia si è diffusa prima nel Regno Unito e poi in altri
paesi europei (D’Alessio, Laghi F., Giacalone V., 2010).
Per quanto riguarda l’Italia la prima sperimentazione del programma
Mentoring è stata realizzata a Lecce, nel 1997/1998. Il Consiglio Nazionale Ricerche
approvò e finanziò in quegli anni la proposta del Gruppo leccese di Psicologia di
Comunità, per l’applicazione del Programma Mentoring Usa nel nostro paese
(Perucca A., 2010). I risultati ottenuti furono incoraggianti e permisero di mantenere
i principi di base del modello americano adattandoli alla realtà italiana per molti
aspetti diversa da quella d’origine; si è sviluppato così un modello integrato che ha
preso il nome di Mentoring USA Italia (Gelli B.R., Mannarini T., 1999). In più, la
18
gestione affidata ad un gruppo universitario di studiosi di Psicologia di comunità,
esperti in ricerca-intervento, lo valorizzarono teoricamente e rimodellarono nelle
forme applicative.
Con il tempo è sorta anche in Italia l’associazione no profit Mentoring e le
esperienze, pur non facendo parte tutte del gruppo universitario di studio e ricerca, si
sono moltiplicate negli anni (Gelli B.R., Mannarini T., 1999).
19
CAPITOLO II
LE FORME DI REALIZZAZIONE DEL MENTORING
“Mai dire alle persone come fare le cose.
Dite loro che cosa fare e
vi sorprenderanno con il loro ingegno”.
(Generale George Patton)
1. Il mentoring one to one
Quando si parla di formazione one to one si fa riferimento ad una pratica
formativa che prevede interventi atti a privilegiare le esigenze specifiche del singolo.
Si tratta di un tipo di formazione che si è sviluppata inizialmente negli Stati Uniti, ma
che poi ha acquisito sempre più spazio e legittimazione anche nelle aziende e nelle
istituzione di molti paesi europei, compresa l’Italia (Giangiacomo M.I, 2012).
Questa diffusione è legata alle sempre più complesse sfide poste dalla società
attuale che richiede sempre più ampie competenze imprenditoriali e di leadership, e
non solo per i vertici aziendali. Attualmente, infatti, sono sempre più richieste, a tutti
i livelli aziendali, capacità tecnico-operative, di propensione al rischio e alla
flessibilità, ma anche capacità di relazione e negoziazione con gli altri.
In un simile contesto, quindi, si è reso necessario porre l’individuo al centro
del processo formativo e si è giunti poi all’affermazione della formazione one to one.
Essa, infatti, nasce dalla duplice esigenza, da un lato, di costruire una relazione
d’aiuto che sia personalizzata poiché centrata sul singolo o su un gruppo specifico,
dall’altro, di promuovere lo sviluppo dell’organizzazione concentrando l’attenzione
sulle persone (Giangiacomo M.I, 2012).
Il primo punto diventa necessario perché bisogna puntare alla valorizzazione
delle risorse individuali inespresse “chiamando a raccolta quelle energie e
potenzialità intrinsecamente presenti nell’individuo affinché possa autonomamente
riprendere le fila del proprio percorso evolutivo” (Boldizzoni D., Raoul C., Nacamulli
D., 2004, 11-12).
20
Il secondo punto è legato alle sfide da affrontare nei contesti operativi
instabili, all’interno dei quali le capacità d’intelligenza creativa, cooperazione attiva,
ma anche mutuo aggiustamento, contano moltissimo.
Il mentoring rientra nell’ambito della formazione one to one poiché, come si è
descritto anche nel precedente capitolo, si configura come un momento di
apprendimento e auto sviluppo facilitato da un soggetto capace, ma anche amorevole
(Giangiacomo M.I, 2012). Con quest’ultimo termine si intende la disposizione a
‘prendersi cura’ dell’altro soggetto che caratterizza il mentoring stesso.
Come si è descritto in precedenza, il mentoring, come le diverse tipologie di
formazione one to one, si basa sui seguenti aspetti: fiducia, ascolto, trasparenza, su
una relazione accogliente e partecipata. Ciò avviene sia se il committente è
l’organizzazione pubblica, sia se è quella privata. Inoltre, anche se al mentor
vengono affidati più mentée nel rapporto tende a prevalere l’accordo tra i due attori.
Infatti, anche se il mentée si trova, durante alcune fasi del processo formativo, a
condividere le proprie esperienze con il team mentorig, ossia, con altri colleghi, può
sempre contare su un sostegno individuale da parte del mentor (Giangiacomo M.I,
2012).
Va precisato, tuttavia, che rispetto anche ad altre tipologie di formazione one
to one, il mentoring presenta una forte contestualizzazione nel senso che il cuore
dell’intervento che si va a predisporre è sempre legato ad uno specifico contesto
organizzativo e risente quindi delle sue implicazioni operative, di precise reti
relazionali, ossia, di tutti quei fattori che vanno poi a costituire il bagaglio culturale
del mentor. Sono proprio questi fattori, poi, a far sì che la relazione di mentoring
vada spesso oltre i tempi stabiliti dallo specifico progetto formativo. Gli incontri,
quindi, possono avere una durata e una periodicità molto variabile (Giangiacomo
M.I, 2012).
Per quanto concerne le competenze del mentor, va detto che esse non sono
diverse da quelle che devono possedere gli altri soggetti che si occupano di
formazione one to one. Molte caratteristiche del ‘sapere’, del ‘saper fare’ e del saper
essere’ coincidono. In merito al ‘sapere’, il formatore one to one, conosce bene
alcune materie, quali ad esempio, quelle relative all’organizzazione:
21
• le teorie della complessità e del pensiero sistemico;
• i principali modelli macro-organizzativi;
• i principi e i processi di management;
• i principi e i processi di cambiamento organizzativo.
Ci sono quelle relative alla Gestione e allo sviluppo delle risorse umane:
• fondamenti di psicologia generale e del lavoro;
• principi e processi sulla gestione del personale.
Infine,
vi
sono
poi
le
competenze
relative
alla
formazione
e
all’apprendimento:
• stili cognitivi e di apprendimento;
• metodologie per la gestione delle relazioni interpersonali;
• ecc..
Per quanto concerne il ‘saper fare’, il formatore di mentoring one to one, deve
riuscire a comprendere i principali elementi di funzionamento dell’impresa nel
mercato, i modelli organizzativi, il contesto strategico. Egli deve sapersi inserire nei
processi di cambiamento aziendale e riuscire a cogliere e affrontare le carenze
esistenti nei processi avviati. Inoltre, deve supportare la persona durante le fasi di
cambiamento sia individuale che organizzativo, gestire lo stress e aiutare la persona
nello sviluppo del sé e delle sue potenzialità, nonché ascoltare e fornire feedback,
ecc..
Per quanto riguarda il ‘saper essere’ il formatore di mentoring one to one
deve avere autostima, equilibrio interiore, capacità di auto sviluppo, visione
sistemica, empatia, disponibilità, ecc.
Rispetto ad altri formatori one to one, il formatore di mentoring presenta
anche elementi distintivi:
• “vissuto personale e professionale di successo;
• buona reputazione;
• conoscenza del funzionamento organizzativo;
• capacità di gestire efficacemente i rapporti interpersonali ed
interfunzionali:
• capacità di mettere in comune i cosiddetti ‘trucchi del mestiere’”
(Giangiacomo M.I, 2012)..
22
Grazie al mentoring one to one è possibile fare in modo che vi sia una crescita
professionale dell’ ‘allievo’, che da questa procedura può accrescere le sue
competenze professionali imparando dall’esempio di una persona di successo.
Non vanno tuttavia trascurati anche i benefici che tale processo apporta al
mentore: egli, infatti, da questa esperienza può trarre la possibilità di riflettere su
questioni considerate come acquisite e sulla soddisfazione di poter trasferire ad altri
le proprie competenze.
In ultimo vanno ricordati anche i vantaggi che ne può trarre l’organizzazione:
la riduzione dei costi di formazione, il miglioramento delle performance dei
collaboratori e del clima lavorativo (Reggiani M, 2000).
2. Il peer mentoring e il rapporto tra due pari
Il peer mentoring è una tipologia di formazione che prevede un mutuo
coinvolgimento e stimolo all’apprendimento tra due pari, ossia, due colleghi che
lavorano occupando gerarchicamente la stessa posizione, o tra compagni di classe
(Ottolini G., 2011).
Secondo McDougal e Beattie (2004) questa mentorship è meno direttiva e
meno inibita rispetto a quella gerarchica anche se poi, aggiungono gli studiosi, i
benefici che se ne possono trarre sono comunque assimilabili: il supporto, il mutuo
apprendimento, la confidenza, ecc. (Boldizzoni D., Raoul C., Nacamulli D., 2004).
Essi sostengono che i vantaggi che si possono ricavare dal peer mentoring
sono, dal punto di vista organizzativo e individuale: “l’accesso al potere
dell’apprendimento informale e la possibilità di fare ricorso a una fonte alternativa
di supporto nei periodi di cambiamento e di crisi” (Boldizzoni D., Raoul C.,
Nacamulli D., 2004, 81).
23
Il peer mentoring utilizza anche il principio della peer education poiché punta
al legame tra similarità percepita e influenza sociale (Turner G. & Shepherd J., 1999).
Si tratta di una strategia educativa che mira all’attivazione di un
processo spontaneo di passaggio di conoscenze, di esperienze da parte di alcuni
membri di un gruppo ad altri membri di pari status (Leidenfrost B., B.Strassnig B.,
Schabmann A., Spiel C., 2011). Essa va oltre la consueta pratica educativa divenendo
l’occasione per il singolo soggetto o il gruppo dei pari, di discutere liberamente,
sviluppando momenti transferali intensi (Boda G., 2001).
In pratica, con il peer mentoring è possibile percepire una comunanza con
l’altra persona, una condivisione delle stesse problematiche o delle stesse esperienze.
Questo fa sì che tale persona diventi un interlocutore credibile, di cui ci si può fidare,
e ciò fa sì che il modo di pensare e di agire dell’altro soggetto ne sia influenzato.
Con il peer mentoring, quindi, si stabilisce uno stimolo reciproco tra due pari
o tra due persone che si riconoscono come tali. I pari, in pratica, rappresenterebbero
dei modelli per l’acquisizione di conoscenze e competenze diverse e per la modifica
di comportamenti e atteggiamenti, modelli che presentano una grande efficacia che,
in alcune occasioni, può essere anche superiore a quella dei professionisti del settore,
che talvolta, rivestendo ruoli di maggior rilievo possono essere percepiti distanti.
Nella peer education, le persone non sono semplici ricettori di contenuti,
esperienze e valori che vengono trasferiti da un professionista, ma soggetti attivi del
loro sviluppo e della loro formazione. Si giunge a questo attraverso il confronto tra
punti di vista diversi, attraverso l’analisi dei problemi e la ricerca delle possibili
soluzioni, il tutto in una dinamica tra pari che però non preclude la possibilità di
chiedere il supporto anche degli esperti (Collings R., Swanson V., Watkins R., 2014).
In questo caso il mentor deve essere comunque un esempio, una persona in
cui riconoscersi, qualcuno che possa essere percepito come guida e modello ideale,
una persona con capacità relazionali, di ascolto e flessibilità.
Nello specifico, nel peer mentoring il mentor deve possedere:
- capacità di innovazione e di affermazione delle proprie idee, ma anche
impegno ed entusiasmo;
- elevata competenza sociale (abilità retoriche, capacità assertive e fiducia in
se stessi);
24
- sia la capacità di lavorare in gruppo che di esserne parte integrante;
- sentire un senso di appartenenza verso l’argomento e gli scopi del progetto e
la volontà di collaborare a lungo termine (Collings R., Swanson V., Watkins R.,
2014).
Va detto che l’attività di mentoring potrebbe anche costituire in modo
indiretto un intervento formativo e di crescita anche per i mentor stessi, apportando
loro sia vantaggi dal punto di vista cognitivo che affettivo:
• è possibile apprendere abilità sociali: l’aiuto reciproco incoraggia la
solidarietà porta a controllare il proprio modo di esprimersi;
• è possibile accrescere la motivazione: si promuove un atteggiamento
più positivo nei confronti dell’apprendimento e della struttura
formativa;
• è possibile accrescere l’autostima: il mentor lavorando con gli altri
acquista più fiducia in se stesso e più responsabilità;
• è possibile raggiungere obiettivi personali di crescita: si ampliano le
conoscenze, migliora l’organizzazione e l’utilizzo degli strumenti, si
rafforzano le conoscenze pregresse, si colmano le lacune; inoltre, si
favorisce la possibilità di mettersi in gioco confrontandosi con gli altri
e accrescendo il senso di appartenenza.
3. Il group mentoring
Il group mentoring prevede l’intervento di un mentor su un gruppo di 6
allievi circa in una sola volta. Tali gruppi si riuniscono solitamente una o due volte
in un mese e discutono di vari argomenti.
Molte organizzazioni oggi devono imparare nuovi metodi per servire i clienti
e battere la concorrenza. Spesso viene richiesto ai dipendenti il massimo impegno per
portare la medesima organizzazione ai massimi livelli. In questi ambienti, strutturare
25
relazioni one-to-one, così come descritte in precedenza, potrebbe essere il modo
sbagliato di agire. Relazioni di questo tipo, infatti, in determinati contesti, potrebbero
rafforzare l’idea che “qualcun altro”, ad un livello più alto, abbia le risposte. Inoltre,
una relazione one to one funziona bene in un sistema informale, ma comporta un
risultato diverso quando si cerca di trasporla in un sistema formale (Herrera C., Vang
Z., Gale L.Y.,2002).
L’approccio di gruppo, laddove un mentor lavori con un gruppo di
apprendisti, genera dinamiche molto diverse rispetto alle altre tipologie di mentoring.
Gli allievi sono responsabili del programma del gruppo, richiedono quello di cui
necessitano per il loro sviluppo lavorando insieme. I colleghi riconoscono che
possono imparare l’un l’altro e dal mentor, anche perché si liberano dalla
responsabilità di dover seguire un programma precostituito e possono occuparsi più
serenamente di problemi e questioni reali. Tutti i partecipanti si sentono a loro agio
durante questo processo e riescono ad accrescere le proprie conoscenze e
competenze.
Grazie a programmi condivisi, gli stessi mentor possono allargare le proprio
conoscenze.
In pratica, durante questi incontri, vi sono mentor che mostrano lo stato della
loro organizzazione concentrandosi su alcuni temi in particolare, e puntano ad
ottenere il punto di vista degli apprendisti, i quali, avendo un diverso status e
posizione all’interno dell’organizzazione, sono in grado di mostrare aspetti diversi
della stessa.
Il mentoring di gruppo presenta molti vantaggi. Innanzitutto perché prevede
che vi siano incontri formativi relativi ad un’organizzazione con un piccolo gruppo
di ‘allievi’ inesperti che in questo modo possono migliorare le loro prestazioni e di
conseguenza quelle dell’azienda.
Come gruppo essi compiono i seguenti lavori:
• Scambiano le loro idee;
• Analizzano lo sviluppo degli argomenti;
• Ricevono opinioni e assistenza;
• Acquisiscono capacità relative al lavoro in team;
• Acquisiscono capacità di interazioni interpersonali;
26
• Diventano un “gruppo di apprendimento” (Beverly Kaye PH., Scheef D.,2000,
6).
Il gruppo, affinché diventi appunto un vero e proprio gruppo di
apprendimento, deve essere assemblato con una certa cura. Le caratteristiche dei
partecipanti devono essere soprattutto relative al possesso di abilità nello svolgere
determinati compiti, ma anche capacità interpersonali e l’inclinazione ad imparare
dagli altri.
Il gruppo di allievi ideale dovrebbe essere formato da sei dipendenti con alte
prestazioni, ‘allievi’ che quindi possono apportare un importante contributo per
l’organizzazione sia nel presente che in futuro. Di solito, vanno ricercati coloro che
hanno competenze tecniche, manageriali o amministrative che l’organizzazione
richiede in quel momento e valide anche per il futuro.
In ogni caso quando si selezionano i candidati va anche considerata
l’interazione e la sintesi del gruppo che, in quanto tale, deve divenire
necessariamente un tutt’uno. In pratica, pur nelle differenze di ciascun componente
del gruppo, ciò che deve prevalere è la valorizzazione di queste differenze, con lo
scopo di creare una certa compattezza. Infatti, in questo modo i partecipanti possono
avere l’opportunità di imparare le prospettive delle persone in diverse posizioni e
aree dell’organizzazione e confrontarle con le proprie. Questa dinamica aiuta anche a
creare una rete di contatti tra pari. Quando le persone in un gruppo la pensano
diversamente, l’interazione diventa un valore importante. Anzi, è proprio questa
diversità a fungere da criterio di selezione (Beverly Kaye PH., Scheef D.,2000).
La sessione di mentoring group si deve conclude con la condivisione degli
apprendimenti da parte di tutti i partecipanti al gruppo e con la definizione di un
programma di lavoro e di approfondimento da svolgere.
27
4. La cultura partecipativa di Jenkins e il mentorship informale
Le diverse tipologie di mentoring che abbiamo fin qui presentate portano a
fare alcune precisazione in merito ad alcune loro caratteristiche particolari. In primis,
l’aspetto della condivisione delle conoscenze, l’ ‘utilizzo’ dell’esperienza e delle
competenze di altre persone, ci riportano ad alcuni principi presenti in quella che
viene definita “cultura partecipativa” (Beverly Kaye PH., Scheef D.,2000)..
La definizione più nota di cultura partecipativa è quella fornita da Jenkins,
noto studioso dell’argomento. Egli sostiene che “una cultura partecipativa è una
cultura con barriere relativamente basse per l’espressione artistica e l’impegno
civico, che dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle
creazioni e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i
partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All’interno di
una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro
contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri” (Jenkins, Ford
,
S., Green J. 2013, 57).
Per comprendere meglio la questione è necessario chiarire le differenze tra
mentorship formale e informale.
Per quanto concerne la prima, va detto che ogni nuovo ingresso in azienda
prevede l’assegnazione di un mentor che avrà un ruolo attivo e continuativo nel
percorso di crescita del neoassunto.
I suoi compiti sono quelli di:
• offrire un riscontro continuo sul lavoro della risorsa;
• cooperare alla valutazione del rendimento della risorsa in oggetto con
cadenza semestrale,
• stimare i progressi di tale risorsa rispetto agli obiettivi di sviluppo che
sono stati prefissati (Jenkins, Ford S., Green J., 2013).
In tal senso, quindi, ogni nuovo collaboratore può far riferimento al suo
mentor per qualsiasi necessità o per chiarire eventuali dubbi.
28
Per quanto concerne invece la mentorship informale, nella gestione dei
progetti assegnati, ogni collaboratore viene affiancato sia dal mentor che dai colleghi
con più esperienza che costituiranno una sorta di tutor “informali” da cui poter
ottenere consigli personali e professionali. I rapporti informali che le nuove risorse
riusciranno a stabilire nell’ambiente di lavoro rappresenteranno le basi su cui si
costruirà la capacità comunicativa e di condivisione dell’azienda.
Con questa tipologia di approccio e con le relazioni che si vanno a strutturare
ogni risorsa arriva ad acquisire in poco tempo un buon livello di autonomia
professionale e a trasformarsi essa stessa in un punto di riferimento per i nuovi
assunti, in un’ottica di condivisione delle informazioni e delle conoscenze.
È chiaro che nel caso delle culture partecipative non si può che parlare di una
mentorship informale perché basata sulla condivisione delle conoscenze tra persone
più esperte con quelle che lo sono di meno.
In generale, quelli delle culture partecipative rappresentano ambienti ideali
per l’apprendimento poiché, diversamente dai sistemi formali di istruzione, essi
consentono una forma di apprendimento sperimentale e potenzialmente innovativo.
Per comprendere meglio si ricorda che esempi di culture partecipative possono essere
le
forme di affiliazione ai social network e alle comunità di giocatori online,
nell’espressione creativa come la fan fiction e la circolazione di flussi mediali
attraverso i blog.
Per riassumere, le caratteristiche di una cultura partecipativa possono essere
così sintetizzate:
• barriere relativamente basse per l’espressione artistica e l’impegno civico;
• forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni;
• forme di tutoraggio informale, in base alle quali i partecipanti più esperti
condividono conoscenza con i principianti;
• i soggetti coinvolti presentano una forte convinzione circa l’apporto del loro
contributo;
• sentirsi connessi gli uni con gli altri: i partecipanti sono interessati alle
opinioni che gli altri hanno delle loro creazioni;
29
• Non tutti gli appartenenti alla cultura partecipativa sono tenuti a contribuire,
ma tutti devono credere di essere liberi di poterlo fare e essere certi che il loro
contributo sarà valutato appropriatamente (Morreale D, 2012).
Secondo gli esperti, è proprio grazie a queste forme di cultura partecipativa
che si può offrire un’opportunità di apprendimento tra pari; inoltre, con esse è
possibile avere una diversificazione delle espressioni culturali, nonché uno sviluppo
di competenza e una concezione più estesa della cittadinanza.
James Paul Gee, in merito alle forme di cultura partecipativa, parla di spazi di
affinità all’interno dei quali i partecipanti possono o meno sentire appunto un forte
senso di affiliazione reciproca: “alcuni semplicemente attraversano quello spazio,
godono dei contenuti, raccolgono informazioni e ritornano al loro gioco. Altri
possono connettersi più strettamente. Possono partecipare con modalità diverse:
alcuni sono attivi, altri passivi; alcuni prendono la guida, altri seguono” (Jenkins,
,
Ford S., Green J. 2013, 169).
Secondo l’autore sono proprio questi spazi di affinità che riescono a motivare
la produzione e la circolazione di informazioni e ciò rende l’affiliazione più forte.
Le persone coinvolte con questi tipi di spazi di affinità tendono a formare
relazioni non esclusive, per cui possono avere più interessi e quindi impegnarsi in
spazi di affinità diversi.
In sostanza, con la cultura partecipativa si aprono ampie opportunità di
apprendimento perché i partecipanti sono sostenuti da sforzi comuni che oltrepassano
ogni differenza di età, classe, livello di istruzione, sesso; in più, ognuno di essi vi
partecipa secondo le proprie capacità e i propri interessi; ogni partecipante è
motivato ad acquisire nuove conoscenze o a perfezionarle e a sentirsi, in alcune
occasioni un esperto e, in altre, può sfruttare l’esperienza altrui.
È proprio questa partecipazione attiva che rende le persone più coinvolte nella
cultura popolare, ossia, in una cultura costruita dalle persone e non imposta né
dall’alto né dal basso e quindi non rispetto ai libri di testo.
Oggi questo tipo di cultura, anche grazie alla diffusione dei media, si sta
diffondendo sempre più: siamo di fronte ad una generazione che non è fatta sola da
30
spettatori, ma anche da produttori di media; tutti hanno quindi un ruolo più attivo
nella cultura che viene prodotta (Jenkins, Ford S., Green J., 2013).
In questo modo si sviluppano anche nuove potenzialità di espressione politica
(empowerment) giungendo ad assumere decisioni significative all’interno di un
contesto civico reale e arrivando ad acquisire le abilità di cittadinanza diventando
attori politici e imparando gradualmente a comprendere in chiave politica anche le
scelte compiute.
La cultura partecipativa trae nutrimento proprio dallo sviluppo degli ambienti
mediali poiché essi, per le loro caratteristiche intrinseche, favoriscono l’interazione,
le abilità nel multitasking e la rapidità di decisione sulla qualità delle informazioni
ricevute. A ciò si aggiunge poi la possibilità di una maggiore collaborazione tra
diversi ambienti culturali (Morreale D, 2012).
In realtà, attualmente, molti giovani, proprio per l’utilizzo sempre più ampio
dei nuovi media anche a scuola, partecipano già a questa cultura partecipativa che
comprende:
• Affiliazione: cioè essere utenti formali o informali delle community on line
relative a differenti forme di media (forum, facebook, myspace);
• Espressioni creative: nel senso che essi producono spesso nuove forme
creative (fan video, fan fiction);
• Problem solving di tipo collaborativo: nel senso che lavorano insieme in
gruppi per raggiungere un obiettivo e sviluppare nuove conoscenze
(wikipedia o giochi di realtà alternativa);
• Circolazione: nel senso di riuscire a modellare il flusso dei media (blog.
Podcasting).
In sostanza, in un mondo che vede la linea di demarcazione tra consumatori e
produttori sempre più sfocata, i giovani vivono in una condizione in cui possono
aprirsi ad un più ampio pubblico, creando nuove forme espressive poco conosciute
anche dagli adulti. Proprio questo, tuttavia, potrebbe portare, da parte di questi
ultimi, a ricevere una scarsa guida o supervisione.
31
Va detto, inoltre, che in questi contesti informali non esiste un insieme di
norme etiche che guidano allo stesso modo tutte le loro azioni, per cui sarebbe
necessario incoraggiare i giovani a riflettere di più proprio sulle scelte etiche che
fanno come partecipanti e come comunicatori e sull’impatto che queste scelte hanno
sugli altri.
32
CAPITOLO III
DAL MENTORING ONE TO ONE ALL’E-MENTORING
“Uomo non credere di possedere l’ intelligenza
ma continua ad apprendere…
…impara ad essere intelligente”
R. FEUERSTEIN
1.L’e-mentoring come sviluppo del mentoring tradizionale
Come descritto nei capitoli precedenti, tra le varie forme di mentoring vi è
anche quella definita e-mentoring (electronic mentoring). Essa si basa su una
relazione che si instaura tra un mentore ed il suo mentée attraverso l’utilizzo di
comunicazioni elettroniche. Questa forma di mentoring è progettata per sviluppare e
far crescere le capacità e le conoscenze dell’allievo e per aiutarlo ad aver successo
(AA.VV, 2009).
L’electronic mentoring rappresenta un ulteriore sviluppo del mentoring
tradizionale che, avvalendosi del supporto dei moderni strumenti di comunicazione
elettronica, quali la rete internet, l’e-mail, ecc., favorisce il contatto tra esperto ed
inesperto. In realtà, anche se negli ultimi anni ha conosciuto una maggiore
diffusione, gli studi attuali consentono solo in parte di poterne verificare criticamente
e completamente la sua efficacia.
Come attestano Bierema e Hill (2005), la letteratura sull’e-mentoring riporta
per lo più azioni esplorative per cui è necessario proseguire maggiormente negli studi
per poterne approfondire i vantaggi.
Va inoltre precisato che molti di questi studi cercano di esaminare i punti di
forza e i limiti percepiti dall’utilizzo dell’email come canale comunicativo. Infatti,
questo strumento risulta essere l’elemento caratterizzante di questo modo di fare
33
mentoring; si tratta di un mezzo asincrono, basato sul testo e sulla scrittura al
computer, in grado di far comunicare anche in gruppo, e che presenta numerosi
vantaggi.
L’Internet service provider, America online (AOL) e Netscape hanno avuto
un ruolo importante nella diffusione dell’uso di e-mail e di internet, favorendo così
anche la diffusione dell’e-mentoring (Yaw D.C., 2007).
Tra gli studi sull’e-mentoring si annovera quello di Bierema e Merriam
(2002) i quali hanno sostenuto che, rispetto alle tradizionali forme di mentoring,
questo può offrire maggiori possibilità educative e professionali alla popolazione con
più difficoltà economiche o a quella sottorappresentata. Si pensi ad esempio, alle
donne o agli studenti in difficoltà (Bierema L. & Merriam S. B, 2002).
Harris, invece, ha sottolineato che sebbene l’e-mentoring tragga spunto dal
mentoring tradizionale, avendo con esso anche punti di contatto, esso si sviluppa in
modo diverso e per scopi anche diversi. Innanzitutto, l’aspetto che viene evidenziato
dallo studioso è quello della natura dei media utilizzati: l’email, quale strumento
principe dell’e-mentoring, richiede, per le sue caratteristiche intrinseche, una diversa
strategia d’interazione (K O’Neill D. & Harris J. B. 2004). L’email, infatti, offre il
vantaggio di potere essere inviata ad un gran numero di utenti, ma risulta nel
contempo individuale: arriva nella casella di ognuno dei destinatari, ma si rivolge
direttamente all’allievo stesso. Ogni e-mail può inoltre essere utilizzata per veicolare
un messaggio specifico e, con essa, è possibile chiedere all’utente di eseguire
una determinata azione all’interno dell’ambiente virtuale di apprendimento.
Owens (2004) cita nel suo studio la società Intel come pioniera dell’ementoring con l’implementazione di siti dedicati e destinati ai suoi dipendenti.
Burke e Cooper (2004) riportano invece lo studio sperimentale condotto dalla
Banca Montreal che avviò un progetto di e-mentoring da applicare ai suoi dipendenti
e, riscontrandone un buon successo, lo diffuse a tutte le sue filiali (K O’Neill D. &
Harris J. B. 2004).
Va citato, inoltre, il programma di e-mentoring industriale diffuso dalla
MentorNet e rivolto alle donne. Secondo la società i vantaggi di tale programma
sono stati significativi.
34
Un altro studio (Shpigelman, C. N., Weiss, P. L. T. & Reiter, S., 2009) poi si
concentra sull’analisi dell’applicazione di un programma di e-mentoring a giovani
con bisogni speciali. È stato dimostrato che il suo utilizzo fornisce un valido aiuto a
questi giovani poiché consente l’accesso ai mezzi di comunicazione e quindi offre
l’opportunità di uno scambio di informazioni pratiche e di un supporto psicologico
che li aiuta ad affrontare meglio le loro particolari esigenze. Questo studio sottolinea
come tale programma di intervento sia stato progettato proprio per fornire sostegno
sociale ed emotivo per mentée con disabilità da parte di mentori che presentano
anch’essi disabilità. Secondo quanto riportato, alla fine di questo percorso i giovani
coinvolti sono giunti ad un maggiore sviluppo personale e ad un miglioramento
dell’empowerment (Shpigelman, C. N., Weiss, P. L. T. & Reiter, S., 2009).
Queste ricerche hanno mostrato che l’e-mentoring offre l’opportunità di stare
in contatto a distanza e quando non si ha tempo di incontrarsi vis à vis. In particolare,
Eby ha sostenuto che esso può contribuire al successo di nuove e diverse forme di
mentoring tra cui: l’inter-team mentoring, il mentoring per siti internazionali, il
mentoring per socializzare tra nuovi assunti, per le donne in maternità, ecc. Ciò vuol
dire che l’e-mentoring può diventare anche uno dei molteplici strumenti di sviluppo
manageriale, tra gli altri sistemi di knowledge management (Boldizzoni D., Raoul C.,
Nacamulli D., 2004).
In altre parole, è stato a partire dagli anni ’90 che la ricerca internazionale si è
soffermata sulle prime esperienze di programmi di formazione a distanza che
puntavano per lo più al recupero dello svantaggio sociale di categorie a rischio di
esclusione e a cui veniva offerto un training di conoscenze ed abilità per
l’inserimento lavorativo. Grazie poi alla diffusione e al miglioramento dei software,
queste modalità di formazione sono state introdotte sia nella formazione scolastica
che in quella aziendale.
Tra le prime esperienze di e-mentoring va ricordata quella canadese del 1990
in cui insegnanti delle scuole secondarie della Colombia Britannica, per ragioni
esclusivamente logistiche, diedero supporto e realizzarono un addestramento ai loro
pari mediante uno scambio di e-mail (Miller A., 1995).
Via via diversi programmi di e-mentoring si sono perfezionati attraverso
nuovi strumenti tecnologici in grado di potenziare le opportunità e le forme di
35
comunicazione ed interazione, dalle tradizionali modalità asincrone, quali forum,
email, ecc., a quelle più interattive e sincrone come le chat room, videoconferenze,
ecc.
Oggi si tende a ricorrere, come vedremo di seguito, a soluzioni blended4 che
prevedono l’integrazione fra modalità didattiche in presenza e on-line, o di ementoring puro esclusivamente web-based.
2. L’e-mentoring nell’ambito della formazione dell’insegnante
A questo punto va citata anche un’indagine tesa a valutare le caratteristiche
dell’e-mentoring nella specifica formazione dell’insegnante.
L’e-mentoring realizzato nei programmi di formazione all’insegnamento è
solitamente nella forma blended che si analizzerà di seguito, e diffusasi già alla metà
degli anni ‘90, ma anche per la reintegrazione degli insegnanti attraverso il recupero
di abilità professionali.
Boyle e Boice (1998), a tal proposito, hanno indicato i criteri di qualità per
un’efficace relazione di mentoring on-line esposti di seguito:
“a) la possibilità di stilare un indice dei contatti svoltisi tra e-mentor e
allievo (frequenza, costanza, prontezza, reciprocità) nei quali poter
b) valutare, inoltre, i contenuti affrontati (risposte a domande precise,
supporto alla motivazione, scambio di idee e commenti ecc.)” (Agrati, L.S., 2011).
Uno studio più recente sull’e-mentoring come attività integrata al tirocinio
attivo (Livengood & V. Moon Merchant, 2004), sottolinea che essa può garantire una
comunicazione più chiara, più approfondita, più efficace e frequente in ambiente
protetto in cui mentore e allievo possano confidare incertezze o perplessità. Infatti, se
si considera che l’email è lo strumento maggiormente utilizzato per l’e-mentoring si
comprende come questa forma di interazione consenta un dialogo tra allievo e
mentore più protetto e sicuro e quindi una relazione che può consentire anche una
maggiore apertura da parte dell’allievo.
4
Prevede una combinazione tra contatti faccia a faccia e contatti indiretti tramite e-mail, forum, sms e
piattaforme ecc. e cerca di ridurre gli svantaggi e ottimizzare le potenzialità di entrambe le forme.
36
Anche Kilburg e Hockett (2007), sono giunti a simili considerazioni
relativamente allo studio del programma di e-mentoring su piattaforma Moodle
rivolto a insegnanti novizi provenienti da scuole private della costa occidentale degli
USA (Kilburg G. & Hockett E.,2007). Essi hanno aggiunto che è stato anche
possibile, inoltre, “verificare l’effettiva collaborazione tra mentore e allievo sulla
base delle modifiche quali-quantitative dei contenuti editoriali e della frequenza e le
categorie di messaggi scambiati” (Agrati L.S, 2011, 40-41).
Anche lo studio sperimentale condotto sul MentorBlog project ha confermato
che il blogging è capace di garantire un tipo di comunicazione reale sulla base di
caratteristiche quali la persistenza, l’immediatezza, la reciprocità ecc. (Agrati L.S,
2011)
Vanno poi ricordati altri studi (Agrati L.S, 2011) volti invece ad esaminare la
componente community nei programmi e-mentoring. Si è osservato che tra insegnanti
in formazione, mentori e altri utilizzatori dell’ambiente online si instaura un’effettiva
comunità di apprendimento in grado di mettere in atto procedure di induzione
supplementari al tirocinio. “L’accesso a risorse rilevanti (esperienze pregresse,
esempi concreti ma anche materiale didattico personale), la possibilità di ottenere
feedback immediati sono i fattori che assicurano uno sviluppo professionale ‘ongoing’ secondo modalità mai immaginate precedentemente” (Agrati L.S, 2011, 41).
Infine, altri esperti si sono concentrati sul tipo di conoscenza che il futuro
insegnante apprenderebbe in merito all’insegnamento in ambiente on-line (Agrati
L.S, 2011).
3. Il modello blended
Il rapporto tra tecnologie e teorie psico-pedagogiche sembra essere oggi
caratterizzato: da una parte dall’uso delle tecnologie che hanno spinto verso nuove
modalità di intervento formativo, dall’altra, dal fatto che alcune di queste modalità
restano efficaci, al di là delle tecnologie, solo se messe in atto in contesti faccia a
37
faccia e, in quanto tali, continuano a ricoprire un ruolo fondamentale nei processi
formativi ed organizzativi (AA.VV., 2015).
Per riuscire a superare questa criticità si è giunti all’elaborazione di un’altra
modalità di mentoring: blended mentoring. Esso si riferisce ad un particolare
modello organizzativo in cui attività a distanza ed attività in presenza sono
variamente alternati. Anche se tale modello può risultare concettualmente chiaro
resta complicato descrivere una pratica univoca di tale mentoring. Infatti,
l’esplicitarsi di esperienze diverse in questo settore ha portato a diverse
interpretazioni, legate al grado e alle modalità di integrazione dei contesti faccia a
faccia (f2f) con quelli mediati dalle tecnologie (Cacciamani S., D. Cesareni, Ligorio
M.B., Martini F., Varisco B.M., 2005). A ciò va poi aggiunto il fatto che la
definizione teorica del termine si presta a più interpretazioni a seconda degli aspetti
su cui si concentra: un accostamento di diverse modalità di comunicazione (faccia a
faccia e mediata dal computer); una combinazione di più modalità di apprendimento
(individuale e collaborativo); una stimolazione di molteplici processi cognitivi
(acquisizione di concetti dati e costruzione attiva di nuove conoscenze); una
flessibile strutturazione dei tempi di apprendimento (sincronia e asincronia)
(Cacciamani S., D. Cesareni, Ligorio M.B., Martini F., Varisco B.M., 2005).
Accade, pertanto, che l’espressione blended mentoring comprende esperienze
d’uso di prodotti multimediali o di reti di comunicazione computerizzate; i momenti
faccia a faccia (f2f) possono riguardare gli stessi interlocutori coinvolti nelle
interazioni mediate, oppure nuovi interlocutori, o ancora, l’attività f2f può riguardare
solo l’interazione tra studenti e docenti, mentre i pari comunicano a distanza. Anche
la temporalizzazione di queste due macro-categorie (f2f e a distanza) non è univoca
né sempre chiaramente definita. Tale espressione viene spesso equiparata a quella di
blended learning a cui, va detto, nel corso degli anni è stata dedicata maggiore
attenzione rispetto al blended mentoring.
Anche se vi sono tali difficoltà classificatorie, attualmente, gran parte degli
esperti ritengono che solo attraverso l’adozione di una simile metodologia l’uso delle
tecnologie in contesti educativi e formativi possa davvero essere efficace.
In ogni caso, al formatore, che utilizza questo “modello integrato”, si offre
un’ampia possibilità di scelte che abbraccia le soluzioni più variegate (role play,
38
lezioni tradizionali veicolati da strumenti che vanno dal computer alla televisione,
dalla lavagna alla carta stampata).
L’adozione di un simile modello conduce all’utilizzo di una strategia di
progettazione didattica che coniuga aspetti e metodi dell’apprendimento tradizionali
con aspetti e metodi dell’apprendimento on line (Buckley MA., Hundley
Zimmerman S., 2003). Aula e rete con tale modalità diventano due spazi che si
integrano tra loro. Tuttavia, ciò può suscitare anche degli equivoci; si ricordi, infatti,
che tale metodologia è orientata ad un aumento della qualità complessiva della
formazione e non ad un incremento della performance. Quindi, l’eventuale utilizzo di
più canali di comunicazione (aula e rete, ad esempio) non può diventare una sorta di
un automatismo, ma va motivato ogni volta sulla base di una chiara strategia di
integrazione di formati didattici che persegua un aumento di qualità del processo. In
generale, uno stesso canale può veicolare più tipologie didattiche, così come più
canali possono veicolare lo stesso formato didattico.
Quanto appena descritto ci mostra quanto ricco è lo scenario che un
progettista di formazione deve conoscere, saper valutare e scegliere. Ciò deve essere
fatto sempre tenendo in considerazione una precisa strategia didattica, finalizzata a
migliorare il processo di apprendimento mediante il superamento di precisi vincoli di
tempo, spazio, costo, risorse tecnologiche o altro.
In conclusione, si può dire che il blended learning è un approccio che punta a
valorizzare in un progetto didattico sia i punti di forza della formazione in presenza
che le specificità della formazione a distanza, in particolare della formazione in rete.
Infatti, in linea generale per rendere valido il modello blended si seguono tre fasi: un
intervento in presenza, lo studio individuale e infine l’interazione a distanza.
“Ognuna di queste fasi è preparatoria della successiva, rendendole necessarie e
complementari, in questa alternanza di presenza/distanza. Si ritiene opportuna
l’applicazione di soluzioni di tipo blended soprattutto in quei casi di intervento
intensivo, che vede coinvolto un numero variabile dalle 20 alle 30 persone, in modo
da permettere un’interattività efficace tra il discente e il tutor, e tra discenti stessi”
(Buckley MA., Hundley Zimmerman S., 2003).
39
4. Alcuni esempi di e-mentoring nelle Università
A partire dagli anni ’90, come si è detto, si sono diffusi sempre più in molte
Università, programmi prima di mentoring, e poi di e-mentoring. Ad esempio, nelle
Università di Lille, Jussieu, Montesquieu, Nancy e Rennes, sono stati implementati
diversi programmi di e-mentoring (Buckley MA., Hundley Zimmerman S., 2003).
In Spagna ci sono vari esempi sia di e-mentoring che di blended mentoring in
Università come quella di Siviglia e Deusto.
In Inghilterra il progetto nazionale AimHigher vede impegnati studenti
universitari in attività di mentoring sia in presenza che on line allo scopo di
aumentare il rendimento scolastico e la motivazione di studenti delle scuole superiori
(Buckley MA., Hundley Zimmerman S., 2003).
In Italia, oltre all’ampia gamma di forme di mentoring one to one e di gruppo,
così come indicato nei capitoli precedenti, vi sono anche forme di e-mentoring: si
pensi ad esempio, all’Università di Bari, Lecce, Roma (La Sapienza) e Firenze.
Va ricordato il caso dell’“Ex Allievi scuole militari Mentoring Onlus” nato
con l’obiettivo di orientare in ingresso all’Università e al mercato del lavoro i giovani
ex-allievi delle scuole militari5. In particolare, va citato l’e-mentoring della Scuola
Militare Nunziatella che coinvolge ex-cadetti con esperienza professionale in forme
di guida universitaria e alla carriera a giovani appena usciti dalla scuola di Napoli
(Perchiazzi, M., 2009).
Ciò che è necessario porre in evidenza rispetto a tali esperienze è il modo in
cui nasce il rapporto tra le due figure coinvolte, sulla base delle caratteristiche
peculiari della coppia: il mentore viene scelto tra gli ex-allievi delle scuole con
esperienza professionale e quindi capace di fornire consigli sul percorso di carriera
(militare e non); la scelta di assegnare il mentore all’allievo avviene dopo l’esame dei
CV rispettivi e il raffronto delle aspettative. L’inizio del rapporto, tuttavia, avviene in
modo libero e volontario da parte del mentore e dell’allievo che sottoscrivono precisi
criteri deontologici.
5
La piattaforma telematica utilizzata prevede l’accesso riservato per la coppia mentore-allievo e
strumenti vari come chat, e-mail, webcam, viva voce, documenti, il forum di discussione.
40
La piattaforma telematica utilizzata prevede l’accesso riservato per la coppia
mentore-allievo e strumenti vari quali chat, email, webcam, viva voce, forum
discussione, ecc.
Va ricordata anche la modalità di valutazione applicata in questo rapporto di
mentoring; essa si basa su una valutazione fatta ogni tre mesi sui dati numerici della
durata, le modalità frequenti di scambio, ma soprattutto i temi trattati, la frequenza
del contatto, l’applicazione dell’allievo, il gradimento del mentore, il tipo di
progettualità attivata.
Questo esempio ci fa capire che l’e-mentor viene in genere scelto con una
certa cura e sempre sulla base di esperienze pregresse o interessi comuni che si
possono ricavare dai profili come mostrano le esperienze citate dagli ex allievi e di
MentorNet. La selezione, infatti, in questo caso, avviene esaminando i profili di
esperti laureati nel settore di competenza con almeno due anni di esperienza
professionale.
5. I vantaggi dell’e-mentoring
Alcuni studiosi, tra cui Rothwell, Jackson, Knight e Lindholm, hanno cercato
di esaminare alcune esperienze di e-mentoring allo scopo di comprenderne i
vantaggi. Innanzitutto, molti hanno notato che coloro che hanno partecipato a tale
programma hanno ricevuto non pochi benefici in termini lavorativi e quindi per un
miglioramento della loro carriera.
Secondo Knouse internet, quale strumento principale per l’e-mentoring, offre
alcuni vantaggi che le altre forme di mentoring non hanno: l’accesso immediato ad
un numero altissimo di informazioni. Ognuno può accedere alle pagine messe a
disposizione dai mentor, mandare email, e questo in qualsiasi momento del giorno e
della notte, sette giorni su sette. I mentée possono ricevere i vari feedback sulle loro
domande e, attraverso le chat room possono essere proposte diverse prospettive dai
mentori online con diversi background (Knouse S.B, 2001).
41
Inoltre, come precisato da Single e Single, l’e-mentoring può aiutare gli
studenti a superare l’isolamento attraverso il contatto con diversi mentori e con molte
risorse messe a disposizione dal web (Single & R. M. Single, 2005). Ancora, gli
allievi possono avere la possibilità di creare contatti e giocare un ruolo attivo nelle
discussioni online. Anche i mentori possono trarne benefici: essi hanno l’opportunità
di crescere attraverso l’aiuto offerto agli altri.
Grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie l’e-mentoring consente, nel
rapporto tra mentore e allievo, di accedere ad ambienti on-line sicuri in cui poter
conversare e approfondire il dialogo e quindi di acquisire nuove competenze e la
relativa formazione e preparazione.
Vi sono, tuttavia, anche dei limiti che vanno considerati: il limite principale
attribuito a questa “estensione” di mentoring è legato all’utilizzo stesso dello
strumento comunicativo che per alcuni limiterebbe il rapporto personale e la
relazione immediata tra mentore e allievo e renderebbe la relazione impersonale.
Non può essere negato che l’aspetto principale del mentoring, ossia la relazione che
si stabilisce tra mentore e allievo basata sull’ascolto attivo e la presenza fisica, non
può realizzarsi nel rapporto a distanza. Non è possibile verificare la genuinità e
l’intensità emotiva di chi parla e legge. Brotheron ha notato, a tal proposito, che uno
dei limiti dell’e-mentoring potrebbe essere quello del possesso dello strumento
tecnologico atto a supportarlo (Brotherton P., 2001). Single e Single (2005) hanno
infatti sottolineato che molti studenti hanno accesso ai computer e ad internet, ma
molti altri, si pensi a quelli africani, non possono accedere alle nuove tecnologie. Per
riuscire ad estendere l’e-mentoring anche agli altri bisognerebbe investire molte più
risorse. Va detto comunque che esso rappresenta, allo stato attuale, l’unica forma di
accompagnamento lì dove presenti limiti logistici oggettivi e difficilmente superabili
come la distanza spaziale e temporale o l’impossibilità fisica.
Questa modalità di mentoring di per sé non esclude la possibilità da parte dei
soggetti coinvolti che si instauri un rapporto vero basato su reali richieste di sostegno
e risposte concrete. Come dimostrano alcune indagini, il livello qualitativo del
rapporto sarebbe rispettato “da elementi di non secondaria importanza come la
condivisione degli interessi tra mentore e allievo (alla base delle scelta
dell’assegnazione tre mentore e allievo), la fedeltà stessa dei contatti (costanza,
42
frequenza). Nel caso degli strumenti asincroni (forum, e-mail) la coppia ha del
tempo per valutare le risposte da dare e il tipo di comunicazione da offrire oltre che
per ricercare e approfondire le informazioni scambiate” (Agrati L.S, 2011, 41).
43
CONCLUSIONE
Il mentoring, come si è cercato di dimostrare nel corso di questo lavoro, non
rappresenta una tecnica meccanica, ma una rete di relazioni basata sui rapporti che si
instaurano tra le persone coinvolte: ecco perché, pur utilizzando la stessa tecnica di
accompagnamento, i risultati sono legati esclusivamente alle persone coinvolte e al
grado di partecipazione e volontà.
Il mentor ideale è rappresentato dalla figura che ricerca i problemi veri e aiuta
a risolverli, che si pone nei confronti del mentée con un atteggiamento positivo, di
sostegno. Egli non deve lanciare sfide né assumere un atteggiamento direttivo, ma
calarsi nei panni dell’altro cercando di far emergere i tratti caratteriali e le
potenzialità di colui o colei che gli è di fronte, potenzialità utili alla soluzione dei
problemi presenti in quel momento.
Un efficace intervento di mentoring si basa sulla capacità di agire
positivamente anche verso l’affermazione dell’autostima degli allievi, favorendo la
loro crescita e aumentando la fiducia in loro stessi e nelle loro capacità, oltre a
fornire indicazioni di lavoro e suggerimenti operativi verso i quali indirizzarsi.
Va detto, comunque, che nonostante gli acclarati benefici del mentoring,
soprattutto per i neoassunti, sono ancora molte le organizzazioni restie ad utilizzarlo.
Molti ritengono che porti via tempo prezioso per attività produttive e che può essere
sostituito con azioni di affiancamento-tutoring anche per brevi periodi. Ma, come si è
sottolineato nei vari capitoli del presente lavoro, gli ultimi decenni stanno comunque
presentando un’inversione di tendenza.
È proprio negli ultimi decenni, infatti, che i programmi di mentoring, in
particolare nella sua forma più tradizionale, ossia quello one to one, si stanno
diffondendo sempre più. In realtà, come indicano alcuni studi effettuati soprattutto in
Nord America, anche la diffusione dell’e-mentoring si sta ampliando.
L’e-mentoring ha dimostrato di essere una modalità che consente lo sviluppo
di un tipo di apprendimento che comporta vantaggi sia per il mentore che per il
mentée: il mentore fornisce consigli, condivide conoscenza ed esperienze e insegna
un approccio di auto-scoperta, il mentée impara interagendo con il suo mentore per
raggiungere gli obiettivi prefissati.
44
Questa modalità di mentoring sta diventando sempre più importante grazie a
molte organizzazioni sperimentali. La ricerca ha mostrato che essa può essere
efficace quanto il mentoring tradizionale se il progetto è attentamente pianificato.
Tuttavia, come si è cercato di sottolineare nel presente lavoro, è necessario fare
maggiori ricerche per comprenderne più chiaramente i vantaggi e le criticità. In ogni
caso, molti concordano sul fatto che l’e-mentoring nell’educazione e nello sviluppo
di risorse umane rappresenti una modalità che presenta molti aspetti positivi.
45
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