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LA CAPITANATA
Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
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«la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per
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“LA MAGNA CAPITANA”
BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA
è un servizio della Provincia di Foggia
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Sala Consultazione: Maria Altobella, [email protected]
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Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi
simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da
Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro
senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca
Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato.
Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
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LA CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
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Marzo 2006
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Indice
Letteratura al femminile
p.
11
Il tempo e il ricordo nelle dinamiche psicologiche
di Tempo Innamorato di Gianna Manzini
di Luana Di Francesco
37
Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici
e narrativi in Elsa Morante e Lalla Romano
di Antonella Iacobbe
45
Anna Maria Ortese e Paola Masino:
due scrittrici d’avanguardia
di Luciana Stanziano
53
Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
di Mariangela Tota
Saggi
63
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria:
i duchi di Sangro, storia della famiglia dalle origini ad oggi
di Lucia Lopriore
1. Introduzione
2. I Duchi di Sangro
3. Appendice
123
Una città di “regio patronato” tra due conventi:
frammenti inediti di storia francescana
di Tommaso Nardella
5
p.
131
Industria laterizia a Lucera
di Dionisio Morlacco
137
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso; l’irreversibile
viaggio verso la morte-in-vita; perché non piangere la morte di
una bambina uccisa da una bomba, nelle poesie: Ears in the turrets
hear; The force that through the green fuse drivers the flower;
Twenty-four years; A refusal to mourn the death, by fire, of a child
in London di Dylan Thomas
di Gaetano Zenga
1. La difficoltà di interpretazione della poesia di thomasiana
2. La ricerca di un linguaggio nuovo
3. L’impossibilità della comunicazione
4. Il grido represso del poeta di fronte al mistero dell’universo
5. L’irreversibile viaggio verso la morte-in-vita
6. Perché non piangere la morte di una bambina uccisa da una bomba
183
Le Stele Daunie e la tradizione antiomerica
della Guerra di Troia
di Cristanziano Serricchio
189
Dalla parte di Ann: il sequestro di William Moens
nel diario della moglie
di Rosanna Curci
199
Il ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino.
Studio codicologico, paleografico, testuale
di Tommaso Palermo
1. Analisi dell’ornamentazione
2. Analisi musicale
3. Conclusioni
4. Tavole
231
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore,
valido esempio della letteratura serbo-croata
di Giuseppe De Matteis
Attività della Biblioteca
245
Le marche tipografiche
di Marianna Iafelice
6
Recensioni
281
Niccolò Forteguerri, Capitoli
di Giuseppe De Matteis
283
Giuseppe De Matteis, Una lunga fedeltà (aspetti e figure della
Puglia letteraria contemporanea)
di Eugenio Tosto
Gli autori
7
8
Letteratura al femminile
10
Luana Di Francesco
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche
di Tempo innamorato di Gianna Manzini
di Luana Di Francesco
Tempo innamorato di Gianna Manzini rappresenta, nel panorama letterario
novecentesco, una prima e significativa conferma di quegli sconcertanti stravolgimenti che la forma romanzesca, nel vorticoso avvicendarsi e compenetrarsi di proposte e sperimentazioni, aveva sapientemente accolto. Tra le numerose innovazioni contenute nell’opera, la più rimarchevole è, senza dubbio, lo scardinamento delle tradizionali strutture spazio-temporali. L’universo da raccontare, dunque lo “spazio” da
occupare, diventa quello intimo e segreto di palpitanti coscienze che, nel vano tentativo di “arginare” la tristezza e lo sconforto di un’esistenza sorda e logorante, sopravvivono alla crudele realtà delle cose “guardandosi vivere”, abbandonandosi ad uno
“straripante” tu per tu con se stesse. Questo costante appartarsi dal mondo “agito”
per consacrarsi all’ascolto attento dei propri moti interiori, inebria di sé l’ambiente
circostante; il mondo inanimato degli oggetti, delle cose, perde la sua sterile consistenza fisica per farsi pura emotività, sensazione, stato d’animo. In un universo così
irreale ed evanescente anche il tempo diviene simbolo, espressione metaforica dello
sconcertante debordare dell’intimo sentire nella materia. Se è vero che la coscienza
rappresenta un nuovo e più complesso “modo” d’esistere in cui la dimensione spaziale si dilata e deforma per accogliere il confuso groviglio dei moti dell’anima, anche
il tempo, destinato a scandire gli istanti di questa vita “altra”, subirà una profonda
metamorfosi. Il romanzo della Manzini sembra davvero aver fatto tesoro dei preziosi
insegnamenti della filosofia bergsoniana che, riconoscendo nell’intuizione (e non nell’intelletto) l’unica facoltà capace di indagare la vita della coscienza nel suo mobile ed
unitario fluire, aveva elaborato e diffuso una nuova “idea” di tempo: il tempo interiore della coscienza non può coincidere con quello della scienza, considerato un ordinato susseguirsi nello spazio di istanti distinti, ma, concepito come “durata”, esso
diventa un flusso continuo di “stati” (gli istanti del passato, del presente e del futuro)
che fondendosi, compenetrandosi, contrappongono la simultaneità della coscienza al
rigido imperativo della “successione”, vigente all’esterno. Sarà proprio questo nuovo
modo di “sentire” il tempo il tema dominante del romanzo: la narrazione, divenuta
specchio di complessi moti interni, contravverrà al rigido canone dell’oggettività e
della linearità per svilupparsi su linee compositive molteplici e inaccostabili e divenire, così, “luogo designato” dell’incontro, della convergenza del passato (come ricordo) e del futuro (come proiezione visionaria) nel presente “assoluto” dell’operazione
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
narrativa. La vita della coscienza, dunque, nel suo complesso fluire, trova in Tempo
innamorato una prima, concreta dimostrazione di “rappresentabilità”: il passato, nel
suo farsi “necessario” presupposto della storia da narrare, diventa una forza illuminante che, abbattendo il muro del tempo, penetra tra le sottili “fibre” della vita presente per chiarirne e denudarne le fragili e barcollanti “strutture”. Così facendo, il
“vissuto” proietta la narrazione nello spazio magico di un tempo sospeso, in cui
tutto ciò che “è stato” torna ad “essere” nel tentativo di “decifrare” il senso profondo di ciò che “è”: la riemersione del passato nell’attualità del récit, infatti, permette
alla scrittrice di rivelare la complessa tessitura del pulsante universo interiore dei
suoi personaggi, di cogliere e comprendere i moventi segreti, le cause sotterranee
che li spingono ad “agire” il presente, nel disperato tentativo di opporsi alla paralizzante aridità del loro vivere quotidiano. È anche vero, però, che il passato, nel suo
porsi come momento fondante “l’oggi” delle loro grame esistenze, condizionerà,
inevitabilmente, anche gli “atti” futuri dei protagonisti, poiché esso è “memoria”,
“realtà storica” non solo di ciò che “è” ma anche di ciò che non esiste ancora; allora
anche il futuro giungerà da frantumate lontananze ad invadere il presente con la
forza “visionaria” dell’aspettazione e della prevedibilità. L’incidenza del passato,
infatti, sarà tale da rendere persino “visibili”, “ipotizzabili”, “calcolabili”, le imponderabili “fattezze” dei giorni a venire, come testimonieranno le vibranti pagine
dell’ultimo capitolo di Tempo innamorato: infatti, tutta la struttura del romanzo
sembra incarnare perfettamente il fluido movimento della vita interiore poiché si
presenta come un costante intersecarsi e innestarsi, nel presente della narrazione, di
pagine consacrate al racconto dei necessari antefatti della storia e di altre impegnate
a proiettare le vicende verso un già prevedibile epilogo futuro. Il passato allora, nel
suo porsi come momento “chiarificante”, illuminante la vita degli esseri, renderà il
presente “chiarificato” e il futuro “chiarificabile”. In questa proustiana esaltazione
della potenza del “tempo che fu”, nessun personaggio sembra riuscire a sfuggire al
proprio passato: ogni individuo è il risultato di un complesso groviglio di forze e di
eventi che, in un libero gioco di incastri e contrasti, hanno determinato, “costruito” pian piano le molteplici coordinate del suo essere. La Manzini allora, nel presentarci i suoi personaggi, farà sempre chiaro riferimento al loro vissuto, alla loro
“storia”. Nella descrizione di Ugo, ipotizzata dall’io narrante, ad esempio, anche i
gesti, i tratti fisici, sembrano “suggerire” notizie importanti sulla sua vita passata,
anzi diventano i segni rivelatori delle sue “radici”:
Uno di quegli uomini che a fin di tavola il giornale lo aprono solamente per il
gesto che dà autorità e fa nascere un silenzio trepido e posticcio; lo spiegano
largo a riparo della faccia tentata dalla tenerezza, mentre vorrebbero, proprio
al momento del caffè, avvicinare di più la sedia a quella della loro donna, e
distrarre i bambini, magari con una pallina di pane[...] Corrugava la fronte,
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Gianna MANZINI, Tempo innamorato, Milano, Edizioni Corbaccio, 1928, p. 53. Tutte le successive citazioni
sono state estratte da questo testo.
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Luana Di Francesco
ripetutamente, come per una parte di minaccia.1 […] forse perché pensai alla
sua fanciullezza e conclusi: “fu un ragazzo umiliato”. Suo padre doveva fare
uno di quei mestieri che sporcano la faccia e le mani, e intimidiscono, e allontanano da certe cose, come dai vestiti nuovi, dai frutti sbucciati e dalla pelle fina
d’un bambino: senza dubbio il fabbro. Ugo non ebbe mai una carezza dal babbo, ne sono sicura. La mamma doveva essere una donna piccina, brutta, con
una gamba più corta […], un sorriso simile a una preghiera mortificata […]
Timidezza: lo stesso sentimento che persuadeva invece il suo figliolo a fare la
grinta, diffidente e scontroso (pp. 54-55). Il ragazzo fu allevato in campagna:
senza dubbio passò gran parte della fanciullezza all’aperto, dov’è possibile essere candidamente crudeli (p. 56). Gli piacevano le poesie, ma si vergognava a
dirle.[…] Fu così che alle parole difficili preferì i numeri, che sono parole chiare, inequivocabili: sicché uno che parla di numeri non può mai far ridere, ed è
sempre preso sul serio. Divenne ragioniere (pp. 58-59).
Anche il dolente ritratto di Clementina lascia intuire la tragicità di un triste
vissuto, di una vita sbiadita, consumata nell’ombra, nella rassegnata accettazione di
un inconsistente destino di rinunce e privazioni:
Una donna che sembra nutrire di bontà la sua bruttezza dolce e quasi contagiosa fu abbandonata dal marito. Spietatamente ragionevole divenne amica della
propria pena. Non si stupì nemmeno che egli cercasse di comporre una nuova
famiglia, tanto era persuasa d’aver tradito le immagini d’un sorridente e facile
esistere casalingo, per via di quella bruttezza che, mantenuta schietta dall’umiltà, cresceva, cercandole sul viso i confini della remissione; né si lamentò: non
avesse l’uomo che ella amava tuttavia a rimproverarsi il momento in cui scelse
lei per moglie, una donna che affatica chi la guarda (p. 9).
E il gesto estremo di rinuncia alla vita compiuto da Raffaello affonda le sue
radici nella terra desolata di un’esistenza inquieta e tormentata, nell’ansia, quasi
fisica, di un essere assetato di verità che, nel disperato tentativo di sfuggire all’angoscia del vivere, cade vittima di profonde ed insondabili fragilità:
Rita si voltò a guardarlo attenta, considerandogli il viso che pareva impaziente
d’invecchiare. Proprio: gli occhi aspettavano le lenti, e la fronte era di quelle
che si preparano a sfuggire in una calvizie precoce (p. 39). Aveva l’impressione
che sarebbe bastata quella menzogna, per contenere la sua vita, che egli avvertiva disarginata, liquida; e riconosceva l’attimo in cui un uomo è come falciato, e
deve morire (p. 43). […] Era professore di matematica. L’idea di risolvere con
franchezza qualcosa a furia di numeri lo insuperbiva; ché gli pareva di chiarire
la vita, di svagarla, di umiliarla. La pagina che rappresentava il quesito risolto,
chiara, da potersi capire a colpo d’occhio, gli piaceva. Ci vedeva un modello. Il
modello di nulla, però: ché la vita era un’altra cosa.[…] Ma se avesse saputo
morire con un gesto netto, il suo dramma sarebbe stato evidente come il problema sulla pagina bianca (p. 95).
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
Nel presentarci il figlio maggiore di Raffaello, Enzo, la Manzini mostra come
l’intensità drammatica di questo complesso personaggio sgorghi da un passato di
sconcertanti “condivisioni”, di devastanti “affinità” con l’indole paterna:
Un avvilimento improvviso affiacchì il maggiore: lo sentivo accanto a me farsi
piccino, afflosciare, diventare come dopo un gran pianto, quando si resta peggio
d’una foglia macera.[…] M’ispirava diffidenza e m’intimoriva quel bambino preso dalla tentazione di buttarsi giù dalla carrozza (p. 70).
Allora capii: il figliolo che lo somiglia egli lo aveva voluto per lasciarlo a testimoniare la sua irrassegnazione (p. 31). “Avevano un modo assurdo d’intendersi che
mi escludeva”. “E quel bambino lo volle tutto per sé, per potermelo un giorno
riportare fra le braccia, ghiaccio e quasi senza respiro. […] “Non ho sentito più
mio quel bambino. È rimasto di Raffaello, che lo volle per vendicarsi, per lasciarmelo così, uguale a lui, quand’egli se ne fosse andato” (p. 89). Non si stupì Raffaello a vedere che il suo pensiero maturava e cresceva nella sua creatura (p. 96).
L’unica figura del romanzo che sembra non avere una “storia”, un proprio
“fondante” passato è Rita. Se si esclude il capitolo dedicato alla figura di Raffaello
in cui è possibile recuperare, indirettamente, tracce del suo vissuto, Rita ci appare
davvero come una creatura senza tempo: “una di quelle creature che fanno pensare
giovine il mondo” (p. 16). E in effetti ella sembra esser riuscita ad “innamorare”, a
stregare il tempo, ad imprigionarlo in una irreale fissità che le permette di vivere
senza mai essere “scalfita” dalla vita, di trasformarsi in un essere senza memoria, né
passato, che può continuare a “durare” proprio in virtù della sua gioiosa fuga dai
rischiosi meccanismi di possesso dell’esistenza e del suo segreto “rannicchiarsi”
nella magia di un tempo fermo alle origini dell’esistenza:
Ci sono delle apparenze e delle creature che trattengono il tempo, lo ingannano,
lo stregano, lo innamorano; e non possono appartenere a nessuno; per cui a poco,
a poco, sono respinte dalla vita: tutte salve, senza ferite, senza segni (p. 131).
Nel disperato tentativo di possedere e comprendere il reale, nella vana ricerca di un sentimento appagante che consoli gli affanni e i tormenti di un’esistenza crudele e impietosa, i personaggi manziniani diventano il prismatico riflesso di una vastissima gamma di “modi” attraverso cui l’io tenta di rapportarsi
alla realtà e al tempo. Clementina, ad esempio, pienamente consapevole del “proprio esistere da nuvola che aspetti di disfarsi” (p. 120), rappresenta l’accettazione
“spietatamente ragionevole” (p. 9) di un triste destino di solitudine e squallore:
nella coraggiosa certezza del suo “miope” e fragile consistere, ella sa che nulla
può chiedere e ottenere dagli altri se non l’autorizzazione ad amare, a donarsi
senza reticenze, senza limiti, senza mai attendere egoistici “ritorni”; la sua passiva rinuncia ad un privato universo di passioni, di gioie, rancori e sofferenze, appare come la sconcertante consacrazione di una pietosa genuflessione di fronte
alla crudezza dell’esistenza:
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Luana Di Francesco
era persuasa d’aver tradito le immagini d’un sorridente e facile esistere casalingo, per via di quella bruttezza che, mantenuta schietta dall’umiltà, cresceva,
cercandole sul viso i confini della remissione; né si lamentò (p. 9).
Anche Clementina ha “innamorato” e fermato, come Rita, il tempo, ma con
mezzi ben più “sofferti”: se a Rita è stata concessa l’illusione della “non conoscenza”, della “non appartenenza” e, dunque, l’opportunità di una “virginale” unione
con il mondo, il tempo, con il suo crudele benestare, ha invece voluto infliggere a
Clementina il martirio della “comprensione”, della consapevolezza delle gioie e dei
dolori dell’esistenza, dunque della sua infinita ricchezza, per poi “donarle”, in un
lungo ed estenuante processo di “prosciugamento”, di “devitalizzazione” e alienazione dalle “cose” della vita, lo stanco approdo ad una sconcertante passività di
gesti ed emozioni:
In fondo al mare, pensò, ci devono essere animali morti, ma desti, che con
l’occhio aperto e attento avvertono passare e pesare su loro l’incostanza dell’azzurro: quelli devono credere come me in una specie d’eternità tutta presente (p. 123).
È vero, dunque, che il flusso del tempo si è fermato, ma per ingabbiarle
l’anima in un immobile e infinito ritornello di giorni sempre uguali, di istanti senza
senso, invasi dalla vaghezza di uno sguardo umiliato, derubati dell’entusiasmante
eccitazione dell’attesa, e della consolante speranza in un gioioso avvenire:
La notte e tutta la mia nebbia mi danno la certezza d’un mondo liscio, povero,
infinito: un’immensità alla quale mi congiunge forse la mia miopia, che diventa
una cosa sola col mio modo smarrito d’amare. Mi sembra d’esistere meno. Fra
poco anche gli spigoli della finestra cederanno alla persuasione dell’ombra. In
me non c’è più nulla che resista…(p. 126).
Nell’arida atonia dell’universo che la circonda, Clementina trova pieno appagamento solo nell’umile dono di sé agli altri, nell’offerta incondizionata della
propria devastata fragilità per la salvezza del prossimo. Il suo “umiliato” esistere è
tutto in questa attesa di darsi:
Poiché tutti i giorni, per me, sono fatti solamente di quest’attesa, non c’è ragione di contarli: diventano un giorno lungo (p. 15).
La quieta rassegnazione e accettazione della realtà le risparmia l’affanno e lo
sconforto (che colpisce invece gli altri protagonisti) dell’opprimente ricerca della
felicità ad ogni costo: nell’assurda convinzione di non poter assurgere alla gioia
della “condivisione”, per una sua naturale inadeguatezza, ella vive e gode di riflesso
della felicità altrui:
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
Al marito, ormai andato a vivere con una vedova che aveva due figlioli, non
chiese nulla: le sarebbe piaciuto invece aiutarlo, far festa alla fortuna che gli
consentiva d’essere, finalmente, con dei bambini d’intorno, davvero capo di
famiglia (p. 9).
Le era rimasta soltanto, in una strada di suburbio, una bella casa […]. La offrì ai
due amanti. Ma le consentissero d’accostarsi alla loro vita (p. 9).
Il suo “tempo innamorato” è, dunque, un tempo inclemente, crudele, che
tiene sospeso ogni suo palpito, ogni suo gesto, sul filo sottile di una funambolica,
monotona eternità. Anche gli oggetti che le appartengono, “impregnati” di tristezza, per quel malinconico appartarsi dalla vita e dal tempo, sembrano trasudare angoscia e squallore:
La prima volta che andai da Clementina capii come vicino a lei le cose prendessero il sopravvento a comporre uno scenario di squallore troppo eloquente (p. 10).
Tutte le cose “sfiorate” dal suo occhio spento sbiadiscono e non vi è nulla che
non racconti di lei e della sua pena:
ché la grande stanza fredda, in cui i mobili non sapevano farsi compagnia (inaccessibile come il banco d’un refettorio, la lunga tavola al centro, nera; e come
dimenticata la credenza spoglia, al muro; e inutili, buone soltanto per delle
comparse, le sedie alte con lo schienale contro la parete) quadra com’è, spalancata così di prim’acchito di fronte alla porta d’ingresso m’agghiacciò come una
notizia data a bruciapelo (p. 11).
Le somigliava veramente il salotto disadorno, e pareva educata dalla sua malinconia l’iridescenza distratta e insocievole di due vasi di Murano sulla credenza,
e sapevano del suo monologo le sedie con lo schienale al muro; e c’era lei, tutta
lei, in quel respiro di cose riposte, protette dall’ombra (p. 141).
Anche la casa, annebbiata di solitudine, diventa specchio, metafora della
monotona esistenza della donna, a cui il tempo “incantato” concede solo di poter
“guardare” gli altri vivere e gioire:
una bella casa che, avendo quattro facce scoperte, guardava, come un girasole,
passare per la campagna tutte le ore illuminate (p. 10).
E il paesaggio autunnale, con i suoi languidi crepuscoli, i suoi cieli nebbiosi,
sembra voler consolare la sua muta vergogna, velandola, nascondendone i contorni, accordandosi, così, alla umiliata riservatezza del suo titubante consistere:
Riconosceva sue, invece, le giornate livide e nebbiose, piene di compatimento:
si sentiva giustificata, quasi che il tempo si fosse messo a farle compagnia, a
darle ragione; e credeva di capire in che consistesse il coraggio (p. 103).
16
Luana Di Francesco
Nonostante tutto, però, Clementina rappresenta, in un certo senso, anche il
coraggio di esistere, di “continuare” nonostante l’evidente drammaticità del suo
sterile presente, anzi, ella trasforma in atto il suo infinito potenziale di sacrificio e
rassegnazione, consacrando alla felicità degli altri la sua docile remissività e la sua
dolente abnegazione. Paradossalmente, proprio per questa intrepida e generosa offerta di sé, Clementina ci appare come l’unica figura positiva del romanzo, la sola
che possa sentirsi davvero appagata nel concedersi all’altro senza nulla ottenere in
cambio; la ricerca disperata ed estenuante di un amore corrisposto lascia, infatti,
solo amarezza e delusione, come testimonieranno il dolore e l’affanno degli altri
personaggi. Pur vivendo l’illusione di una felicità conquistata, anche Rita sarà sempre
turbata e intimorita dalla “grandezza” sconcertante di questa donna “rifiutata” dalla
vita che, nel suo angosciato e solitario cammino, vorrebbe “esistere appena nella voce”
(p.106) e che è invece costretta a durare “in un vivere inginocchiato” (p.10):
Per la prima volta s’accorse che esiste un modo d’essere belli oltre la bellezza,
segreto: e rivedeva l’aureola de’ santi, e capiva di che cosa fosse. Si manifestava
nella moglie abbandonata e tuttavia devota uno zelo, una letizia intima, un
salire fervido, che di certo la facevano pesar poco sulla terra. […]
Movendo verso la donna brutta, la interrogava con le pupille, ché, proprio da
lei, avrebbe potuto imparare un’obbedienza amorosa, senza pause né ritorni,
impegnata negli anni (p. 173).
Se Clementina incarna la rassegnata e dimessa accettazione di una vita dolente e penosa, Ugo rappresenta, invece, la ribellione, la rivolta contro un assurdo
destino di squallore e rinunce. Egli è pienamente cosciente di ciò che significhi “essere al mondo”, conosce il “peso” del dolore, dell’indifferenza, ha vissuto il martirio dell’insoddisfazione, della frustrazione per le gioie mancate, ma rifiuta il vergognoso “compromesso” della rassegnazione pacificatrice: vivere è lottare, contro gli
altri, contro il mondo esterno, anche contro se stessi, nel disperato tentativo di
strappare all’avido destino un piccolo lembo di cielo. Seppur “braccato” da un triste passato di affetti deludenti, egli tenta disperatamente di “costruirsi” un modesto
ma vitale angolo di felicità in cui poter “rintanare”, nascondere, le paure e le timidezze di un’anima forse troppo fragile e insicura. Sin da piccolo, infatti, aveva cercato di difendere le evidenti debolezze del suo carattere dietro una crudele maschera di durezza e indifferenza:
E come i compagni fingevano del disgusto per la confidenza che egli aveva con
certi animali, egli mostrava d’inorgoglirsene, dando ad intendere di provar gusto a tagliuzzare col temperino le lucertole.[…]
Un giorno una bambina lo prese per un braccio, in un corridoio, e gli disse: Sono tutti cattivi con te, anche il maestro - Lo voleva consolare; ma il ragazzo,
diffidente, la guardò male; e l’allontanava, tenendole una mano sul petto; poi, come
lei tentò di spiegarsi, commiserandolo - «poverino» - le sputò in viso(p. 58).
Gli piacevano le poesie, ma si vergognava a dirle, e anche quando le sentiva
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
leggere dal maestro arrossiva, meravigliandosi che quello non si vergognasse.
Certe parole di cui non sapeva bene il significato, specialmente se avevano la
finale tronca, se le ripeteva per delle ore, solo, con gran compiacimento, sempre temendo, però, d’esser sorpreso (p. 58).
Ma Ugo non ha potuto stregare il tempo come Rita e Clementina, non ha
goduto del prezioso “dono” di una esistenza “incontaminata”, o della forza
“sovrumana” della rassegnazione. Egli è solo nella battaglia, non ha “poteri” a
cui aggrapparsi per vincere lo squallore e l’angoscia del vivere, allora, nel tentativo di arginare delusioni e sofferenze, si costringe ad accettare il triste compromesso di una vita “dimidiata”, divisa e lacerata dall’eterno conflitto tra l’essere
e l’apparire. Nello sdegno per ogni forma di passiva sottomissione, Ugo reagisce cercando di proteggere la sua segreta fragilità interiore attraverso lo scudo
di una apparente arroganza e durezza di modi e parole. Saranno proprio quella
sensibilità e quella timidezza, così duramente represse, a condurlo a Clementina:
egli la “sentiva” come una di quelle poesie che tanto amava leggere nei segreti
momenti di “scoperta” solitudine, ma una poesia ben “camuffata”, nascosta alla
derisione del mondo esterno, dietro l’insospettabile maschera di una logorata
apparenza:
Clementina gli parve una cosa ritrovata, ché ella era come una poesia scritta
male, su una cartaccia, con molti sbagli: l’occhio opaco, i denti in fuori, la pelle
ineguale: una poesia di confidenza, un lusso alla portata d’uno che, come Ugo,
si trovasse bene nei vestiti logorati, e si vergognasse dei colori freschi d’una
cravatta (p. 59).
Ma in quella costante finzione di aggressività e spavalderia, egli sentiva di
sacrificare la parte più vera e palpitante di sé:
Ma come ambigua, come sacrificante, quella vita da consumare tutta dentro,
con grand’economia di gesti e di parole, quella vita che egli sentiva segreta
come l’umidore sotto la scorza dell’albero (p. 59).
Con Clementina comincerà a mostrarsi freddo e scostante perché assolutamente intollerabile gli apparirà l’umiliata rassegnazione con cui la moglie accompagnava la sua stanca esistenza, anzi, sentiva nella “disfatta” di quella creatura
così inerte una minaccia al malsicuro microcosmo di pseudo felicità che egli aveva
faticosamente costruito intorno a sé; gli era impossibile accettare quella straziata
resa, quel totale abbandono all’inclemenza del tempo e della realtà che, inesorabili, la consumavano. Ugo voleva, invece, godere della vita e delle sue gioie e il
rigoroso vigore e la “smemorata” baldanza che si era imposti per tale fine, creavano un invalicabile muraglia di incomprensioni e diffidenze nei confronti di quella
donna umiliata che aveva saputo comprendere e perdonare persino un tradimento:
18
Luana Di Francesco
Non può essere stato malato mai. […] Per lui la salute è cosa facile, nata con
noi, immutabile quanto il colore degli occhi; quindi non sa nulla della riconoscenza, e vivere gli sembra non un miracolo, come a Clementina, ma un diritto.
Sua moglie, invece, è sempre stata malaticcia. Quando abitavano insieme, la
guardava soffrire incuriosito e quasi offeso.[…] E poi Clementina dopo l’amore restava avvilita, come se quella stanchezza fosse una dubbiosa malattia, mezza dell’anima e mezza del corpo: sentiva la pelle ammaccarsi, aveva il senso di
una nuova nudità nella quale la gioia, ancora vivida nelle pupille di Ugo, era già
ghiaccia e abbuiata di rimorso (p. 60).
Ugo non tollerava ch’ella parlasse pacata e quasi con tenerezza, di «loro», e
anzi riteneva che una moglie tradita dovesse odiare il marito e l’amante di lui.
Bisognava che fosse così. Allora si sarebbe sentito come sciolto, e, nell’incontrarla per la strada, avrebbe saputo davvero tirare di lungo, magari
mordicchiandosi un labbro, per fingere di trattenere la beffa di un sorriso.[…]
Sacrificato si sentiva, veramente sacrificato da quella bontà. Una moglie tradita
deve vendicarsi o riuscire a non esistere. Proprio così. Che si vendicasse, che si
vendicasse! (pp. 108-109).
Rita, invece, rappresenterà la serenità, la voglia di vita ritrovata. A stregarlo
saranno l’allegria, l’entusiasmo, la giocosità, l’infinito desiderio d’amore magicamente emanati dalla sua figura:
La bocca ingenua e fine reggeva, quasi porgeva, l’invenzione di due labbra sensuali, disegnate senza risparmio di lapis, e lo sguardo […] confessava ora una
puerile e rotonda attenzione; e quel sorriso franco, doppia pagina aperta sulla
freschezza delle guance, mi prometteva un’accoglienza spoglia di sospetto, cordiale. […] C’era veramente qualcosa di gioco in lei, in quel suo cercare sui tacchi
alti un bizzarro equilibrio, forse il punto fermo della giocondità (pp. 22-23).
Con Rita Ugo torna finalmente ad amare, a desiderare, a recuperare tutto un
patrimonio di emozioni, sentimenti, gioie che egli pensava aver smarrito per sempre nello sguardo inerte di Clementina:
Ugo, ora che non c’era gente, si sentiva leggero, libero da ogni sorveglianza, anche
da quella di se stesso, e seppe circondare la vita dell’amante. Camminando così (il
palmo della mano godeva il movimento del corpo di Rita) ci si meritava d’arrivare
a uno di quei paesi sinceri che sanno accogliere la gioia degli innamorati. Uno
sfavillìo improvviso nel sangue; e subito, ecco, un’inquietudine languida, simile a
una nebbia della carne, salirgli dai fianchi, raggiungergli la gola e sciogliersi, divenendo saliva. – Felice – sillabò. Quel tono sommesso, tepido, gli si convertì in
un’immagine, in una forma da accarezzare: il seno di Rita (pp. 171-172).
Accecato dalla felicità riconquistata, egli tenterà di “difendersi” anche dalla
certezza del tradimento di Rita e di fronte alla sua evidente freddezza preferirà
barricarsi dietro l’illusoria validità delle sue spiegazioni:
19
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
Aveva corso, anche, perché minacciava di piovere, e s’era infangato; perciò,
quando si vide passare avanti il dottorino con le scarpe lustre, le ghette e i
guanti chiari, preferì aspettar fuori, che quello uscisse.[…] Credeva di non pensare a niente; ma si sorprese a dire: «Si svaga poco, povera Rita!». Si figurò di
condurla alla fattoria, di mattina presto, e la strada consueta, perché c’immaginava lei, gli pareva tanto bella.[…] Fingeva di sostenere Rita per un braccio e di
dirle: «Vedi? Ti piace eh?, Su…su…» e aspettava di sentirla ridere come sa lei
(pp. 192-193).
In alcuni momenti, però, una strana sensazione d’angoscia lo pervade,
ridestandolo dal suo “mendace” torpore:
Un’impressione di squallore attutì per un istante Ugo; ma subito ne incolpò il
paesaggio dove le colline brulle parevan progetti di fatica, dorsi pazienti, vecchi, disposti a un costante sopportare (p. 174).
Sono in realtà attimi rivelatori, brevi momenti di resa in cui la verità, nella
difficile traversata dei sensi, sembra trovare la forza di riemergere con tutto il suo
carico di dolore e sconforto, nonostante la repressione tentata dalla coscienza:
Imbruniva. Egli conobbe in quel momento la malinconia: un lento appassire,
una specie di guazza dell’anima, un reclinarsi, un ammainarsi; e paura di essere
senza rifugio nel mondo. Stette un momento in ascolto: quel silenzio, forse
uno strappo della giornata, lo sgomentava; cercò d’attorno, e, immaginando i
nidi entro cui gli uccelli riparano, insidiati dal crepuscolo […] si trovò scoperto
come un albero che ha da reggere, solo, a tutte le ore del cielo (p. 178).
Ma nel tentativo di recuperare l’atroce verità, Ugo comprende di essere stato
“contaminato” dal tempo innamorato di Rita, di essere stato preservato dal dolore
della scoperta. Anche a lui, dunque, nel naufragio delle certezze, era concesso l’approdo alla calma apparente di quell’ “isola incantata”, in cui poter “sospendere”,
dimenticare, angosce e delusioni:
Ma quella sera, avrebbe certamente sospirato: «Quattro volte ogni giorno tanta
strada: per te…per i bambini. Perdonami dunque se ti lascio troppo sola!» E gli
venne voglia di sentirsi dire che Rita gli era proprio affezionata. […] Ed eccolo
già persuaso che Rita non lo amasse più. Non lo amava più; n’era certo; ma
voleva sapere da quanto tempo; aveva proprio bisogno di sapere da quanto
tempo: poi sarebbe rimasto come quando ci s’addormenta, e sembra di restituire il peso del proprio corpo alla terra. Si provò a cercare una data, un episodio,
un avvenimento; ma il tempo s’era incantato in lui; anzi egli stesso era come un
orologio che ha battuto di spigolo (p. 194).
Anche quando, dopo la morte di Enzo, Rita troverà il coraggio di confessargli il suo tradimento, Ugo le chiederà, in preda ad un divagato e insensato delirare,
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Luana Di Francesco
di non abbandonarlo, di “continuare”, imponendosi una sorta di allucinata, smarrita, inconsapevolezza:
-Allora tu credi possibile continuare?Rita pronunziava con un tono aspro una parola che egli godeva bella e tranquillizzante: «continuare…». “ E che si potrebbe chiedere di meglio? ” domandava a se stesso, trasognato. […] Ora lo fissava nelle pupille, acuta, come a
snebbiargliele. Ma Ugo credette di dover salvare qualcosa, forse la propria innocenza, rimanendo a fiore d’inconsapevolezza (p. 238).
Ormai proiettato nell’irreale dimensione di un tempo incantato, Ugo ha smarrito la piena coscienza delle cose, non riesce nemmeno più a percepire, a registrare
il senso delle dure parole di Rita, non sente il furore della rabbia, la sofferenza per
l’oltraggio subito, il desiderio di vendetta ma solo l’infinito bisogno di “rattoppare” la felicità perduta:
-Ma io non so nulla- balbettò confuso- non ho pensato nulla. Te lo giuro: non
ho pensato nulla. Anche con la voce testimoniava la propria innocenza e la
difendeva. - Allora te lo dico io - e cominciò, ghiaccia, col tono di chi avvii un
racconto lungo, proponendosi di adoprare parole senz’ombra.[…] Egli capiva
poco del racconto di lei, capiva a tratti, intento com’era a ricomporre quella
confessione, a ripulirla e a sentir nascere in ogni pausa la ragione chiara, dolce,
umiliata del perdono (pp. 239-240).
Ma era sfinito. Non reggeva più. Che smettesse di parlargli di quell’altro! Che
c’entrava quell’altro nella loro vita? […] Quel dolore nebbioso, quasi non sofferto, senza voce né risentimento, l’avviluppava come un bozzolo, faceva di lui
un uomo già solo.[…] ricorreva, come un’esortazione, questa frase per lui persuasiva e bella: «le toppe della felicità», convincendolo che una felicità rammendata fosse piena di merito, e da gloriarsene (pp. 241-242).
Ma la verità non tarda a riemergere. Ugo non ha resistito all’incanto illusorio del tempo e, sopraffatto, sarà costretto a prendere coscienza del proprio fallimento: un pianto purificatore lo restituirà, allora, al suo flusso vitale, alla cruda
realtà:
A casa spogliò Pinotto e lo mise a letto; poi prese una sedia e si sedette, appoggiando i gomiti al capezzale. Guardava il bambino, fisso, e gli si avvicinava
sempre di più. Il bambino sorrideva; ma Ugo, con una voce infantile, di cui si
stupì, lo consolava: «Piccino, caro, non piangere più» e si asciugava gli occhi
col dorso della mano (p. 258).
Dissolta ormai ogni traccia di crudeltà nel tormento di quelle lacrime, inizia
per Ugo un vero e proprio processo di riumanizzazione attraverso il quale, recuperando lembi dimenticati del suo passato, egli giungerà a “sentire” estranee e inaccettabili la prepotenza e la brutalità di un tempo:
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
«Sono differente, ora: ho buttato via il peggio di me» ma una specie di repulsione lo straniava da se medesimo, e avrebbe voluto relegare la propria ombra
lontano, staccarsela dai piedi, confinarla al di là del muro, dividersi in una maniera evidente, garantita; ché, ora, la crudeltà di cui si compiacque sempre come
di una forza, gli diventava minaccia, e n’aveva uno spavento oscuro (p. 275).
In questa stanca e sofferta “rinascita”, la vita di Ugo sembra accostarsi sempre più al pacato e sfinito “sentire” di Clementina, non vi è più nulla della baldanza,
del vigore, dell’impeto che avevano sempre infuocato il suo sguardo:
Sentiva, Clementina, d’aver preso contatto con una stanchezza spaventevole:
quella d’un uomo forte. […] Gli occhi di lui, irrassegnati, diventavano assurdi
su quel viso che era come se delle dita aperte l’avessero percorso pesanti e cattive dalla fronte al mento. Per la prima volta Clementina pensò le lacrime di
Ugo. Allora il suo uomo le parve troppo vicino: e s’accorse d’averlo, per questo, perduto in un altro modo (p. 277).
Ma nei momenti in cui Ugo trova la forza di abbandonarsi ad un consolante
fantasticare, sarà proprio Clementina, con il suo tenero compatimento a rinvigorirgli l’animo e a fare da tramite alle sue brevi ore d’euforia:
E anche Ugo sarà beneficato da lei, nella forza d’illudersi che gli resta. In questo modo: egli cerca la sua donna, la chiama,[…] e aspetta contro un muro o
sotto un albero, o vicino a una fontana, persuaso d’aver trovato, a volta a volta,
il punto in cui tutte le strade si incontrano e che di lì prima o poi dovrà passare
anche Rita; e quando la stanchezza gli illanguidisce la fantasia, crede lo abbatta
il compatimento affettuoso della moglie […]. Bisogna darle torto, smentire la
sua sfiducia subito. Allora […] mentirà dicendo: «Sai, mi ha scritto. Torna.
Vado a prenderla». […] Rinfrancato riprenderà il cammino (pp. 285-286).
Dunque Ugo, come Clementina, è un uomo di pena che tenta di “sopravvivere” alla precarietà dell’esistenza, dapprima con la forza, la ribellione, la caparbia
ricerca della felicità, poi, passando attraverso il “devastante” tempo innamorato di
Rita, con la pacata accettazione di una vita avara che concede solo rari momenti
d’estasi e di sogno dissolti nella vibrante e allucinata visione di una irrassegnata
attesa:
Qualche volta la fantasia lo abbarbaglia. Vede Rita in un prato seduta fra l’erba.[…] A baleni gli sembra di ritrovarsi al suo paese, ed è certo che ella sia
affacciata alla finestra.[…] la testa piegata da una parte com’è sua abitudine,
guarda per aria, capisce le nuvole, conversa con quelle. Non è vero che abbia
avuto bambini. È giovane, giovane. Nessuno l’ha baciata. Il tempo s’è adagiato
su quel davanzale, le sorride, mantiene per lei, in un attimo, tutte le promesse:
è innamorato (pp. 286-287).
22
Luana Di Francesco
Anche Raffaello e il figlio Enzo appartengono “alla razza di chi rimane a
terra”: di fronte alla precarietà della vita anch’essi, infatti, come Ugo, tentano la via
della ribellione, della sfida al destino e al tempo ma con esiti ben più tragici: nel
vibrante desiderio di vincere e superare la precarietà, l’instabilità, la sconcertante
mutevolezza del contingente e nella ricerca affannosa di un ideale “fissità” in cui
cristallizzare e purificare la vita, Raffaello ed Enzo non resistono alla “tentazione”
di rinunciare allo squallore della verità e scelgono coraggiosamente la morte. Raffaello, ormai orribilmente segnato dalla “divina indifferenza” di Rita e dalla certezza
di un’impossibile “condivisione” della sua sgomenta sofferenza, rinuncia alla vita
nella speranza di ridestare nella moglie il dolore sopito:
La gioia lo spaventava; e sentiva troppo coraggiosa e lontana la moglie che,
baciando, poteva continuare a sorridere. Di questa solitudine gli sembrava di
doversi vendicare; e una volta pensò: «Perché lei capisse bisognerebbe che morissi: che mi rompessi come un bicchiere colmo di troppo caldo». […] Si sentiva offeso, negato dal modo con cui Rita ospitava la gioia […] «ma se io morissi,
il mio tormento si desterebbe in lei» e gli pareva di salvarla così, di consegnarla
viva alla vita. Consegnarla alla vita, affinché anche per lei morire significasse
cedere alla gioia, sentirsi sopraffatta (pp. 93-94).
Anche Enzo appare incapace di reagire alla crudeltà del mondo in cui si trova
forzatamente a vivere: erede della triste afflizione paterna, egli sembra reincarnare
perfettamente il tragico “sentire” di Raffaello, la sua sgomentante visione delle cose,
la sua sconsolata sofferenza. Con la sua dolente presenza, egli imprigiona la madre
al tormentoso ricordo dell’universo paterno e nel suo assetato desiderio di “non
consistenza”, nella sua affannosa ricerca di una morte salvifica, risorgerà, si rianimerà
il dramma di Raffaello:
Un avvilimento improvviso affiacchì il maggiore: lo sentivo accanto a me farsi
piccino, affloscire, diventare come dopo un gran pianto, quando si testa peggio
d’una foglia macera. Pallido, fissava le ruote e sussultava.[…] in quel momento
cominciò a godere il pensiero che, salito improvviso dietro di lui, lo abbuiava,
lo raggiungeva, sorpassandolo poi, come se venisse da lontano.[…] M’ispirava
diffidenza e m’intimoriva quel bambino preso dalla tentazione di buttarsi giù
dalla carrozza (p. 70).
Lo vidi spenzolarsi sulla ringhiera del pianerottolo, le braccia avanti, la testa giù,
i piedini sollevati. Un attimo. S’era ributtato indietro e, seduto sulla cartella, le
spalle sul muro, guardava per aria, opaco.[…] L’arco delle ciglia abbassate confessava una stanchezza quasi dolce: la stanchezza che, riconosciuta, è già riposo
(p. 72).
Enzo insegue, come il padre, il sogno di una vita sospesa in un tempo immobile, che trova la sua sconcertante metafora nella tentante immagine del giardino
riflesso in una vasca: il paesaggio specchiato nell’acqua appare la perfetta rappre23
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
sentazione di quell’ideale di vita da sempre cercato da Raffaello, il mondo vi appare
purificato, liberato dalla vita stessa, dai suoi rumori, dai suoi suoni, dai suoi palpiti
e dunque, dagli inganni, dal dolore, dai tradimenti che la animano, sì perché anche
la gioia, l’amore, la felicità sono effimeri ed inconsistenti:
Il giardino non era lontano e nella vasca grande gli alberi all’ingiù parevano
soltanto pensati. Ma sugli alberi c’erano uccelli, tanti; e ognuno, cantando, voleva stancare, finire la felicità.[…] egli lasciò per un momento la mano del figliolo e si tappò gli orecchi.
Il giardino apparve esausto e liberato: sembrava quello che si crede di raggiungere dopo tanto cammino. Era come arrivare dinanzi a un paesaggio e trovarlo
in tutto eguale a quello che conoscemmo su una cartolina (p. 94).
Il paesaggio “fermato” e “devitalizzato” nella vasca diventa il simbolo di un
nuovo tempo “innamorato”, quello a cui anelano Enzo e Raffaello, che, nell’impossibilità di resistere alle torture della realtà, vorrebbero sparire nell’incanto di
quella vita “riflessa” che non conosce delusioni e sofferenze, in cui il tempo si sgretola e dissolve in un presente palpitante d’eternità e in cui si spegne il voluttuoso
desiderio di una vana e irraggiungibile felicità terrena:
Non si stupì Raffaello a vedere che il suo pensiero maturava e cresceva nella
sua creatura: capì soltanto che avrebbero potuto meglio, quella sera, camminare insieme per il giardino che ha nel centro una vasca grande in cui lo spettacolo
s’incanta e diventa bello, liberato dalla vita; avrebbero potuto meglio, quella
sera, riposarsi insieme, ché tutti e due, certo, erano affaticati dalla medesima
impazienza di liberare se stessi da qualcosa che batteva dentro come un’ala
impazzita (p. 96).
Sarà proprio per riuscire a fondersi con quella nuova vita, a lungo bramata,
che Enzo metterà in atto il suo primo tentativo di suicidio:
Il bambino lo guardava col solito sorriso lucido di chi sta per dire di sì, appassionato. Raffaello si piegò a bagnare la propria immagine nella vasca, a
comporla fra quella delle nuvole, che nel riflesso trovavano un peso più certo, e quella degli alberi che acquistavano una gentilezza maggiore, come un
viso in una pupilla innamorata. Anche il fanciullo si piegò. Il giardino
specchiato era veramente quello che si pensa di raggiungere dopo tanto cammino. Raffaello guardava, proteso, crescere l’ombra sulla propria immagine
pacificata. Non si precipitò nell’acqua il bambino: vi si lasciò cadere, vi scese.
[…] Tornò a casa col figliolo sulle braccia. Respirava lieve il bambino: ma
non apriva gli occhi. Pareva, con quella compostezza, che continuasse a partecipare, compiaciuto, della serenità di cui gode il mondo a fiore d’ogni vasca
(pp. 99-100).
Anche nell’immagine di Enzo che guarda attraverso i buchi della tenda tra24
Luana Di Francesco
forata il paesaggio “frantumato” è possibile ravvisare il bisogno di disgregare, dissolvere la brutale realtà che lo circonda:
Enzo guardava ora attraverso i buchi della tenda traforata, come in un
caleidoscopio, ed era forse sorpreso che laggiù le cime degli alberi mozzate dai
tetti rimanessero ferme, mentr’egli faceva girare adagio la tenda attorno all’occhio. Qualcosa avrebbe dovuto accorgersene che un ragazzo si provava a frantumare un paesaggio studiosamente (p. 73).
In quella muta sofferenza Enzo sente di comprendere Clementina, di portare
il suo stesso fardello di pena e tristezza, di condividere con lei il sovrumano sforzo
della “sopportazione”:
Sentiva di voler bene davvero a Clementina e d’aver ripreso allora allora, quasi
a volo, il segreto che li legava, il quale era stato per un momento come un
libro geloso che il vento sfogli in mezzo a una piazza. […] La sua bruttezza
doveva rimanere un’intesa fra loro due: nascosta, coperta come la frase che
neppure il maestro capisce, perché c’è sopra uno scarabocchio: e per Enzo
[…] significava quello che rimane dopo l’insulto, le percosse e la fatica, e
tante altre cose che serbavano la morbida serietà della parola «soffrire» (pp.
68-69).
La scoperta del tradimento della madre rinsalderà in Enzo la convinzione della
vanità e crudeltà della vita e acuirà il bisogno di mettere in atto il suo terribile proposito:
È come gualcita, la mamma, quando rientra; gualcita anche nel viso: sembra
cattiva. Allora Enzo, che è rimasto non so quanto sollevato sui gomiti, si butta
giù, chiude gli occhi e finge di dormire; ma piange: ha tutto il viso molle, anche
il collo: di sudore e di lacrime. Pensa a babbo Raffaello e anche a Ugo; e per la
prima volta capisce di poter dire «babbo Ugo» […] Ora la mamma va verso la
finestra. Chissà che non voglia cancellare la sua ombra sulla tenda. Che ci riesca! Subito, subito! (p. 191)
Consapevole che la madre con quell’atto vergognoso ha “violato” la promessa di fedeltà fatta prima a Raffaello e poi a Ugo (finalmente restituito al suo
ruolo di padre) e invaso dall’angoscia di dover difendere quel terrificante segreto,
Enzo vuole fuggire, sparire per sempre, cancellare la propria esistenza e sarà la visione del padre morto sotto un albero a spingerlo all’estremo gesto:
e non può rispondere, ché, in cima a tutte le cose da dire, s’affaccia questa: che
la mamma un giorno non gli è parsa più la mamma, e sulla tenda appariva l’ombra di lei e quella del dottore, e non bastava tenere gli occhi chiusi per non
vedere.[…] Allora pensò di scappare e di correre e correre.[…] Finalmente (è
spaurito davvero, quanto un povero figliolo che abbia da mettersi in salvo)
vede il babbo Raffaello steso sotto un albero senza nidi. Quello è veramente il
25
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
posto dove possiamo fermarci, ché in quel punto il mondo si mostra proprio
come Enzo l’ha sognato pocanzi: finito di fare (pp. 203-204).
Enzo vorrebbe morire “guardando morire” la vita, “uccidere” il giardino,
privandolo del miracolo del suo vitale palpito, fermarlo in quell’incanto, significa
renderlo eterno, come il paesaggio riflesso nella vasca, contemplato un tempo con
Raffaello. Così, sprofondandovi, egli nasconderà per sempre, il segreto che l’affligge, «la cosa che non si deve dire»:
Il babbo è morto. Voleva morire così, infatti, avendo prima fermato il mondo
in un incantesimo da novella. Altrimenti, come riposare anche sottoterra? Enzo
pensava di sdraiarglisi accanto, morto egli pure (p. 204). […] Bene, uccidere il
giardino: asciugarlo, ridurlo soltanto apparenza, tutto bell’è fiorito per sempre, senza più struggimento di gemme, né tenerezze di foglioline appena nate,
persuaso e in pace, quasi fosse diventato il proprio ritratto; e con sopra un cielo
consistente almeno quanto quello che si vede specchiato nelle vasche, dove le
nuvole acquistano un peso più certo […]. Si dovrebbe scavare una buca in terra
e empirla di tutto il sangue e dell’umido che c’è nei gambi delle piante e nei
fiori; e metterci anche il canto degli uccelli. Allora sarebbe bello (p. 206).
Così morirà il figlio che Raffaello «aveva voluto per lasciarlo a testimoniare
la sua irrassegnazione» (p. 31). Il tempo “innamorato” di queste fragilissime creature non può essere cercato o “realizzato”, come per l’inconsapevole Rita, nella
realtà presente, così meschina ed ingannevole, ma solo al di là degli stessi confini
dell’esistenza, nella morte pacificatrice, in cui tutto si ferma.
Raffaello, dunque, che spesso parla ed agisce nel romanzo attraverso il ricordare penoso di Rita, non potrà come lei nutrirsi degli ingannevoli artifici del tempo.
Pienamente cosciente “dell’arido vero” che è in tutte le cose, egli incarnerà non solo
la triste metafora del logorante incedere del tempo, ma la sconfortata realtà di una
coscienza ormai inesorabilmente contaminata dal “male di vivere”; in ogni tratto, in
ogni gesto o pensiero, egli comunica a Rita l’angosciante consapevolezza dell’ineluttabile vanità del vivere, l’insensatezza di ogni umana speranza, di ogni gioia terrena:
Rita si voltò a guardarlo attenta, considerandogli il viso che pareva impaziente
d’invecchiare. Proprio: gli occhi aspettavano le lenti, e la fronte era di quelle
che si preparano a sfuggire in una calvizie precoce (p. 39).
Anche quando si stava insieme, che fastidio e che pena vedergli salire dal colletto
largo il collo debolissimo e come incerto; mi pareva di sapere da che punto egli
avrebbe cominciato a piegare: a morire […] m’accorgevo di odiarlo, perché c’era
nella sua persona qualcosa che somigliava a una proposta di sofferenza (p. 82).
Tutta la sua vita sembra consumarsi e spegnersi in questa sconcertante abulia
di sensazioni, in cui lo scorrere inclemente delle ore e dei giorni, diventa la logorante attesa di una fine imminente:
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Luana Di Francesco
Gli vedeva protendere il viso, e nei ginocchi quell’accenno di preghiera che le era
sempre dispiaciuto, come una tentazione di cadere, dalla quale non l’avrebbe salvato neppure la gioia. […] ravvisava in lui il mendicante inconsapevole. Egli non
aveva saputo che chiedere supplichevolmente; e nella sua persona che saliva magra,
come oscillante, si manifestava un senso di preghiera sgomentante (pp. 47-48).
Raffaello aveva sperato di trovare “ristoro” al suo sgomento nell’amore e
nella comprensione di Rita ma nessuna consolazione o conforto poté ricevere dalla
sua vuota indifferenza al dolore:
s’era illuso che prendere moglie volesse dire trovare una risposta a se stesso,
accorgersi che non si è assurdi e ingiustificati, perché ci può intendere la creatura che amiamo; e riuscire così ad assolversi ed amarsi. […] E gli pareva che,
scendere così languidamente, in fondo a se stesso, fosse come continuare a
morire. «È necessario che tu mi soccorra. Per resistere la solitudine bisognerebbe essere come il frutto dentro la buccia, cieco». E aspettava che Rita lo
soccorresse davvero […] ma la donna si passò una mano nei capelli spettinati,
salutò con le ciglia la luce, e sorrise: a nulla (p. 98).
Se per Clementina, Ugo, Raffaello, Enzo, l’approdo al consolante “spazio”
del tempo innamorato rappresenta una faticosa quanto rischiosa conquista dello
spirito, ottenuta attraverso la forza della rassegnazione, l’allucinato bisogno d’amore
o la coraggiosa rinuncia alla vita, per Rita esso è un “dono” che le permette di
filtrare le vicende dell’esistenza attraverso l’estasi di un inconsapevole e innocente
“sentire”. Non conosce la sofferenza, l’angoscia dell’inquietudine, il turbamento
dell’insicurezza, il lacerante tormento dell’amore, le esperienze “forgianti” della
vita non riescono a possederla perché il tempo l’ha fermata e imprigionata in una
“primitiva” infanzia di gesti e parole, le ha “ibernato” l’anima sottraendola alle
“naturali” metamorfosi cui ogni essere è destinato. Rita è l’unico personaggio del
romanzo a godere, nell’avida ricerca della felicità, di una vera e propria immunità
dal dolore: tutto in lei è appagata letizia, anche la realtà che le appartiene e che la
circonda sembra “suggerire” una promessa di gioia:
Riconosco in lei una di quelle creature misurate dal loro bisogno di gioia facile,
che sanno battere a tempo gli occhi e sono tutte difese contro la sofferenza, la
quale deve sembrar loro un errore, al pari della foglia ingiallita, da togliere
subito, sul ramo che vorremmo offrire (p. 30).
Le vidi nascere nella gola la gioia che indora la voce.[…] Com’ella insisteva nel
mettere in bello la voce che a momenti addensava suoni ghiotti, quasi frutta
sugose e sbucciate, m’accorsi che non discorreva a me sola: rispondeva all’inquietudine vogliosa della primavera, si misurava con la stagione, era a tu per tu
con la propria letizia (pp. 23-24).
Anche l’amore, nel suo senso più ampio, è vissuto da Rita con la divina indifferenza della spensieratezza. Questo modo distaccato e festevole di accostarsi al
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Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
complesso universo dei sentimenti umani trova conferma nelle sue stesse parole:
A vivere vicino a lui si può, in qualche momento, perfino desiderare di non
essere così protette: d’avere un’ora di timore. Ha fatto sua anche la parte della
mamma. Sono in vacanza. […] - Una lunga vacanza! - e batteva le mani e le
strusciava, al modo dei prestigiatori dopo il gioco riuscito netto (p. 23).
Pur nella piena consapevolezza di riuscire ad ingannare, a trattenere il tempo, Rita non può impedire la ricomparsa dell’immagine di Raffaello nell’eterea atmosfera di un chiostro, “dove sembrava essersi incantato un giorno di ringraziamento”. (p. 25)
Nel chiostro fra le figure della favola celeste che ammettono invece, fraterne,
l’immagine del morto, Raffaello, il marito di Rita, e gli prestano significato e
fisionomia: un profilo leggero, simile a quello di certe isole la mattina in fondo
al mare. Lo vedo. Sta seduto sul secondo scalino del pozzo. È fatto della medesima sostanza del sereno. […] Ha il viso in su. Sento che non tocca terra coi
piedi. […] Sembra che abbia un peso sulle spalle debolissime. Soffre. Vorrebbe
dire disperatamente di no, ma sorride, perché lo commuove la mattinata di
primavera e questo odore di violette. La sua sofferenza è come sepolta (p. 31).
Questa prima apparizione di Raffaello rappresenta un momento particolarmente significativo nello sviluppo del romanzo: innanzitutto essa, oltre a testimoniare la costante infiltrazione del passato, del vissuto, nel presente dei personaggi, diventa il simbolo luminoso di una sconcertante fusione, quella tra il mondo dei vivi e
l’universo dei morti: il ritorno dall’oltretomba di Raffaello nel presente di Rita segna
la miracolosa compenetrazione tra la vita terrena e l’aldilà, e, dunque, l’eternarsi di
un’atemporale corrispondenza d’affetti che, vivificata dal ricordo, permette
all’oltretempo di “presentizzarsi”. Inoltre la sua ricomparsa segnerà il passaggio ad
un momento “dialettico” di fondamentale importanza: Raffaello rappresenta per Rita
lo scomodo ritorno di un passato d’angoscia e insofferenza che, ripudiato, continua
ad assillare la sua esistenza, palpitando negli occhi tristi e rassegnati di Enzo. Ora la
sua ricomparsa introduce nel romanzo non solo il tema della memoria, così caro alla
Manzini, ma anche la descrizione delle diverse fasi in cui si articolerà il lento processo di “riappropriazione”, di “ritrovamento” di un’esistenza smarrita: Rita, infatti,
attraverso le parole e il ricordo di Raffaello sarà costretta ad uscire dalla sua prigione
incantata per reimmergersi nuovamente in quel flusso vitale a cui era stata strappata
da un tempo troppo clemente. Inizia, dunque, l’estenuante battaglia tra il ricordo e la
dimenticanza, tra il desiderio di Raffaello di “riconsegnare” la moglie a quel giusto
“martirio” di sofferenza e tormento che è la vita quotidiana e il voluttuoso “bisogno”
d’innocenza di Rita, che ha scoperto nell’oblio il segreto dell’eterna felicità. La memoria, la ricordanza, diventano allora strumento di una vera e propria “riconquista”,
di un recupero d’identità: è questa la principale funzione, l’essenziale e salvifico potere che la Manzini riconosce al “rimembrare” (anche in Ritratto in piedi la scrittrice
28
Luana Di Francesco
confermerà questa convinzione). Sarà proprio per il timore di una triste “riscoperta”
che Rita tenterà sempre di sfuggire ai richiami della memoria, alla voce suadente dei
ricordi che si insinua, silenziosa, tra le malinconiche ore del crepuscolo:
Nasceva dalla stanchezza, dall’ora e dal senso d’avvio che c’è in ogni ordine
recente, l’invito ad un quieto rievocare, quando sembra di dar l’ultimo tocco a
una giornata, ripensandola. Ma Rita di quest’incantato indugiare al margine di
se stessa, come di certi battiti segreti della casa […] ha paura; e anche in quel
pomeriggio domenicale diffidava del riposo che poteva dar posto a uno squallido ripensare troppo simile a una resa dei conti sulla punta delle dita, e seduta
presso alla finestra, faceva amicizia col giardino (p. 37).
Raffaello si era sempre sentito escluso da quel suo strano modo di “sentire” e
di vivere, aveva cresciuto e nutrito in un’angosciosa solitudine il suo amore, mendicando un’attenzione che solo raramente Rita, centellinandola, gli concedeva:
A lui dispiaceva che sua moglie, specie quand’erano soli, si appoggiasse con la
testa alle imposte e guardasse lontano. Che era tutta negli occhi si vedeva dalle
spalle smemorate. Egli, guardandole, aveva l’impressione […] di vivere ormai
dietro quelle, mendicando attenzione, e a volte temeva perfino di vederle crescere adagio, alzarsi a separarlo dalla ghiotta felicità che Rita difendeva (p. 38).
Rita non riusciva a convivere serenamente con l’immagine di dolore e sofferenza che Raffaello, con la sua inquietudine, quotidianamente le imponeva, costringendola ad una tristezza che la sua divagata letizia sentiva come innaturale. Infatti,
chiusa nell’egoismo del suo rifugio “dorato”, Rita tenterà di difendere il suo “fatato”
equilibrio dai continui attacchi della sconfortante realtà che Raffaello rappresenta:
temeva che egli potesse da un momento all’altro sciogliersi intorno a lei come
una nuvola che investa un albero felice. Una inebriante gelosia del proprio corpo possedeva Rita che si serrava e irrigidiva: e le pareva di splendere e che
splendere fosse un modo di difendersi […] e le sembrava che egli la intridesse
di sé con lo sguardo inquieto, lambente la nuca, e, certo, quelle mani che le
trepidavano intorno, rasentandola, insidiavano qualcosa che si mescolava con
un senso nuovo, spazioso, azzurro di libertà (p. 43).
Raffaello sapeva che Rita apparteneva ad un altro spazio, ad un altro tempo,
era cosciente della sua inafferrabilità, della sua “assenza”, ma quel “lieto esistere di
creatura ritagliata nella gioia” (p. 45) rimaneva, per un uomo così lucidamente consapevole della crudeltà della “vera” vita, un universo inaccessibile, inaccostabile al
suo, tristemente reale:
Una grande tristezza piegò Raffaello. Il silenzio fra lui e Rita somigliava ormai
un fiume torbido che si rifiuti di specchiare gli argini. Lei disse: - Guarda!- e
accennava i vetri: appannato quello presso il quale era rimasto Raffaello, quasi
29
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
limpido l’altro, contro cui ella aveva appoggiato la fronte. - Ah!- si stupì egli,
sbriciolando fra i denti una risatina lucida […]. - È così. Infatti. Noi due. Noi
due. E guardava i vetri come se confrontasse due ritratti (pp. 41-42).
In effetti, in questa immagine è quasi “palpabile” la sconfortante desolazione, l’inevitabile tragicità della sua vita con Rita: Raffaello appanna il vetro perché vive la realtà, conosce e sente la tristezza, il dolore, l’ansia che la vita inesorabilmente “dispensa” ad ogni essere umano; Rita, invece, sembra non lasciare traccia del suo passaggio, del suo vivere terreno, come se “durasse” in un mondo
sconosciuto, in un tempo fuori dal tempo “umano”. Raffaello allora sceglierà la
morte per vendicarsi della sua indifferenza, per risvegliarla da quell’assurda illusione di felicità:
come se avesse trovato il mezzo di vendicarsi, di riscattarsi da una umiliazione
che gli si mescolava col senso della vita. Morire era come regalare agli occhi di
Rita uno sgomento illuminato, destarla, trascinarla, imporle finalmente se stesso, ammalarla di sé, far sì che ella gli rispondesse tutta, eguale (p. 96).
Morendo “alla vita terrena”, Raffaello avrebbe continuato ad esistere e ad
agire in lei attraverso il ricordo, trasferendo, però, la sua complessa “opera di persuasione” nello spazio magico del sogno: è proprio nella dimensione onirica, infatti, che i pensieri repressi, approfittando dell’attenuarsi dello stato vigile della coscienza, possono risalire in superficie e rivelarsi:
egli, che non è riuscito a impormi un modo di vivere, m’ha imposto un modo di
sognare […] – Se mi sono salvata – e dicendo così alzò la testa e si eresse sulla vita –
è stato perché ho saputo non prestargli attenzione. Ma dai sogni non ci si difende
(p. 84).
Così Raffaello riuscirà, attraverso il rimembrare di Rita, a parlare con lei e
ad assisterla nel lungo cammino verso la “liberazione”. Partendo dall’importante
presupposto che il sogno (secondo quanto affermato da Freud nell’analisi del “testo onirico”) è “una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno
nella lingua dei pensieri del sogno” e che l’inconscio, (che Freud vede strutturato
come una lingua), nello scontro tra rimosso e censura, può riemergere e, dunque,
manifestarsi solo penetrando le fitte trame della “figuralità” del linguaggio, (utilizzando cioè una vera e propria retorica che come lo stile, ha le sue “figure”), la
memoria, che si trova ad operare in questo complesso universo, si esprimerà attraverso le suggestioni di una comunicazione figurale, metaforica, che, interpretata, permetterà a Rita di “conoscere”, inizialmente, l’angoscia esistenziale di
Raffaello:
- Lui , com’era – riprese Rita, con la voce ghiaccia – lo vedo soltanto da che non
c’è più. Certe sue paure, certe sue manie, certi suoi silenzi, solamente ora mi
30
Luana Di Francesco
paiono pieni di significato e di fisionomia: solamente ora si compongono e
diventano il suo ritratto. E questo perché più d’una volta l’ho sognato; ché, a
pensare a lui, a capirlo, mi ribello (p. 85).
Poi, di accostarsi al suo tormentato “sentire” rivivendone i penosi istanti:
Sapevo, per esempio, com’esitasse, specialmente di sera, a traversare i ponti sui
fiumi: un’ubbia, mi pareva; ma una volta che dovetti seguirlo, in sogno, sentii
che c’è veramente, al culmine d’ogni ponte, un silenzio particolare, vastissimo,
che il via vai non può distrarre; e come egli si fermò a guardare le due strade
divise dal fiume, diritte, capii bene che malinconia gli cadesse addosso, e che
senso di stacco lo rendesse incerto in quel modo; e mi fece più paura che mai il
suo modo d’amare (p. 85).
Fino a condividerne ogni palpito nell’avvenuto ritrovamento di sé:
le diventavano buoni gli occhi, ora umidi e come incantati, e si sentiva il cuore
sospeso, anzi sollevato, fra il petto e la gola. Era arrivata, perdendo per la strada
vanità e desiderio di gioia e voglia di vivere in fretta. […] Si arrestò, ché temette
di pronunziare parole di un altro. Le riconobbe: parole di Raffaello; e si accorgeva di pronunziarle anche con la voce di lui. Uno smarrimento da risveglio
improvviso, e paura di riconoscersi sola a oscillare sulla terra di certo divenuta
a un tratto come calva (p. 263).
La prima tappa di questo travagliato percorso è rappresentato da un sogno
rivelatore: Rita, che aveva sempre temuto la tristezza e la rassegnazione di Clementina, la vede insieme a Raffaello, sono seduti entrambi, l’uno contro l’altro, su una
panchina e sorridono senza guardarsi. Clementina scrive con un sassolino qualcosa
che Raffaello riesce a leggere senza voltarsi e tutt’e due, piangendo, si allontanano
in silenzio, lasciando le loro lacrime sulla panchina, senza proferire parola e senza
nemmeno dirsi addio, ma amici. Rita capirà, allora, quanto simile al dolore di Clementina sia l’impotenza, il tormento di Raffaello e quale torturante sofferenza imponga all’uomo la vita “reale”:
Ho toccato quelle lacrime cadute sulla pietra; a una a una, lentamente. Mi sono
destata stanca, e coll’impressione di essere caduta in un tranello.[…] Un sogno
in questa maniera, tutto reticenze, tutto movimenti piccini, non può essere il
mio. Ha voluto farmi intendere che voglia dire vivere una vita prepotente, come
la maturità d’un frutto che scoppia, e non avere, per esprimerla, che dei silenzi,
cui segnano il tempo moti impercettibili di sopracciglia. Raccogliere a gocce il
torrente (p. 84).
Ma nei momenti di “veglia”, in cui è possibile controllare parole e pensieri e
dunque “sfidare” il ricordo dell’angoscia esistenziale incarnata da Raffaello, rinasce
in Rita il vigore di sempre e il desiderio di ribellione. È, infatti, nella vita realmente
31
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
vissuta che la lotta tra la forza illuminante della rimembranza e quella oscurante
della dimenticanza si fa più accesa. Rita teme l’eloquente silenzio della quiete serale
che, irretendo la mente nella trappola del “languido ripensare”, si fa complice del
ricordo:
Lei si ribella alla casa, sfugge la fisionomia, quasi lo sguardo che gli oggetti hanno
prima che s’accenda il lume, quando ognuno trova un patetico e macilento «te ne
ricordi» da insinuare, che sollecita ravvedimento e chiarezza, la chiarezza che
ogni donna impaura; e diventerebbe facile pentirsi e mortificarsi (p. 129).
E puntualmente la memoria si risveglia nell’ora del crepuscolo e “restituisce”
alla donna “senza tempo” i “rintocchi” dell’anima da lei rifiutata:
Non possono permettersi di oziare in casa, a finestra chiusa, specie verso sera,
le donne, che tengono sempre l’anima a fianco, parallela e sottomessa; non possono, perché a quell’ora, tutte, diventano deboli: si sentono come uno che si
abbandoni languidamente all’indietro, a occhi chiusi: lo stesso smarrimento; e
l’anima in quell’istante le sorprende, entra loro nel petto, ne occupa proprio il
centro (p. 129).
La memoria, quindi, attraverso l’intermediazione di Raffaello, continuerà il
suo compito di “ricostruzione” dell’identità di Rita anche nella realtà concreta: il
ricordo allora, sollecitato dalla malinconia del tramonto, si farà visione restituendo
all’uomo le sue tristi sembianze umane:
Coi gomiti sul davanzale, guardavamo, riconoscenti, le foglie mosse dalla brezza.
Si pensava a Raffaello. Sul far di sera egli è meno morto di sempre. Si pone
davanti a noi e aspetta (p. 130).
Sarà lui a spingere Rita a rimembrare, chiedendole il “dono” di un ricordo
appagante che possa restituirgli un lembo di vita:
Gli piace che si parli di lui. […] Ama la vita che ella gli restituisce ricordando, la
cattura attento e disperato, ghiottamente, al pari d’uno che chieda una stilla,
avendo desiderio del mare.[…] Ma egli non si sarebbe accontentato, ormai, del
solito rievocare vagabondo: rivoleva da lei un momento particolare e preciso
del suo tempo.
Rita non se n’accorgeva. Era persuasa di compiacere me soltanto (è l’io narrante a dialogare con Rita), a parlare di Raffaello (p. 130).
Rita allora sarà guidata dai pensieri, dalle parole che Raffaello, visitando i suoi
sogni, di volta in volta le ridesta; così, a piccoli passi ella giungerà alla meta finale:
Lui, di quei crisantemi che non vogliono cedere alla stagione, avrebbe detto
che il tempo se n’è innamorato. Ci sono delle apparenze e delle creature, am32
Luana Di Francesco
metteva egli, che trattengono il tempo, lo ingannano, lo stregano, lo innamorano; e non possono appartenere a nessuno; per cui a poco a poco, sono ferite,
senza segni, quasi fatte d’una sola stagione, finiscono col somigliare i frutti finti
o gli uccelli imbalsamati (pp. 131-132).
Senza averne coscienza, ripetendo la frase di Raffaello, Rita denuncia tutta la
drammaticità del suo divagato “consistere”, del suo sterile e vano sentire. E finalmente, sotto la spinta delle parole rivelatrici del marito, ella si abbandonerà ad una
prima importante confessione che appare come il “sintomo” iniziale della metamorfosi che l’attende:
-Voglio essere sincera: mi tenta la sofferenza: provo ora qualcosa che somiglia
la mortificazione degli alberi sempre verdi in autunno. E si fa strada in me una
necessità di compromettermi con la vita e paura di non potere.- (pp. 135-136)
Raffaello ormai sente che riuscirà ad imporre a Rita la sua realtà, a farle comprendere quella tragica ma “vitale” verità che il tempo innamorato le cela e in lei si
risveglierà il desiderio di rituffarsi nella vita:
Raffaello si sentì riscattato. Ritrovò della luce; ché il buio s’addensa in noi se la
creatura che amiamo rifiuta di capirci, e ci mette così in diffidenza verso noi
stessi. Dopo tanto ella gli diradava quel buio, divenendo lo specchio nel quale
l’immagine di lui si chiariva, e riconosceva nel passato il momento che può dar
colore e consistenza alla vita che resuscita (p. 136).
Attraverso il triste martirio delle parole del marito, infatti, Rita prenderà coscienza della vanità e dell’inconsistenza dell’universo in cui è immersa. Invasa, ormai, da questa nuova consapevolezza di sé, desiderosa di restituire a questa ritrovata identità le sue giuste coordinate, ella saprà guardare alle cose del mondo con
occhi nuovi: la dolente rassegnazione di Clementina, la sua silenziosa devozione,
sempre sentite come un minaccioso affronto alla spensierata gaiezza della vita, diventeranno ora per Rita il segno di una virtù divina, di una abnegazione degna della
più sincera ammirazione:
Si manifestava nella moglie abbandonata e tuttavia devota uno zelo, una letizia
intima, un salire fervido, che di certo la facevano pesare poco sulla terra. Ravvisare tale virtù era come conversare con Raffaello e dargli ragione. Movendo
verso la donna brutta, la interrogava con le pupille, ché, proprio da lei, avrebbe
potuto imparare un’obbedienza amorosa, senza pause né ritorni, impegnata
negli anni (p. 173).
Finalmente, dopo aver pienamente compreso la segreta “grandezza” di
Clementina e aver “realizzato” l’assurda insensatezza delle sue continue fughe dal
mondo reale, Rita può riappropriarsi di quella sconosciuta esistenza a cui è stata
33
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
strappata e cominciare ad amare, ma ad amare veramente, rischiando, soffrendo,
desiderando:
Con uno stupore misto d’umiliazione, Rita si domandava che cosa Raffaello e
Ugo avevano amato in lei, che, per salvare la sua leggerezza da fronda immersa
nel sereno, s’era sempre sottratta alle compromissioni del sentimento, temendole. Ma ora voleva comparire di fronte a Renato trepida d’un senso di rischio,
quasi avendo, per via di quell’ansia e di quel desiderio d’offrirsi oltre se medesima, reso trasparente il tessuto della vita, che diventava cosa fragile, più di
certe parole, che per essere troppo vicine al cuore, s’ha paura di non riuscire a
sostenerle nella voce (p. 173).
Raffaello ha vinto la sua battaglia e Rita, squarciato il velo del tempo incantato, può finalmente rinascere:
si persuadeva d’essere giunta a dividere il tempo: un taglio fermo che non doleva, al di là del quale ricominciava un’altra vita (p. 174).
Ma il mondo reale che ella ha riconquistato attraverso questo complesso processo di riumanizzazione è, comunque, intessuto di sofferenze, di delusioni, di angosce. Allora, aperta ormai alle rischiose compromissioni della vita, Rita si lascerà
forgiare dalle tristi esperienze della morte e dell’amore. Dopo la perdita di Enzo,
infatti, pur accorgendosi di “aver sofferto in fretta, quasi senza darsi il tempo di
piangere, sbrigativamente” (p. 235), sente che il dolore patito le ha sottratto per
sempre la serenità e la gioia di un tempo:
Da quella disgrazia s’era sentita derubata; e non del suo bambino soltanto: derubata come dalla tempesta che sacrifica le promesse d’una stagione (p. 235).
Strappata ormai definitivamente alla prigione del tempo incantato Rita comprende di non aver mai amato e saputo amare. Dopo la confessione del suo tradimento anche Ugo gli apparirà “un’immagine povera dell’amore” (p. 247), allora
comincerà a dubitare e a realizzare
d’aver ceduto solamente agli inviti facili del caso. […] le venivano in mente dei
nomi: Raffaello, Ugo, Renato…campati ciascuno come in un paesaggio chiuso
in cui si scioglieva, simile a una nuvola, la curiosità di lei. Umiliata, si ribellò e
riuscì a convincersi d’amare veramente Renato (p. 242).
Sarà lungo la strada che la conduce da Renato che Rita, come in una sorta di
cammino verso la purificazione, ritroverà completamente se stessa e l’amore per
l’esistenza appena recuperata. Quella strada, nella sua umile dignità, le permetterà
di “gustare” la vera essenza della vita e di ritrovare nella “serena” sofferenza dei
suoi abitanti il senso profondo del suo segreto fascino:
34
Luana Di Francesco
povera, con tante botteghe di gente che lavora e che batte: il calzolaio col
bischetto sulla soglia, il fabbro, lo stagnino, e il ronzare di un tornio che non
si sa dove sia. […] La gente è indaffarata e ha sul viso una malinconia costante, come rimessa, e per questo rasente alla felicità. Quella strada (e si capisce
che bisogna percorrerla lentamente) termina in una piazza che solleva con
cinque scalini una chiesa dinanzi alla quale stanno seduti dei poveri, di certo
sereni: e vien fatto d’invidiarli: ché fra loro e le pietre di quella chiesa che ha
un profilo facile, c’è parentela, anzi fraternità. Per quella via ci accompagna,
quasi ci scorta, l’innocenza, e davvero si potrebbe giungere all’amore (pp.
261-262).
Rita, giunta ormai al termine del suo ascetico percorso, abbandonata la realtà
in cui era un tempo “imbalsamata”, accoglie in un commosso abbraccio lo spettacolo vibrante della quotidianità:
Le sarebbe piaciuto, prima di giungere dal suo amante, somigliare quella strada[…] Era arrivata, perdendo per la strada vanità e desiderio di gioia e voglia di
vivere in fretta (p. 262).
Nel momento in cui, però, riprende possesso della vita reale, l’angoscia esistenziale di Raffaello la invade: dopo l’ebbrezza della riconquista Rita appare dilaniata
da un indicibile sgomento, il flusso inquietante della vita che torna a circolare, il
tempo che la investe e la consuma con la corsa inesorabile e crudele delle ore, le
restituiscono la triste malinconia e la lacerante irrequietezza dell’impotenza. Rita
approda alla consapevolezza struggente di aver fallito, di aver vissuto un’esistenza
sterile, senza radici, senza frutti e scopre che anche la felicità di amare è “angoscia
che delira” (p. 264):
La vita così, vicina vicina al cuore, le dava uno sgomento puerile, facendole
desiderare d’essere proprio in due, stretti. Ma Renato non l’ascoltava: aveva gli
occhi lustri, la bocca sfatta, come già baciata, e le mani inquiete.[…] La felicità
di lui, eguale a una lampada su uno specchio, escludeva quello che c’era di più
intimo e affaticato in lei (p. 264).
Nessuno, nemmeno il giovane Renato a cui si sente sinceramente legata, potrà capire e consolare la sofferenza del suo nuovo “sentire”, del suo nuovo “modo
d’amare” e ricambiarla con l’abbandono, l’assoluta dedizione, lo sconfinato desiderio con cui Raffaello l’aveva amata. Questo sarà il grande dramma di Rita: dopo
aver compreso e sperimentato su di sé il tormento, l’angoscia del marito, ella è
devastata dalla consapevolezza lacerante di non poter più condividere con lui quella ritrovata verità:
Egli di fronte al viso di lei, appassito, non avrebbe potuto rimanere commosso,
tutto ringraziamento, come invece Raffaello, cui sarebbe parso, guardandola,
35
Il tempo ed il ricordo nelle dinamiche psicologiche di Tempo innamorato di Gianna Manzini
che l’amore fosse ormai evidente, al pari dell’ansietà d’una persona che affanna
contro il vetro d’una finestra (p. 266).
Così ella vivrà, in una sconcertante inversione di ruoli, la tragica realtà di
Raffaello senza poter trovare conforto in Renato, incatenato al tempo incantato e
gioioso della sua giovinezza. Dunque anche l’amore è sbigottimento, dolore, delusione:
Oh, non avrebbe più percorsa quella strada su cui sembra d’andare scortati
dall’innocenza, e che accompagna incontro all’amore. Non l’avrebbe più percorsa, ché, così trasfigurati come si giunge, non c’è nessuno che ci riceva davvero, e allora sale alle labbra un nome che credemmo sepolto: il nome d’uno che
ha inutilmente ragione (p. 267).
Rita allora conoscerà l’amarezza del pianto, “imparerà” la tristezza della solitudine e, come gli altri protagonisti del romanzo, anche lei scoprirà la crudeltà
dell’arido vero:
Si sorprese a piangere. Imparò in quel momento le proprie lacrime; ne aveva tutto
il viso molle; e piangendo le sembrava d’invecchiare, minuto per minuto, come si
cammina, rotto finalmente l’incantesimo del tempo innamorato (p. 264).
36
Antonella Iacobbe
Dalla fantasia alla coscienza:
percorsi poetici e narrativi in Elsa Morante e Lalla Romano
di Antonella Iacobbe
I decenni che vanno dalla fine del secolo XIX agli inizi del XX segnano la
fine di un’epoca e pongono i presupposti della storia e della civiltà successiva. Si va
verso un lento e progressivo miglioramento generale del tenore di vita, ma contemporaneamente risulta accentuato, nella vita politica e sociale, il peso delle masse
popolari, ormai organizzate intorno ai partiti che ne esprimono le esigenze.
La crisi del positivismo determina un ritorno allo spiritualismo che riafferma
il valore della spiritualità umana.
Ritorna il bisogno di abbandonare l’osservazione della realtà esterna per calarsi nell’anima umana, scavando ancora una volta nei sentimenti.
Una delle componenti più profondamente sconvolgenti della cultura
novecentesca è, senza dubbio, la psicanalisi, soprattutto per le conseguenze che il
suo influsso ha provocato nella letteratura e nelle arti.
Il Novecento è il secolo che vede il maggior numero di scrittrici, di poetesse,
di donne che si sono distinte nel favorire l’emancipazione femminile.
Il nostro scopo sarà quello di evidenziare le costanti che connotano e differenziano le scritture femminili, senza separarle dal contesto della tradizione del
Novecento.
Si possono distinguere tre generazioni di donne. “La prima – aperta dal nome
di Matilde Serao e conclusa da quello di Benedetta – è una generazione che si forma
nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando al modello di donna nuova, promosso dalla cultura moderata e progressiva di fine secolo, si contrappone il
processo di auto-modellazione espresso dal movimento emancipazionista italiano.
Le contrapposizioni di modelli […] attraversano notevolmente gli immaginari delle donne, al di là delle posizioni da loro pubblicamente assunte: esterne ai
luoghi istituzionali della politica e della cultura (come Deledda, o Aleramo) o interne ad essi (come Neera, o Ada Negri)” . 1
La prima generazione è caratterizzata da scrittrici autodidatte, mentre nella
seconda generazione sparisce la forma domestica dell’autodidattismo e la dimen-
1
Marina ZANCAN, Le scrittrici e i loro testi, in Memoria del ‘900 letterario: scritture, immagini, voci, su
http//crilet.let/uniroma1/mostra900/apertura.htm.
37
Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici e narativi in Elsa Morante e Lalla Romano
sione di vita interna si mescola con scelte o vicende politiche (Ginzburg, Masino,
Viganò), a differenza della prima generazione, dove la donna intellettuale era ben
lontana dalla vita politica. Le due generazioni sono accomunate da una costante: il
narrare di sé.
Le opere di queste donne si intrecciano con opere della terza generazione,
scritture di donne che dagli anni Sessanta arrivano al tempo presente, protese verso
il futuro; fra queste ricordiamo: Margherita Guidacci, Amelia Rosselli, Alda Merini,
Angela Bianchini, Dacia Maraini, Ginevra Bompiani, Patrizia Cavalli, Teresa Di
Lascia.
Fra le donne di seconda generazione è doveroso ricordare Elsa Morante.
Si rivelò tra il 1935 e il 1940, scrivendo eleganti cronache di costume per
riviste culturali. Da quell’esercizio giornalistico nacque il primo volume di racconti, Il gioco segreto (1941), in cui è raccolta una piccola parte della vasta produzione
narrativa destinata ai giornali. In quello stesso anno pubblicò la favola Le bellissime
avventure di Caterì dalla trecciolina (1941).
L’opera che la impose alla critica fu Menzogna e sortilegio (1948).
L’autrice narra in prima persona la storia della propria famiglia. Attraverso la
narrazione allucinata di una giovane donna, sempre rinchiusa nella sua stanza, si ha
la ricostruzione della decadenza di una famiglia gentilizia del Sud.
Si tratta di un corpus in cui è possibile rintracciare le trame di un romanzo
personale all’interno del quale la scrittrice ri-scrive, ri-leggendole, le tappe della sua
vita e della sua famiglia, offrendo un autoritratto affidato alla pagina scritta che è
‘specchio’ in cui guardare il proprio passato, riattraversando la storia della propria
esistenza, con una autobiografia.2
La storia ha inizio con il matrimonio di Cesira, nonna di Elisa (la narratrice),
con Teodoro Massia, discendente di una ricca casata aristocratica presso cui Cesira
lavorava come istitutrice.
La Morante vuole che il romanzo familiare di Elisa3 contenga tutto ciò che
era stata la sostanza del romanzo dell’Ottocento. Già nel titolo del primo capitolo
(Una sepolta viva e una donna perduta), Menzogna e sortilegio sembra voglia presentarsi come un romanzo d’appendice, un romanzo d’amore. Al tempo stesso però,
pensando a L’Orlando furioso e al Don Chisciotte, scrive, ignorando tutte le scoperte del romanzo ottocentesco (il colpo di scena, le sorprese, il montaggio, la funzione del “destino”, ecc.) con lo stile tipico della favola. L’originalità di quest’opera sta
nell’essere un romanzo dell’Ottocento che, con tono fiabesco, mette in scena quanto di meno fiabesco e romanzesco offrì la civiltà del Novecento: rifiutare di vivere
“la sorte assegnatale in questa vita” per vivere in compagnia della menzogna coperta di verità.
2
3
Cfr. Andrea BATTISTINI, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, il Mulino, 1990.
Cfr. Lucio LUGNANI, Per Elisa: studi su Menzogna e sortilegio, Pisa, Nistri-Lischi, 1990.
38
Antonella Iacobbe
Ogni pagina è intrisa di ambiguità a tal punto che si giunge alla fine del romanzo col dubbio se Elisa si sia davvero liberata dall’unica eredità lasciatele dai
suoi, la menzogna. Infatti, Elisa, malata di menzogna, sceglie la scrittura come strumento capace di liberarla dalla foresta di mostri che popolano la sua infanzia.
Elsa Morante, rifacendosi a Freud, trova nella scrittura la strada per trasformare la “foresta dei sogni” di paure e misteri che fin dall’infanzia l’ossessionava, in
un romanzo che appare distante dall’autobiografismo tradizionale.
Dunque, Menzogna e sortilegio – come la stessa autrice dichiarò – racconta il
passaggio dalla fantasia alla coscienza, dalla giovinezza alla maturità, “esperienza
fondamentale e tragica”.
La Morante iniziò questo romanzo nel 1943, interrompendone la stesura per
seguire il marito, Moravia, indiziato di antifascismo, sulle montagne di Fondi, in
Ciociaria. Fu un periodo difficile, vissuto tra stenti e privazioni; ma destinato a
produrre due opere letterarie di grande importanza nel panorama letterario italiano
del secondo Novecento: Moravia scrisse La ciociara (1957) ed Elsa Morante il suo
romanzo più celebre e discusso, La storia (1974).
Quest’opera racconta le vicissitudini belliche dell’Italia e del mondo nel periodo che va dal 1941 al 1947, riflesse nel piccolo mondo di una famigliola romana,
formata da una donna spaurita e immatura, da un ragazzetto, da un bambino. Ecco
che siamo immersi nella Roma distrutta dalla guerra e poi in cammino verso un’incerta ricostruzione.
La Morante scrive il romanzo La storia con l’intento di illustrarci come vengono vissuti gli eventi storici dalla gente comune, evidenziando infine una critica
alla Storia, mostro che divora la vita delle persone che sono costrette a subirla senza
saperne il perché.
Con Menzogna e sortilegio, la Morante vince il “Premio Viareggio”; nel 1957
esce il romanzo L’isola di Arturo, con il quale vince il “Premio Strega”.
Questo romanzo narra la storia della difficile maturazione di un ragazzo che
vive come segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, all’ombra del
grande penitenziario. Tutti i personaggi di questo romanzo sono oggettivamente e
minuziosamente descritti e rappresentati; ma tutto al tempo stesso sfuma nella favola e nell’allegoria: tutto è poeticamente trasfigurato.
La quotidiana realtà si trasforma nel mondo atemporale4 e magico del mito,
Arturo, il fanciullo – eroe dal nome di stella, rievoca la propria infanzia e la propria
adolescenza; si affrontano le fondamentali tappe di quel difficile percorso che conduce alla “malefica e meravigliosa” isola dell’infanzia, alla coscienza di sé e del mistero della vita adulta.
Per il fanciullo eroe, Arturo, diventare adulto equivale ad abbandonare Procida, la solare felice isola dell’infanzia, l’isola delle “Certezze” assolute, lo spazio
4
Cfr. Stefania LUCAMANTE, Elsa Morante e l’eredità proustiana, Fiesole, Cadmo, 1998.
39
Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici e narativi in Elsa Morante e Lalla Romano
chiuso e senza tempo, su cui viaggia “sospesa nell’aria” l’arcana divinità della madre perduta. La scoperta della realtà e della vita ha fatalmente inizio con l’arrivo a
Procida della giovanissima sposa del padre, Nunziatina, figura di madre-amantebambina, definita dalla critica “una delle immagini più vive e sorprendenti del nostro romanzo contemporaneo”.
Il racconto è articolato secondo una ricca suddivisione in titoli.
Il titolo del romanzo, L’isola di Arturo, ci delinea subito, con precisione, lo
spazio della storia; il sottotitolo iniziale, Re e stella del cielo, rimanda a due cose
normalmente considerate importanti, o elevate e preziose. È il protagonista stesso a
raccontare la storia. Il lettore entra bruscamente nell’argomento, incontrando il
personaggio del romanzo, senza sapere quale sarà il soggetto della storia. Per conoscere il personaggio, dovrà ascoltare il racconto.
L’isola di Arturo, secondo Donatella Ravanello,5 funge da trait d’union fra
Menzogna e sortilegio e la Storia.
Si nota come, in questo romanzo, la Morante abbia tentato di sostituire la
ragione (intesa come realtà razionalmente e scientificamente) alla follia, che però si
dimostra insufficiente ad arrivare alla vera conoscenza.
Qui l’io narrante si sdoppia: l’Elisa di Menzogna e sortilegio la troviamo sia
in Arturo che in Nunziata.
Nunziata servirà ad Arturo per arrivare alla verità, cioè capire che la sua vita
è stata caratterizzata da solitudine e mancanza di affetti, e per demistificare la figura
del padre, che Arturo ha sempre visto come un eroe, per staccarsi da lui e capire che
tipo di persona misera e infelice sia in realtà.
Per comprendere fino in fondo tutte queste cose è necessario che Arturo
vada via da Procida, l’isola in cui vive e che per lui rappresenta un ostacolo per il
raggiungimento della verità: verità cui non arriverà mai completamente proprio
perché, per intraprendere la strada della ragione, si è privato del grande potere delle
follie. Per questo, la Morante, in La Storia, abbandonò la ragione per tornare ad
esplorare il territorio della follia.
Nel 1976 inizia la stesura del suo ultimo romanzo Aracoeli, che porterà a
termine e pubblicherà solamente nel 1982, essendosi fratturata il femore nel 1980.
In questo romanzo, l’autrice delinea, con penetrazione psicologica, il ritratto di un
personaggio ‘diverso’, che cerca di ri-costruire l’amata figura materna perduta e
irraggiungibile.
I modelli espliciti della Morante sono i grandi romanzieri russi e francesi
dell’Ottocento, da un lato, e i poeti Saba e Penna dall’altro.
La Morante utilizza, nel suo scrivere, una struttura classica, e in tutti i suoi
romanzi si assiste al trionfo delle forze della fantasia.
5
Donatella RAVANELLO, Scrittura e follia nei romanzi di Elsa Morante, Venezia, Marsilio Editore, 1980, pp.
46, 93 e 95-97.
40
Antonella Iacobbe
Per questo il suo romanzo più difficile, La storia, presenta forti discontinuità
stilistiche fra zone in cui l’ispirazione lirica è più libera e zone invece in cui predomina un “neorealismo” di maniera che vuole ricondurre l’opera e il suo contenuto
nell’alveo delle tensioni sociali reali e concrete. Lo stile, anche se intarsiato con
termini dialettali, rimane raffinato e fastoso.
Sogno, mito, favola, ragione e dura “realtà” sono ancora gli elementi costitutivi
delle opere di Lalla Romano, scrittrice di seconda generazione.
Con sensibilità squisitamente femminile, priva di ogni sentimentalismo, ritrae il quotidiano, sempre relazionata all’universale, al “privato”, così da produrre
una scrittura autobiografica.
“Scrivere vuol dire scrivere di sé, in modo più o meno dichiarato [...], scrivere
per me è stato anche il tramite per entrare nelle vite degli altri”, così affermava Lalla
Romano.
Fondamentale appare ciò che Carla Locatelli definisce il Playing House: ossia il “gioco di mettere su casa”, di auto-esplorazione autobiografica, la costruzione
del sé, la ricostruzione della vita.6
Lo scrivere di sé rappresenta “l’allegoria degli sforzi problematici compiuti
dallo scrittore auto-riflessivo per colmare la distanza tra passato e presente, tra se
stesso e la rappresentazione testuale di sè”.7
Con Lalla Romano non si può parlare di puro autobiografismo, inteso come
indugio al personale ed ostentazione del privato con abbandoni prolissi e personali,
ma attraverso il “sé” ella ha una maggiore consapevolezza e comprensione dell’universo, dell’umanità.
Poetessa, narratrice, traduttrice, pittrice e critica d’arte, anche appassionata
di fotografia, si fece conoscere in campo letterario con raccolte di poesie come
Fiore, L’autunno, Giovane è il tempo, e con racconti come Maria, Tetto Murato,
L’uomo che parlava solo, La penombra che abbiamo attraversato, Le parole tra
noi leggere, alcuni dei quali ebbero il riconoscimento di un premio letterario come
il “Premio Veillon”, il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Strega”. Scrisse anche prose liriche come Le metamorfosi, opere in prosa come Una giovinezza inventata, Inseparabile, Un sogno del Nord, un poemetto autobiografico nel ’91,
Le lune di Havar e, suoi più recenti lavori, Un caso di coscienza del ’92 e Ho
sognato l’ospedale del ‘95.
Le metamorfosi, pubblicate nel 1951, segnano il passaggio dalla poesia alla
prosa. Divisa in cinque parti, quest’opera narra i sogni di cinque personaggi legati
6
Carla LOCATELLI, Passaggi obbligati: la differenza (auto) biografica come politica co(n)testuale, in Co(n)texts:
implicazioni testuali, a cura di Carla Locatelli, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2000, pp. 151196. Cfr. anche Jerome BRUNER, The Autobiographical Process, in AA.VV., The culture of Autobiography.
Constructions of Self-Representation, Stanford, Stanford UP, 1993); qui sostiene che “l’autobiografia è costruzione di una vita attraverso la costruzione del testo”.
7
Paul JAY, L’auto-rappresentazione, in Teorie moderne dell’autobiografia, Bari, Edizioni Graphis, 1996, p. 101.
41
Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici e narativi in Elsa Morante e Lalla Romano
tra loro da vincoli di parentela, vicini all’autrice, ma mai nominati e, per tanto,
difficilmente riconoscibili. Qui, delle vicende oniriche diventano materiale letterario; sogno, mito, favola e realtà si mescolano sfumando i loro confini. Ma la narrativa di Lalla Romano ebbe effettivo inizio con le opere: Maria e Tetto murato, rispettivamente del ’53 e del ’57; siamo già in clima di Neorealismo. Nel primo, poco
considerato dalla critica, l’autrice, improntata da un fervente realismo, descrive il
mondo contadino in via di estinzione, dando grande importanza al Tempo e alla
Storia. È la vicenda vera di un’umile contadina, alter ego dell’autrice, realmente
conosciuta, che, pur lasciando la terra per andare a servizio presso una famiglia,
non dimentica mai le sue leggi di onore e dedizione.
Nel secondo ecco che prende forma la tematica tanto cara a Lalla Romano: l’indagine nella memoria.8 “I miei libri sono basati parecchio sulla memoria,
ma penso si debba distinguere tra due tipi di memorie: la memoria nel senso
grande, che è ricchezza per l’umanità, e i ricordi personali, che hanno una loro
dignità ma non sono niente, sono aneddoti, pettegolezzi [...] Adesso proliferano libri di memorie che raccontano fatterelli, ma questo non ha niente a che fare
con la vera memoria”; dalle parole della scrittrice si comprende che tutta la sua
narrazione si basa sulla memoria, affidando alla scrittura il compito di “evocazione”.
In questa opera, sullo sfondo di una vicenda storica, si narra la storia di due
coppie di sfollati (Paolo, gravemente malato d’asma, e sua moglie Ada, e Stefano,
spesso assente per lavoro, e la moglie Giulia) che, durante l’occupazione tedesca, si
rifugiano in un casale, il tetto murato, in una località di campagna del cuneese. L’anormalità della situazione, i disagi, gli ostacoli, la malattia di Paolo e le premure della
moglie, daranno origine ad un profondo legame spirituale tra le due coppie, creando una seconda vita simile a quella principale alla quale, però, alla fine della guerra,
i quattro personaggi ritorneranno.
In Le parole tra noi leggere, con la quale vinse il “Premio Strega”, Lalla
Romano ci racconta il proprio rapporto di madre con il figlio. Attraverso ricordi,
appunti, materiale autentico, delinea la biografia del figlio, la sua crescita ed anche il progressivo allontanamento dalla madre che arriva, infine, a riconoscerne
l’estraneità. Solo nella fiction del romanzo, attraverso il processo di identificazione/distanza tra la propria vita e quella vissuta nella scrittura da un sé fittizio, Lalla
Romano riesce a portare a galla, rievocandoli, rimembrandoli, ri-creandoli e rivivendoli, i conflitti inconfessabili e laceranti del passato, senza il rischio di rimanerne schiacciata.
Priva di sentimentalismi, Una giovinezza inventata, del 1979, capolavoro
dell’autrice, ripercorre e ri-costruisce la personale giovinezza dell’autrice vissuta
negli anni Venti, divisa fra gli studi, l’esistenza borghese, l’amore e i disagi della
condizione femminile del tempo. Non vi è una ricerca malinconica del passato, la
8
Cfr. Flavia BRIZIO, La scrittura e la memoria: Lalla Romano, Milano, Selene, 1993.
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Antonella Iacobbe
recherche del tempo perduto e la memoria del passato sono guardati con gli occhi
della maturità e dell’esperienza senile.
L’opera della Romano che presenta una rilettura dell’infanzia con un riferimento diretto a Proust è La penombra che abbiamo attraversato; “itinerario memoriale” intorno ai luoghi della sua infanzia con impressioni, ricordi, sensazioni
infantili che vengono riscoperti e rivissuti da una sensibilità adulta, con un assiduo
passaggio tra passato e presente. La prospettiva del passato infantile e la prospettiva
del presente si incrociano e sfumano i loro confini; il tutto reso maggiormente da
un’alternanza dei piani discorsivi che la Romano riesce ad alternare seguendo sempre come norma il tempo. La distinzione dei piani temporali aiuta a rappresentare
un cambiamento di atteggiamento verso il mondo: dal mondo fiabesco della bambina, si passa verso una presa di coscienza realistica. La narratrice, situata nella realtà, è spinta dalla nostalgia a recuperare qualche eco della sua infanzia, e a riviverla.
La conquista della realtà da parte della bambina, proprio come per Arturo in L’isola
di Arturo della Morante, porta al dimensionamento (riscontrato ora dall’adulta) di
persone e immagini che le furono care. In questo modo, con rammarico, scompare
il mondo creato dalla fragile immaginazione di bambina.
La mescolanza di fiaba, realtà, lo spazio dell’invenzione, il mondo delle coincidenze fatali, che si allontanano dalle esperienze consuete e della norma sono elementi che caratterizzano le due autrici in questione.
In questo contributo ci si è soffermati su due scrittrici con comune inclinazione anche al fantastico; ma l’esperienza del fantastico, mescolato al realismo, è
comune a molte scrittrici di fine Ottocento e Novecento.
Nel racconto fantastico, l’azione avviene per errore, per caso o per sbaglio
ma, dietro, c’è sempre la logica del personaggio o del narratore; di qui scaturisce la
verosimiglianza.
In queste scrittrici la componente fantastica e surreale non si configura come
pura evasione o sogno, ma quasi sempre come aspetto intrinseco della realtà, una
sorta di sostanza interna alle cose.
A volte, ci si nasconde dentro la propria fantasia, creando così realtà soggettive, immateriali e immaginarie.
La vita reale risulta difficile, un inferno da cui solo si può evadere in un altro
mondo, fatto di visioni, sogno, incredulità, in un altro mondo in cui non esiste
ancora il dolore che può diventare sopportabile, a differenza del mondo reale che
non può essere sopportato. Attesa e speranza, sogno e, infine, sempre abbandono e
dolore sono gli elementi costitutivi delle opere di queste scrittrici. La memoria e il
tempo sono motivi sempre ricorrenti: il tempo è quello “interiore” e psicologico
della coscienza che nulla “condivide” con il tempo della scienza, inteso come arido
susseguirsi di attimi; la memoria non è solo un “mezzo” per ricordare ma anche lo
strumento di una imprevista “riconquista” di verità rimosse e obliate.
Differenti sono le “soluzioni” linguistiche e le tematiche delle opere delle
scrittrici in esame, ma, il tempo, la memoria, la funzione “ricostruttiva” del ricordo
sono elementi che le accomunano. Le cose si liberano dalla schiavitù del senso codi43
Dalla fantasia alla coscienza: percorsi poetici e narativi in Elsa Morante e Lalla Romano
ficato per accogliere i plurimi messaggi di un’altra esistenza; c’è la scoperta di un
nuovo mondo, demolendo le illusorie certezze precedenti, costruendo nuove corrispondenze tra i protagonisti e il mondo.
Altro tema spesso presente è la solitudine, intesa proustianamente come doloroso mezzo di affinamento spirituale, di “maturazione”. Così si riconosce la
profonda sensibilità di due scrittrici che hanno saputo “darsi” senza riserve, con
profonda sensibilità ed umanità.
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Lucia Stanziano
Anna Maria Ortese e Paola Masino:
due scrittrici d’avanguardia
di Lucia Stanziano
A partire dagli anni Trenta assistiamo in Italia all’aumento della produzione
letteraria femminile e tra le scrittrici protagoniste del panorama culturale del Novecento incontriamo Anna Maria Ortese e Paola Masino.
Contemporanee, quasi coetanee, la prima nata nel 1914 a Roma e morta nella
cittadina ligure di Rapallo nel marzo del 1998, la seconda nata nel 1908 a Pisa e
morta a Roma nel 1989 sono entrambe legate a Massimo Bontempelli ed entrambe,
purtroppo, oggi quasi dimenticate e ad alcuni completamente sconosciute.
Il primo incontro di Anna Maria Ortese con Massimo Bontempelli risale al
1936 ed avviene per via epistolare; il Bontempelli diventa suo amico e sostenitore
dei suoi scritti e senza dubbio, proprio l’amicizia e l’appoggio di quest’uomo hanno indotto la critica ad inquadrarla nell’ambito del realismo magico.
Ricordiamo che la formula “realismo magico” è stata coniata da Bontempelli
ed è apparsa per la prima volta su «Novecento»; è questo uno stile che introduce il
lettore in un mondo in cui il fantastico gioca la sua parte accanto al reale ed a volte
prende il sopravvento su di esso, immergendo il racconto in atmosfere quasi surreali.
Importante, forse primo importante intervento critico sull’opera della Ortese
è espresso proprio dall’amico comasco a proposito della raccolta di novelle Angelici dolori:
Angelici dolori, prima, primissima prova di un’autrice che suppongo molto
giovane, ha tutti i caratteri del miracolo e supera con molta felicità parecchie
distinzioni: distinzione tra narrativa e lirica, perché le più semplici trame di
racconto portano da sé rapidamente o facilmente ai più effusi effetti lirici; distinzione tra abilità ed estro, ché in questa prosa sempre gli effetti che diresti
più abili sono ottenuti da uno stato di innocenza.1
La Masino, invece, conosce Massimo diversi anni prima, esattamente nel 1927,
quando egli è già scrittore affermato, sposato e di trent’anni più vecchio di lei. I due
1
Massimo BONTEMPELLI, Angelici dolori, «Gazzetta del popolo», 22 aprile 1937.
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Anna Maria Otese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia
si innamorano, la loro relazione fa molto discutere ed il loro rapporto oltre ad essere di tipo amoroso è un vera e propria collaborazione professionale.
Bontempelli, infatti, le permette di inserirsi nell’ambiente letterario, accogliendo sulla rivista «Novecento» alcune sue prose lirico-metafisiche dal gusto
surreale e filosofeggiante.
La Masino diventa sua amante, lo scandalo esplode e la giovane donna è costretta a riparare a Parigi, preceduta dalla fama di questo loro amore.
Quando rientra in Italia, nel 1931, i due decidono di andare a vivere insieme
nella città di Venezia e nella loro casa tra gli ospiti c’è Anna Maria Ortese.
Già compagna di Bontempelli, Paola Masino, infatti, ha la possibilità di entrare in contatto con Anna Maria Ortese divenendo sua grande amica. Come testimonianza della loro amicizia esiste un carteggio iniziato nel 1937, dopo un invito
presso la loro abitazione. L’anno seguente, la Ortese si stabilisce a Venezia dall’amica Paola e, grazie al suo aiuto, inizia a lavorare per «Il Gazzettino».
È in questo modo che Paola Masino parla della Ortese in una lettera ai genitori:
Sono perfino contenta di avere qui la Ortese perché in quei rari momenti che la
vedo mi sorprende con le sue stranezze. Non fa che dormire, ha una paura morbosa di ogni rumore, la notte ci obbliga a stare alzati fino alle tre o alle quattro
perché se non ci sente muovere e non vede la luce attraverso la sua porta è presa
da un terrore così gagliardo che cade in una specie di catalessi: le poche ore che
rimangono libere dal sonno e dagli incubi le passa al bagno. Da otto giorni che è
qui non ha ancora detto che questo: che vuol trovarsi un impiego; e non siamo
riusciti che a trascinarla una volta fino in piazza S. Marco dove però si è rifiutata
di guardare il palazzo ducale perché dice che non la interessa.2
In realtà Anna Maria Ortese non è interessata all’arte ma alla vita come testimoniano i suoi scritti, tra questi il racconto Città inimmaginabile composto un
mese dopo la lettera della Masino e in cui la stessa Ortese scrive di fare molta fatica
ad addormentarsi la sera e di tremare ad ogni rumore.
Condividono una passione comune che è quella per la musica e l’ultima traccia di questo interesse della Ortese risale al luglio 1959 quando la Masino la intravede tra gli spettatori di un concerto a Spoleto. Anna Maria sa suonare il pianoforte, le
piacciono la musica classica e le canzoni popolari.
Il carteggio diminuisce negli anni della guerra, per farsi più sostenuto negli
anni Cinquanta e poi continuare, se pur con larghi intervalli, fino al 1975, che costituisce l’anno in cui è datata l’ultima lettera della Ortese. Da allora le due donne non
si sono mai più incontrate e la Ortese ricorda di essere stata lei la causa del loro
allontanamento e di aver in seguito tentato, invano, una pacificazione.
Il 1975 è anche l’anno della pubblicazione del Porto di Toledo, nonché l’anno in
2
Lettera di Paola Masino ai genitori, 1937.
46
Lucia Stanziano
cui la scrittrice insieme alla sorella maggiore Maria si trasferisce a Rapallo e vi resta fino
alla fine dei suoi giorni. Tra numerose difficoltà e problemi le due sorelle riescono finalmente ad acquistare una casa e questo grazie alla legge Bacchelli; il Consiglio dei Ministri approva, infatti, un disegno di legge che istituisce un vitalizio a carico dello Stato per
italiani illustri che si trovano a vivere in condizioni di particolare necessità
Come Anna Maria Ortese, anche Paola Masino è una donna fuori dal comune e forse si sono intese anche per questo. È di sei anni più grande ed ha la stessa
determinazione e la stessa voglia di indipendenza di Anna Maria.
Sono giovani, belle, indipendenti ed intelligenti; entrambe si allontanano dalla
propria terra d’origine, che per la Masino è Pisa, per la Ortese è Napoli, ma anche
Roma e Milano.
Esordiscono giovanissime: Paola Masino nel 1931 con i racconti Decadenza
della morte e il romanzo Monte Ignoso; Anna Maria Ortese nel 1933 con Manuele,
un trittico di poesie in ricordo del fratello marinaio morto nel largo della Martinica.
Entrambe, nelle loro opere, raccontano sia il bene che il male: la Masino guarda
alla tradizione del romanzo ottocentesco, condividendo con essa l’idea che la vocazione della letteratura sia di indagare il mistero del male; si riallaccia ai favolisti
latini, francesi e tedeschi che sono all’origine della sua idea di narrazione come configurazione di un destino; legge la Bibbia e i testi sacri occidentali e orientali da cui
deriva il senso dell’esistenza come caduta, mentre da Shakespeare e dagli elisabettiani
prende l’idea della vita come teatro.
L’idea del male nei testi di Anna Maria Ortese e la consapevolezza della sua
inevitabile presenza sulla terra, nella natura e nella storia, il male inteso come sofferenza, dolore e infelicità avvicina la nostra scrittrice al pensiero di Leopardi e Victor
Hugo, due autori molto amati ed apprezzati dalla Ortese. Costituiscono modelli
letterari e punti di riferimento importanti anche Elsa Morante, Sciascia e Pier Paolo
Pasolini tra gli italiani, Emily Dickinson, Katherine Mansfield e Virginia Woolf tra
le rappresentanti della letteratura straniera. Tra i grandi scrittori del passato anche
la Ortese, come la Masino, legge Shakespeare.
Dopo la pubblicazione di Monte Ignoso a Paola Masino sarà conferito il “Premio Viareggio”, lo stesso che diversi anni dopo, esattamente nel 1953, sarà dato
anche all’Ortese per il bellissimo testo intitolato Il mare non bagna Napoli: questo
per Anna Maria costituisce solo uno dei tanti riconoscimenti ricevuti nel corso della sua carriera letteraria.
La Masino, diversamente dalla Ortese, non ha una visione negativa dell’unione matrimoniale e a confermarlo è proprio il suo matrimonio con Massimo
Bontempelli; l’altra invece pur essendo legata per lungo tempo ad un uomo di
nome Marcello Venturi, ricordato in alcuni romanzi strettamente autobiografici,
come Poveri e semplici e Il cappello piumato, non si sposerà mai, ritenendo il
matrimonio come un qualcosa che comporta tagli alla propria vita, al proprio
tempo e alla propria immaginazione. Anche del sesso, secondo lei, si può fare a
meno nel momento in cui si decide di non riprodursi e allora la mente può essere
impiegata in altre attività.
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Anna Maria Otese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia
Anche il ricordo della famiglia d’origine, alla quale Anna Maria resta legata
fino alla fine, senza pensare alla possibilità di crearne una propria, riaffiora continuamente nelle pagine autobiografiche.
La prima impressione che la Ortese ha della Masino non è del tutto positiva,
infatti le sembra una donna elegante e scettica e le incute soggezione.
Il ricordo che Anna Maria conserva di Paola è quello di un’amica buona e generosa, che l’ha aiutata in circostanze difficili della sua vita e quando pensa a lei la scrittrice
pensa ad una persona della sua famiglia, definendola “qualcosa della mia vita”.
Ciò che secondo la Ortese resterà dei libri della Masino sono la stravaganza
del discorso, l’ardire e la malinconia di fondo, propria di chi vede quello che gli altri
non vedono e sfugge all’occhio comune.
In un’intervista a Luca Clerici la Ortese sostiene che “Paola sapeva che la vita
è sempre più in là, e in fondo, e da tutte le parti. Questa sensazione o emozione
formava il tumulo o il gelo o la dolcezza di tante sue pagine”.
Sia Anna Maria Ortese che Paola Masino collaborano a riviste e giornali,
vivono il dramma della modernità e avvertono la grande crisi di valori che sta trasformando il panorama culturale, politico e sociale, mandando in rovina la nostra
società.
Tra le riviste per le quali lavora la Masino ricordiamo «Novecento», «Il Gazzettino», «Il tempo» e «La Gazzetta del popolo»; anche Anna Maria collabora a «Il
tempo» e «Il Gazzettino», tra le altre riviste ci sono «L’Italia letteraria», «Domus»,
«Omnibus» ed altre ancora.
A volte, la Ortese, assume il ruolo di una cronista disillusa di un’amara sconfitta epocale, sente che il progresso e l’innovazione hanno distrutto l’equilibrio del
nostro Paese e si arrende a tale degrado; questo è ciò che percepiamo attraverso una
lettura attenta e scrupolosa del libro Il mare non bagna Napoli, pubblicato nel 1953.
Nel corso degli anni Trenta, due donne, che come la Ortese e la Masino,
viaggiano e vogliono scrivere per professione, sono figure davvero singolari all’interno di una società letteraria costituita da un universo esclusivamente maschile. La
letteratura è considerata un’attività poco adatta a una donna e per questo è molto
difficile riuscire ad affermarsi e farsi apprezzare dal pubblico e dalla critica. Pensiamo, a proposito di questo, che Anna Maria era derisa e presa in giro dai suoi stessi
familiari, le prime persone che avrebbero dovuto sostenerla ed incoraggiarla ed è
per questo che la scrittrice, dopo le prime pubblicazioni, ha chiesto di pubblicare
con il falso nome di “Franca Nicosi”.
Riportiamo una testimonianza della scrittrice che afferma:
Non avevo mestieri, non avevo denaro, né una famiglia che potesse servirmi da
appoggio materiale. Ho potuto fare una sola cosa: scrivere. Non è stato facile.
Per un uomo, essere scrittore, negli anni in cui ho iniziato io, era un modo di
vivere di tutto rispetto. Per una donna era diverso [...].3
3
Silvia SERENI, Storia straordinaria di un best-seller, «Epoca», 27 luglio 1993, p. 93.
48
Lucia Stanziano
Anna Maria è convinta che le difficoltà siano maggiori al Sud ed infatti scrive:
Al Sud le ragazze pensavano tre cose: amore, famiglia, - il proprio matrimonio abiti. E chi non viveva secondo i dettami del denaro e della convenienza era considerato ciò che si dice un “diverso”, doveva, per sopravvivere, imparare la soggezione e il silenzio. La conoscenza - o ciò che significava mettere i libri al primo
posto - era poi il colmo dell’ “estraneo”, dico per una donna.4
Paola Masino resta accanto a Bontempelli fino alla fine della sua vita e dopo
la morte del suo compagno, inizia per lei un periodo, oserei dire di “apatia”, verso
i suoi lettori e la sua arte. La vena creatrice si assottiglia sempre più, dimostra pochissimo interesse per il pubblico, si chiude in una ristretta cerchia di amici, le collaborazioni ai giornali diminuiscono e poi cessano completamente e il suo unico
obiettivo è dedicarsi alla cura delle opere di Massimo Bontempelli.
Questa sorta di “apatia” e indifferenza che la circondano, non deve indurci a
pensare che la Masino non scriva più nulla, al contrario, ella lavora tenacemente
anche se in privato, affidando i suoi pensieri e le sue idee a lettere familiari, molte
delle quali inviate alla madre, alla sorella e al nipote, e soprattutto a diari personali,
nei quali la sua scrittura surreale, astratta ed inquietante, si confronta con la presenza della morte.
Anche Anna Maria Ortese nel corso dei suoi ottantaquattro anni ha spesso
scritto lettere ad amici e parenti, e i suoi pensieri più segreti sono stati conservati
fino alla fine, chiusi in un cassetto, da suo fratello.
Anna Maria e Paola vivono in prima persona la drammatica esperienza del
conflitto mondiale; negli anni fra le due guerre la letteratura si svolge nell’atmosfera
soffocante e tiranneggiante del fascismo, gran parte degli scrittori sono scrittori
d’opposizione, ma naturalmente in un siffatto ambiente diventa ancor più difficile
per le donne fare della scrittura un mestiere e la Ortese e la Masino, consapevoli dei
limiti del ruolo femminile e della situazione della donna, ne sono un esempio.
Quando scoppia la prima guerra mondiale, il padre di Anna Maria, che è
ufficiale d’artiglieria, è costretto a partire per il fronte, lasciando a casa la moglie e
cinque figli e tornerà soltanto a guerra finita. Dopo aver vissuto per qualche tempo
a Tripoli, la famiglia si stabilisce a Napoli, nel 1928, in un appartamento situato
nella zona portuale della città, zona distrutta dai bombardamenti. L’appartamento,
anch’esso distrutto, è descritto nel romanzo Il porto di Toledo.
L’inclinazione al fantastico è un elemento che accomuna le due scrittrici.
La Masino invia ai giornali una serie di racconti, successivamente raccolti da
Maria Vittoria Vittori nel volume Colloquio di notte, nei quali tenta di conciliare la
sua propensione per il fantastico con la necessità della testimonianza civile. Ed anche con il suo secondo romanzo, Periferia, scritto tra il 1932 e il 1933, attraverso il
4
Anna Maria ORTESE, Se l’uomo è sperduto, «Paese Sera», 5 maggio 1976, p. 5
49
Anna Maria Otese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia
racconto e la rappresentazione delle avventure e dei drammi di un gruppo di bambini, la Masino esprime la sua particolare concezione del fantastico.
La sua narrativa esplora il regno del mito, delle allegorie, delle allucinazioni e
dei sogni con l’intenzione di spezzare le linee di confine esistenti tra razionalità e
irrazionalità ed esporre le principali contraddizioni e limitazioni della realtà.
La scrittura di Paola Masino, nello stesso modo di quella della Ortese, è fortemente sperimentale, dal surrealismo al realismo magico, dall’assurdo al grottesco.
Una delle prime raccolte di Anna Maria Ortese, L’infanta sepolta, è attribuibile
al genere della narrativa fantastica.
La scrittura di Anna Maria è visionaria e trasfiguratrice, il suo percorso narrativo è rivolto ad una continua ed intensa sperimentazione delle poetiche del fantastico forse ancor più di quanto non lo sia per Paola Masino.
Il ciclo fantastico della produzione letteraria della Ortese è costituito da tre
romanzi: l’Iguana, Il Cardillo addolorato e Alonso e i visionari.
I tre racconti non realistici, testimoniano la visione della realtà propria dell’autrice, ossia una dimensione in cui non è possibile distinguere tra visibile ed invisibile, sogni e ricordi, fatti e invenzioni della mente. I romanzi fantastici servono
alla scrittrice per creare realtà immaginarie, soggettive ed immateriali, in cui ancora
esiste il dolore che diversamente da quello del mondo reale è più sopportabile.
Sarebbe un errore pensare che il mondo irreale caratteristico de l’Iguana, Il
Cardillo ed Alonso, è un completo rifugio, un’evasione nel sogno e nella fantasia da
parte della Ortese; è bensì una reazione ed un’alternativa al mondo reale.
La realtà è per lei un meccanismo delle cose che sorgono nel tempo e dal
tempo vengono distrutte. I suoi sentimenti nei confronti della realtà sono l’indignazione, l’insofferenza e l’intolleranza, alle quali ella risponde con il bisogno di
fuggire e nascondersi in un altrove favoloso e fantastico, fatto di sogni, visioni ed
incredulità, pur mantenendo sempre vivo il ricordo doloroso di ciò che è reale.
Quello che oggi è considerato il capolavoro di Paola Masino è Nascita e morte della massaia, romanzo tra il fantastico, il surreale, il fiabesco e l’onirico, ma con
chiare intenzioni polemiche.
In esso l’autrice si scaglia contro il ruolo che la famiglia e la società attribuisce alla donna e contro il ruolo della donna angelo del focolare che dall’infanzia
fino alla maturità segue la vita della massaia, figura tipica della condizione femminile, ossessionata dalla cura della casa.
La storia è quella di una ragazzina che assorta nelle sue fantasie, si estranea
dalla famiglia e trascorre l’infanzia all’interno di un baule che per lei è letto, armadio, credenza, tavola, stanza, tutto. All’età di diciotto anni decide di uscire dal baule
e conscia della disfatta morale alla quale va incontro si avvia verso la vita normale ed
ipocrita di tutte le fanciulle della sua età. Un suo vecchio zio le farà da marito e
anche se rifiuterà di diventare madre, metterà in pratica tutti gli insegnamenti ricevuti da sua madre che l’aveva educata a svolgere il ruolo di moglie sottomessa e di
brava donna di casa, fino al punto di leccare i pavimenti per assicurarsi che siano
davvero puliti.
50
Lucia Stanziano
Il libro si conclude con la morte della massaia, che sarà vista uscire dalla cappella del cimitero per lucidare borchie e maniglie, perché anche la tomba deve essere ben pulita.
Avrà problemi con la censura e sgradito al regime fascista sarà pubblicato a
puntate sulla rivista «Il Tempo» e poi successivamente in volume.
Amore, vita e morte, maternità, la tragedia dell’uomo moderno sono temi
centrali nell’opera di Paola Masino; amore e morte sono temi importanti anche
nella Ortese, alla quale pure sono cari i motivi del viaggio, del mare e della casa.
La morte e la resurrezione o se vogliamo il ritorno dei morti sulla terra è un
tema tipico della letteratura fantastica e lo troviamo tanto in Nascita e morte della
massaia quanto in testi della Ortese come Il Cardillo addolorato, l’Iguana e Alonso
e i visionari.
Nel Cardillo ad esempio, Ingmar, uno dei protagonisti della storia, si reca nel
cimitero per visitare le tombe dei defunti della famiglia Civile ed è a questo punto
della narrazione che ricompaiono il guantaio don Mariano Civile e la sua defunta
moglie donna Brigitta.
In Nascita e morte della massaia si mescolano vari tipi di scrittura: metafisica
e surrealista, onirica, fiabesca e realista e la stessa vena surreale domina anche nel
primo romanzo di Anna Maria Ortese, l’Iguana, in cui attraverso l’ironia, la fiaba,
l’allegoria e con apporti attinti al racconto gotico e alla rievocazione onirica, la scrittrice riflette sui rapporti tra classi e sessi e sul concetto di bene e male.
I temi trattati e la combinazione dei diversi tipi di scrittura sono i due principali motivi che determinano il fascino e l’interesse per romanzi come Nascita e
morte della massaia e l’Iguana.
Bisogna riconoscere a Paola Masino il coraggio per aver affrontato una
tematica problematica e delicata come il ruolo cui la donna è destinata dalla società
e dalla famiglia e per aver difeso la donna che non è soltanto brava moglie, brava
madre e perfetta casalinga.
Questa tematica la ritroviamo ancora in Le tre Marie, il dramma di tre donne, la madre, la sorella e la moglie di un uomo, che non appare mai in scena eppure
le tiene soggiogate.
La Masino e la Ortese condividono un’unica idea a proposito del sesso e del
ruolo, ovvero ritengono che non sia giusto far corrispondere il ruolo al sesso e che
anche le donne debbano avere le stesse opportunità degli uomini nel momento in
cui decidono ad esempio di scrivere per professione. Quest’idea è espressa da Anna
Maria Ortese attraverso la figura di Bettina, protagonista del suo romanzo Poveri e
semplici ed in particolar modo attraverso il racconto dei suoi viaggi, della sua carriera letteraria, dei successi e degli insuccessi.
Molte altre scrittrici, non solo italiane ma anche straniere come la londinese
Virginia Woolf, hanno affermato e difeso, con i loro scritti, l’androginia dell’arte e il
fatto che per creare una buona opera d’arte, degna di essere chiamata tale, non conta assolutamente appartenere all’uno o all’altro sesso.
Anna Maria Ortese e Paola Masino sono due importanti rappresentanti della
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Anna Maria Otese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia
letteratura novecentesca e ad esse va riconosciuto il coraggio per aver rivendicato la
libertà e la capacità di affermarsi come donne e come scrittrici: due grandi donne,
due grandi scrittrici che non bisogna assolutamente dimenticare, anzi rivalutare,
perché accanto a coloro che sono considerati i grandi della letteratura italiana c’è
una fitta schiera di voci minori, ma certamente non meno importanti e tra queste
voci ci sono appunto quella di Anna Maria Ortese e Paola Masino.
Concludo questa mia riflessione su Anna Maria Ortese e Paola Masino rifacendomi al titolo Anna Maria Ortese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia e
spiegando che dopo uno studio puntiglioso della loro vita, delle loro opere, delle
loro idee e ambizioni, senza tralasciare le sofferenze vissute e considerando la determinazione e la voglia d’indipendenza che fin dall’inizio le ha guidate ed accompagnate, ho ritenuto appropriato l’appellativo “d’avanguardia” perché tali sono due
donne che come loro in quegli anni e in quel particolare clima culturale (esclusivamente maschile), storico e politico (non dimentichiamo la presenza del regime fascista) lottano, cercando di abbattere barriere e limiti, per affermarsi come donne e
come scrittrici.
Affermarsi come scrittrici significava affermarsi prima di tutto come donne
in una società basata sul loro silenzio e sulla loro sottomissione: Anna Maria Ortese
e Paola Masino hanno il merito di esserci riuscite.
52
Mariangela Tota
Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
di Mariangela Tota
“Quando faccio una cosa la faccio per bene ...”; questa è una nota espressione
di una persona molto conosciuta, per una cosa fatta molto bene: ovvero un romanzo Passaggio in ombra. Per chi non avesse ancora avuto occasione di leggerlo si
tratta della grande opera di Maria Teresa Di Lascia. Un romanzo bellissimo ricco di
tanti sentimenti come lo era la sua personalità, ma ricco anche di parole e di stile.
Una grande scrittrice, che faceva i conti solo con se stessa e non aveva bisogno del
riconoscimento degli altri, amava le persone e la vita all’estremo e questo è facilmente rilevabile attraverso i suoi anni di lavoro, dal 1988 al 1992; il riconoscimento
lo ebbe comunque, ma troppo tardi, dopo la sua morte, nel 1994.
Nacque il 3 Gennaio 1954 a Rocchetta Sant’Antonio, un piccolo paese in
provincia di Foggia, da Ida Ricciutelli, ostetrica originaria di Fiuminata, vicino
Macerata, e da Leonardo Di Lascia. Secondo i tre fratelli, ha sofferto molto della
relazione instabile dei genitori, che non si sono mai sposati. Particolarmente impegnata sul fronte dei diritti umani e civili all’interno del Partito Radicale, tanto da
fondare la Lega Internazionale “Nessuno tocchi Caino” per l’abolizione della pena
di morte nel mondo entro il 2000. Vinse il premio “Millelire”, in seguito anche il
premio “Strega”, dopo la pubblicazione di Passaggio in Ombra. Quest’ultimo non
rappresenta l’unica sua pubblicazione, ma ci fu Compleanno uno dei quattro racconti, La coda della lucertola, che allora non volle pubblicare, e fino all’anno prima
della sua morte si dedicò alla composizione di un altro romanzo Le relazioni sentimentali, di cui ci ha lasciato solo la prima stesura. La sua attività di scrittrice è legata
alla tematica del femminismo, dell’analisi critica della società, e da un’osservazione
attenta alla psicologia femminile e di quell’intreccio di indifferenza, egoismo e solidarietà, che regola i rapporti tra gli individui nelle città del mondo. Si spense in
Roma, città che l’aveva conosciuta attraverso il suo impegno politico, a soli quarant’anni colpita da un cancro che l’annientò in poche settimane. Maria Teresa Di
Lascia alla sua morte, dunque, ha svelato un segreto che pochi conoscevano: la scrittura, la sua scrittura ricca della sua ricchezza d’animo.
Nonostante le altre pubblicazioni, Passaggio in ombra rimane il suo capolavoro. In questo romanzo si dà grande spazio alla figura femminile, le donne sembrano artefici delle conseguenze che si verificano. La donna è rappresentata nel suo
coraggio e nelle sue debolezze, nella sua ingenuità e nella sua scaltrezza, ogni donna
ha un ruolo e ogni donna aiuta l’altra, così le vicende si incarnano in altrettante
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Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
figure femminili. Si crea dunque una netta separazione tra il genere femminile e
quello maschile molto evidente, in cui dimostra, nonostante le sconfitte, una superiorità assoluta del genere. Questa superiorità è facilmente rilevabile, soprattutto in
una parte del romanzo, quando Anita, Giuppina, e Chiara, tre personaggi di Passaggio in ombra, si scambiano un segreto, e decidono di non doverne parlare con
nessuno. Un segreto mantenuto per molto tempo, anche da parte della protagonista Chiara, seppur bambina, ma ritenuta tanto grande da essere capace, di poter
essere a conoscenza di un segreto. Questa è una capacità forse surreale, per una
bambina, in quanto la loro natura è così delicata e ingenua, da non essere tanto abili
a mantenere segreti tanto importanti, per molto tempo, senza non doverne mai
parlare, ma allo stesso tempo, ci appare come un una regola di educazione imposta
dalla mamma e dalla zia Giuppina, alla quale la piccola Chiara debba ubbidire. Attraverso questo momento del romanzo, l’autrice sembra voler comunicare ancora
una volta la superiorità della donna, data dalla capacità di mantenere il segreto: il
segreto dell’anima. Difatti, l’animo umano femminile è paragonato al fondo di un
oceano, di cui difficilmente si tocca il fondo. La capacità di mantenere un segreto,
per le donne nel romanzo, ancora una volta, sottolinea la superiorità delle donne
rispetto agli uomini, come per esempio il personaggio, Francesco D’Auria, è presentato come un uomo superficiale e povero d’animo: Un personaggio odioso e
insopporatabile, un certo Francesco D’Auria [ ...].1
Appartiene a Chiara la voce narrante: è lei a dipanare i fili della storia complessa e meravigliosa. Così protagonista femminile assoluta è Chiara, prima una
bambina di appena tre anni, poi una donna, a raccontarci attraverso il ricordo dell’autrice, la storia di una vita. Pertanto la narratrice è Chiara, ma in due momenti
diversi: l’infanzia e la maturità. Questi due momenti, ci impongono la divisione del
romanzo in due altri grandi romanzi. Il primo, in cui Chiara è una bambina, e racconta dal suo punto di vista, meglio dire attraverso gli occhi di un bambino, (questa
massima è tratta dal grande capolavoro di Saint- Exupéry Le Petit Prince), i rapporti che ha con suo padre Francesco, ritrovato dopo tre anni dalla sua nascita, il rapporto con sua madre Anita, le prime ingiustizie che la vita le propone, fino a combattere con la speranza che un giorno i due genitori possano sposarsi e quindi vivere in una felice e normale famiglia. Sperare risulterà invano e da parte sua, ma soprattutto da parte di sua madre, dopo il ritorno del suo amore giovanile, ella,
nonostante il dolore che Francesco in gioventù le procurò, ricomincia ad amarlo,
credendo come una giovane fanciulla ingenua nel loro sentimento, basato su incontri avuti per via della figlia Chiara, incontri di momenti deboli e non cercati, soprattutto da Francesco D’Auria. Nel secondo romanzo, invece, troviamo Chiara, sempre narratrice e protagonista, ma quasi donna, alle prese con nuove decisioni e sentimenti tipici della sua età, quella di una giovane fanciulla, che s’innamora del cugino bastardo, Saverio, una relazione difficile per via del rapporto di parentela che li
1
Giuseppe DE MATTEIS, Istanze della narrativa italiana contemporanea, Foggia, Leone Editrice, 2002,
p. 75.
54
Mariangela Tota
lega, come lo definisce l’autrice stessa, il rapporto di parentela più lontano, ma allo
stesso tempo così vicino da non poter permettere la loro unione. Il romanzo risulta
essere un vero intreccio di personaggi e di temi e di sentimenti, grande è la capacità
della scrittrice nel rielaborare flash-back e ricordi della sua vita, riproducendoli
come racconti immediati della bambina, così sembra proprio che essa racconti e ci
sia qualcuno che scriva la storia al suo posto. Esattamente quello che avviene nel
romanzo, quando sua madre Anita decide di scrivere al padre di Chiara, Francesco,
in prigione. Accade proprio che la donna scrive al posto della bambina, perché
incapace ancora di farlo. La descrizione dei ricordi della vita dell’autrice attraverso
il personaggio di Chiara ci permette di ritenere e considerare questo romanzo autobiografico, rilevandoci le sensazioni di una bambina che è divenuta ormai donna, i
suoi pensieri oramai pensati e ragionati e vissuti in modo diversi; da bambina e da
donna.
In un certo senso, la Di Lascia non rinuncia mai a narrare e a narrarsi, proprio perché non rinuncia mai a credere in quella splendida cosa “inutile” che è la
scrittura, e la investe di sé e delle sue emozioni più segrete. Un grande momento di
riscoperta del passato. La storia di una famiglia allegra, litigiosa, caotica e del suo
linguaggio. Un romanzo-diario, un best-seller, per la imprevedibile ricchezza della
quotidianità che trasmette i gesti e i momenti insignificanti, ma capaci di rivelare
tutto il mondo.
Tutta la storia è ambientata in un piccolo paese del Sud, Rocchetta Sant’Antonio, un paesino della Capitanata, dove vi è ancora grande difficoltà nel rispetto
dei rapporti umani, così pettegolezzi, dicerie, calunnie, maldicenze, sono cause di
eventi, che diventano eventi dovuti. Un paese di provincia del Sud, in cui ci si riscontra davanti a tante difficoltà, non solo di carattere economico, ma innanzi tutto
di una condizione sociale, dove si sogna la vita della città, ma si ha anche molta
paura della ricchezza e della grandezza che la città stessa offre. Così i tentativi di
migliorare il paese e di avvicinarlo alla vita della città risultano fallimentari (si veda
l’episodio della truffa avvenuta al consorzio agrario).
I messaggi e i temi che la scrittrice affronta sono davvero tanti e in modo assai
sottile riesce a trasmetterli. La noia, la solitudine, la partenza, l’amore in tutte le sue
sfaccettature, l’onestà, la condizione femminile, l’ipocrisia, l’illusione, la religione,
l’istruzione, la decadenza dei valori morali e tanti altri che si generano intrecciandosi tra loro.Tutti questi temi sono tipici di numerose scrittrici del secolo; bello e
interessante è capire in che modo esse affrontano gli stessi problemi e quindi
tematiche in modo originale e singolare. Elsa Morante è una di esse, sicuramente
più conosciuta; è considerata una delle madri della Di Lascia. Anch’essa affronta il
tema della famiglia2 in Menzogna e Sortilegio: si narra la storia di una famiglia, in
prima persona, di una giovane donna. Dall’inizio alla fine il romanzo è governato
2
Antonella IACOBBE, La condizione femminile nella società e nella letteratura italiana dal ‘600 al ‘900,
dispensa per fine didattico, Università degli Studi “G. D’Annunzio”, Pescara, Dipartimento degli Studi Comparati, 2002.
55
Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
dal dubbio, e quindi protagonista principale è la menzogna. Da qui, la scelta della
narratrice, di scrivere e raccontare la storia della propria famiglia come atto
liberatorio, lo scrivere la libera dalla menzogna, solo attraverso la scrittura la narratrice si sente libera dai mostri che popolano la sua realtà. Se solo ci fermassimo qui,
a queste parole, le due autrici ci sembrerebbero uguali, ma ciò che affascina di ognuna
è la loro personale analisi, visione del mondo e di come affrontano gli stessi temi
con grande originalità. Un’altra grande scrittrice a cui la Di Lascia fa riferimento è
Lalla Romano. Quest’ultima utilizza la scrittura “per entrare nelle vite degli altri”,
anch’essa studia il quotidiano, il privato, sempre in relazione tra di loro, un continuo parallelo confronto, con il mondo. Ciò che accomuna le tre scrittrici, non sono
solo i temi che analizzano e affrontano, ma è la sensibilità femminile che caratterizza l’intero secolo. Dunque, una riscoperta di una nuova cultura letteraria aperta al
popolo, una nuova passione legata alla riscoperta della propria storia, e propria
identità, trasmettendo attraverso la scrittura la voce di donna, a non rassegnarsi mai
di lottare per i propri ideali.
Tutta la storia di Passaggio in Ombra, come già detto, è ambientata in Puglia,
in un piccolo paese: Rocchetta Sant’Antonio. La storia si svolge in questo piccolo e
poco noto paesino. Perché l’autrice ha scelto proprio il suo paese nativo come luogo dei suoi racconti di vita? Ritengo questa scelta, una sorta di regionalismo. Un
regionalismo puro e vero, e per il luogo e la fedeltà di quest’ultimo e per l’utilizzo
dei costumi e modi di pensare tipici del posto in cui è difficile ritrovarsi, ma che
senza dubbio ha saputo riprodurli esattamente. La parola regionalismo ci fa pensare a un grande autore della letteratura inglese, Thomas Hardy. Anch’egli colloca
tutte le sue storie in una regione ben precisa che è il Wessex. Egli colloca, dunque le
sue storie e ne descrive il paesaggio tanto da creare un rapporto di movimento tra i
suoi personaggi e il luogo. In Passaggio in ombra, invece, il paesaggio, la natura,
non sono descritti, noi non conosciamo i luoghi se non attraverso i movimenti o
sentimenti che i personaggi vivono. Non conosciamo il tipo di natura che si trova lì,
se non attraverso l’episodio del consorzio agrario, esattamente quando Francesco
D’Auria, responsabile del consorzio, decide di allestire una fiera di grano, in cui
verrà poi scelto un vincitore. Solo in questo momento, siamo giunti a conoscenza,
che lì, in quel di Rocchetta si coltiva grano, ma nonostante ciò, non vi è nessuna
descrizione della natura circostante, del paesaggio, di come le abitazioni dei singoli
personaggi siano collegate tra loro. Solo rari avverbi ci permettono di quantificare
ogni tanto la distanza che li separa. Pertanto, l’assenza di descrizione del paesaggio,
non ci permette di immaginare durante la lettura e quindi ci conduce ad un’attenzione maggiore degli avvenimenti. Tutta questa inesattezza e imprecisione nella
descrizione, allo stesso tempo, ci trasmette imprecisione di ricordi di un passato
difficile. In questo modo, il paesaggio risulta immutabile, l’unico movimento che si
avverte è dato dai viaggi che i protagonisti fanno, per scappare dalla triste e cupa e
monotona vita del paese. Tutto è fermo, come la brughiera di Hardy, e il tempo non
è capace di cambiare nulla, neanche la natura. In tutti e due gli scrittori, evidente è la
differenza tra la città e il paese di provincia; questa differenza rappresenta il rappor56
Mariangela Tota
to tra passato e futuro, tra il progresso e una condizione sociale arretrata. Risulta
fondamentale la dimensione del tempo che comporta la contaminazione di presente e passato e riflette il fluire interrotto. Nel romanzo della Di Lascia si avverte un
forte pressione, una voglia di andar via da quel luogo chiuso in se stesso e ottuso.
Anche in Hardy c’è la voglia di evadere, questa voglia di andar via la si può rilevare
nel romanzo Il ritorno del nativo, oppure in alcuni brani di Wessex Tales. Proprio
nel primo, nella figura del protagonista, Clym Yeobright, il progetto è quello di
portare progresso e istruzione tra gli abitanti della brughiera di Egdon, nel momento in cui egli decide di ritornare al suo paese nativo. Tutto il progetto è seguito dalla
contraddizione dello stesso protagonista, che ritorna al suo paese natale, dove la
realtà è immobile e resterà immutata per secoli. Tutto alla stesso modo è vissuto in
Passaggio in ombra, dove per tre generazioni le vite di quegli uomini sono intrecciate e continuano ad intrecciarsi, e alla volontà di fuggire e andarsene via, si contrappone la forza centripeta di restare, di ritornare e di vivere quella realtà, così
tanto ottusa e fastidiosa, fino a dover fare i conti con i parametri e i modi di pensare
e del Sud e di quel tempo, risultando trattenuti da quella realtà provinciale. In questo, differenti i due autori, Hardy, in un certo senso non ha dovuto rappresentare o
descrivere le difficoltà appartenenti ad un’epoca diversa o quasi; essendo un
vittoriano ha essenzialmente rappresentato al meglio i parametri che quell’epoca
aveva, facendo risultare la sua narrativa intrisa di dubbi, inquietudini e umori contrastanti. Dunque, il dubbio caratterizza il periodo vittoriano, invadendo silenziosamente la vita dell’uomo, in modo diverso. Anche la vita dei personaggi della Di
Lascia è un dubbio. I suoi personaggi si costruiscono da soli, secondo il cosiddetto
caso fortuito, che è della vita. Raramente e difficilmente cambiano o cercano di
cambiare o migliorare il loro destino, ma lo abbracciano pienamente in tutte le sue
forme in cui esso si presenta, dimostrando di non voler crescere e sembrando a
volta ciechi di fronte a situazioni evidenti. Da qui, il grido dell’autrice a non abbandonarsi passivamente, ma a combattere e raggiungere i propri obiettivi. Tutto, però,
non fa altro che provocare nel lettore sentimenti alternati, si passa da sentimenti
tristi, di compassione, a quelli di sorpresa e di felicità tutti vissuti, anche dalla protagonista bambina Chiara, senza nessun velo di protezione. Se il romanzo risulta
essere un’ombra, un dubbio, un’incertezza, per Chiara i sentimenti e le emozioni
che prova nel corso della sua vita non sono mai protetti dall’ombra che protegge il
lettore, tutto è esplicito, sin dalla giovane età. A questo punto il romanzo è suddiviso ancora una volta in altre due sottoparti: il dubbio e la verità. E il dubbio e la
verità sono intrecciati tra loro in modo così naturale, da creare sentimenti alternati
per il lettore, poiché evidente è la differenza di come Chiara descrive la sua vita
secondo i ricordi e quindi secondo la sua sensibilità, e di come il lettore sta a quello
che racconta, conoscendo contemporaneamente lo sfondo che regola la storia. Questa
alternanza di sentimenti che la protagonista vive e ci comunica crea nel lettore una
grande agitazione e allo stesso tempo grazie allo stile della scrittura fa rivivere o
meglio vivere i sentimenti al lettore in modo naturale e diretto.
In questo modo sembra non voler tutelare l’ingenuità e la semplicità di una
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Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
bambina tanto da trasmettere quelle che sono impressioni, considerazioni, soluzioni di una donna adulta.
Di conseguenza il romanzo sembra autobiografico, perché la protagonista
Chiara ricorda e descrive ciò che avviene, pertanto il fittizio che c’è, non viene
percepito direttamente dal lettore. L’intento dell’autrice non è quello di scandalizzare né tanto meno di scaricare tardivamente la coscienza, ma parlando della
concretezza dei sentimenti ci dà il vero nome delle cose. La storia inizia con la
descrizione della perdita di ciascun membro della famiglia, così il punto di partenza risulta la solitudine della protagonista, il silenzio in cui Chiara si trova a
vivere, e allo stesso modo, il romanzo termina con un sentimento di solitudine,
con grande silenzio. Una protagonista avvolta nel silenzio, dall’inizio alla fine, e
difatti inizio e fine vivono uno nell’altro seguiti poi da un’espressione: “forse”,
un dubbio, una incertezza del futuro un completo dubbio della vita che alla fine
la scrittrice dichiara in modo esplicito, ma facilmente comprensibile attraverso la
lettura del romanzo.
[….] Forse riceverò ancora qualche lettera da Titina rivedrò la mia balia Rosina;
forse incontrerò mio padre e ci arrenderemo a un sorriso.
Forse, mi dico, forse.3
Sì, il dubbio accompagna la protagonista e gli altri personaggi, ed è sempre
presente, dall’incertezza di poter conoscere un giorno suo padre, a quella della madre
il giorno del suo matrimonio, fino alla fine in cui lei dichiara se un giorno mai
rivedrà suo padre e forse ad un sorriso si arrenderanno, ma sempre forse. Se la vita
sia attraversata dal dubbio, qui il romanzo sembra dimostrare proprio questo, sembra che i personaggi non prevedano nessun momento, nessun’altra azione di alcuno, ma si fermano all’azione del presente; in effetti, forse è una coincidenza, ma
anche i tempi utilizzati dall’autrice sono il passato e il presente; raramente utilizza il
futuro se non per cose ovvie o per sogni, il sogno: unica via d’uscita da parte dell’uomo per sfuggire ad una realtà troppo avversa e difficile da governare.
In questo modo, il tempo letteralmente e grammaticalmente parlando diventa anch’esso un personaggio del romanzo, responsabile dello svilupparsi delle azioni, ma anche necessario e indispensabile per i personaggi, è una speranza che è contemporaneamente dubbio e incertezza.
Ai personaggi presenti corrispondono delle tematiche ben precise, così nel
racconto ne individuo alcune:
Disgregazione familiare: Chiara, una bambina di appena tre anni, si trova
ad affrontare la vita solo in compagnia di sua madre; più tardi scoprirà la presenza
saltuaria, e poco significativa del padre. Grande punto di riferimento per quest’ultima, è rappresentato dalla sua balia Rosina e dalla sua famiglia unita, che spinge e
3
Maria Teresa DI LASCIA, Passaggio in ombra, Torino, Feltrinelli, 1995.
58
Mariangela Tota
invoglia la protagonista alla speranza di avere un giorno una famiglia unita come la
sua.
Amore infranto, amore sofferto, amore falso, amore giovanile: l’amore è
rappresentato in tutte le sue sfaccettature, quello di Anita e Francesco, il loro primo
amore giovanile basato solamente sulla passione che investe i giovani; più tardi,
anzi dopo molti anni, l’amore tra i due ritorna, ma subito è infranto, così si avverte
la sofferenza di Anita, invano la speranza di poterlo riavere, e la fuga disperata di
Francesco, e la sua ricerca di altre donne, qualunque esse siano; importante è la
soddisfazione sessuale, non più un amore quindi, ma una relazione basata sul bisogno fisico. Poi c’è l’amore falso, ricco di bugie, che devono proteggere un sentimento passato, ma vissuto intensamente; si tratta dell’amore vissuto da Giuppina,
che ha sposato un altro uomo, non quello con cui ha avuto una relazione di sentimento vero, da cui è nato un figlio, che poi fu costretta ad abbandonare. L’amore
giovanile, i primi palpiti di Chiara adolescente, dimostra l’ingenuità e la felicità di
una giovane alle prese dell’innamoramento, basato su gesti di follia, pur di incontrarsi con l’amato.
La solitudine: condizione che molti personaggi, prima o poi, si trovano ad
affrontare; è evidente sia all’inizio che alla fine, che Chiara non fa altro che conviverci, sembra che essa sia la sua anima, è sempre con lei. Anita, anche lei, una donna
sola, costretta dal destino, una figlia in solitudine.
L’amicizia: è rappresentata pienamente da don Vittorio, che spesso supplicava Anita e la sua bambina, a trascorrere qualche giorno di vacanza presso la sua
famiglia.
Ricerca del lavoro: problema attualissimo, qui è affrontato da Francesco;
notevoli sono le strategie per ottenere un lavoro, infatti alla fine in quella società in
cui è difficile impiantare e portare una novità, si realizzerà, ma il tutto è connesso
con un altro grande tema, il seguente.
La giustizia: l’episodio del consorzio agrario dimostrerà l’ottusità della popolazione del paesino, che condurrà Francesco in prigione.
Per concludere, questo romanzo ci comunica quelle che sono le abitudini, le
emozioni, le scelte, le decisioni, e i sentimenti, in poche parole la vita di ogni giorno, attraverso il racconto dei ricordi di Chiara.
Non bisogna considerarlo un romanzo facilmente componibile da chiunque,
ma la sua grandezza sta proprio nella sua difficoltà di composizione data dall’alternanza dei momenti della vita di Chiara, la sua vita di bambina, la sua vita di fanciulla e di donna, che vanno ad intrecciarsi con la crescita degli altri personaggi, fino a
raggiungere il momento finale della vita terrena, la morte. Ecco che ancora una
volta la necessità del tempo che oltre ad accompagnare Chiara nei ricordi e i personaggi stessi, accompagna noi fino alla fine della lettura.
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Ricordi di una donna: Maria Teresa Di Lascia
BIBLIOGRAFIA
MARIA TERESA DI LASCIA, Passaggio in ombra, Torino, Feltrinelli, 1995.
GIUSEPPE DE MATTEIS, Istanze della narrativa italiana contemporanea, Foggia, Leone Editrice, 2002,
ANTONELLA IACOBBE, La condizione femminile nella società e nella letteratura italiana dal ‘600 al ‘900, dispensa per uso didattico, Pescara, Università degli Studi
“G. D’Annunzio”, 2002.
J. E. HAVEL, La condizione della donna, Editori Riuniti, 1962.
TERESA LABRIOLA, I problemi sociali della donna, Bologna, Zanichelli, 1918.
60
Saggi
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Lucia Lopriore
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria:
i duchi di Sangro, storia della famiglia dalle origini ad oggi 1
di Lucia Lopriore
1. Introduzione
A partire dall’anno Mille cominciarono a giungere nelle province meridionali d’Italia quei Normanni provenienti dalla Terra Santa i quali, con l’aiuto di forze
locali, sconfissero i Bizantini ed i Longobardi, unendo le varie province sotto il
loro dominio e formandone un regno.
1
Il presente studio, scaturito da un precedente saggio pubblicato in questa stessa rivista nel 2001, nasce dal
bisogno di approfondire la storia della famiglia de’ Sangro dalle origini fino ai nostri giorni. Tale esigenza è
sorta quando ho scoperto che la sua presenza era legata, sia pure per un breve periodo, al paese di Orta di
Capitanata, attuale Orta Nova, mia città natale. Durante la raccolta dei dati nel corso della precedente ricerca,
mi sono resa conto che la letteratura specializzata forniva notizie solo sui rami principali di questa nobile
casata: in particolare si è parlato dei duchi di Vietri, dei duchi di Torremaggiore e principi di San Severo, dei
principi di Fondi, solo per citarne alcuni. Gli storici più accreditati non hanno mai esaminato attentamente la
linea dei duchi di Sangro, essendo quest’ultima appartenente alla discendenza cadetta dei marchesi di San
Lucido. Anche le gesta dei suoi personaggi sono rimaste quasi del tutto sconosciute ai posteri. L’assenza di
notizie è dovuta al fatto che in passato negli Stati europei la Legge era basata sull’istituto del Maggiorasco,
pertanto, difficilmente i grandi genealogisti si proponevano di studiare i rami ultrogeniti e, questi ultimi erano
destinati ad un ruolo marginale. Da qui il motivo di un approfondimento volto a soddisfare non solo le mie
curiosità ma, soprattutto, a fornire notizie preziose sia agli studiosi sia ai lettori desiderosi di conoscere questo ramo della famiglia. Una ricerca che ha richiesto un grande impegno per le innumerevoli difficoltà incontrate durante la realizzazione del lavoro. È stato necessario, a tal fine, analizzare le fonti documentarie custodite negli Archivi di varie città; numerosi, quindi, sono stati gli spostamenti ed i contatti avuti con le seguenti
istituzioni: ad Ascoli Satriano, l’Archivio Storico della Curia Vescovile; a Napoli, l’Archivio di Stato, il Museo Duca di Martina, la Biblioteca Nazionale, il Museo Filangieri, (peraltro attualmente chiuso al pubblico
per restauri), la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Napoletano; a Roma, l’Archivio Centrale dello
Stato; ed infine a Martina Franca la Biblioteca Comunale. Qui, grazie alla donazione dell’archivio privato
fatta dai nobili Notarbartolo di Villarosa e Monticelli Obizzi, ultimi discendenti della linea femminile de’
Sangro, ho potuto ricostruire parte delle vicende relative alla famiglia. Dopo anni di consultazione documentaria, di contatti telefonici con i funzionari degli Istituti summenzionati e di confronti con altri studiosi, dalla
ricerca sono emerse notizie interessanti su questa linea della casata, che integrano lo studio precedente riguardante la donazione di alcuni arredi sacri effettuata dal duca de’ Sangro alla chiesa di Santa Maria delle Grazie
di Orta. Tale lavoro offre ai lettori la possibilità, attraverso un’ampia trattazione sull’argomento, di poter
conoscere aspetti inediti della storia patria. Le notizie relative all’acquisto del feudo di Orta evidenziano
l’intreccio storico su uno spaccato di vita che congiunge microstoria e macrostoria. Il lavoro è completato, in
Appendice, da un commento storico-artistico sugli affreschi rinvenuti nel cinquecentesco palazzo napoletano
dei duchi de’ Sangro, a firma dell’amica prof.ssa Colomba Masotti, storica dell’Arte, alla quale va il mio particolare ringraziamento; da alcune schede bio-bibliografiche sui pittori di casa de’ Sangro attivi a Napoli nel periodo
interessato allo studio, nonché dalla ricostruzione delle tavole genealogiche della famiglia, attraverso alcuni
prospetti grafici realizzati a cura di chi scrive. Ringrazio per la disponibilità e per le notizie fornite sugli ultimi
63
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
Ciò fece sì che alcune famiglie venissero in possesso di feudi, ricevendo onori
e glorie che tramandarono ai loro discendenti.
A Napoli, la nuova politica di scambi e di relazioni ebbe ripercussioni anche
nel campo culturale, letterario ed artistico. La città andò perdendo quel volto orientale bizantino ed arabo favorito dalla dominazione dell’Impero d’Oriente; dal Ducato
autonomo, conservato durante il periodo normanno-svevo, acquisì un aspetto occidentale ed europeo.
Per quanto attiene al sistema amministrativo, si deve agli Angioini il recupero
dell’organizzazione in Seggi o Sedili. Tale organismo fu creato nel 1268 in continuità con le regiones normanne ed i tocchi svevi, concedendo in tal modo all’aristocrazia locale questo privilegio.
I Seggi o Sedili erano sinonimi di Piazza perché gli edifici che li ospitavano
sorgevano negli slarghi delle strade pubbliche. Per la loro architettura vennero anche denominati Teatro, Loggia o Portico. Gli edifici che ospitavano i seggi divennero, nel corso dei secoli, sontuosi ed adorni del proprio stemma e di quello appartenente alle famiglie che li componevano ed erano abbelliti continuamente da affreschi e sculture. Erano costruiti a pianta quadrilatera con arcate porticate ed ampie
gradinate prospicienti, con un solo lato chiuso dove era una sala per le riunioni
degli iscritti.2 Questi ultimi erano chiamati Cavalieri di Seggio.3 Trattavano affari
pubblici inerenti il seggio che era un comprensorio territoriale ovvero un quartiere.
Le votazioni per deliberare si svolgevano al termine di un libero dibattito.
Il riconoscimento ufficiale delle funzioni dei seggi si deve a Manfredi di Svevia,
il quale stabilì che un sessantesimo dei diritti della Dogana di terra e di mare della
città di Napoli andasse ripartito tra i nobili patrizi napoletani iscritti ai seggi, per
decoro della vita che si svolgeva nel territorio di ciascun sedile.
Prima della riforma angioina, l’istituto dei seggi era composto da sedili maggiori che, in un primo tempo, furono i quartieri più antichi che dividevano in quat-
discendenti della famiglia, la signora Carla Notarbartolo di Villarosa. Ringrazio inoltre, la Curia Vescovile di
Ascoli Satriano, nella persona dell’Archivista don Antonio Silba; il dott. Antonio Ventura, responsabile dei
Fondi Speciali della Biblioteca Prov.le di Foggia; l’Archivio di Stato di Foggia, la direttrice dott.ssa Maria
Nardella, i funzionari ed in particolare la dott.ssa Giorgia D’Ascoli e tutto il personale; le dott.sse Mottola e
De Simine dell’Archivio di Stato di Napoli; la dott.ssa Giovanna Bevar della Biblioteca Nazionale di Napoli;
la direzione della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Napoletano, i funzionari ed il personale; il
dott. Gian Paolo Leonetti di Santo Janni, direttore del Museo Civico “Gaetano Filangieri principe di Satriano”
di Napoli ed il personale del museo. Per l’accesso agli appartamenti di palazzo de’ Sangro a Napoli ringrazio
il notaio dott. Giuseppe di Transo ed i suoi collaboratori, il prof. ing. Valerio Mangoni ed il sig. Ciro Zaccaro.
Un sincero ringraziamento va agli amici Gennaro Arbore, Nazario Barone, Gaetano Cristino e Teresa Maria
Rauzino per la collaborazione accordata. Ringrazio ancora l’amico Davide Shamà, direttore del sito Web
www.sardimpex.com al quale devo l’esito felice delle mie ricerche sulle origini della famiglia de’ Sangro e
Frangipane della Tolfa. Alla sig.ra Pina Basile, funzionaria della Biblioteca Comunale di Martina Franca,
rivolgo un particolare ringraziamento per la disponibilità e la collaborazione accordata, nonché per il validissimo contributo dato a questo studio.
2
Alfonso GAMBARDELLA, Il centro antico, in AA.VV., I beni culturali per il futuro di Napoli, Napoli, Electa,
1990, pp. 22 e 23.
3
Le loro consorti erano denominate Dame di Piazza.
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Lucia Lopriore
tro parti la città: Capuana, Forcella, Montagna e Nilo o Nido. A questi si aggiunsero quelli di Porto e Portanova.
I seggi minori prendevano il nome da una nobile famiglia che in quel territorio aveva le case, oppure da una chiesa vicina. In totale a Napoli i seggi, tra maggiori
e minori, erano ventinove.4
La riforma angioina iniziata da re Roberto e portata avanti dalla regina Giovanna ridusse notevolmente gli antichi privilegi dei seggi napoletani. Fu ridotto al
minimo il potere amministrativo ed annientato quello politico. Furono soppressi i
seggi minori e le famiglie ad essi appartenenti furono aggregate d’imperio al relativo seggio principale. Nel 1684 fu abolito l’antico seggio di Forcella e inglobato in
quello di Montagna. In seguito a tali provvedimenti, il numero dei seggi napoletani
fu ridotto a cinque, con l’aggiunta di quello del Popolo, con sede in via della Sellaria,
“addetto alla Porta di Mercato ed a quella della Marina”. Quest’ultimo, soppresso
da Alfonso d’Aragona, fu ripristinato da Carlo VIII.
Essi furono distinti nel seguente modo:
Capuana, presso la porta omonima che esso era tenuto a custodire;
Nido, deformazione della voce originaria Nilo, aveva sede presso la Porta di
Costantinopoli;
Forcella, dal luogo delle esecuzioni aveva per simbolo la lettera Y in campo
d’oro;
Montagna, nella via Capuana ne custodiva la porta;
Porto, trasferito nella prima metà del Settecento dalla strada omonima ad una
sede più importante, presso la chiesa dell’Ospedaletto, proteggeva la porta di Chiaia;
Portanova, detto anche seggio di Porta di Mare, fu ricostruito per la seconda
volta nel Settecento su disegno del Lucchesi;
Gli “eletti” dei sedili nel proprio seno, uno per ogni seggio e due per quello
di Montagna, formavano insieme a quello del Popolo la Magistratura del Tribunale
di San Lorenzo, che provvedeva all’amministrazione della città attraverso le “deputazioni” paragonabili ad assessorati ante litteram.
La prima deputazione, detta della pecunia, riscuoteva le gabelle ed amministrava il patrimonio della seconda; la terza era addetta alla difesa esterna della
città ed all’adunanza di una milizia di volontari in caso di pericolo. La quarta
provvedeva alla difesa interna, all’approvvigionamento idrico ed al mattonato,
ossia alla manutenzione delle strade e dei fabbricati; la quinta deputazione, addetta alla tutela delle garanzie cittadine, aveva la facoltà di inviare, in caso di necessità, ambasciatori a trattare direttamente con il sovrano. La sesta provvedeva
ai rapporti con i monasteri; la settima era addetta a tutelare la città dall’instaurazione del Tribunale del Sant’Uffizio; l’ottava, della Zecca, controllava il conio
delle monete; la nona sovrintendeva all’Annona e all’approvvigionamento del-
4
Lucia LOPRIORE, I Pignatelli in Capitanata, in «la Capitanata», XLI (2003), 14 (ottobre), p. 163 e segg.
65
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
l’olio e del grano. All’eletto del seggio del Popolo spettava il controllo sui venditori del mercato alimentare.5
Durante la dominazione spagnola, di tale organizzazione civica il vicereame
minò alla base la forza fomentando rivalità non solo tra le classi, ma anche nel seno
della stessa nobiltà. Avocando a sé la facoltà di ascrivere ai seggi sia il nuovo ceto in
ascesa sia la nobiltà terriera, desiderosa di equipararsi a quella cittadina, Filippo II
favorì l’ostilità dei “nobili di seggio” verso i “regnicoli” e verso la nuova élite culturale. Ciò privò i seggi di quelle forze nuove più che mai necessarie contro la
disgregatrice politica vicereale.
La compattezza di interessi, sia in seno alla nobiltà che tra questa ed il popolo
nel fine comune del bene della città, arrecò all’azione delle due classi quel successo
che mancò, invece, quando le divise posizioni ideologiche ne contrapposero gli scopi;
esempi emblematici: la rivolta di Masaniello, alla quale mancò l’appoggio della nobiltà e le vicende della Repubblica Napoletana che trovarono il popolo estraneo e addirittura ostile. Su due piani diversi due utopie, quella del pescivendolo rivoluzionario
e quella di una rivolta, frutto immaturo per lungo tempo del declinante secolo dei
lumi, sorta sull’onda della rivoluzione francese.6 Certo è, che la venuta dei Borbone a
Napoli nel primo Settecento aveva dato inizio ad un lungo periodo di riforme legislative rivelatosi propizio per apportare cambiamenti radicali nel Regno.
Carlo III fu il primo re di un Regno indipendente dopo due secoli di vicereame.
Abolita per suo ordine la prammatica vicereale che, vietando le case palazziate extra moenia, aveva affollato fastosamente, ma disordinatamente il centro della città,
Napoli cominciò ad espandersi verso le colline, verso il borgo dei Vergini, con i
palazzi gentilizi dei de’Liguori e dei San Felice: a corona, il casino reale sarebbe
diventato, più tardi, la Reggia di Capodimonte.
Altre ed innumerevoli furono le opere fatte eseguire da Carlo III durante il
suo regno: la Reggia di Caserta, il Palazzo di Portici, il Forte del Granatello, la
fabbrica di porcellane a Capodimonte, la Casina di Persano, l’accademia ercolanense.
A Napoli: l’obelisco di San Domenico, il teatro San Carlo compito in 270 giorni,
l’obelisco della concezione del Gesù, solo per citarne alcune; Carlo III finanziò gli
scavi di Ercolano e Pompei.
Durante il suo regno, confermò alla città partenopea i suoi privilegi tanto che
nel 1746 ci fu un nuovo tentativo, questa volta da parte del cardinale Spinelli, di
instaurare il Tribunale dell’Inquisizione, ma il sovrano si oppose giurando nella
chiesa del Carmine che il Tribunale non avrebbe mai avuto la sua sede a Napoli.
Partito Carlo III per la Spagna, l’opera di cambiamento politico-istituzionale continuò durante il regno di Ferdinando IV che, fino alla maggiore età, era sotto
la reggenza del Tanucci, la cui politica ebbe grande influenza sulle decisioni del
nuovo sovrano.
5
6
Anna Maria SIENA CHIANESE, La Nobiltà Napoletana Oggi, Incontri, Napoli, Gallina, 1995, p. 14 e segg.
Ibid.
66
Lucia Lopriore
Tra le tante opere realizzate si ricordano: la costruzione del primo camposanto a Napoli, avvenuta nel 1762; il popolamento delle isole di Ustica nel 1760 e
Lampedusa nel 1765, che tolse asilo ai corsari barbareschi.
Re Ferdinando IV fece costruire tre teatri: quello dei Fiorentini, quello del
Fondo e quello di San Ferdinando; la fabbrica dei Granili, l’orto botanico a Palermo,
la villa inglese di Caserta, il cantiere di Castellammare, il piccolo porto di Napoli, il
palazzo Reale di Cardito e molte strade per collegare Napoli con le province. Riordinò la Marina e l’esercito, fondò l’Accademia per le armi dotte; incrementò l’economia
del Regno con la fondazione dei Siti Reali e della colonia serica di San Leucio.
Nel 1768 stabilì che fosse aperta una scuola gratuita in ogni Comune aperta
ad entrambi i sessi; con decreto dello stesso anno, prescrisse che in tutte le Case
religiose vi fossero le scuole gratuite per i fanciulli; in ogni provincia introdusse un
Collegio per educare la gioventù.
Dopo l’abolizione della casa gesuitica fu fondato un collegio per nobili
giovanetti, detto Ferdinandeo, ed un Conservatorio al Carminiello per l’istruzione
delle orfane povere.
Fu fondata, nel 1778, l’università di Cattaneo e, l’anno successivo, quella di
Palermo sotto il titolo di Accademia, provvista di un osservatorio per le lezioni di
anatomia, di un laboratorio di chimica ed un gabinetto di fisica. Furono davvero
tante le opere fatte eseguire da Ferdinando IV per migliorare le condizioni di vita
dei suoi sudditi.7
Sul calare del secolo settecentesco, la rivoluzione francese favorì l’espandersi
nel Regno delle idee giacobine che incisero notevolmente e negativamente sugli
ultimi sviluppi politici della monarchia borbonica. In seguito a tali avvenimenti il
sovrano fu costretto a rifugiarsi in Sicilia per ben due volte con la propria famiglia
aiutato dai nobili rimastigli fedeli.
Dopo il primo umiliante esilio, il 25 aprile 1800, ritornato al potere, in considerazione di quanto accaduto fino ad allora a Napoli, Ferdinando IV apportò una
serie di riforme volte a modificare soprattutto l’assetto amministrativo della città
partenopea: emanò a Palermo un editto con il quale sopprimeva gli antichi Sedili di
Napoli, privando così la nobiltà di ogni suo diritto.
Alla base di questa decisione c’era la constatazione che la monarchia si era
rivelata indegna della sua fiducia. I nobili dovevano costituire quella casta che avrebbe
dovuto dare lustro allo Stato, ma nel 1799 quegli stessi nobili che avevano goduto
della fiducia del sovrano si erano mostrati totalmente indifferenti alle sorti della
dinastia e, conseguentemente, non avevano dato prova della fedeltà richiesta, consentendo ad un gruppo di loro rappresentanti di attentare all’autorità sovrana.
Per tali motivi, furono aboliti i Sedili, insieme al corpo degli Eletti della città
di Napoli, e fu istituito il Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno
7
Michele DE SANGRO – Carlo BERNARI, Storia dei Borboni, Napoli, Lito Rama, 2001, (rist. anast. del 1884),
passim.
67
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
di Napoli, composto da sette membri con l’incarico di compilare il Libro della nobiltà napoletana nel quale le famiglie furono iscritte con l’assenso reale. Questo fu
il primo di una lunga serie di strutture analoghe dell’Ottocento, che avrebbero avuto il compito di mantenere inalterati i principi di onore, fedeltà e valore. L’editto del
1800 rivestì una grande importanza nella storia della nobiltà meridionale, come
anche la legge del 2 agosto 1806 che aboliva la feudalità, trasformando in modo
permanente quella casta dotata di privilegi e di propri organi di rappresentanza in
un insieme di persone e di famiglie, se pure con particolari qualità, ma prive di un
istituto atto a soddisfarne le esigenze e le aspirazioni.
Così i registri, nei quali il Supremo Tribunale Conservatore raccoglieva l’elenco dei nobili conservandone la memoria, divennero strumenti di un controllo sistematico esercitato da una monarchia in grado di valutare qualità e meriti, di riconoscere capacità e di dispensare cariche e servigi in modo più vessatorio rispetto al
passato.8 Vani risultarono i tentativi dei rappresentanti dei Seggi di far concedere la
grazia ai nobili repubblicani condannati a morte che, facendo propri gli ideali rivoluzionari, sacrificarono i loro privilegi pagando con la vita il progredire delle idee di
libertà. Tra i tanti si ricordano: Giuliano Colonna di Stigliano, Gennaro Serra di
Cassano, Ettore Carafa di Andria,9 Ferdinando e Mario Pignatelli di Strongoli,
Francesco Caracciolo, Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice.
Privata delle sue funzioni storiche, l’aristocrazia napoletana perse quel rapporto con la città, in nome del quale era riuscita tante volte ad evitarne il disastro.
Le sedi dei seggi furono incorporate al demanio e furono ridotte in case e botteghe.
I nobili, così, furono privati dei luoghi della loro identità culturale. Per evitare il disperdersi dell’anonimato, si poteva tentare una riedificazione all’incontrario
del censo perduto, mediante la trasmissione di quei valori: tradizioni/memorie/
religione, con i quali confermare la propria identità.
Nonostante questi cambiamenti, le grandi famiglie nobili rimaste fedeli al
sovrano, continuarono a distinguersi per le imprese compiute in nome di quello
status symbol che era stato da sempre loro riconosciuto.10 Tra quelle più importanti
ed antiche vi fu l’illustre famiglia de’ Sangro.
Secondo la stragrande maggioranza delle fonti storiografiche, essa traeva le
sue origini da Berengario, dal quale discese Bernardo Francesco, venuto in Italia al
seguito di Ugone, duca d’Aquitania. Tale tesi, in passato contestata da Giacomo
Bugni11 di recente è stata smentita anche dal genealogista Davide Shamà.
8
Angelantonio SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, il Mulino, 1997, p. 106.
A tale riguardo Nicola della Monica riferisce che il duca d’Andria, giustiziato il 4 settembre del 1799 a
Piazza Mercato, volle farsi decapitare in posizione supina per vedere la scure recidergli il capo. Questo gesto
di “guardare in faccia la morte” fu riferito a Ferdinando IV che esclamò cinicamente: “O’ duchine ha fatte o’
guappe fine all’ultme!” Cfr. Nicola DELLA MONICA, Le grandi famiglie di Napoli, Roma, Newton & Compton,
1998, p. 123.
10
Ibid., p.10 e segg.
11
Giacomo BUGNI, Le investiture de’Feudi Longobardi dissertazioni sulla famiglia de’ Sangro, Napoli,
Tipografia F.lli Testa, 1870.
9
68
Lucia Lopriore
Secondo quest’ultimo studioso, la documentazione archivistica, se pure insufficiente, fa risalire le origini della casata ad Oderisio, figlio di un conte omonimo
non ben individuato, appartenente ad un’illustre casata che possedeva vasti feudi
tra la Campania e l’Abruzzo. Questo personaggio appare in un atto del 1093 in cui
dona al monastero di San Benedetto, Frattura e Collagnello, i suoi beni allodiali.
Dalla documentazione, sia pure esigua per la linea antica, risulta che Oderisio
“professava la legge longobarda”. Sempre secondo Davide Shamà, la genealogia,
riportata nei testi ufficiali, è da considerarsi dubbia in vari punti almeno fino alla
metà del XIV secolo.12 Egli afferma che la nobiltà franca aveva il suo limite
invalicabile nel ducato di Spoleto. Da Spoleto, ed in tutto il Meridione d’Italia, è
infatti segnalata la presenza delle sole popolazioni longobarde e bizantine. Per
tale ragione non può attribuirsi alla casata dei de’ Sangro il titolo comitale, soprattutto ai suoi esponenti vissuti dal XVIII secolo in poi. Essi, memori dell’antico titolo comitale portato dagli antenati, lo usarono per dare lustro ai cadetti
quando i loro primogeniti fecero uso del titolo ducale o principesco. Tale titolo
era esteso a tutti i maschi.
Alla luce di quanto emerge dagli studi attuali, non esiste altra soluzione razionale se non quella di considerare la famiglia dei conti de’ Marsi e di Sangro come
longobarda.
Davide Shamà afferma, inoltre, che alla casata non fu mai conferito il titolo
comitale dalla dominazione angioina in poi, riferendosi al titolo generico, non a
quello acquisito sui feudi. Il titolo comitale fu accettato per tolleranza dalla corte
borbonica anche perché, sia nelle fonti cinquecentesche sia in quelle successive,
esso non è mai menzionato. Anche se il discorso non è applicabile a tutta la penisola, nelle dinastie italiane, specie per le più antiche, è sempre stato un vanto pretendere l’ascendenza straniera specie francese o tedesca, ma in molti casi anche inglese,
polacca, ecc.13
È noto che per i periodi più antichi della storia feudale non ci sono molti
documenti, pertanto, per molte famiglie, è difficile risalire a prima dell’anno 1000.
Non si deve trascurare, inoltre, un aspetto essenziale legato ai mutamenti dei governi e delle dominazioni nel corso dei secoli.
Nel Meridione d’Italia poi, il governo spagnolo si è mostrato estremamente
generoso nell’accordare diplomi di nobiltà, che però dimostravano poco e nulla
delle ascendenze da alto lignaggio. Nel caso dei de’ Sangro, i pochi documenti ri-
12
A tal fine Shamà fa riferimento a fonti quali l’Archivio Serra di Gerace e all’opera dell’Ammirato, che ritiene
inaffidabili per la parte antica, perché non riescono a determinare esattamente tutti i collegamenti tra le numerose linee che costituivano i de’ Sangro ancestrali. Cfr. http://www.sardimpex.com alla voce de’ Sangro linea antica
e Scipione AMMIRATO, Delle famiglie nobili napoletane, in Firenze, per Amadore Massi da Furli, 1651.
13
A tale riguardo sia Domenico, I° duca di Sangro, sia suo figlio Nicola, vantano l’appartenenza francese
della casata con l’affermazione: “Degli Antichi duchi di Borgogna, e Conti de’Marsi […]”. Cfr. nel fondo
BCMF, Archivio privato Caracciolo – de’ Sangro, Buccino Generale, b. 172, fasc. 15, dell’Archivio privato di
famiglia custodito a Martina Franca nella Biblioteca Comunale ed il ritratto di Domenico custodito nel Museo Filangieri di Napoli.
69
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
masti, risalenti al secolo XI, delineano una genealogia molto differente da quella
riportata nella letteratura ufficiale, mentre forniscono indizi interessanti sulle origini della famiglia.
In primo luogo, i de’ Sangro professando la legge longobarda, non potevano
provenire dall’Italia Settentrionale con i Franchi, e comunque, non avevano origini
né tedesche né germaniche. Poiché la legge era osservata per discendenza etnica di
padre in figlio, tra i secoli VIII e XI circa per analogia si è portati a pensare che la
dinastia de’ Sangro fosse di origine longobarda, come la maggior parte delle casate
campano-abruzzesi di quell’epoca.
Altro indizio è l’uso per tutti i maschi del titolo di conte o barone, consuetudine che rimase alla famiglia fino alla fine del 1400 circa. È questa una caratteristica
della nobiltà longobarda. Secondo le loro leggi, tutti i maschi avevano diritto al
feudo e quindi al titolo. Inoltre, la nobiltà longobarda aveva anche la peculiarità di
segnalare nei documenti la successione genealogica; un po’ come avveniva per le
famiglie ebraiche menzionate nelle Sacre Scritture. Tutto ciò veniva fatto allo scopo
di evitare lotte di successione sulle eredità.
Nelle fonti letterarie antiche, specie in quelle cinquecentesche, quando sono
citati i documenti che ricoprono l’arco cronologico relativo al 1100-1300, si nota
ancora questa caratteristica nel momento in cui ci sono gruppi più o meno numerosi di fratelli e cugini che gestiscono collegialmente il feudo. Nel diritto tedesco o
francese ciò non avveniva, il feudo passava al solo maschio primogenito.
Anticamente i de’ Sangro in molte scritture apparivano con il cognome “de
Sanguine”; il riconoscimento del loro stato nobiliare è documentato a Napoli (nel
Seggio del Nilo), a L’Aquila, a Benevento, a Lucera, a Troia, a Torremaggiore, a San
Severo e in molte altre città.
La famiglia fu investita di diversi titoli nobiliari tra i quali si ricordano quelli
di signori di Belmonte, duchi di Torremaggiore e principi di San Severo, baroni di
Bugnara da cui discesero: i baroni di Casignano e Toritto, i duchi di Vietri, i duchi
di Casacalenda, i principi di Viggiano, i principi di Fondi, i marchesi di S. Lucido, i
duchi di Sangro, i duchi di Martina Franca.14
La famiglia trova esponenti certi con il conte Teotino, menzionato come padre di Simone già nel Catalogus Baronum.15 Altro personaggio certo è il conte Simone
vissuto tra il 1140 ed il 1160, citato nello stesso catalogo come nipote di Manerius
conte di Trivento, investito del titolo di conte del territorio compreso tra Roccasecca,
Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Castel di Sangro, Barrea e Alfedena. Questo personaggio veniva confuso spesso dai genealogisti con il conte Simone I. Tra
gli altri discendenti della casata vi è il conte Filippo, investito della contea paterna
14
ASNA, Sez. Diplomatica – Politica, Archivio Serra di Gerace, vol. III, cc. 1187r, 1200r, 1204r e 1212r ; vol.
VI, cc. 2063r, 2064r, 2065r, 2066r.
15
Evelyn JAMISON, Catalogus Baronum, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1972, p. 204 e
segg.; Enrico CUOZZO, Catalogus Baronum, Commentario, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo,
1974, p. 320 e segg.
70
Lucia Lopriore
nel 1160. Partecipò alla congiura contro l’Ammiraglio Maione nel 1162 e, costretto
all’esilio, subì la confisca dei beni.
Personaggi altrettanto importanti portano lo stesso cognome ma non ci sono
certezze del legame di parentela con quelli innanzi citati: Simone I, morto nel 1168
circa, probabilmente discese dai conti dei Marsi; possedeva i feudi compresi nel
territorio di Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Barrea e Alfedena.
Investito del titolo di conte di Sangro poco dopo il 7 maggio 1166, fu il primo della
dinastia a fregiarsi di questo cognome che derivava dal possesso di Castel di Sangro.
Nel 1168 fece parte con Roberto conte di Caserta e Boemondo conte di Monopoli
della giuria incaricata di giudicare Riccardo di Mandra, conte del Molise. Appartiene alla famiglia anche Riccardo I, conte di Sangro. Fu investito del titolo nel 1168 ed
ebbe i territori di Castel di Sangro, Rocca Cinquemiglia, Barrea, Alfedena, Rocca
Tre Monti e Roccasecca.
La genealogia sicura incomincia a delinearsi con la presenza di Rinaldo I,
morto nel 1248, che avrà una lunga discendenza.16
Nel corso dei secoli molti esponenti della famiglia presero parte anche alle
vicende politiche e sociali della città di Napoli. Secondo alcune fonti, molti furono
i personaggi della casata entrati nell’Ordine dei Benedettini; alcuni studiosi sostengono che tra questi siano annoverati: San Berardo, Sant’Odorisio ed il vescovo Leone Ostiense, autore dei primi libri della famosissima “Chronica casinensis”.17 Questa
attribuzione di Santi e Beati alla famiglia, secondo Davide Shamà, è da considerarsi
dubbia e probabilmente frutto della tradizione popolare. Che poi nei monumenti
dedicati ai personaggi della famiglia tale presenza vi sia, come nella cappella Sansevero
a Napoli, ciò non costituisce una garanzia dell’effettiva appartenenza degli stessi
alla casata.18
Ma non tutti si distinsero per le gesta eroiche. Qualcuno della famiglia passò
alla storia per aver abusato dei poteri conferitigli. È questo il caso di Simone II che,
investito del titolo di signore di Bugnara e maresciallo del Regno,19 conquistò con
la forza i beni appartenenti alla casa dei signori di Altamura, poiché la sua seconda
moglie, Caterina, era la figlia terzogenita di Berardo di Bari, signore di questi luoghi. Con la prepotenza Simone II spadroneggiò nella città di Altamura come fosse
il legittimo signore. Nel 1331 pretese che gli ecclesiastici gli versassero le rendite
sulle vigne loro concesse da re Roberto.
A tale riguardo il Della Marra, nella sua opera, riferisce di un episodio alquanto singolare: poiché don Pietro De Moreriis, tesoriere della Basilica di San
Nicola di Bari ed arciprete della chiesa Madre di Altamura, si oppose all’applicazione delle imposte pretese da Simone II, per vendetta la moglie di quest’ultimo,
16
Ibid. e cfr. http://www.sardimpex.com
Lina SANSONE VAGNI, Raimondo di Sangro Principe di San Severo, Foggia, Bastogi, 1992, p. 3 e segg.
18
Ibid. e cfr. http://www.sardimpex.com
19
Ferrante DELLA MARRA, Famiglie estinte, forestiere, o non comprese ne’ Seggi di Napoli, imparentate colla
Casa della Marra, in Napoli, appreso Ottavio Beltrano, 1641, p. 94.
17
71
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
inviò i soldati per distruggere i raccolti delle vigne, al fine di infliggere all’ecclesiastico la giusta punizione per essersi ribellato alla legge imposta dal marito.
Saputo dell’accaduto, il re emanò un editto di condanna dei colpevoli, ma
prima che questi ultimi fossero catturati e puniti, riunitisi in gruppi armati uscirono
allo scoperto ad avendo avuto i rinforzi dalle terre d’Abruzzo, dove Simone II era
signore, saccheggiarono quanto posseduto dagli ecclesiastici mettendo a ferro e fuoco
le loro abitazioni. In più, come se non bastasse, depredarono la chiesa degli arredi
liturgici, ferendo ed uccidendo i sacerdoti che si erano rifugiati lì. Ma la loro sorte
fu subito segnata dalla vendetta poiché essi ben presto furono puniti; il loro capo
impazzì e si suicidò, mentre degli altri colpevoli, alcuni furono giustiziati altri condannati alle galere.
Simone e Caterina, data la potenza del loro casato, scamparono alla giustizia
regale ma, riferisce il Della Marra, non sfuggirono a quella divina perché da allora furono protagonisti di molte disavventure e, nonostante Caterina per espiare le sue colpe
avesse fatto erigere una cappella nella Basilica di San Nicola di Bari, intitolata a Santa
Caterina, dotandola di numerose e cospicue rendite, subì la giusta punizione pagando i
suoi misfatti con la sterilità essendo stata privata della gioia della maternità.20
Personaggio di spicco fu Rinaldo di Sangro, che ricoprì la carica di giudice
delegato e giustiziere in Capitanata nel 1312-1313.21
Figura tra gli esponenti della casata anche Lucido de’ Sangro terzogenito di
Nicolò, che fu consignore di Bugnara, da cui discese Giovanni, duca di Vietri, Cameriere Maggiore e Maggiordomo del re Alfonso II; per i servigi resi al sovrano, nel
1494 ebbe in dono dallo stesso Alfonso circa mille pecore di razza gentile assortite
ed oltre cento vacche con altri beni e privilegi. Sposò Adriana Dentice che portò in
dote Ischitella, Peschici e Barano. Il primogenito Ferrante fu Doganiere in Puglia e
Commissario dell’esercito nella guerra di Siena.
Tra i figli di Ferrante, si ricorda Fabrizio, duca di Vietri, che ricoprì le cariche
di Doganiere in Puglia, di Luogotenente nell’esercito del padre e di Commissario
generale dell’esercito.22 Fu Comandante di una compagnia di 300 fanti sulle galere
di Andrea Doria. Quando divenne Papa Paolo IV, suo parente, egli vestì l’abito
ecclesiastico e fu Legato a Venezia. Nel momento in cui stava per vestire l’abito
cardinalizio, scoppiò la guerra tra il Pontefice ed il re di Spagna Filippo I; allora
Fabrizio de’ Sangro lasciò Roma e si recò in Spagna a combattere per il suo re.
Dopo la guerra rimase a Corte e poté godere di vari privilegi, poi si trasferì a Roma.
Morto Paolo IV, ritornò in Spagna e poi a Napoli, dove fu decorato del titolo di
duca di Vietri e nominato Scrivano di Razione.23
20
Ibid.
Alfredo PETRUCCI, I più antichi documenti originali del comune di Lucera in Codice Diplomatico Pugliese
continuazione del Codice Diplomatico Barese vol. XXXIII, Bari, Società di storia patria per la Puglia, 1994,
pp. 15 e 17.
22
Filiberto CAMPANILE, L’historia dell’Illustrissima Famiglia de’ Sangro scritta dal signor Filiberto Campanile, Napoli, Tipografia Tarquinio Longo, 1615, p. 67 e segg.
23
Berardo CANDIDA GONZAGA, Memorie delle Famiglie Nobili delle province meridionali d’Italia, Bologna, Forni, 1969, vol. III, p. 213.
21
72
Lucia Lopriore
Un’altra figura di rilievo fu quella di Placido de’ Sangro, vissuto nel 1500, che
lega il proprio nome al tentativo di introdurre a Napoli il Tribunale dell’Inquisizione. In quel tempo era Viceré Don Pedro Alvaréz de Toledo, cattolico convinto, il
quale riteneva che questo Tribunale fosse non solo utile, ma indispensabile. Il popolo, preoccupato per la decisione, inviò una deputazione al fine di convincere il
Viceré a desistere da tale proposito, ma Don Pedro non volle cedere; dopo vari
tumulti ed alcuni interventi da parte di molti nobili, Don Placido de’ Sangro intervenne per evitare la sommossa: grazie a lui, ritornò la pace in città. Il suo provvidenziale intervento lo rese famoso ed il popolo napoletano gli fu sempre riconoscente.
Della linea dei baroni di Bugnara si ricorda poi, Gerolamo, morto nel 1572.
Questi si distinse nell’assedio di Malta e, per il suo valore, il Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, gli concesse il privilegio, unico tra i nobili
della sua epoca, di fregiarsi della croce dell’ordine nel suo blasone. Privilegio ereditario, valido per sé ed i discendenti, estinti con la nipote Flerida.24
Un altro personaggio che ha lasciato di sé in indelebile ricordo è stato Don
Raimondo de’ Sangro, principe di San Severo. Oltre ad essere esperto nelle arti e
nelle scienze, si distinse per la sua perizia nel progettare e dirigere opere strategiche
di architettura militare; per il suo talento fu elogiato e tenuto in gran conto dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo, da Filippo V di Borbone e da altri regnanti d’Europa. Fu decorato del titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro e Grande di
Spagna e fu Gentiluomo di Camera25 del re Carlo III di Borbone. Fu un esimio
letterato.
Il suo nome è legato al palazzo omonimo sito a Napoli in Largo San Domenico
Maggiore, sorto agli inizi del XVI secolo per volere di Don Paolo de’ Sangro, principe di San Severo e duca di Torremaggiore. Progettato da Giovanni Merliano da
Nola, e rimaneggiato più volte, il palazzo conserva il grandioso portale con
semicolonne di marmo e piperno, disegnato dall’architetto Bartolomeo Picchiatti
ed eseguito dallo scultore Vitale Finelli nel 1621.
I lavori che modificarono la facciata del palazzo furono realizzati nella prima
metà del Settecento proprio da Raimondo che, tra le altre cose, fece eseguire nell’androne del palazzo alcuni bassorilievi a stucco con scene di baccanali dallo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino. Purtroppo, verso la fine del 1889, un’ala
24
Cfr. http://www.sardimpex.com
Clara MICCINELLI, Il Tesoro del Principe di Sansevero luce nei sotterranei, Ercolano, S.E.N., 1984, p. 183,
nota n. 5. Il Gentiluomo di Camera con Esercizio aveva il libero accesso agli appartamenti reali, era normalmente scelto tra i primogeniti delle grandi famiglie del Regno e così le Dame. Il titolo era riconosciuto tale
presso tutte le corti della Real Famiglia Borbone e viceversa. Il segno distintivo era una chiave che gli veniva
assegnata e gli consentiva di entrare fino alle quattro anticamere reali antecedenti la sala del Trono senza essere
annunciato. La chiave era il distintivo dell’incarico riconosciuto, molto ambito perché simboleggiava la grande fiducia che il sovrano riponeva in lui autorizzandolo al libero accesso nei propri appartamenti. Sul dado
erano incise le iniziali V.R.S. (Vitae Regis Securitas). Essa era portata sul fianco posteriore destro della giamberga
sospesa a due bottoni d’oro.
25
73
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
dell’edificio crollò, distruggendo il cavalcavia che collegava gli appartamenti alla
cappella. Quest’ultima, intitolata a Santa Maria della Pietà, fu rimaneggiata interamente verso la metà del XVIII secolo. La volta fu decorata con colori preparati
dallo stesso Raimondo.
Questi nel 1753 fece scolpire dal Sanmartino il famoso “Cristo velato” che
rese celebre la cappella stessa in tutta l’Europa.26 A tal fine è utile segnalare che il
procedimento per marmorizzare il velo del “Cristo” e la rete che ricopre la statua
del “Disinganno”, mausoleo dedicato al padre Antonio de’ Sangro anch’esso collocato nella cappella, fu opera di Raimondo, il quale grazie ai suoi studi, attraverso un
complesso procedimento chimico, riuscì ad ottenere su queste opere gli effetti ottici che ancora oggi si possono ammirare nella loro bellezza e perfezione.
Nel succorpo della cappella sono tuttora custodite le famose “macchine anatomiche” che nel 1764 Raimondo fece costruire dall’anatomopatologo dottor Giuseppe Salerno di Palermo, utilizzando scheletri umani autentici con spago, cera e filo di
ferro per ricostruire il sistema circolatorio da mostrare ai medici dell’Ospedale degli
Incurabili di Napoli affinché non incorressero nello stesso errore commesso dal loro
collega dottor Curzio. Questi, negli anni compresi tra il 1752 ed il 1754, aveva curato
una donna affetta da “sclerodermia diffusa progressiva” che in seguito era deceduta,
proprio a causa dell’incompetenza professionale del medico.27
Molti altri furono i successi di Raimondo de’ Sangro in campo alchimistico e
scientifico: inventò particolari tipi di inchiostro inalterabile utilizzati poi nella sua
stamperia. Inventò complessi sistemi per la costruzione di un teatro pirotecnico,
praticò l’esoterismo in senso lato e fu anche in grado di predire la propria dipartita.28
Negli anni compresi tra il 1750 ed il 1759, Raimondo attraversò periodi drammatici per la sua vita; si lasciò convincere da Guglielmo Moncada, principe di
Calvaruso, a far parte della Massoneria, vi entrò nel giugno 1750 e già a settembre
fu riconosciuto gran maestro della Massoneria di Napoli. A lui si dovette la suddivisione dei massoni partenopei nelle distinte logge di “Sangro”, costituita da nobili
e “Moncada”, composta in prevalenza da borghesi e commercianti. Avversato per il
suo impegno massonico dalla Chiesa, attraverso il gesuita padre Francesco Pepe
che ricorse al re, dopo alterne vicende, Raimondo decise di lasciare la Massoneria,
ma i confratelli lo accusarono ingiustamente di aver rivelato la loro identità al sovrano.29
Di questa illustre casata anche altri personaggi, vissuti nel periodo di Raimondo, si distinsero per le loro gesta, ma essendo questi appartenenti ai rami cadetti della famiglia, non sono citati nelle fonti letterarie, nel rispetto di quel principio
che li costrinse a vivere un ruolo marginale.
26
N. DELLA MONICA, Le Grandi famiglie di Napoli..., cit., p. 323 e segg.
C. MICCINELLI, Il Tesoro del Principe di Sansevero..., cit., p. 89 e segg.
28
Ibid., Testamento olografo di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, tav. XXXII, sez. A.
29
Ibid., p. 325 e segg.
27
74
Lucia Lopriore
È questo il caso dei de’ Sangro marchesi di San Lucido, da cui discesero i
duchi di Sangro e i duchi di Martina Franca; questi ultimi ereditarono dai Caracciolo
Pisquizi anche i predicati nobiliari di baroni di Mottola, Locorotondo e San Giovanni in Fiore.30
2. I Duchi di Sangro
Di sicuro interesse storiografico si rivela lo studio svolto sulla linea dei duchi
di Sangro per l’intreccio delle strategie sociali, familiari, politiche e culturali che la
famiglia adottò per affermare la propria egemonia.
La partecipazione attiva dei suoi personaggi alla vita politica nazionale ed
internazionale e la celebrazione dei matrimoni, volta all’espansione dell’asse
patrimoniale, pone in luce aspetti che rendono bene l’idea del modo in cui si svolgeva l’intricata matassa strategica per garantirsi il massimo potere.
Nel pieno rispetto delle norme legislative imposte dal Maggiorasco secondo
cui il matrimonio, la trasmissione dei titoli nobiliari e dell’asse patrimoniale erano
appannaggio dei soli primogeniti maschi, il patrimonio era indissolubile e
fedecommesso con la garanzia della sua conservazione. Il destinatario del
fedecommesso godeva dell’usufrutto generale dei beni con l’obbligo di conservarli
per restituirli ai suoi successori. Per questi vigeva il divieto assoluto di alienazione,
ipoteca, donazione, cessione e quanto altro relativo alla suddivisione dell’asse
patrimoniale che era soggetto obbligatoriamente all’inventario.
Ai maschi cadetti era preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio: per strategie familiari erano destinati ad intraprendere la carriera ecclesiastica o
quella militare. Nel primo caso la scelta era influenzata dalla possibilità di godere di
agganci politico-ecclesiastici che la famiglia avrebbe avuto attraverso il proprio
referente; nel secondo, il potere derivante dagli incarichi assegnati al nobile cadetto
consentiva un’ascesa politica anche alla casata; tuttavia, questa condizione faceva sì
che i continui spostamenti dovuti al ruolo ricoperto precludessero la possibilità di
poter seguire la propria famiglia e, quindi, il matrimonio risultava sconveniente.
Solo nel caso in cui non era garantita la discendenza del ramo primogenito, si
concedeva alla linea cadetta la possibilità di contrarre matrimonio. Un esempio che
renda con maggiore chiarezza questo concetto può essere rappresentato dalla figura di Domenico, primo duca di Sangro, che con il matrimonio garantirà quella discendenza negata alla famiglia dalla primogenitura.
30
Vittorio SPRETI, Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana, Bologna, Forni, 1969, vol. VI, p. 88 e segg.,
Francesco BONAZZI DI SANNICANDRO, Famiglie Nobili e Titolate del Napolitano, Napoli, Libreria Dekten &
Rocholl, 1902, pp. 214, 215 e 216. I duchi de’ Sangro furono ascritti al Patriziato Napoletano del Seggio del
Nido dal 1507 e furono decorati del titolo di duchi di Sangro. Successivamente furono decorati del titolo di
duchi di Martina Franca con l’anzianità di conti di Caggiano dal 1498, di conti di Brienza e conti di Buccino
concessi originariamente il primo nel 1428 e l’altro nel 1499 e riconosciuti tutti con Rescritto Reale del 22
luglio 1852 e D.M. del 1893.
75
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
Non meno complessa era la vita per le donne che, se primogenite godevano del
diritto di contrarre matrimonio con l’obbligo da parte della famiglia di fornire una
cospicua dote. Ma spesso si decideva secondo alleanze di potere e strategie economiche a chi destinare le figlie facendo sì che il principio endogamico prevalesse al punto
da divenire un fenomeno sociale. Alle donne ultrogenite cui generalmente non era
garantita la dote necessaria per contrarre matrimonio, non restava altro che la vita
claustrale forzata con un minimo vitalizio ed una dote molto modesta.
Emblematico in tal senso il profilo che il Manzoni nel romanzo I Promessi Sposi
traccia di Marianna de Leyva, alias suor Virginia Maria, figlia di Martino, conte di Monza.
Rinchiusa nel convento di Santa Margherita e destinata alla clausura contro la propria
volontà, decide di vivere la propria vita in maniera eufemisticamente “diversa”, cedendo deliberatamente alle lusinghe di Gian Paolo Osio e trasgredendo così l’osservanza
delle regole impostele dalla propria condizione e dal rango di appartenenza.
Il Codice Napoleonico, introdotto da Gioacchino Murat nel 1809, stabilì un
nuovo ordinamento con l’abolizione dei fedecommessi e l’uguaglianza ereditaria per
tutti i figli. Così, anche coloro che fino ad allora erano stati destinati ad un ruolo
minoritario prendevano parte alla suddivisione dell’asse patrimoniale. Dopo la Restaurazione del 1815, tali norme furono modificate dal sovrano, con il riconoscimento della quota “legittima” da ripartire a tutti gli eredi in maniera identica senza più
distinzione di sesso, una quota “disponibile” e l’obbligo della “collazione”. Nonostante tutto ciò, per consuetudine alle donne fu destinata la dote ma non l’eredità
degli immobili. In genere i maschi preferivano versare loro un compenso in danaro,
evitando che ci fosse qualunque altra pretesa sulla suddivisione del patrimonio.31
Queste tematiche, volutamente accennate in questa sede, sono state oggetto
di attenti studi da parte degli storici che hanno analizzato a fondo il fenomeno
socioeconomico derivante dalle imposizioni feudali protratte fino al XIX secolo.32
In relazione a quanto già detto e rivolgendo l’attenzione alle linee genealogiche
oggetto del presente studio, si può affermare che non fu diversa da quella degli altri
nobili la vita sociale dei duchi di Sangro, discendenti dai Marchesi di San Lucido.33
Questi ultimi, a loro volta, per discendenza dai baroni di Casignano, furono investiti
di tale titolo, in conseguenza del matrimonio contratto da Nicolò de’ Sangro, figlio di
Berardino e Lucrezia Caracciolo, con Lucrezia Brancaccio, baronessa di Casignano.
Per Maggiorasco, Placido, primogenito dei quattro figli di Nicolò e Lucrezia,
31
Paolo MACRY, Ottocento. Famiglia, èlites e patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988, passim, e Rossella
RAGO, I D’Errico di Palazzo San Gervasio tra fine Settecento e metà Ottocento: ascesa sociale e patrimoniale,
in «Bollettino Storico della Basilicata», 2002, 18, p. 147 e segg.
32
Tra i numerosi contributi sull’argomento si segnalano quelli dei seguenti autori: Angelo MASSAFRA, Giurisdizione feudale e rendita fondiaria nel Settecento napoletano: un contributo alla ricerca, in Società e Storia n. 9
1980 pag. 252; Raffaele COLAPIETRA, Capitanata, in Giuseppe GALASSO - Rosario ROMEO, Storia del Mezzogiorno, Roma, Editalia, 1986, vol. VII p. 27 e segg.; Giovanni MARESCA, Le ultime intestazioni feudali registrate nel
Cedolario di Capitanata, in «Rivista Araldica», 1954, pp. 13-14. Maria Antonietta VISCEGLIA, Rendita feudale ed
agricoltura in Puglia nell’età moderna (XVI-XVIII sec.), in «Società e Storia», 1980, 9, p. 528.
33
Si rinvia alle tavole genealogiche in Appendice.
76
Lucia Lopriore
ereditò anche i titoli della madre; sposò Giovanna de Cardenas, dalla quale ebbe un
solo figlio: Nicolò Placido.34 Questi sposò Eleonora Frangipane della Tolfa. Con il
matrimonio i suoi discendenti acquisirono il titolo di marchese di San Lucido per
trasmissione ereditaria da Giovanna Carafa, madre di Eleonora.35
Da quest’ultima unione nacquero sei figli ed il primogenito, Luzio, marchese
di San Lucido, il 20 giugno 1619 sposò Alivina Frangipane della Tolfa, già vedova del
3° Marchese di San Giorgio, Giovanni Milano. Dei loro nove figli si ricordano: Placido, 2° marchese di San Lucido dal 1666, barone di Casoria, Casignano ed Olivola,
capostipite dei principi di Fondi; Antonio, padre teatino e professore di Teologia
Sacra, eletto vescovo di Troia il 16 dicembre 1675, fu consacrato il 26 gennaio 1676. Il
19 luglio 1682 tenne un sinodo per regolare i costumi del clero e del popolo, durante
il suo mandato realizzò numerosi interventi di restauro nella cattedrale di Troia36,
nella Chiesa Collegiata di Foggia e fece edificare a sue spese e la chiesa dell’Annunziata
di Foggia; quest’ultimo evento è ricordato da un’epigrafe attualmente custodita nel
Lapidario del Museo Civico di Foggia.37
Il sestogenito di Luzio ed Alivina, Giovanni Battista, il 18 novembre 1674
sposò Beatrice d’Afflitto dei principi di Scanno.38
Il titolo conferitogli fu quello di Patrizio Napolitano, che trasmise ai figli.39 Alla
sua morte tutti i beni furono destinati a Luzio, suo primogenito, con Decreto di
Preambolo della Gran Corte della Vicarìa del 16 maggio 1699, confermato il 23 dicembre 1709, per essere deceduto senza aver fatto redigere il suo testamento (ab intestato).40
Dei cinque figli nati dal matrimonio con Beatrice, il terzo, Domenico, fu Maresciallo di Filippo V di Spagna, accompagnò l’Infante Don Carlo alla spedizione di
34
ASNA, Sez. Diplomatica – Politica: Archivio Serra di Gerace, vol. III, cc. 1200r. e 1204r. e F. CAMPANILE,
L’Historia dell’Illustrissima…, cit., passim.
35
Erasmo RICCA, La Nobiltà delle due Sicilie, Bologna, Forni, 1978, vol. IV, p. 433. Tra i Feudatari di Serino
risulta Giovanni Battista Della Tolfa, 2° conte di Serino, il quale sposa in seconde nozze Giovanna Carafa,
marchesa di S. Lucido.
36
Ferdinando UGHELLI, Italia Sacra sive de episcopis Italiae, Napoli, Venetiis, apud Sebastianum Coleti,
1721, vol. I, p. 1348; AA.VV., Cronotassi iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, Bari, CRSEC, 1986, p.
302; Giuseppe RUBINI, Vescovi e personaggi illustri di Aecae e Troya, Troia, Mauro, 1997, p. 39.
37
Ringrazio per la segnalazione l’amico Carmine de Leo ed il dott. Francesco Picca, storico dell’Arte. Si tratta
del verso di un pluteo risalente al VI secolo d. C. sul cui recto appare in rilievo un clipeo ornato da una croce
latina. Il reperto rinvenuto presso la chiesa della SS. Annunziata di Foggia è stato recentemente studiato e catalogato
tra i reperti custoditi presso il Museo Civico di Foggia. Cfr. Giuliana MASSIMO, Le sculture medievali del Museo
Civico di Foggia, in Atti del 22° Convegno di Preistoria, Protostoria e Storia della Daunia (S. Severo 1-2 dicembre 2001), a cura di Armando Gravina, Foggia, Centrografico Francescano, 2002, p. 48 e segg.
38
BCMF, Archivio privato Caracciolo - de’ Sangro, Successioni, b. 8/3, Capitoli Matrimoniali del 17/11/1764
tra Giovanni Battista de’ Sangro e Beatrice d’Afflitto.
39
Su alcuni documenti dell’archivio privato de’ Sangro i figli sono menzionati con il titolo di conte. Più
appropriato risulta essere quello di Patrizio Napolitano esteso a tutti i membri della famiglia. Cfr. http://
www.sardimpex.com.
40
BCMF, Archivio privato Caracciolo - de’ Sangro, Successioni, b. 8/8, copia dell’Istrumento del 1 dicembre
1752 tra Luzio, Placido e Domenico De’ Sangro in favore del Sig. duca di Gravina e duca d’Andria per duc.
1200 dai medesimi pagati al compimento di duc. 1740 fra i duc. 8000 assegnati in maritaggio dal Monte delle 29
famiglie alla fu donna Beatrice d’Afflitto. Notaio Antonio Maria Porzio di Napoli. Il fascicolo non presenta
numerazione delle carte.
77
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
Napoli e più tardi quando questi divenne re, ricoprì numerosissimi incarichi alla
sua corte. Nel 1759, con il Ministro Tanucci ed altri nobili napoletani fu reggente al
trono di Ferdinando IV, dopo la partenza del padre di quest’ultimo per l’ascesa al
trono di Spagna. Fu nominato Tenente Generale della Guardia Reale il 12 aprile
1737 e Maresciallo di Campo il 22 gennaio 1758. Nominato Governatore della Piazza
di Gaeta, Comandante Generale della Cavalleria e Comandante della Guarnigione
di Napoli, ricoprì le cariche di Capitano Generale dell’esercito, Consigliere di Stato, Presidente della Giunta di Fortificazione; fu inoltre Gentiluomo di Camera di
Sua Maestà, decorato del titolo di Cavaliere del Real Ordine di San Gennaro;41 per
la sua nota fedeltà al sovrano e per le sue eroiche gesta l’11 novembre 1760 fu decorato del titolo di 1° duca di Sangro,42 dando così origine a questa nuova linea. Fu,
altresì, autore di molte opere e, per questo, fu decorato del titolo di principe dell’Accademia degli Uniti di Napoli.43 Il 10 febbraio 1751, all’età di 70 anni, impalmò
Maria Teresa Montalto dei duchi di Fragnito, più giovane di lui di 54 anni, il matrimonio fu celebrato nella chiesa di S. Anna di Palazzo.
Dall’analisi dei Capitoli Matrimoniali, si evincono gli accordi stabiliti per l’assegnazione del capitale dotale da parte di Antonio Montalto, duca di Fragnito padre
della nubenda, atto che viene ripreso successivamente alla prima stipula da suo figlio
Gaetano a causa del decesso paterno, alla presenza di Luzio e Placido, fratelli di
Domenico.44 La dote assegnata alla ragazza ammontava complessivamente a ducati
24,000. Dote che Gaetano avrebbe corrisposto ai de’ Sangro nel seguente modo:
cinquemila ducati da versare immediatamente, per la rimanente somma si stabilì che a
far tempo dalla data di stipula dei Capitoli Matrimoniali e fino alla celebrazione del
matrimonio, la famiglia della sposa avrebbe corrisposto la somma di annui ducati 200
con una maggiorazione per interessi in ragione del 4%. La rimanente somma sarebbe
stata corrisposta negli anni successivi al matrimonio mediante titoli di credito, beni
mobili ed immobili di varia natura, sia feudali che burgensatici.45 L’unione della coppia fu allietata dalla nascita di due figli: Maria Beatrice e Nicola Maria.46
41
Guido LANDI, Istituzioni di Diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie, Milano, Giuffrè 1977, tomo I, p.
148. L’Insigne Real Ordine di S. Gennaro fu istituito da Carlo III di Borbone con R. D. del 7 luglio 1738, esso
era costituito da una sola classe di Cavalieri in numero di 60, per esservi ascritti bisognava presentare le prove
dei quattro quarti di nobiltà.
42
Il titolo fu conferito sul cognome.
43
B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie…, cit., p. 215, e V. SPRETI, Enciclopedia Storico …, cit., p.
88 e segg.
44
L’altro loro fratello, Nicolò, era deceduto nominando eredi universali dei suoi beni Domenico e Placido
i quali gli diedero sepoltura facendo erigere un monumento funebre nel cappellone del Crocifisso presso la
Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli. Tale monumento sormonta quello dell’antenato Placido de’ Sangro.
Queste sono le uniche tombe rinvenute appartenenti a questa linea della casata; dell’ubicazione delle tombe
relative agli altri membri della famiglia, nonostante l’approfondita ricerca, non si è avuta notizia.
45
Il documento non riporta né l’elenco delle proprietà assegnate, né il corredo, né altro.
46
BCMF, Archivio privato Caracciolo - de’ Sangro, Successioni, b. 8/8, c. 92r, Capitoli Matrimoniali tra
Domenico de’ Sangro e Maria Teresa Montalto di Fragnito. Atto stipulato il 13 gennaio 1751, notaio Onofrio
de Cintiis di Napoli.
78
Lucia Lopriore
Domenico fece parte della nobiltà napoletana ascritta al Seggio del Nilo e
visse in un’ala del palazzo dei duchi di Vietri sito nella piazzetta del Nilo, oggi
corrispondente al civico n° 7 della stessa piazza ed ubicato di fronte alla Chiesa di
Sant’Angelo a Nilo. L’ingresso principale dello stesso palazzo domina, ancora oggi,
Largo San Domenico Maggiore.
L’edificio fu fatto edificare nel 1506 da Giovanni de’ Sangro e da sua moglie
Adriana Dentice,47 cui si è già accennato, su suolo acquistato in precedenza dalla
monache di Santa Patrizia. Fu progettato da Giovan Francesco di Palma ed ampliato
su progetto di Giovanni Donadio, detto “Il Mormanno” che gli conferì grazia e bellezza. Più tardi, i duchi di Vietri vendettero l’ala prospiciente Largo San Domenico
Maggiore ai Carafa di Belvedere e da questi, in seguito, il palazzo passò ai Gambacorta,
duchi di Limatola, che lo possedettero fino al 1732, anno in cui fu venduto alla famiglia Saluzzo di Corigliano. Verso la fine del Cinquecento assurse alla gloria della cronaca nera poiché Carlo Gesualdo, terzo principe di Venosa e settimo conte di Conza,
noto madrigalista e nipote di San Carlo Borromeo, fece assassinare la moglie, nonché
sua cugina, Maria d’Avalos e l’amante di lei, Fabrizio Carafa di Andria.48 Il lato prospiciente la Piazzetta Nilo corrispondente al civico n° 7, fu invece venduto a Giovanni Battista de’ Sangro, che lo ampliò con ulteriori soprelevazioni.49
Il palazzo, che si presenta molto ampio nella sua estensione, è disposto su tre
ordini più due corpi aggiunti al quarto ed al quinto piano risalenti ad epoche seriori.
Confina a sinistra del suo ingresso con il già citato palazzo dei Corigliano e a destra
con la chiesa di S. Maria de’Pignatelli che anticamente fu una delle sedi del seggio
del Nilo. Esso non ha vincoli da parte della Soprintendenza ai Beni Ambientali.
Rispettando il primo progetto, presenta trabeazioni triangolari ed a lunetta
in corrispondenza dei balconi sul piano nobile e sul secondo piano. Gli ambienti
interni del primo piano, oggi suddiviso in tre quartini, sono ben conservati e su
alcune volte sono ancora visibili gli affreschi, opera di artisti locali.50
Il terzo piano presenta solo trabeazioni mistilinee. Purtroppo le ultime
soprelevazioni del palazzo non rispettano lo stile originario. Nonostante ciò, nella
zona è certamente il palazzo che meglio rispecchia l’architettura del proprio tempo.
La facciata esterna presenta un recente intervento di restauro. Gli ambienti interni
del primo piano, gli unici da noi visitati grazie alla cortesia degli attuali proprietari,
presentano ampi locali con gli stipiti originali in marmo rosso Verona. Alcune mo-
47
Secondo la studiosa Sansone Vagni il palazzo fu fatto edificare dai Marchesi di S. Lucido, ella ne fa risalire il
possesso ai prodi Nicolò e Placido de’ Sangro. Cfr. L. SANSONE VAGNI, Raimondo di Sangro…, cit., p. 410 e segg.
48
Il palazzo fu abitato per un certo periodo dal principe Gesualdo con la moglie ed i motivi che spinsero
quest’ultimo a commissionare l’uxoricidio non sono da ricercarsi nel delitto d’onore, come apparentemente si
crede, ma in celate ragioni politiche che riguardavano il duca d’Andria, ben noto per la sua pericolosa e scomoda
irrequietezza politica, anche perché il modo in cui fu perpetrato il duplice delitto non rispettava le regole dettate
dal codice cavalleresco. Cfr. SANSONE VAGNI, op. cit., pp. 407, 408 e 409.
49
Condizione fondamentale per la nobiltà era l’ostentazione del potere anche attraverso il possesso di
dimore imponenti.
50
Cfr. il contributo della prof.ssa Colomba Masotti in Appendice.
79
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
difiche, effettuate in fase di frazionamento dell’immobile, non cancellano le evidenti tracce antiche della originaria costruzione. Gli interventi di restauro non hanno alterato le peculiarità dell’architettura interna.
Nulla si può dire sulle condizioni degli ambienti dei piani soprastanti,
dato che non è stato possibile effettuarne il sopralluogo. Il portale del palazzo è
impreziosito da un bellissimo bugnato, sulla cui chiave di volta appare lo stemma di Riccardo, figlio di Nicola Maria e III duca di Sangro. L’ingresso presenta
il vestibolo con un’ampia volta a botte, oggi fatiscente a causa di concrezioni
dovute all’umidità e in procinto di essere restaurata. Vi è affrescata l’Arme di
Giovanni Battista de’ Sangro con la seguente disposizione: Inquartato, nel 1° e
nel 4°: Vaiato,51 nel 2° e nel 3°: Torre.52 Sul tutto: clipeo di Oro a tre Bande di
Azzurro.53 Lo scudo, con ornamenti ducali, è sormontato dal motto: “UNICUM
MILITIÆ FULMEN”; in basso pende l’Ordine del Toson d’Oro54 e quello di
un altro Ordine cavalleresco non meglio identificato.55 Sul campo esterno del
mantello sono raffigurate bandiere, trombe, asce, lance e dardi, quali insegne di
dignità.
Dall’interno della corte si accede alla Cappella, oggi adibita ad altra destinazione d’uso, un tempo dedicata all’Assunta in Cielo raffigurata in una tela seicentesca
inserita tra gli stucchi. Su una parete è collocato lo stemma della famiglia, scolpito
in marmi policromi; un’epigrafe ricorda il restauro eseguito nel 1743 da Nicolò,
figlio di Giovanni Battista:
51
Arme della famiglia d’Afflitto: di Oro e di Azzurro; l’oro, simboleggia la ricchezza, la potenza, la gloria
e lo splendore, l’azzurro è il simbolo dell’altezza, santità e castità difesa da Dio. Cfr. Carlo D E LELLIS, Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Bologna, Forni, 1968, vol. III, pag. 138.
52
Scipione MAZZELLA, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli, Cappello, 1601, p. 739. Arme della famiglia Frangipane della Tolfa: di Azzurro alla Torre d’Argento.
53
Arme della famiglia de’ Sangro.
54
Onorificenza conferita a tutti i membri di questa casata. Questo Ordine cavalleresco fu istituito nel 1429
da Filippo il Buono, duca di Borgogna, concesso ad esponenti dell’alta nobiltà e destinato ad assicurare la
diffusione ed il prestigio della fede cattolica, è anche detto: “Ordine di collana”. Cfr. G. LANDI, Istituzioni di
Diritto…, cit., p. 148 e Giovanni SAITTO, Poggio Imperiale, Storia usi e costumi di un paese della Capitanata,
Foggia, Edizioni del Rosone, 1997, p.45, nota n. 67.
55
Il danneggiamento dell’affresco non consente una chiara lettura dell’icona che appare nella croce di colore amaranto. Da un confronto con alcuni studiosi emergono le seguenti ipotesi: che tale croce affrescata,
potrebbe essere quella appartenente all’Insigne Real Ordine di San Gennaro, vista anche l’analogia della collana che rifinisce la croce, ma in questo caso, non corrisponderebbe al periodo in cui l’affresco fu dipinto.
L’Ordine di San Gennaro fu fondato nel 1738, quindi, in un periodo di molto successivo alla fine del Seicento,
epoca in cui risale il matrimonio di Giovanni Battista e quindi la composizione dell’Arma. Un’altra ipotesi
potrebbe essere quella secondo la quale l’Ordine cui fa riferimento l’iconografia e stato aggiunto in seguito, ad
esempio in occasione di un restauro del palazzo. Oppure, altra ipotesi: la croce potrebbe appartenere al
S.M.O.M., ed in questo caso corrisponderebbe il periodo storico, in quanto l’Ordine di Malta fu fondato nel
1012 e confermato nel 1124 da Papa Onorio II, ma, la collana che appare nell’affresco non corrisponderebbe
a quella riconosciuta dall’Ordine di Malta. La conclusione è che senza un’adeguata chiave di lettura dell’immagine, si può solo ipotizzate l’appartenenza ad uno degli Ordini, non si può averne la certezza. Cfr. DIDEROT
et D’ALEMBERT, Encyclopédie ou dicionnaire raisonné des sciences, des arts ed des métiers, Napoli, Libritalia,
2000, rist. anast. del 1772, p. 22., voce Blasoni ed Araldica.
80
Lucia Lopriore
D.O.M.
NICOLAUS DE SANGRO EX MARSORUM COMITIBUS S. LUCIDI
DYNASTIS
FUNDORUM PRINCIPIBUS
A PHILIPPO V HISPANIARUM REGE
AURELI VELLERIS EQUES GENERALIS CONSPU PRAEFECTUS
INTIMUSQUE CUBICULARIUS
A CAROLO BORBONIO UTRIUSQ. SIC. REGE
ORDINIS S. JANUARII EQUES SUPREMUS MILITIAE DUX
SACELLUM HOC VETUSTATE DEFORMATUM
IN PIGNUS SUI ERGA DEIPARAM CULTUS
INSTAURAVIT ORDINAVIT DITAVIT
A PARTU VIRG. AN. CI DI DCCXLIII
Un’altra epigrafe, posta sempre nella cappella, ricorda i restauri fatti eseguire
nel 1786 da Nicola, figlio di Domenico, e recita:
D.O.M.
QUOD
VIRGINI IN COELII ASSUMETAE DICATUM
A IO. BAPT. DE SANGRO PRIMO ACQUISTUM
A NICOL. DEIN FILIO INSTAURATUM
DUX NICOLAUS NEPOS
FERD. IV. SICIL. REG. A CUBICULIS
PRAEF. AGMINIS
EQ. HIROSOLYMITANUS
SACELLUM
UT SACRIS COMMODIUS VACARETUR
AERE DECORAVIT SUO
DE NOVO ADIECITQ. SACRARIUM
AN. SAL. MDCCLXXXVI 56
Un’ampia corte interna con una scalinata immette ai piani superiori e conferisce all’edificio quello stile peculiare dei palazzi antichi napoletani.
Per ragioni non meglio accertate, la proprietà del palazzo fu trasferita a
Domenico e da questi al figlio Nicola Maria.57 Il palazzo, verso la fine del 1800,
passò al duca di Martina Franca, Don Placido de’ Sangro, collezionista di ceramiche, di cui si parlerà più avanti. Agli inizi del 1900 fu ceduto ai conti Mangoni
di Santo Stefano che lo hanno abitato fino a tempi recenti.58 Nonostante oggi
56
SANSONE VAGNI, op. cit., pp. 410, 411 e 412.
Nell’archivio privato Caracciolo - de’ Sangro depositato presso la Biblioteca Comunale di Martina Franca, nel fondo Buccino Generale, sono elencate nei documenti le proprietà di Nicola Maria.
58
Sulla volta e sulla porta di uno degli appartamenti al piano nobile è ancora visibile l’arme della famiglia: di
oro alla fede di carnagione vestita di rosso in fascia movente dai fianchi dello scudo tenente fra le mani un
ramo di olivo fruttato e fogliato al naturale; cimiero: cavallo nero nascente. Cfr. SPRETI, op. cit., p. 306.
57
81
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
non appartenga più ai duchi de’ Sangro, continua a svettare più bello ed imponente che mai, a testimonianza di un glorioso passato della famiglia che lo ha
posseduto.
Ritornando a parlare dei personaggi di questa linea della casata, un ruolo
importante fu ricoperto dalla duchessa Maria Teresa Montalto, la quale fu per i suoi
figli più che una madre una sorella maggiore, data anche la sua giovane età nell’averli concepiti; ella visse nel loro periodo e morì 15 anni prima di loro.
La primogenita di Domenico e Maria Teresa, Maria Beatrice, sposò a Napoli
il 25 febbraio 1775 Giovanni Vincenzo Tommaso Revertera, duca di Salandra, fu
insignita dell’onorificenza di Dama di Corte che le fu conferita il 24 gennaio 1768,
quando era ancora nubile, durante il regno di Ferdinando IV e Maria Carolina. Il 24
gennaio 1831, le fu concesso il titolo di Dama d’Onore Onoraria, da re Ferdinando
II per premiarla dei 63 anni di servizio a Corte.
Dalla documentazione archivistica consultata nella Biblioteca Comunale
di Martina Franca, ed in particolare dal dattiloscritto inedito del Campanile,
emerge il tratto umano di Don Nicola Maria.59 Questi fu il secondo duca di
Sangro ed una delle figure più belle di questa nobile casata; nel dattiloscritto si
legge:
“[…] uomo assai illustre per le sue doti morali, si distinse per la fermezza di
carattere e per la sua dedizione al sovrano, al quale restò fedele nella buona e
nella cattiva sorte anche quando questi fu costretto a rifugiarsi per ben due
volte a Palermo, con la Famiglia Reale, sotto l’incalzare degli avvenimenti politici.
Seguendo l’esempio del padre, il quale aveva visto nascere l’Infante Ferdinando
e, governato per suo conto durante la reggenza, il duca Nicola gli volle rimanere fedele soprattutto quando il sovrano si trovò in difficoltà per i noti avvenimenti politici.
Don Nicola fu molto stimato da Ferdinando IV e dai suoi successori, re
Francesco I e re Ferdinando II di Borbone, fu anche stimato da altri sovrani
fra i quali il re di Prussia, Federico il Grande, il quale aveva tenuto in gran
conto suo padre Domenico e gli zii Nicola e Placido,60 e dal Granduca di
Toscana Ferdinando III, presso il quale fu ambasciatore verso la fine del
XVIII secolo.
Il 24 gennaio 1772 fu nominato Gentiluomo di Camera con Esercizio ed
attese a tale incarico con la solerzia che gli derivava dall’esempio del padre.
Nel 1797 gli fu conferita l’onorificenza di Cavaliere di Giustizia del Reale
Ordine di San Gennaro delle Due Sicilie. Per tale nomina presentò le prove
di nobiltà dei di Sangro, dei d’Afflitto, dei Montalto e degli Imperiale, suoi
avi.
59
60
BCMF, Filiberto CAMPANILE, Storia della famiglia di Sangro, dattiloscritto inedito, p. 1/d.
Distintisi per le loro gesta nella battaglia di Velletri combattendo contro gli austriaci.
82
Lucia Lopriore
Quando il re fu costretto ad abbandonare Napoli per la prima volta, Nicola fu
inviato quale Ambasciatore dal Granduca di Toscana, Ferdinando III, cognato
del re, per assolvere ad incarichi di grande responsabilità. Egli doveva convincere il Granduca a tenere fede agli impegni presi, non abbandonando i suoi
parenti durante lo sventurato periodo. In realtà il suo compito non fu semplice,
anche perché in quel periodo vi erano conflitti di interessi, interferenze politiche, intrighi, passioni ecc. Il successo della missione fu reso molto difficile anche per il carattere del Granduca, debole ed opportunistico, e fu assicurato
proprio dal duca Nicola e dalla sua diplomazia […]”.
Nel 1794 Nicola sposò Maria Giuseppa Carafa dei duchi di Andria, le nozze
ebbero luogo il 16 novembre nella chiesa di San Gennaro all’Olmo.
Con la stipula dei Capitoli Matrimoniali, avvenuta tra Riccardo Carafa, duca
di Andria, sua moglie Margherita Pignatelli di Monteleone, e Nicola de’ Sangro fu
stabilito l’ammontare della dote assegnata alla nubenda per un importo complessivo di 60,000 ducati. Tale somma sarebbe stata corrisposta al duca de’ Sangro nel
seguente modo: 30,000 ducati sarebbero stati versati nell’arco di un anno, gli altri
30,000 ducati negli anni compresi tra il 1800 e 1801 in “tanne”. L’importo di ciascun versamento non sarebbe stato inferiore a ducati 10,000.
Fu stabilito, inoltre, che a far data dalla stipula dei Capitoli Matrimoniali e
fino alla celebrazione delle nozze, i Carafa avrebbero corrisposto al futuro genero un interesse sull’ammontare dell’intero capitale dotale in ragione del 3,5 %, a
scalare proporzionatamente alle “tanne” che dei ducati 60,000 sarebbero state
pagate. Fu stabilito, altresì, che Nicola avrebbe donato Maria Giuseppa una somma pari a ducati 3,000 e che, ogni anno in occasione del suo genetliaco e dell’onomastico le avrebbe regalato il corrispettivo di ducati 200 in oggetti di oro: “lacci e
spille”.
Tra le altre condizioni fu stabilito che, in caso di vedovanza della moglie, gli eredi
diretti del duca, i suoi figli, avrebbero corrisposto alla madre un vitalizio di ducati 3,600
ripartiti in rate da 300 ducati con l’usufrutto della casa di abitazione. In caso contrario,
se avesse lasciato la casa in cui viveva, i figli avrebbero dovuto corrisponderle la somma
di annui ducati 400 affinché potesse vivere, secondo le regole imposte dal rango nobiliare, in un’altra dimora di suo gradimento. Negli accordi fu inoltre stabilito che, nel caso
la vedova fosse convolata a nuove nozze, le sarebbero stati corrisposti i frutti sia della
dote sia dell’ “antefato”, secondo quanto stabilito dalla Prammatica del Viceré duca di
Ossuna, in ragione del 3,5 %, senza poter avanzare alcuna pretesa sul capitale dotale
che sarebbe spettato ai figli. In caso di assenza di eredi diretti, alla vedova sarebbe stato
restituito il capitale dotale con i frutti dell’ “antefato”.
Nel documento non sono elencate né le proprietà immobiliari assegnate alla
sposa dalla famiglia, né il corredo né altro. L’atto riporta, inoltre, le condizioni sulle
modalità di celebrazione del matrimonio. Per tutti gli altri patti non espressi si rinvia a quanto stabilito dalla Legge allora vigente, mediante decisione del “Consiglio
dei Savi” riportata nei Rescritti dei nobili appartenenti alle Piazze del Nido e di
Capuana della città di Napoli.
83
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
L’unione della coppia fu allietata dalla nascita di otto figli.61 Dal 179762 la
duchessa di Sangro fu Dama di Corte con l’incarico di Camerista Maggiore63 e fu
promossa d’Onore nel 1831, durante il regno di Ferdinando II. Dal 1818 al 1829 fu
Ispettrice della Real Casa dei Miracoli, al fianco del marito che rivestiva l’incarico
di Sovrintendente. Il Campanile, prosegue la biografia del duca nel suo dattiloscritto,
riportando alcune fasi significative della vita di questo personaggio:
“ […] Il 24 gennaio 1801, dopo il primo ritorno a Napoli di re Ferdinando IV,
Don Nicola fu nominato Somigliere del Corpo, al quale incarico attese a vita.
Le alte cariche di Corte, con insignita qualifica di Capo di Corte, erano quelle
di Maggiordomo Maggiore, Cavallerizzo Maggiore, Capitano della Guardia
del Corpo, alle quali fu aggiunta la carica di Cacciatore Maggiore.
Nel 1806 seguì nuovamente i Borbone in Sicilia, dove si trovò nella condizione
ancora più difficile degli altri esuli, dovendo provvedere alla sua numerosa famiglia, giacché i suoi beni erano stati confiscati dai nuovi re proclamati da Napoleone.
Rientrato a Napoli, durante il regno di Gioacchino Murat e Carolina Bonaparte,
per salvare almeno una parte dei propri beni, assolse ad incarichi di carattere
amministrativo.
In qualità di Eletto di Città, fece in modo che fossero approvati alcuni provvedimenti, tra i quali nel 1808 quello di poter instaurare per la prima volta a Napoli l’illuminazione notturna della città; le lampade installate furono 1920 e
questo esempio fu imitato più tardi anche da altre città d’Italia.
Nel marzo 1813, già da qualche tempo nuovamente in Sicilia, Don Nicola si
rese promotore di un avvenimento di rilevante importanza politica e storica
che ebbe un gran peso negli avvenimenti successivi. L’inglese Lord William
Bentinck, Comandante in Capo delle Forze Britanniche in Sicilia, Ministro
Plenipotenziario ed Inviato Straordinario, lanciò un vero e proprio ultimatum al re Ferdinando. Questi, tenuto prigioniero, stava per cedere quando il
duca di Sangro, forzando la consegna, si precipitò nella casa dov’era il sovrano e, compiendo un atto di inaudito coraggio, strappò dalle mani del re l’atto
di abdicazione, lo ridusse in mille pezzi e lo gettò ai piedi dell’esterrefatto
diplomatico.
Se il duca di Sangro non fosse intervenuto, i Borbone non sarebbero mai più
ritornati nella Reggia di Napoli; Lord Bentinck apprezzò questo atto di dedizione al sovrano e da quel momento divenne grande amico del duca.
61
BCMF, Archivio privato Caracciolo – de’ Sangro, Successioni, b. 7/2, c. 15r, Capitoli Matrimoniali tra
Nicola de’ Sangro e M. Giuseppa Carafa, stipulati il 10 novembre 1794, notaio Filippo Palomba di Napoli.
62
Aquilina OLLEIA, Ricerca documentaria sui Reali Sposi all’Archivio Segreto Vaticano, in AA.VV., Foggia
Capitale, La Festa delle Arti nel Settecento, Napoli, Electa, 1998, pp. 256 e 259, Appendice f. 123r. L’onorificenza fu conferita il 24 giugno di quell’anno in occasione delle nozze a Foggia tra Francesco I e M. Clementina
d’Austria.
63
Anna Maria ROMANO, Manifattura Napoletana, in AA.VV., Foggia Capitale…, cit., p. 178.
84
Lucia Lopriore
Nel 1815, con la Restaurazione di Ferdinando I, il duca de’ Sangro fu promosso Tenente Generale ed Ispettore della Guardia Reale, dal 1818 al 1829 ricoprì
l’incarico di Sovrintendente della Real Casa dei Miracoli, educandato femminile alle dipendenze del Ministero dell’Interno, in Santa Maria della Provvidenza, subentrando a Don Giuseppe de’ Sangro, principe di Fondi, e per le sue
opere sull’architrave della porta del chiostro fu affissa un’epigrafe che recita
così:
PER LA GLORIA
DI FERDINANDO I RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
DALLE CUI PROVVIDE CURE QUESTA R. CASA DEI MIRACOLI
ALLA PIU’ UTILE E GENEROSA EDUCAZIONE
DI ONESTE DONZELLE FU DESTINATA
IL DUCA D. NICOLA DI SANGRO PRESIDENTE DI ESSA
PROMOSSI OGNI MANIERA DI LAVORI E STUDI DONNESCHI
INTRODOTTI GLI ORNAMENTI DELLE LETTERE E SCIENZE
ALL’IMPIEGO DEL GENTIL SESSO AGGUAGLIATE
E LE REGOLE DI CRISTIANA E MORAL DISCIPLINA
IN BUON ORDINE DISTRIBUITE
L’INTERNA E L’ESTERNA FORMA DELL’EDIFIZIO
A SOLIDARIETA’ ELEGANZA E MAGNIFICENZA MAGGIORE
HA PROCURATO RIDURRE 64
Nel 1827 Don Nicola ricevette le insegne di Cavaliere di Gran Croce del Real
Ordine di San Ferdinando e del Merito, il 28 settembre 1829 quelle di Gran
Croce dell’Ordine di Francesco I.
Queste due onorificenze gli furono conferite dal nuovo re Francesco I di
Borbone, il quale era succeduto al defunto padre nel 1825, la seconda decorazione gli fu decretata in occasione della prima assegnazione delle insegne che il
re volle conferire direttamente, per dar maggiore e particolare importanza alla
nuova onorificenza. […]”.
L’Ordine di San Ferdinando e del Merito era stato creato il 1° aprile 1800
da re Ferdinando IV al ritorno a Napoli, per premiare i sudditi che erano rimasti fedeli alla sua causa quando si era dovuto rifugiare in Sicilia. I Gran Croce,
limitati a ventiquattro, avevano il titolo di Eccellenza ed acquisivano il diritto a
mantenere il capo coperto alla presenza del re come i grandi di Spagna di Iª
classe. L’Ordine di Francesco I era stato istituito il 28 settembre 1829; esso comprendeva i gradi di Gran Croce, Commendatore, Cavaliere, Medaglia d’Oro e
d’Argento. La decorazione distingueva i benemeriti dell’amministrazione pubblica, dell’industria, del commercio e dell’arte.65 Per la sua nobiltà, Don Nicola
64
Da un recente sopralluogo si è rilevato che l’epigrafe è stata rimossa e non sono giunte notizie sulla sua
destinazione.
65
LANDI, op. cit., p. 151.
85
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
de’ Sangro fu registrato nella Platea delle famiglie Patrizie Napolitane ascritte
al Libro d’Oro.66
La figura del duca de’ Sangro appare per la prima volta in relazione alle vicende storiche ed economiche della Capitanata nel 1795, ossia quando acquistò il
feudo allodiale di Orta. Il possesso cessò con l’entrata in vigore della legge del 21
maggio 1806.67
La narrazione delle prossime vicende affronterà l’argomento relativo al diritto di patronato sulle chiese di Orta, determinatosi con l’acquisto del sito, ma, brevemente, occorre accennare al periodo appena successivo all’espulsione dei Padri
Gesuiti dalla Capitanata.
Nel 1774, dopo la confisca dei beni della “Casa d’Orta” ai PP. Gesuiti, per
volere del marchese Bernardo Tanucci nacquero i cinque “Reali Siti”; con essi sorgevano nuove speranze, per coloro i quali si erano avventurati popolando i nuovi
centri di Orta, Ordona, Stornara, Stornarella e Carapelle, di poter godere dei privilegi concessi dal sovrano, affinché gli stessi progredissero dal punto di vista
socioeconomico.
I cinque villaggi, prima sorti come masserie, assunsero una diversa
connotazione con il popolamento delle terre. I lotti di terra furono parcellizzati e
concessi in enfiteusi a coloni provenienti da altri paesi, gente povera giunta in questi luoghi “desolati” in cerca di fortuna, pionieri che colonizzano le terre libere
dando origine ai centri urbani.
Con la prima concessione delle terre a coltura i censuari dovevano pagare un
canone annuo di diciotto carlini a versura, mentre per le terre adibite al pascolo, un
canone annuo di venticinque carlini a versura. Nel 1774 furono destinati ai cinque
centri 4.100 versure di terra destinate a 410 famiglie: 105 ad Orta, 93 ad Ordona, 83
a Stornara, 73 a Stornarella e 56 a Carapelle.
A ciascuna famiglia furono assegnate 10 versure di terreno, i buoi, le sementi,
gli attrezzi agricoli, la casa rurale e quanto altro occorreva per la coltivazione dei
terreni. La concessione delle terre fu accordata in enfiteusi ventinovennale
rinnovabile.
Con l’entrata in vigore della legge sull’eversione feudale, promulgata il 21
maggio 1806, ai censuari fu concesso il dominio utile delle terre in perpetuo, dietro
pagamento del canone di locazione detto “estaglio” e della fondiaria. I contadini
divennero proprietari assoluti degli appezzamenti loro assegnati. Più tardi, la riforma del Tavoliere regolarizzò la situazione sia dal punto si vista fiscale sia da quello
economico. Così, la Giunta del Tavoliere, seguendo la nuova normativa, concesse
66
BCMF, Filiberto CAMPANILE, Storia della Famiglia di Sangro, dattiloscritto inedito, p. 1/d, e BNNA, Sez.
Manoscritti e Rari, mss. nn.: XA . 42 c.15r, XA . 41 c. 31r, XA . 45 c. 188r, XIV . F 32 c. 128 r, XVII . 25 c 188r,
XVIII . 46. c. 133r.”Notizie sulle principali Famiglie del Regno delle Due Sicilie”. Il titolo riguarda l’ultimo
manoscritto.
67
Si riprende in questa sede il discorso già avviato nel contributo Diritto di Patronato del Duca de’ Sangro
sulle chiese di Orta di Capitanata e rapporti con il vescovo di Ascoli Satriano, in «la Capitanata», XXXVIII,
(2001), 10, (ottobre), p. 149 e segg.
86
Lucia Lopriore
altre terre in censuazione perpetua ai coloni: furono distribuite altre 2.353 versure e
25 catene per un totale complessivo di ducati 6.354,96, che parcellizzati divennero
27 carlini annui a versura.68
Nonostante l’impegno ed il lavoro profusi però, le condizioni economiche in
cui versavano alcuni contadini diventarono difficili quando questi, a causa delle
cattive annate, furono costretti a contrarre debiti e molti di essi, non riuscendo a far
fronte agli impegni assunti, subirono la confisca dei beni e conseguentemente l’espulsione dalle terre. Queste ultime, incamerate nuovamente nel Demanio, furono
rivendute a privati.
Per quanto riguarda il centro di Orta, nel 1792 una parte delle terre confiscate ai censuari fu venduta in burgensatico, al prezzo di 145,151 ducati, dalla Reale
Azienda di Educazione, organo amministrativo competente sul territorio dei Reali
Siti, con sede nella capitale, a Don Matteo Scherini di Napoli; sulle stesse non sussisteva alcun diritto di prelazione da parte dei coloni.69
Dopo tre anni dall’acquisto da parte di Matteo Scherini, rescisso il contratto
su sua richiesta, il “Sito” di Orta fu venduto allo stesso prezzo, ma con una deduzione di ducati 625. Nel corso dell’accertamento del valore era emerso un calo di
alcune rendite del sito stesso, che andava ad incidere sul capitale iniziale. Così fu
definitivamente stabilito che il prezzo sarebbe stato di ducati 144,526, versati dal
nuovo acquirente nella persona del duca Don Nicola Maria de’ Sangro di Napoli.
Durante le trattative furono stabilite le seguenti condizioni: ducati 12,526 da pagare
in contanti e subito, i rimanenti ducati 132,000 dovevano essere pagati nel corso di
cinquant’anni, con decorrenza dal giorno 19 agosto 1795,70 ripartiti in tante rate,
così come deciso dal duca de’ Sangro, a condizione che alla fine di ogni decennio la
somma versata fosse pari a ducati 27,000. In tal modo, trascorsi quarant’anni, il
duca stesso avrebbe pagato la somma di ducati 108,000. Gli fu concesso, inoltre, di
poter pagare anche somme maggiori, in modo tale che il debito residuo dell’ultimo
decennio sarebbe stato di ducati 24,000 così come stabilito con Reale Dispaccio del
30 giugno 1795.
Fu deciso che il duca avrebbe corrisposto un interesse a favore della Reale
Azienda di Educazione compensativo dei “frutti” che avrebbe percepito dalle rendite
68
Addolorata SINISI, I beni dei Gesuiti in Capitanata nei secoli XVII e XVIII, Napoli, C.E.S.P., 1963, pp. 49
e 50. Cfr. Lucia LOPRIORE, Origine dei Reali Siti, antica e nuova censuazione, in http://www.mondimedievali.net/
Microstorie/realisiti.htm
69
BCMF, Archivio Privato Caracciolo - de’ Sangro, Buccino Generale, b. 170, fasc. 2, c. 30r., Notaio B.
Capobianco di Napoli, atto del 19 dicembre 1795. Istrumento della vendita del Real Sito di Orta in Burgensatico,
fatta dalla Real Azienda di Educazione al Sig. Duca de’ Sangro. Per l’acquisto ed a garanzia del debito contratto con la Reale Azienda di Educazione, Matteo Scherini aveva acceso un’ipoteca legale sui beni immobili
di sua proprietà consistenti in: “[…] una Casa grande del Borgo di Loreto, un’altra casa sita nel Vicolo delle
Chianche di Toledo, un Casino a Portici, diversi Arrendamenti, ed infine una Masseria sita a Torre del Greco
nel luogo detto Soda […]”.
70
Il duca cominciò ad effettuare i versamenti ancora prima della definitiva stipula dell’Istrumento, cfr.
BCMF, Archivio Privato Caracciolo – de’ Sangro, Buccino Generale, b. 170, fasc. 2, c. 89r., Notaio B. Capobianco
di Napoli, atto del 19 dicembre 1795, Istrumento… doc. cit.
87
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
per affitti ecc, in ragione del 3%, da scalare proporzionalmente alle somme da lui
versate in conto dell’intera somma di ducati 132,000.71
Con l’acquisto fu concesso al duca il diretto dominio sulle Mezzane del Forno, Torre Giordana, Fiume Morto, Grascianella e Triunfello, della estensione di
363 versure più 18 versure di orto, più 81 partite confiscate ai censuari di Orta, il
molino, il forno, la taverna del Passo d’Orta, tre stanze della “Palazzina”, nella
quale erano ubicate le abitazioni del Curato e del Vescovo, e due fondaci siti a
Foggia nella strada detta di Gesù e Maria, fittati al prezzo di annui ducati 24.72
Nell’acquisto era compreso anche il godimento del diritto di patronato73 sulla
Chiesa Matrice di Santa Maria delle Grazie74 , e su quella di Santa Caterina di Orta75 .
Il duca doveva provvedere direttamente alla nomina del Curato o del Cappellano,
dell’Economo e del Guardiano delle chiese, stabilendo per ciascuno un compenso
annuo concordato con la Reale Azienda di Educazione, non inferiore a quello precedentemente percepito dagli stessi e corrisposto dal suo predecessore Don Matteo
Scherini.76
71
F. CAMPANILE, Storia della famiglia di Sangro...; BCMF, Archivio Privato Caracciolo – de’ Sangro, Buccino
Generale, b. 170, fasc. 2, c. 65r e segg., Notaio Bernardo Capobianco di Napoli, atto del 19/12/1795, Istrumento
della vendita del Real Sito di Orta in Burgensatico fatta dalla Real Azienda di Educazione al Sig. Duca de’
Sangro. La somma di 12526 ducati fu versata a mezzo fede di deposito del Banco della Pietà di Napoli. In tale
occasione furono fidejussori del duca: il principe di Melissano Don Giovanni Battista Caracciolo, Don Nicola Caracciolo e Donn’Anna Francesca Spinelli, conte e contessa di Trivento, tutti suoi parenti nella linea dei
d’Afflitto, di tale famiglia facevano parte sia la nonna di Nicola, Beatrice, sia la zia Stefania, vedova di Luzio
de’ Sangro, fratello di Domenico. I titoli di principe di Scanno, duca di Barrea e conte di Trivento, passati a
Stefania dopo la morte di suo fratello, furono trasmessi ai principi Caracciolo di Melissano dopo la morte
della stessa Stefania per Maggiorasco. Cfr. CANDIDA GONZAGA, op. cit., p. 71.
72
ASFG, Amministrazione del Tavoliere, Scritture dell’Ufficio, s. II, b. 17, fasc. 4, cc. 6v e 8r., e BCMF, Archivio Privato Caracciolo – de’ Sangro, Buccino Generale, b. 170, fasc. 2, c. 1r e segg., Notaio Bernardo Capobianco
di Napoli, atto del 19/12/1795, Istrumento …, cit.
73
Quasi sempre tale diritto era concesso ai signori del villaggio o ai feudatari. Chi godeva dello ius patronatus
era obbligato a rispettare le condizioni stabilite all’atto del godimento del diritto. Cfr. Emma GESUALDI, Il
patrimonio della Mensa vescovile di Bovino in una platea del 1694, in «la Capitanata», XXV – XXX (19931998), 1, p. 201.
74
Attuale chiesa dell’Addolorata.
75
Attuale chiesa del Purgatorio annessa a quella di S. Maria delle Grazie.
76
BCMF, Archivio Privato Caracciolo – de’ Sangro, Buccino Generale, b. 170, fasc. 2, c. 1r e segg., Notaio B.
Capobianco di Napoli, atto del 19/12/1795, Istrumento… cit. In tale atto, tra i patti stabiliti al paragrafo XII
si legge: “Che debbansi al Compratore nell’atto del possesso consegnare le copie in forma valida di tutti gli
Istrumenti, e Scritture, che trovansi fatte fra la Reale Azienda, e gli attuali Censuarj, Fittuarj, Fidatarj, Coloni,
Detentori de’ beni del suddetto Real Sito d’Orta; per aversi dal Compratore medesimo la certa notizia del
tempo delle rispettive scadenze, e per poter nel tempo debito astringere al pagamento li rispettivi debitori per
causa di censo, di affitto, di Fida, e per qualsivoglia altro titolo; senza che detto Compratore sia tenuto a
pagamento alcuno per le suddette copie d’Istrumenti, e Scritture da consegnarseli.”
Al paragrafo XIII si legge: “Che sia lecito alla persona nominanda espellere dalle rispettive concessioni
quegli Enfiteuti che o si troveranno morosi, o pure avranno controvenuti ai patti apposti ne’ rispettivi Istrumenti
di concessione; e che possa la medesima proseguire contra detti Enfiteuti li giudizi di devoluzione, già da detta
Reale Azienda introdotti nella Regia Dogana di Foggia.”
Il paragrafo XV inoltre, stabilisce: “Che sia in piena libertà del Compratore di fare quell’uso, che meglio gli
piacerà di tutti li territorj, e stabili annessi a detta Real Casa, devoluti che saranno li censi, ed estinti gli affitti
de’ rispettivi corpi descritti uno per uno nel quì inserto distinto Notamento, e sua Aggiunzione: e che qualun-
88
Lucia Lopriore
Le trattative per l’acquisto avvennero con l’allora Amministratore della
Reale Azienda di Educazione Don Giuseppe del Pozzo e con il Regio ingegnere
Consalvo Coltellini, che aveva effettuato la perizia stabilendo quale fosse il valore dei beni acquistati dallo stesso duca.77 I “Reali Siti” facevano parte della
diocesi di Ascoli Satriano, così il Vescovo, Mons. Emanuele De Tomasi,78 preoccupato da tempo per lo stato delle chiese, il 2 maggio 1795, scrisse a Don
Domenico di Gennaro, duca di Cantalupo, Intendente Generale degli Stati
Allodiali di Sua Maestà e della Reale Azienda di Educazione, sollecitando l’invio di alcuni arredi sacri occorrenti alla chiesa di Santa Maria Delle Grazie di
Orta e nello stesso tempo ribadendo la richiesta per il restauro di alcune parti
della stessa; nella lettera evidenziava inoltre che per la chiesa si rendeva necessario anche l’acquisto di un organo da porre sulla cantoria, pertanto alcuni censuari
si erano offerti di contribuire all’acquisto anticipando la somma occorrente con
il proprio danaro.79
Intanto il 9 maggio dello stesso anno, il Vescovo ricevette una lettera da parte
di Don Luigi Forgioni, rappresentante della Reale Azienda di Educazione, che lo
que diritto all’Azienda suddetta appartenga, tutto s’intenda passato, e trasfuso al Comp., e per esso nella
persona nominanda.”
Al paragrafo XVI si legge: “Che siano tenuti li Fittuarj, e Coloni del medesimo Real Sito pagare alla persona nominanda la rata dell’estaglio a die captæ possessionis, senza attendersi qualunque patto in contrario, che
tra loro, e la detta Reale Azienda vi fusse.”
Il paragrafo XVII stabilisce: “Che la nomina e destinazione del Curato, Economo, e Guardiano sia del
Compratore: e che al medesimo si trasferisca qualunque diritto di patronato, ed altro sulla Parrocchia, che alla
Reale Azienda di Educazione appartenga, o possa appartenere.”
Il paragrafo XI stabilisce: “Si venderanno i beni suddetti al Compratore con tutti i diritti, che rappresenta
sopra di essi la Reale Azienda di Educazione: giacché i corpi suddetti si trovano o affittati, o censiti; né vi ha la
Reale Azienda di Educazione Doti, o Attrezzi, se non ciò che risulta dà rispettivi istrumenti di censuazioni,
ed affitti […].”
77
ARCHIVIO STORICO DELLA DIOCESI DI ASCOLI S. – CERIGNOLA, Reali Siti, volume IV, anni 1795-1798, c. 61r,
lettera del 02/03/1796.
78
Cfr. AA.VV., Memoria Diocesis Asculi Satriani, Napoli, 1853, p. 140, e AA.VV., Cronotassi…, cit., p. 99.
Nacque a Napoli il 25 dicembre 1721, fu Vicario Generale della Metropolia di Benevento, eletto Vescovo
della Diocesi di Ascoli Satriano ed Ordona il 16 dicembre 1771 continuò la sua opera pastorale fino al 1807.
Era dottore in Utriusque Iuris molto versato nelle lettere, nelle materie scientifiche e nelle sacre scritture,
conferì alla Cattedrale di Ascoli l’attuale stile architettonico arricchendola con stucchi, pitture, anaglifi, altari,
balaustre marmoree corredandola, inoltre, di sacre suppellettili d’argento. Ampliò il seminario e l’episcopio
fondò l’orfanotrofio per fanciulle assegnando loro una dote di 300 ducati d’oro da corrispondere ogni anno a
cura della mensa vescovile; celebrò il Sinodo diocesano nel 1735 di cui si custodiscono le bozze presso l’Archivio Storico della Diocesi di Ascoli, gli originali, purtroppo, furono distrutti per mano di ignoti. Decorò i
canonici del fiocco color paonazzo sul cappello e delle calze del medesimo colore. Pur avendo seri problemi
di salute continuò a svolgere il suo ministero con tranquillità, celebrava la S. Messa quotidianamente ed amava
recitare il sermone al popolo durante le celebrazioni religiose tenute nei giorni festivi.
Nell’agosto del 1775, Ferdinando IV assegnò alla Diocesi di Ascoli l’appartenenza dei 5 Reali Siti e Mons.
De Tomasi impiegò tutte le sue forze ed il suo zelo apostolico affinché in quelle zone vi fosse una rifioritura
della vita cristiana, furono infatti numerose le visite pastorali svolte con paterna vigilanza. Cessò di vivere il 5
gennaio 1807 all’età di anni 85 compianto da tutti.
79
ARCHIVIO STORICO DELLA DIOCESI DI A. SATRIANO-CERIGNOLA, Reali Siti, volume IV, c.16r.
89
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
informava dell’arrivo di una persona di sua fiducia80 che avrebbe dovuto rendersi
conto dello stato dei fabbricati da cedere al duca de’ Sangro. Il 12 dicembre 1795,
con una sua lettera, il duca stesso gli preannunciò la sua venuta allo scopo di visionare
i locali che gli sarebbero spettati con l’acquisto del sito non avendo preso accordi
con la Reale Azienda di Educazione al riguardo; colse l’occasione per chiedere al
Vescovo stesso di concedergli per la durata di circa 50, al massimo 60 giorni, i suoi
appartamenti di Orta che sarebbero stati da lui utilizzati durante la sua permanenza
nel Reale Sito, sperando di non arrecargli disturbo.
Dopo questa comunicazione, il 19 dicembre 1795 il Vescovo scrisse al duca
di Cantalupo informandolo sulle intenzioni del nuovo acquirente del sito, e pregandolo di intercedere per lui presso il de’ Sangro, al fine di poter mantenere gli
accordi già esistenti concessi alle chiese da Don Matteo Scherini, primo acquirente. 81 All’epoca dell’acquisto le trattative erano state condotte da Don Luigi
Forgioni e dal canonico don Nicola Spagnoli, Vicario del Vescovo, il 3 giugno
1793, quindi, essendo preesistenti, dovevano essere mantenute anche con il nuovo acquirente del sito; in particolare esse riguardavano le spettanze del Vescovo
circa gli appartamenti, la rimessa, la stalla e la pagliera, inoltre sollecitava anche
l’aumento dell’assegno annuale per le visite pastorali ormai richiesto da tre anni
ma non ancora giuntogli, evidenziando che la richiesta era necessaria perché quello
era per la chiesa un “[…] periodo di umiliante congiuntura […]”. La pagliera
inoltre, essendo ubicata vicino alla chiesa, era pericolosa in quanto potevano verificarsi incendi, pertanto sin dal 1793 era stata adibita ad alloggio ed occupata da
un soldato della Reale Azienda di Educazione, con l’obbligo da parte di quest’ultima di provvedere al pagamento dell’affitto per un altro locale in cui riporre la
paglia. Per tale situazione il Vescovo aveva chiesto una somma di 10 ducati annui,
ma Don Giuseppe del Pozzo gliene aveva offerti otto, tale somma era ritenuta
insufficiente per pagare qualunque affitto ad Orta: i prezzi delle locazioni erano
alti tanto da raggiungere anche i 15 ducati annui per l’affitto di un locale.82 Finalmente, dopo varie insistenze, il 4 luglio 1795 fu accordata la concessione di 10
ducati annui per l’affitto del locale, con verbale redatto dallo stesso Don Giuseppe del Pozzo.
Il 2 gennaio 1796, il duca de’ Sangro scrisse al Vescovo una lettera di convenevoli ringraziandolo per avergli messo a disposizione i locali per il tempo richiesto, assicurandogli che non avrebbe profittato oltre della sua cortesia. Nell’omaggiarlo, gli offrì i propri servigi. Il Vescovo, dopo aver svolto la visita pastorale, il 2
80
BCMF, Archivio Privato Caracciolo - de’ Sangro, Buccino Generale, b. 170 fasc. 2 c. 84r, Istrumento…cit.,
dal documento si evince che il duca de’ Sangro elesse suo procuratore Don Carlo Cesare Soriani di Napoli, il
quale si recò ad Orta per prendere possesso dei beni acquistati.
81
Il Vescovo ignorava che nel contratto di compravendita tra il duca de’ Sangro e la Reale Azienda di
Educazione le condizioni stabilite per le chiese di Orta fossero rimaste invariate.
82
ASDA, cc. 18r, 49r, 51r.
90
Lucia Lopriore
marzo 1796 scrisse al duca di Cantalupo sia per informarlo sulla situazione delle
chiese dei cinque centri, sia per chiarire la posizione del de’ Sangro in merito alle
sue competenze sulle chiese di Orta.83 Il 23 aprile 1796, il Vescovo scrisse ancora al
duca di Cantalupo che il de’ Sangro aveva il compito di provvedere ai bisogni delle
chiese, tuttavia avendo quest’ultimo rinunciato al diritto di patronato sul lato sud
della chiesa Matrice e precisamente quello riguardante la cantoria, per aver preferito in sua sostituzione alcuni fabbricati per soprelevare la “Palazzina”, le competenze su quella parte della chiesa ricadevano sul duca di Cantalupo. Questi doveva
pertanto provvedere a far chiudere la parte detta dei “Coretti” in quanto, durante le
celebrazioni religiose, si commettevano “Sconcerie ed irriverenze”. Il Vescovo non
ebbe nessuna risposta in merito.
Il 18 febbraio 1797, mosso da dovere pastorale, scrisse al duca de’ Sangro
inviandogli una lista per la fornitura di alcuni arredi sacri ritenuti urgenti per le
celebrazioni religiose e sollecitandone l’invio per la chiesa di Santa Maria delle Grazie che ne era sprovvista; nella lista egli suddivise le cose più importanti, da spedire
al più presto, da quelle meno urgenti da inviare con comodo:
“[…] Tovaglie numero
Sottotovaglie numero
Frasche per altari, cioè numero
per l’altare Maggiore, sei grandi
e sei piccole, per l’altri due altarini
dodici piccole
Messale nuovo numero uno, con i Santi
Beneventani
Lettorini di Segno numero
Una Campana nuova Grande
Tonnacelle di colore nero numero
Piviale di tutti i colori numero
Tonnacelle di tutti i colori, numero
Pianeta di tutti i colori, numero
Un Paliotto
Un Ombrella […]”.84
6
2
12
3
2
1
2
1
Nonostante le promesse epistolari del duca de’ Sangro, a tutto il 25 febbraio
1797 né gli arredi sacri furono inviati, né gli altri impegni assunti furono mantenuti,
così il Vescovo di Ascoli Satriano decise di scrivergli per inviargli un resoconto
sulla situazione delle chiese di Orta desunta dalle sue visite pastorali; con l’occasione sollecitò l’invio degli arredi e soprattutto della campana grande spiegandogli che
83
84
Ibid., c. 53r, 57r.
Ibid., cc. 69r, 98r, 99r, 101r.
91
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
quella esistente era rotta e, che la sola campana piccola non era sufficiente per richiamare la gente dalle vicine masserie per le celebrazioni religiose. In risposta alla
lettera del Vescovo, il 25 febbraio di quell’anno, il duca scrisse che aveva già dato
ordini precisi affinché gli arredi fossero pronti nel più breve tempo possibile. La
campana era in costruzione: sarebbe stata consegnata appena pronta.85 Fino al 13
maggio di quell’anno né gli arredi né la campana furono inviati, questo indusse
ancora una volta il Vescovo a scrivere al duca sia per sollecitargli l’invio di quanto
più volte richiesto, sia per informarlo che, durante la sua ultima visita pastorale
ad Orta durata quattro giorni, aveva avuto problemi per l’alloggio in quanto il
suo agente, Giuseppe Colelli, e la sua famiglia si erano impossessati degli appartamenti che utilizzava durante la permanenza in occasione delle visite pastorali occupandoli e deturpando anche i mobili. Sollecitò l’ultimazione delle fabbriche
della Palazzina in modo tale che l’agente stesso potesse trasferirsi ed evitare ulteriori disdicevoli situazioni.86 Il duca rispose al Vescovo il 20 maggio 1797 ribadendo che gli arredi sacri erano in lavorazione. Mostrandosi dispiaciuto per il
disagio nel quale il Vescovo si era trovato durante la sua permanenza ad Orta, gli
garantì che:
“[…] alla fine del prossimo mese di settembre, egli 87 evacuerà il detto palazzo,
fabbricata o no che sia la mia Palazzina […]”.
Inoltre, nel pregarlo di pazientare gli promise che tutti i danni causati dal suo
agente e dalla famiglia gli sarebbero stati rimborsati, e lo pregò di compilare una
lista dei mobili danneggiati che avrebbe a sue spese sostituito.88 Il 23 dicembre 1797
il Vescovo inviò una relazione dettagliata sulla situazione delle chiese dei cinque
centri alla Reale Azienda di Educazione. Per conoscenza, una copia della stessa fu
spedita anche a Michele Filangieri,89 alter ego del duca, segretario e curatore dei
suoi affari, nonché suo cugino. Nella sua relazione, il Vescovo evidenziava la necessità di aumentare le quote annuali che fino allora con Reale Dispaccio erano state
fissate a 130 ducati annui, ma che per le esigenze delle chiese erano insufficienti. Per
Orta presentò la richiesta di far costruire una cripta per le sepolture nella chiesa
85
Ibid., c. 103r, dalla ricerca non è emerso né il prezzo pagato per la campana né da quale fonderia napoletana fosse stata costruita.
86
Ibid., c.120r.
87
Giuseppe Colelli.
88
ASDA, Reali Siti, volume IV, c. 122r.
89
CANDIDA GONZAGA, op. cit., vol. I, p. 223, e vol. VI, p. 88, ed Erasmo RICCA, La Nobiltà delle Due
Sicilie..., cit., vol. I, p. 525. Principe di Arianiello, figlio di Cesare, 1° principe di Arianiello, di Giovanni ed
Anna d’Aponte, e Marianna Montalto di Fragnito, figlia di Antonio e Maddalena Imperiale, di Domenico
marchese di Latiano e M. Teresa Spinola. Fu l’ultimo principe di Arianiello, il titolo gli fu trasmesso dopo la
morte del fratello Gaetano, illustre giurista ed illuminista; Michele fu Commendatore di più Ordini e nel 1808
fu nominato Presidente del Senato di Napoli, successivamente ricoprì la carica di Intendente della Provincia
di Napoli, ebbe una sola figlia legittima che morì nubile.
92
Lucia Lopriore
Matrice della quale avrebbero usufruito solo i censuari pagando 10 carlini per ogni
sepoltura destinata agli adulti e cinque carlini per i ragazzi. Invece per le sepolture
dei locati e dei forestieri sarebbe stata utilizzata la chiesa di Santa Caterina, nonostante fosse in precarie condizioni di agibilità perché pericolante.90 La relazione si
concludeva con l’accenno alle controversie sorte tra alcuni censuari ed il duca de’
Sangro a causa del suo dispotismo.
Il 24 febbraio 1798 il Vescovo, ancora una volta, inviò una lettera al duca
de’ Sangro per sollecitare l’invio degli arredi sacri che erano diventati urgenti per
le celebrazioni religiose, allegando un’altra lista con l’aggiunta di altro materiale.91
Evidentemente stanco delle continue lagnanze del Vescovo, il duca diede incarico a Michele Filangieri, di curare personalmente la questione con le chiese di
Orta; questi, con una lettera del 24 marzo 1798 riferì al Vescovo che, a causa di
urgenti impegni, il duca non aveva potuto far fronte alle richieste avanzate, ma che
al di là delle sue spettanze non si potevano lasciare abbandonate le chiese sia che il
diritto di patronato fosse goduto dal duca, sia che fosse stato affidato ad altri, pertanto scrisse:
“[…] bisogna riflettere […] alla necessità positiva del Culto Divino agli obblighi della Chiesa, che non possono essere molti, perché non ha Rendite, ed altro[…]”.
Pertanto, alla luce degli ultimi avvenimenti egli stesso agendo per conto del
duca, si impegnò a fornire sia gli arredi sia a seguire con maggiore attenzione le
necessità delle chiese.92 La situazione rimase invariata fino al 1° settembre 1798,
quando il Filangieri con una lettera assicurò al Vescovo che entro i primi giorni di
novembre di quell’anno sarebbero stati consegnati tutti gli arredi liturgici, compresa la campana nuova.93 Con l’occasione preannunciava la venuta dell’ingegnere di
casa de’ Sangro94 che sarebbe andato ad Orta per completare le fabbriche della Palazzina. Sia gli arredi sia la campana furono consegnati entro i termini stabiliti, sulla
stessa fu apposto il suo stemma95 con la seguente didascalia:
90
Nell’Istrumento di acquisto del Sito d’Orta, tra le condizioni stabilite, era compreso anche il rifacimento
della chiesa di S. Caterina; a tale riguardo l’ing. Coltellini aveva compilato il progetto di ricostruzione. Per
ragioni non meglio accertate, però, la chiesa non fu mai ricostruita. Cfr. BCMF, Istrumento…, cit., c. 102 r.
91
Ibid., cc. 154r, 161r, 163r e 164r.
92
Ibid., c. 167r.
93
Ibid., volume V, anno 1798, c. 14r.
94
BCMF, Archivio Privato Caracciolo – De’Sangro, Buccino Generale, b. 170, carte varie; in un documento
che elenca gli arredi per la Palazzina di Orta inviati al Vescovo in sostituzione di quelli danneggiati da Giuseppe Colelli, si evince che l’ingegnere della casa de’ Sangro è il Dott. Mastiviani.
95
Arme: Partito. A destra: di Oro a tre bande di Azzurro; a sinistra: di Rosso a tre fasce d’Argento. Scudo
inscritto nell’insegna di Gran Croce del Sovrano Militare Ordine di Malta. Cimiero: due leoni uscenti affrontati al naturale codati di oro e lampassati; quello di sinistra caricato di stadera, simbolo della casata dei Carafa,
al centro: drago nascente di verde lampassato. Ornamenti ducali.
93
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
DVX NICOLAVS MARIA DÈ SANGRO REGALI MVNIFICENTIA
PATRONVS RESTAVRAVIT ANNO SALVTIS MDCCXCVIII 96
La campana fu collocata nel campanile a vela del palazzo ex Gesuitico, dove
rimase fino agli anni ’90 del 1900. Successivamente fu rimossa per essere collocata
nella torre campanaria della nuova chiesa del SS. Crocifisso di Orta Nova, dove è
rimasta fino al 2001. Ultimati i restauri del Palazzo ex gesuitico, è stata ricollocata
nell’originario luogo di appartenenza.
Come Nicola, anche i suoi successori si distinsero per le loro gesta eroiche;
suo figlio Riccardo fu il terzo duca di Sangro. Sposò Maria Argentina Caracciolo
dei duchi di Martina Franca.
Seconda di tre figli, Maria Argentina, contessa di Brienza e di Buccino, quando era già sposata con Riccardo de’ Sangro ereditò il titolo di duchessa di Martina
Franca dopo l’avvenuto decesso della madre, Francesca del Giudice Caracciolo che,
a sua volta, lo aveva ereditato dal figlio maggiore Petraccone, ottavo duca con questo nome, il quale si spense prematuramente il 13 agosto 1827.97 Dal matrimonio
nacquero cinque figli. Il nome di Riccardo de’ Sangro è legato ad una rapida carriera militare. Dopo la Restaurazione, per dimostrare la sua riconoscenza verso la
famiglia per essergli stata fedele, il sovrano promosse Riccardo al grado di Tenente
Colonnello del primo Reggimento Lancieri. I riconoscimenti onorifici furono conferiti nel 1843 con l’investitura di Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro. Fu Cavaliere di compagnia del re Ferdinando II, che lo volle al sua fianco nel maggio del
1848 durante la campagna nello Stato Pontificio ed il 15 giugno 1849 lo promosse
Generale. Nel 1855 Riccardo di Sangro fu promosso Maresciallo di Campo ed aiutante generale del re ed ebbe il comando della Divisione di Cavalleria Leggera e
delle Guardie d’Onore; nel maggio del 1859, durante gli ultimi giorni di vita del re
Ferdinando II98 egli fu il più assiduo assistente del sovrano.
96
Dalla didascalia sulla campana si evince la fedeltà del duca verso il sovrano con l’affermazione: “[…]
Regali Munificentia Patronus […]”. Non è un caso che Don Nicola de’ Sangro abbia fatto questa precisazione, poiché nel 1798, anno in cui fu donata la campana, com’è noto, nella capitale del Regno dilagava il
giacobinismo che aveva già raccolto entusiastici consensi da parte di molti nobili, tra cui Ettore Carafa cognato di Nicola, i quali, come già accennato nella parte introduttiva di questo saggio, facendo propri i princìpi di
libertà della rivoluzione francese cospiravano contro la monarchia. I pochi nobili rimasti fedeli al sovrano,
quindi, evidenziavano la loro devozione anche attraverso gli scritti, così come si evince nell’atto relativo alla
nomina del cappellano, del guardiano e dell’economo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Orta, rilasciato dalla segreteria della casa ducale de’ Sangro, che recita: “Spettando a noi per sovrana concessione […]”. Cfr.
BCMF, Buccino Generale, b. 172, fasc. 15.
97
Lucia PORTOLANO, Conduzione del patrimonio dei de’ Sangro fra Ottocento e Novecento, in Umanesimo
della Pietra, Martina Franca, Edizioni Pugliesi, 1991, pp. 113-122. L’intero patrimonio dei Caracciolo dopo il
decesso della stessa Aregentina avvenuto nel 1849 passò ai suoi figli Nicola e Placido che ereditarono i beni nel
seguente modo: Nicola oltre ai titoli di conte di Brienza e conte di Buccino ebbe alcune masserie in territorio
di Mottola, Placido ereditò il titolo di duca di Martina ed altre masserie in territorio di Mottola, Massafra,
Taranto, Grottaglie ed Ostuni.
98
Deceduto per coxite.
94
Lucia Lopriore
Confermato in tutte le sue cariche dal nuovo re Francesco II, divenne il suo
attento consigliere e fu al suo seguito quando, ancora duca di Calabria, si recò in
Puglia per ricevere la sua futura sposa, la Principessa Maria Sofia di Baviera. Successivamente lo seguì a Gaeta, imbarcandosi con lui il 6 settembre 1860 sulla nave
Saetta.99 L’8 ottobre 1860, per premiare il suo fedele attaccamento, il giovane sovrano lo promosse Tenente Generale.
Nel castello di Gaeta, assediato dalle truppe piemontesi, contrasse il tifo. Il
decorso della malattia fu da lui accettato con rassegnazione tanto da farlo assurgere
agli onori della cronaca con il titolo di difensore di Gaeta. La morte lo raggiunse
nella notte tra il 5 ed il 6 febbraio 1861.100
Un aspetto interessante si coglie dai profili dei figli di Riccardo tratteggiati
dal Campanile:
“[…] Nicola ereditò il titolo di IV duca di Sangro, sposò nel 1851 Isabella
de’Medici dei principi di Ottajano e dei duchi di Sarno dalla quale ebbe dieci
figli; tra questi Riccardo, nato a Napoli, all’età di sette anni fu condotto a Parigi, dove la famiglia era stata costretta a rifugiarsi in volontario esilio per sfuggire alle rappresaglie in atto contro tutti coloro che erano rimasti fedeli ai loro
sovrani. Fu decorato del titolo di Patrizio Napolitano. A Parigi ebbe per maestro l’Abate Eugenio Fabre, al quale restò legato da affetto filiale per tutta la
sua breve vita, anche quando rientrò a Napoli insieme ai suoi, nell’ottobre 1869.
Fu Vice Presidente dell’Associazione giovanile intitolata a S. Alfonso Maria
de’Liguori, fondata nel settembre del 1871, sotto la presidenza del suo amico
fraterno Nazario Sanfelice, duca di Bagnoli, il quale sposò tre anni dopo sua
sorella Marianna.
Purtroppo, il 7 febbraio 1872 a causa di una inesorabile malattia, Riccardo spirò non ancora ventenne. La cerimonia funebre ebbe luogo nella chiesa di S.
Ferdinando, ad essa parteciparono gli associati di Sant’Alfonso al completo,
quelli della gioventù cattolica ed oltre 400 amici. Il feretro fu tumulato nella
chiesa di S. Maria della Rotonda. Grande fu il cordoglio generale, e per l’occasione fu composto un libretto aureo ad opera di Felice Retez, che riportava le
numerose necrologie pronunciate per suo conto, unitamente ai commenti dei
giornali dell’epoca ed a varie poesie commemorative.
Di lui scrissero il duca di Bagnoli Nazario Sanfelice, Giovanni Pignatelli, Giovanni Caracciolo Pinelli, il Canonico Don Gaetano Sanfelice, il duca di
Castellaneta, Francesco de Mari, Ferdinando de Vargas, il sacerdote Salvatore
Talamo, Cesare Palomba, Giulio Ferrari e Felice Retez, che fu anche promotore dell’iniziativa.
Fra i giornali si annoverarono: «Il Contemporaneo», «La Libertà Cattolica»,
«Il Trovatore», «Il Vero Messaggero», «Il Conciliatore» di Napoli, «Il Conservatore» di Firenze. Per lui scrissero poesie, il nonno materno Giuseppe de’
99
CANDIDA GONZAGA, op. cit., p. 215.
DELLA MONICA, op. cit., p. 332.
100
95
L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro
Medici d’Ottajano, Ercole Caporale, Giuseppe Piccolo, Nicola Pandolfo, Felice e Francesco Retez e, da Parigi, il suo maestro l’Abate Eugenio Fabre.
Nella chiesa di San Basilio il padre fece erigere in sua memoria un monumento
funebre.[…]”.
Il secondogenito di Riccardo ed Argentina Caracciolo, Placido, ereditò dalla
madre il titolo di 16° duca di Martina,101 sposò nel 1851 Maria Cunegonda Caracciolo
di Santa Teodora ed ebbe un solo figlio, Riccardo, morto suicida a Parigi per amore.
Placido fu un grandissimo collezionista di ceramiche e di opere d’arte che, dopo la
sua morte, donò al nipote omonimo.
Degli altri due figli maschi minori di Nicola ed Isabella ricordiamo Placido,
conte dei Marsi.
Questi si adoperò affinché fosse allestito il museo in cui esporre la collezione
di ceramiche raccolta dallo zio.102 Dopo la sua morte, il compito di continuare l’allestimento del museo fu affidato dalla vedova contessa Maria Spinelli dei principi di
Scalea al duca Carlo Giovene di Girasole.
Placido, morto senza prole, volle dare seguito al desiderio del giovane cugino
Riccardo, il quale, prima di morire, in una lettera indirizzata al padre, scrisse che
tutta la collezione a lui destinata fosse donata alla città di Napoli.
Placido, erede di tale collezione, allestì il museo lasciando l’usufrutto della
raccolta alla moglie. Dopo la morte del consorte, la contessa fece trasferire la collezione dal Palazzo Spinelli, dove era stata sistemata, alla nuova sede del museo presso la villa Floridiana. La Spinelli volle assumersi anche l’onere di provvedere alle
spese di trasporto e, dopo la sua morte dispose nelle sue volontà testamentarie che
quanto non fosse ancora stato trasferito nella Floridiana fosse spostato con una
somma di danaro da lei destinata per ultimare l’operazione; alla raccolta de’ Sangro
aggiunse un suo personale ed importante legato di maioliche ispano - moresche e di
Castelli.103
Giuseppe, fratello di Placido, fu conte di Brienza ma non poté mai fregiarsi
del titolo principale di duca di Sangro essendo premorto al padre. Il 18 febbraio
1888, sposò a Napoli Maria Guevara Suardo dei duchi di Bovino, Castell’Airola e
101
CANDIDA GONZAGA, op. cit., vol. V, p. 10. Placido de’ Sangro fu decorato del titolo di duca di Martina
Franca il 20/05/1850, tale titolo, refutato dal fratello Nicola, gli fu trasmesso con i beni della casa Caracciolo
di Martina per volere della madre. Alla sua morte il titolo di duca di Martina passò al fratello Nicola IV duca
di Sangro, mentre il secondogenito di Nicola, Placido, con testamento del gennaio 1891 fu nominato erede
universale dei suoi beni. Cfr. L. PORTOLANO, Conduzione del patrimonio dei de’ Sangro..., cit., p. 114.
102
CAMPANILE, op. cit., p. 1/f, dattiloscritto inedito; e ibid., Successioni, bb. 9/5 anno 1849 e 9/6 anno 1858.
Cfr. SPRETI, op. cit., vol. VI, p. 92. Alla morte di Placido avvenuta nel 1911, i beni passarono ai figli di Giuseppe, suo defunto fratello: Riccardo, Giovanni Battista e Nicola. L’intera proprietà ereditata dai minori de’
Sangro fu curata e seguita per i primi quindici anni del 1900 dal Cavalier Giulio Lecca Ducagini, secondo
marito di Maria Guevara Suardo, vedova di Giuseppe de’ Sangro. Cfr. PORTOLANO, op. cit. p. 114.
103
AA.VV., Il Museo Duca di Martina, Napoli, Guide Artistiche Electa, 1994, pp. 19 e 20.
96
Lucia Lopriore
Savignano, dal matrimonio nacquero cinque figli, il maggiore, Riccardo, fu decorato del titolo di diciottesimo conte di Buccino titolo che, in seguito, fu trasmesso
con Decreto Luogotenenziale del 15 giugno 1919 e con le Lettere Patenti Luogotenenziali del 28 dicembre 1919 al fratello minore Giovanni Battista.
Riccardo, V duca di Sangro e 18° duca di Martina, il 10 settembre 1919 sposò
a Stresa Oliva Vivina Lanza dei conti di Mazzarino e nobili di Trabia. Dalla loro
unione nacque Giuseppe, perito in un incidente automobilistico il 14 luglio 1958.
Dopo pochi anni dalla nascita di Giuseppe, i due coniugi si separarono; il
loro matrimonio fu sciolto con sentenza della Corte d’Appello di Torino del 18-22
ottobre 1926.
Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, Riccardo intraprese la
carriere militare. Fu Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Ordine
Gerosolimitano di Malta, ricevuto il 28 luglio 1922 con Decreto n. 3996 proc. n.
2498; fu Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e fu Aiutante in
Campo di Sua Altezza Reale il principe ereditario, Umberto II di Savoia.
Durante il secondo conflitto mondiale, Don Riccardo diede alloggio nella
sua villa di Ravello alle LL. MM. re Vittorio Emanuele III e alla regina Elena.104
Nel dopoguerra contribuì alla ricostruzione del patrimonio artistico del
Museo Filangieri danneggiato dalla guerra, insieme ad alcuni membri dell’aristocrazia e della borghesia napoletana, tra cui la nipote Maruska Monticelli Obizzi di
Sangro, figlia della sorella Isabella.105
Nel 1978 Riccardo, seguendo l’esempio dello zio, donò al Museo Duca di
Martina di Napoli la restante collezione di ceramiche ed altri oggetti in suo possesso, appartenuti in massima parte a Don Placido de’ Sangro, duca di Martina, integrando, così, la pregevole e cospicua collezione dell’antenato.
Oggi la linea maschile dei duchi di Sangro è estinta. Prosegue in quella femminile che è rappresentata attualmente dai pronipoti di Riccardo, i nobili Notarbartolo e Monticelli Obizzi.
104
CAMPANILE, op. cit., p. 1/f.
Dopo il decesso dello zio, il patrimonio de’ Sangro fu ereditato dai Monticelli Obizzi insieme ai cugini
Carla e Blasco Notarbartolo. Questi hanno donato l’archivio di famiglia alla città di Martina Franca negli anni
’90 del 1900. La notizia è stata cortesemente fornita dalla signora Carla Notarbartolo di Villarosa.
105
97
98
APPENDICE
- Gli affreschi di Palazzo de’ Sangro: ipotesi di lettura,
di Colomba Masotti
- Pittori di casa de’ Sangro attivi a Napoli nei Secoli XVII, XVIII e XIX,
di Lucia Lopriore
- Genealogia della famiglia de’ Sangro,
di Lucia Lopriore
99
100
Lucia Lopriore
Gli affreschi di Palazzo de’ Sangro: ipotesi di lettura
di Colomba Masotti
Gli affreschi oggetto del nostro studio si trovano sul soffitto di due camere,
site, al primo piano del palazzo dei de’ Sangro marchesi di San Lucido a Napoli.
Edificato nel 1506 dal duca di Vietri, il palazzo fu acquistato dalla famiglia
de’ Sangro che lo possedette fino ai primi anni del 1900. Passò, quindi, ad altri
proprietari, che nei decenni successivi provvidero a parcellizzarlo in vari appartamenti, in seguito venduti a terzi. Ne consegue che nell’ultimo mezzo secolo lo stabile ha subito dei rifacimenti di cui è impossibile rilevare la consistenza. Perché,
non essendo il palazzo sottoposto a vincoli da parte della Soprintendenza, non si è
mai provveduto a produrre una documentazione attestante le manomissioni avvenute e, tanto meno, a redigere una descrizione dello stato dell’immobile precedente
agli interventi. Il che, per quanto riguarda il nostro studio, significa essere stati
privati di dati essenziali circa la datazione e il contesto culturale dei due affreschi di
cui uno è completamente anonimo mentre il secondo porta una firma e una data:
“Guardascione 1931”.
È da aggiungere che solo fortuitamente, durante una fase di ristrutturazione
degli ambienti, e grazie alla cortesia dei proprietari si è avuto momentaneamente
accesso ai due affreschi. Si è così provveduto a fotografarli, ma in modo amatoriale
non certo da professionisti. L’analisi, quindi, è stata svolta su queste foto che, per
quanto nel complesso ben riuscite, non possono certo sostituire la visione diretta.
Ne consegue che la lettura iconografica e iconologica degli affreschi, volta a pervenire ad un chiarimento circa i soggetti rappresentati e i contesti culturali ed artistici
che a loro volta potrebbero giustificarli, è stata privata di dati essenziali (ad esempio
non è stato possibile condurre alcuna riflessione sul colore) per essere di per sé
esauriente. Il che non toglie che non possa fornire delle risposte fondate.
In effetti, la prima domanda a cui una lettura deve dare una risposta è che
cosa l’opera, presa in esame, rappresenti.
Considerando l’affresco non firmato del palazzo dei de’ Sangro esso raffigura un ameno paesaggio costituito da un lago o da un ampio alveolo fluviale incastonato tra alture, maestose all’orizzonte ma che degradano in popolose spiagge. In
primo piano, lo specchio d’acqua si restringe in un corso dalle rive in parte scoscese
ma anche pianeggianti e persino sabbiose.
Quindi un contesto paesaggistico piuttosto variegato, fatto, questo, che induce a ritenerlo più confacente ad uno scenario teatrale che riferimento puntuale ad
101
Appendice
un sito geografico o anche culturale di una certa pregnanza ideale se non ideologica.
Ma scenario di che?
Di un avvenimento di cui sono protagonisti cinque personaggi, inquadrati sulla linea orizzontale in medio piano rispetto a tutta la composizione e alla cornice.
Chi sono questi cinque personaggi e di cosa sono attori?
Il personaggio a destra di chi guarda ci sembra il più facile da individuare;
dalla foggia e dai colori del suo abbigliamento, dal nobile incedere, dal gesto calmo
e imperioso (riecheggiante quello della chiamata di Levi del Caravaggio in San Luigi dei Francesi), ci sembra infatti plausibile possa trattarsi di Cristo.
Egli sta ordinando qualcosa probabilmente a tre personaggi su una barca, al
centro della raffigurazione, data la direzione della sua mano sollevata.
Di questi, poi, uno a prua della barca fa leva su un remo al chiaro fine di
scostare l’imbarcazione dalla riva, un secondo personaggio si volta, presumibilmente
verso il Cristo, con un ampio gesto, ridondato da un rosso mantello, e sembra, così,
richiamare l’attenzione di un terzo personaggio seduto nella barca che perciò si
volge nella stessa direzione. Sulla riva sinistra un quinto personaggio è rivolto al
cielo, in ginocchio con le braccia aperte, in una posa che ricorda tanti eremiti in
preghiera.
Ciò che balza agli occhi è la poca corrispondenza interlocutrice dei personaggi dato che la loro gestualità non sempre è accompagnata dall’incrociarsi degli
sguardi. Se a ciò si aggiunge le loro dimensioni prospettiche e l’inquadratura che li
riprende in medio piano risulta che essi non solo non siano protagonisti rispetto al
paesaggio ma come tutta la raffigurazione sia di difficile lettura. Infatti se di Cristo
e degli apostoli si tratta a quale episodio dei Vangeli far risalire la scena? La chiamata dei primi discepoli come suggerirebbe il gesto di Cristo e la presenza della barca
(Matteo: 4, 18-22; Marco: 1, 16-20; Luca: 5, 1-11 )?
Ma allora cosa c’entra il personaggio sulla riva e come giustificare il suo gesto
di per sé già ambiguo dato che potrebbe essere di preghiera ma anche di meraviglia?
Esso non trova corrispondenza nel racconto evangelico citato.
Cambiamo prospettiva e partiamo proprio dal personaggio di sinistra e dal
suo gesto. Si tratta di un individuo anziano, calvo e piuttosto tarchiato. Potrebbe
essere Pietro, la fisionomia del personaggio corrisponderebbe a quella dell’apostolo così come, fin dai primi secoli, è stata caratterizzata nell’arte. Ma nei Vangeli
l’unico episodio in cui un gesto come quello raffigurato potrebbe essere giustificato
è il riconoscimento del Risorto dopo una pesca miracolosa. Tale riferimento, però,
è piuttosto forzato rispetto all’immagine esaminata. È vero c’è Gesù che potrebbe
indicare il lato della barca dove gettare le reti e ci sono tre pescatori che sembrano
che si sforzino di girare la barca verso il punto indicato ma non c’è la rete piena di
pesci, iconografia classica delle pesche evangeliche e, soprattutto, il gesto di riconoscimento sarebbe più esatto attribuirlo a Giovanni che a Pietro. Ma Giovanni, fuori
dai riferimenti alle apparizioni apocalittiche, viene sempre rappresentato giovane e
quindi non può essere il personaggio dell’affresco e (per lo stesso motivo) neppure
il pescatore dal mantello rosso il cui gesto, di aprirlo di scatto, potrebbe suggerire
102
Lucia Lopriore
l’intenzione di sottolineare l’intuizione rivelatrice dell’apostolo. Non solo, ma approfondendo, è da notare come tre siano le pesche miracolose citate nei Vangeli. La
prima è legata alla chiamata degli apostoli (Luca cap.5; vv.1 – 11). La seconda, una
metafora del Giudizio Universale, compare in una parabola (Matteo cap. 13; vv.47
– 57). La terza è appunto quella legata all’apparizione di Cristo, di cui sopra, e si
può leggere nel Vangelo di Giovanni, il più teologo degli evangelisti (cap. 21; vv.114).
Dei tre episodi quest’ultimo è certamente il più difficile da rendere in immagine perché attesta l’attesa di imminenti venute escatologiche proprie delle prime
comunità cristiane. Infatti, parla della misteriosa natura assunta dal Risorto, della
Sua provvidenziale presenza tra i suoi fino alla fine dei tempi, del primato di Pietro
e si chiude, infine, con una sibillina profezia circa la diversa sorte di Pietro rispetto
a Giovanni, forse un accenno alla diversità nell’unicità della Chiesa.
Si comprende a questo punto come solo una particolare funzione della stanza o una particolare sensibilità dell’eventuale committente avrebbe potuto giustificare la scelta di un tema tanto impegnativo. Ma, allora, qualche eco sarebbe pervenuta fino a noi a chiarire di poco o di tanto il buio intorno ad un’opera che rimane
misteriosa perché misterioso rispetto ai racconti evangelici resta il personaggio anziano sulla riva.
A questo punto, però, si può indicare un’altra possibilità interpretativa.
È noto che nella storia dell’arte non è raro che nei dipinti compaiano personaggi in fondo avulsi dalla rappresentazione. È il caso dei committenti spesso testimoni di sacre conversazioni o di episodi evangelici. Ma è anche il caso di santi, colti
nell’atto di riflettere su una pagina del Vangelo che si concretizza in immagine.106
Quindi la nostra rappresentazione potrebbe essere una sorte di dissolvenza visiva
nel passato da parte del personaggio misterioso, un santo eremita presso il Giordano
o il lago di Genèsaret, i cui occhi della mente vedono, durante una meditazione,
Cristo che chiama i primi discepoli.
Se così fosse due sono le possibili spiegazioni; la prima è quella di ritenere il
santo protagonista della raffigurazione un santo a cui i de’ Sangro fossero particolarmente devoti. La seconda che la raffigurazione non sia altro che un prodotto di
genere e di bottega di indubbia piacevolezza e buona esecuzione priva però di significati emotivi per i committenti. Allo stato attuale delle conoscenze mi sembra
che la seconda ipotesi sia la più plausibile.
Quanto all’esecuzione tecnica essa appare ineccepibile nell’impianto prospettico a due fuochi simmetrici sulla linea mediana orizzontale, con direttici incrociate
in diagonale verso il centro, in primo piano. Ne risulta la sensazione di essere di
fronte a un paesaggio molto vasto, vastità ulteriormente ampliata dalle due cornici
106
In tal senso un caso illustre è ad esempio la presenza di San Domenico nell’Annunciazione del Beato
Angelico nel convento di San Marco a Firenze. Ma sulla stessa falsariga sono tutte le apparizioni a santi in
meditazione.
103
Appendice
parallele, mistilinee e dorate, che inquadrano la raffigurazione in modo tale che la
più interna sembra tagliare un orizzonte visivo che si intuisce molto più ampio e la
seconda ribadisce il concetto della prima perché quasi “incolla” quello spicchio di
vastità al soffitto della camera dei de’ Sangro.
A questo punto, per quanto fin qui detto, si potrebbe anche ipotizzare una
datazione dell’affresco il cui limite, ante quam non, è chiaramente l’affresco di
Caravaggio in San Luigi dei Francesi e quindi il 1598-1600. Mentre la luminosità
della cromìa e la classicità delle altre figure che vi compaiono lo avvicinano più ai
dettami dell’Accademia degli Incamminati. In definitiva è probabile che l’affresco
risalga alla prima metà del ‘600, non sembra infatti dalle fotografie un lacerto ridipinto
né una sintesi eclettica propria di età più recenti della storia dell’arte.
Naturalmente solo un esame diretto dell’affresco può fornire dati più certi.
Il secondo affresco del palazzo dei de’ Sangro è sito su un soffitto sempre del
primo piano e come è stato già detto presenta una data, 1931, e una firma. In un
primo momento la firma è stata letta: “Guardaccione” in seguito la si è letta:
“Guardascione” grazie ad un suggerimento della soprintendenza ai beni culturali
di Napoli, confermato da due fonti letterarie: Artisti Napoletani Viventi di Enrico
Giannelli107 e Arte e Artisti a Napoli [1800-1943] di Paolo Ricci.108
Entrambe riportano una breve biografia di Ezechiele Guardascione, nato a
Pozzuoli nel 1875, scomparso nel 1948, pittore di marine partenopee, “d’ingegno
vivace e versatile” che lavorava, “con la medesima disinvoltura, a tempera e a olio”109
e che, per il suo lavoro, utilizzò persino come studio un’imbarcazione messagli a
disposizione da un suo mecenate, Roberto De Sanna, quest’ultimo era una figura
nota a Napoli perché fu anche impresario del teatro San Carlo.
Il Giannelli definisce espressamente Guardascione pittore impressionista. Il
Ricci, a sua volta, commenta che, intorno al 1910, la produzione del Guardascione
dà “un’interpretazione visionaria della vita portuale di una grande città; un tema
ricorrente nella pittura liberty, specie in quella belga, che il Gardascione rende attraverso un colore fuligginoso, mentre le forme si impastano in una atmosfera grigia, in cui emergono, come fantasmi, sartiame, gru, fumaioli, in un intrigo fitto di
segni neri che danno un senso dinamico e inquieto del porto”. Sembra la descrizione in scuro di “Impressione del sole che sorge”110 di Claude Monet manifesto sui
generis dell’Impressionismo.
A questo punto ci pare evidente lo stridore nell’accostare alla pittura liberty
una raffigurazione portuale come quella descritta. La pittura liberty è infatti chiara
nella composizione, lineare, mossa, definita nei contorni, preziosa nella cromìa e
visionaria si ma perché spesso mitica, leggendaria e fiabesca nei soggetti.
107
Enrico GIANNELLI, Artisti Napoletani viventi, Napoli, Tipografia Melfi & Joele, 1916, p. 275.
Paolo RICCI, Arte e Artisti a Napoli [1800 – 1943], Napoli, Edizione Banco di Napoli, 1981 p. 111.
109
E. GIANNELLI, Artisti Napoletani…., cit.
110
P. RICCI, Arte e Artisti…, cit.
108
104
Lucia Lopriore
Il secondo affresco del palazzo dei de’ Sangro corrisponde a queste caratteristiche.
Guardando di sotto in su sembra di assistere, sul soffitto della stanza, ad una
teofania pagana in un ameno boschetto. In realtà, prendendo quale riferimento direzionale la porta che introduce nella camera, è chiaro che la scena ha una sua coerenza di lettura. Il filo conduttore parte dallo sguardo, fuori campo in diagonale
verso l’alto, della figura femminile dai capelli fluenti seminascosta in basso dietro
un masso, per innalzarsi nel cielo, tramite due flessuosi alberelli. Qui due figure
abbracciate sembrano veleggiare nell’aria insieme a dei putti dando le spalle a un
altro gruppo composto da due figure femminili che semisdraiate sulle nubi volgono
lo sguardo in basso, chiudendo così il percorso visivo, in direzione dei parapetti
marmorei dei gradini di un tempietto ionico sui quali altri personaggi si intrattengono conversando.
Si è tentato di dare una spiegazione logica alla scena partendo dal dato di
fatto che la produzione del Guardascione privilegiasse vedute del golfo di Napoli.
Si è infatti pensato ad una rivisitazione delle coste partenopee e campane attraverso
le antiche leggende ad esse legate. Ma nessuna pista battuta ha permesso il riconoscimento certo di alcuna delle figure dell’affresco confrontata con le iconografie
classiche della mitologia.111 Si è anche valutata la possibilità che le figure fossero
legate alla famiglia acquirente del palazzo i conti Mangoni di Santo Stefano che,
avendolo acquistato agli inizi del ‘900, potevano aver chiesto al Guardascione di
affrescare una sua sala di rappresentanza con riferimenti ai loro possedimenti aviti.
Ma sinceramente non è parso plausibile riconoscere nell’ameno paesaggio (da età
dell’oro) raffigurato l’aspro paesaggio montano calabrese di Santo Stefano, così come
viene descritto dal Giustiniani112 . Né in tal senso sono stati possibili ulteriori riscontri dati i tempi ristretti della ricerca. Questi e l’impossibilità di accedere direttamente al dipinto non consentono alcuna certezza neppure intorno alla datazione
dell’opera. Infatti, nonostante la citazione specifica 1931, presente insieme alla fir-
111
A tal proposito sembrava promettente il masso dietro il quale emerge la donna dai capelli fluenti perché da
una delle angolazioni delle istantanee passata allo scanner è parso che questi avesse il profilo del Vesuvio per cui
si è verificato se la donna dietro di esso potesse essere Partenope. Mentre per le figure abbracciate fluttuanti
nell’aria si è ipotizzato potessero essere la personificazione dei venti del golfo di Napoli. Infine si è ravvisata,
nella figura femminile a seno scoperto seduta in alto contro il tempietto, Venere perché affianco, un po’ più in
basso, le siede l’unico putto di cui si distinguono delle ali ed è perciò riconoscibile in Cupido e, ancora, perché
sotto Cupido compaiono due colombe, animali sacri alla dea. Le altre figure non essendo chiaramente leggibili
non hanno permesso alcun tentativo di interpretazione. È da dire che al confronto incrociato tra fonti
iconografiche, iconologiche e letterarie hanno retto solo le figure di Venere Cupido. Le altre angolazioni delle
istantanee infatti non hanno confermato quella suddetta e soprattutto la citazione figurata è troppo succinta
rispetto al mito di Partenope. Quanto alle figure aeree è da aggiungere che una esse regge uno specchio a cui
entrambe si specchiano e che nel loro volo sono accompagnate da putti uno dei quali porta aggrovigliato al
braccio un serpente. Ebbene l’iconografia accertata più vicina ad una raffigurazione del genere è quella della
Prudenza. Cfr. Norma CECCHINI, Dizionario Sinottico di Iconologia, Bologna, Patron 1981, passim.
112
Lorenzo GIUSTINIANI, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Bologna, Forni, 1969, vol.
V, p. 345.
105
Appendice
ma su uno dei parapetti marmorei del tempio raffigurato, non si può non riflettere
che gli stilemi dell’affresco erano più attuali ancora vent’anni prima, dopo aver
furoreggiato a cavallo tra Ottocento e Novecento. Agli inizi degli anni trenta erano
un tantino obsoleti soprattutto se consideriamo il fatto che ci troviamo a Napoli,
una capitale culturale.
A questo punto sono possibili tre spiegazioni. La più ardita è che il Guardascione fosse stato chiamato a ritoccare un dipinto più antico addirittura rococò,
dato il soggetto e gli stucchi e le cornici che lo contornano, secondo una deplorevole idea di restauro, ancora in auge nei primi decenni del ‘900, che voleva tout-court
il ripristino visivo dell’opera d’arte. Per tale ragione il pittore avrebbe potuto attingere ad un linguaggio artistico nello stesso tempo più consono a soddisfare una
richiesta del genere e più vicino alla sua cultura pittorica di formazione. La seconda
è che il Guardascione fosse intervenuto a restaurare una sua opera di qualche decennio prima, da qui la perentorietà della firma e la giustificazione della presenza di
stilemi d’inizio secolo. La terza è che l’opera rispondesse ad una precisa richiesta
del committente, semmai anche in riferimento a soggetti analoghi presenti negli
ambienti vicini alla stanza dell’affresco di cui non ci è pervenuto nulla. In questo
caso il Guardascione sarebbe stato scelto per la sua riconosciuta versatilità.
In definitiva, per entrambi i dipinti più oltre a quanto sopra detto non è sembrato lecito andare, certo in conclusione ci si rende conto che più che trovare delle
risposte si sono, in fondo, formulate ulteriori domande. Ci conforta la convinzione
che ciò non è avulso alla ricerca in senso lato anzi è connaturata ad essa e contribuisce a renderla legittima proprio quando indica nuovi probabili percorsi d’indagine,
nonostante i limiti contingenti dei suoi esiti.
106
Lucia Lopriore
Pittori di casa de’ Sangro attivi a
Napoli nei secoli XVII, XVIII e XIX
di Lucia Lopriore
GIOVANNI MARIA DELLE PIANE
(* Genova 1660 + Monticelli d’Ongina 1745)
Figlio di Giovanni Battista, esperto schermidore, fu soprannominato il
“Mulinaretto” dall’avo mugnaio. All’età di dieci anni cominciò a frequentare la
bottega di G. B. Merano dove rimase fino all’età di sedici anni, quando si trasferì a
Roma presso G. B. Gaulli detto il “Baciccio”, che lo tenne come un figlio. In questa
importante bottega romana, il Delle Piane, sotto la guida del Galulli si esercitò sulle
opere dei grandi maestri: Giulio Romano, Guido Reni, Annibale Carracci ed il
Domenichino, traendone copie apprezzate dai critici dell’epoca. Sempre presso la
bottega del Galulli si esercitò nella ritrattistica. Si trasferì a Genova nel 1684, un
anno dopo la morte di G. B. Carbone, erede della tradizione ritrattistica genovese
della prima metà del XVII secolo.
L’aristocrazia locale riconobbe in lui l’arte e la sensibilità celebrativa del tempo, capace di adeguarsi alle nuove mode, vestendo le sue figure definite dal Ratti
con “drappi maestosi ed eleganti cogliendole in certe nuove e spiritose movenze”.
Nel 1695, su invito del conte Morando, compì un primo viaggio a Parma, città dove
era stato recentemente attivo il suo maestro G.B. Merano. Trovò committenti sia
nelle città farnesiane sia a Genova e fra Emilia e Liguria, si spostò da un luogo
all’altro eseguendo ritratti ed opere di carattere sacro. Nel 1705 il cardinale G.
Alberoni, inviato dal duca Francesco, incaricò l’Artista, che sembra risiedesse in
quel momento a Piacenza, di ritrarre il duca di Vendôme, comandante delle truppe
franco-spagnole. Nel 1706 l’Artista era ancora a Parma impegnato a ritrarre il duca
Francesco, la duchessa Dorotea e la principessa Elisabetta Farnese giovinetta.
Due anni dopo a Milano eseguì il ritratto di Elisabetta Cristina di Wolfenbüttel.
Successivamente ritornò più volte a Milano. Nel 1709 ritrasse il principe Antonio
Farnese e già da quell’anno, fu nominato pittore di corte e si trasferì a Parma da
dove, anche in seguito, ritornò a Genova per impegni di lavoro. Il 21 aprile 1745 il
Delle Piane divenne l’artista della duchessa Farnese ricevendo uno stipendio di L.
165, compreso vitto ed alloggio. Era ancora titolare di una provvigione nel 1734.
Tra il 1714 ed il 1715 ritrasse la principessa Elisabetta in occasione delle nozze con
Filippo V di Spagna; dal 1715 risiedeva stabilmente con la famiglia a Piacenza dove
107
Appendice
rimase fino al 1737. Nel 1719 fu invitato a recarsi in Spagna, probabilmente da
Elisabetta Farnese, che lo considerava suo ritrattista di fiducia, ma il viaggio non fu
mai intrapreso. Già anziano nel 1737, affrontò una lunga trasferta a Napoli dove si
trattenne alcuni anni alla corte del giovane re Carlo III di Borbone, già duca di
Parma. Pittore di camera fu impegnato a ritrarre il re Carlo e sua moglie Maria
Amalia di Sassonia. Proprio in quegli anni due suoi ritratti femminili furono presentati all’esposizione fiorentina dell’Accademia del disegno. Nel 1741 l’Artista stesso consigliò come nuovo pittore di corte Clemente Ruta, da lui conosciuto a Parma
e nel giugno dello stesso anno lasciò Napoli per Genova. In questa città dipinse
ancora ritratti per la nobiltà locale ed infine, nel 1744, si ritirò a Monticelli d’Ongina,
presso Piacenza, dove morì il 28 giugno 1745.
L’attività artistica del Delle Piane, durata oltre sessant’anni, fu estremamente
intensa. Le prime opere si devono inserire ancora in quel filone tipico della ritrattistica
genovese che dal Carbone risale al Van Dyck. La tecnica usata nella ritrattistica è
condotta con robusta incisività nel volto dei personaggi ritratti e con un’esuberanza decorativa inserita in una sfarzosa scenografia con minuziosa attenzione per gli
attributi di casta del soggetto rappresentato.113
Così, il ritratto di Nicolò di Sangro, custodito presso il Museo Filangieri
Principe di Satriano di Napoli, dipinto nel periodo in cui l’Artista fu attivo in questa città, si inserisce nella ritrattistica del suo tempo con tutte le peculiarità evidenziate
nello sfarzo scenografico.
FRANCESCO LIANI
(conosciuto anche come “il Liano”)
Pittore di origine parmense si trasferì a Napoli dove fu attivo tra il 1740 ed il
1777 al seguito di Carlo III di Borbone. Noto ritrattista di corte, dipinse il ritratto
di Ferdinando IV di Borbone nel 1766 ed uno smarrito ritratto, sempre del sovrano
in abiti militari, da cui nel 1772 fu ricavato un arazzo custodito nel Museo di
Capodimonte a Napoli. Le qualità dell’Artista però emergono soprattutto da una
lunga serie di dipinti di soggetto sacro, finora per lo più sconosciuti o ignorati dagli
studiosi, in cui su un fondo di pittura emiliana, si sono innestati elementi di chiara
derivazione napoletana che richiamano le tendenze di artisti quali Domenico Mondo e Pietro Bardellino. Filtrati attraverso la conoscenza delle opere dipinte dal Mengs
a Napoli.
Si tratta di una intera serie della Via Crucis nella cattedrale di Capua, di una
Natività, di una Presentazione al tempio presso il museo di Capodimonte a Napoli, di tre tele con episodi della nascita di Cristo e un’adorazione dei Magi pres-
113
Berengario BIAGINI, Dizionario Biografico Degli Italiani, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana, 1990,
vol. XXXVIII, pp. 45, 46 e 47.
108
Lucia Lopriore
so il palazzo Reale a Napoli e di un’ultima cena nel museo Campano di Capua.
Fu ritrattista presso molte famiglie appartenenti alla nobiltà napoletana, tra
queste si annovera quella dei de’ Sangro nella linea dei Marchesi di San Lucido e
duchi di Sangro.114
SALVATORE POSTIGLIONE
(*Napoli 20/12/1861 + ivi 28/11/1906)
Figlio di Luigi apprese dal padre, modesto pittore e decoratore di arredi sacri, le elementari nozioni di disegno che gli consentirono di sbarcare il lunario e
mantenere la numerosa famiglia dopo la morte dei genitori. Si specializzò in
ritrattistica riuscendo a frequentare poi, l’Istituto di Belle Arti di Napoli, grazie
all’aiuto economico dello zio Raffaele, pittore di quadri sacri ed insegnante nell’Accademia dal 1861. Allievo di Domenico Morelli al quale rimase legato come
suo seguace nella qualità delle immaginazioni coloristiche, si distinse dal maestro
per la personale tendenza ad insistere sul pittoresco realistico e su sgargianti intensità cromatiche, come si può evincere dai dipinti dedicati a San Pier Damiani e
Adelaide di Susa, ma soprattutto nei vivaci ritratti dello scultore Stanislao Lista,
nell’Istituto napoletano di Belle Arti e quello più solenne e vistoso del duca di
Martina, nel Museo della Floridiana a Napoli.
Nella produzione dell’Artista che spazia dal paesaggio al quadro di “genere”, alle caratteristiche tele di soggetto monastico più legate alle tendenze del tempo, qualche interesse rivestono quella dell’Immacolata Concezione per il Duomo
di Nola, gli affreschi nel castello di Miramare e, a Napoli, le decorazioni eseguite
nel palazzo de Riseis.115 Nel 1902 fu nominato insegnante di pittura Modena, da
lui venne istradato all’arte il fratello Luca, valente pittore di “genere” e di ritratti.
L’Artista si spense prematuramente nella sua città dopo una intensa attività artistica.116
EZECHIELE GUARDASCIONE
(*Pozzuoli 2/09/1875 + 1948)
Cominciò a muovere i primi passi del mondo dell’Arte presso l’Istituto di
Belle Arti di Napoli, sotto la direzione del Palizzi. I soggetti da lui preferiti furono
le marine del porto di Napoli e Pozzuoli nelle ore misteriose e silenti. Fu un
impressionista d’ingegno vivace e versatile, lavorò con la stessa disinvoltura a tem114
AA.VV., Dizionario Enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, Torino, Giulio Bolaffi Editore, 1974, vol. VI, pp. 418 e 419.
115
Ibid., vol. IX, pp. 192 e 193.
116
AA.VV., Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, Istituto Enciclopedico Italiano,1949, vol. XXVIII, p. 98.
109
Appendice
pera ed a olio. Per quanto fosse stata vasta la sua produzione artistica non prese
parte a molte esposizioni. Dimorò a Pozzuoli ed a Napoli.
Nel 1910 ebbe uno studio natante: una zattera messa a sua disposizione da un
grande industriale del carbone, Roberto De Sanna, che fu per un certo tempo anche
impresario del teatro S. Carlo, un vero e proprio self-made man amico ed ispiratore
di Eduardo Scarfoglio.
“Quando Roberto De Sanna vide alcune macchie – racconta il Guardascione
in Napoli pittorica – mi domandò se conoscevo il latro del porto dover si attraccavano
i grandi vapori del carbone. Andate mi disse, telefonerò al capo guardiano che si
mettea a vostra disposizione. Così ebbi una vecchia zattera sulla quale era stata
costruita una specie di baracca che venne imbiancata al mio arrivo”.
Le opere del Guardascione dipinte in quel tempo costituirono un’interpretazione visionaria della vita portuale di una grande città; un tema ricorrente nella
pittura liberty specie in quella belga, che Guardascione rese attraverso un colore
fuligginoso, mentre le forme si impastavano in un’atmosfera grigia, in cui emergevano, come fantasmi, sartiame, gru, fumaioli, in un intrigo fitto di segni neri che
davano un senso dinamico ed inquieto del porto.117
Si ricordano di lui alcune opere presentate alle Mostre della Promotrice
Salvator Rosa, che hanno avuto un ottimo successo. Nel 1897 espose il dipinto
Verso Sera, nel 1904 Paranzelle (in b/n), fu acquistato dalla Società e fu destinato al
Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio; Barche a sera e Marina di
Pozzuoli; nel 1911, Nel Porto, Sera, premiato con medaglia d’oro piccolo conio del
R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli ed acquistato dall’ing. Comm. Achille
Minozzi, il Pino, Barche, fu offerto gentilmente dall’autore alla Società, e fu destinato alla Banca Generale della penisola sorrentina. Nel 1898 a Torino prese parte
all’Esposizione Nazionale, Cinquantesimo anniversario della proclamazione dello
Statuto con il dipinto dal titolo: Nel Pantano.118
117
118
RICCI, op. cit., p. 111 e segg.
GIANNELLI, op. cit., p. 275.
110
Lucia Lopriore
Napoli - Museo Civico “Gaetano Filangieri Principe di Satriano”. G. M. Delle Piane, 1741
- Ritratto di Nicolò de’ Sangro (autorizzazione prot. n. 03-01-05 del 11-01-05).
111
Appendice
Napoli - Museo Civico “Gaetano Filangieri Principe di Satriano”. Francesco Liani (attribuito
a) - Ritratto di Domenico de’ Sangro (autorizzazione prot. n. 03-01-05 del 11-01-05).
112
Lucia Lopriore
Napoli - Museo Duca di Martina Salvatore Postiglione - Ritratto di Placido de’ Sangro
(autorizzazione prot. n. 5258 del 16-09-02).
113
Appendice
Ritratto di Riccardo de’ Sangro ultimo (Collezione Privata Davide Shamà).
114
Lucia Lopriore
Genealogia della famiglia de’ Sangro 119
di Lucia Lopriore
115
Appendice
116
Lucia Lopriore
119
ASNA – Sez. Diplomatica-Politica, Archivio Privato Serra di Gerace, vol. III, cc. 1187r, 1200r, 1204r. Linea di
appartenenza incerta fino ad Oderisio. Cfr. http://www.sardimpex.com. Poiché nel corso della presente ricerca sono state
riscontrate dicotomie tra le diverse fonti consultate e citate in questo saggio, si è pensato di riportare comunque in questa
genealogia tutti i personaggi menzionati in modo da evidenziarne le discrepanze.
120
Filiberto CAMPANILE, L’historia dell’illustrissima famiglia de’ Sangro scritta dal signor Filiberto Campanile,
Napoli, nella stamperia di Tarquinio Longo, 1615, passim. Signore de’Marsi, fu detto “il Francese”. Di dubbia
appartenenza alla famiglia.
121
Ibid., conte de’ Marsi, nel 960 riceve dall’Abate Aligerno l’Istrumento di concessione del Monastero di S.
Maria di Leuca.
122
Ibid., nel 1093 fu conte de’ Marsi e conte di Sangro, secondo Davide Shamà risulterebbe figlio di un conte
Oderisio non ben individuato; apparteneva ad un’illustre e potente casata e professava la legge longobarda.
123
Ibid., fu signore di Belmonte, di Castiglione e d’Acquaviva. Secondo Davide Shamà la parentela è incerta, fu
conte di Sangro e de’ Marsi, in un atto del 1098 cedeva tutti i beni allodiali presenti a Monte Aze (Montazzolo) al
monastero di San Benedetto Frattura.
124
Nato nel 1040 secondo Davide Shamà la parentela è incerta, in quanto è menzionata solo dal Serra ed ignorata
da altre fonti, i suoi figli sono attribuiti al fratello presunto Berardo I.
125
Cardinale., nomina incerta.
126
Ibid., conte di Sangro nel 1069.
127
Ibid., fu nominato conte forse de’Marsi nel 1154 da Guglielmo II Re di Sicilia, partecipò alla congiura contro
Maione Ammiraglio del Regno di Sicilia nel 1153 ma ottenne il perdono; con Roberto conte di Caserta e Boemondo
conte di Monopoli, fu Giudice nella causa riguardante Riccardo di Mandra conte del Molise. Morì nella prima metà
del regno di Guglielmo II di Sicilia.
128
Ibid., conte di Sangro.
129
Ibid., secondo Davide Shamà da questo personaggio segue la successione genealogica sicura della famiglia.
130
Ibid., morto nel 1273.
131
Ibid., morto prima del 1269, sposa Stefania d’Anglone, risposata a Tommaso d’Aquino dei conti di Acerra e
madre di Beatrice d’Aquino moglie di Odorisio de’ Sangro signore di Belmonte.
132
Ibid., signore di Joranello e Specchia, nel 1269 il Re di Sicilia gli proibiva di molestare il dominio dei nipoti
Gualtieri, Gemma e Tommaso sui loro feudi. Secondo l’Ammirato ebbe una figlia di nome Teodora, che sposò nel
1278 Gentile di Pettorano, ma la sua esistenza è incerta.
133
Ibid., signore di Belmonte.
134
Ibid., sposa Matteo Acquaviva signore di Canzano.
117
Appendice
135
Ibid., morta dopo il 1308, sposa Cristoforo d’Aquino 1° conte d’Ascoli.
Ibid., secondo il Litta: Anna, di Gualtieri Acquaviva signore di Canzano. Cfr. http://www.sardimepx.com.
137
Ibid., forse identico ad uno dei personaggio citati dall’Ammirato nel 1338 ed uno degli stipulanti il
contratto del 2 ottobre 1347 in cui si acquisiva 1/6 del castello di San Giorgio (insieme con Gentile, probabile
fratello, e forse ai cugini Ugo, Giovanni e Niccolò).
138
Ibid., menzionato per errore come cardinale, probabilmente è uno dei personaggi menzionati dall’Ammirato in data 1338 ed uno degli stipulanti il contratto del 1347.
139
Ibid., sposa Amelio di Corbano dei signori di Dragonara.
140
Ibid., di Rinaldo, conte d’Aversa.
141
Ibid. ,familiare di Re Roberto, morto nel 1346.
142
Ibid., vescovo forse di Valenza dal 1343.
143
Ibid., sposa Francesco Acquaviva, signore di Castrelvecchio.
144
Ibid., sposa Giovanni di Saliaco, signore di Castelfusco.
145
Ibid., fu signore di Rotella, Torremaggiore e Bugnara.
146
Ibid., morto strangolato a Genova nel dicembre 1386, Protonotario Apostolico, eletto cardinale diacono
con il titolo di San Adriano al Foro il 18/09/1378, Legato a Napoli nel 1381, incorona la Regina Margherita di
Durazzo nel Duomo della città il 25/11/1381. Risulta essere uno degli autori della congiura che doveva assassinare il Papa Urbano VI. Scoperto ed arrestato l’11/01/1385 assieme ai cardinali Adam Easton, Ludovico
Donato, Bartolomeo Coturno e Marino Giudice, fu imprigionato il giorno seguente nel castello di Nocera
Umbra, fu trasferito successivamente con la corte papale a Genova e fu imprigionato fino al momento della
condanna a morte. Il suo corpo fu gettato in mare.
147
Ibid., monaca nel monastero di Santa Chiara a Sulmona.
148
Iibdem, già sposata, si fece monaca nel monastero di Santa Chiara a Sulmona nel 1355.
149
Ibid., signore di Bugnara e conte di Agnone nel 1410.
150
Ibid., Signore di Bugnara, cavaliere di re Ladislao I. Cfr. http://www.sardimpex.com.
151
Ibid., signore di Bugnara, castellano di Castel Sant’Angelo a Roma, morto nel 1405.
152
Ibid., sposa Aldobrandino Conti, signore di Segni, Valmonte, Sacco, Fulminara, Gavignano, Montelanico,
Pruni, Montelungo, Lugnano, Zancati, Carpineto, Gorga, Villamagna, Pisterzo, Prossedi, Patrica, Roccasecca,
Giuglianello e Tiberia; morta dopo il 1425.
153
Ibid., morto nel XV sec. fu al servizio di Carlo III d’Angiò e da questi fu investito dei feudi di Serracapriola,
Torremaggiore, Fossacieca e Rotello nel 1383.
154
Ibid., capostipite dei principi di Fondi e marchesi di San Lucido.
155
Ibid., signore di Bugnara.
156
Ibid., abate di San Clemente.
157
Ibid., di Torto Signore di Bugnara e di Giovannella Pappacoda.
158
Ibid., Barone di Bugnara, sposa Antonella Lalle Camponeschi dei conti di Montorio.
159
Ibid., morto nel 1480, Consignore di Bugnara.
160
Ibid., capostipite dei duchi di Vietri.
161
Ibid., capostipite dei duchi di Casacalenda.
162
Ibid., sposa Polissena Caracciolo.
163
Ibid., Cavaliere dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme dal 1477.
164
Ibid., Consignore di Bugnara, sposa Camilla di Durazzo, di Rinaldo pr. Di Capua e di Lisiola Castaldo.
165
Ibid., Consignore di Bugnara, cavaliere dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme dal 1519.
166
Ibid., morto il 31/03/1552 Barone di Bugnara e Patrizio Napolitano, nel 1536 acquisisce parti della
baronia di Bugnara che in maggior parte apparteneva ai Colonna di Paliano.
167
Ibid., morta nel 1518 sposa 1° Francesco Pastore; 2° Francesco Pandone, Patrizio Napolitano.
168
Ibid., Luigia secondo Davide Shamà . Cfr. http://www.sardimpex.com .
169
Ibid., Barone di Bugnara e Patrizio Napolitano morto il 20/04/1570, sposa Beatrice Carafa.
170
Ibid., Barone di Bugnara e Patrizio Napolitano morto il 21/12/1572, sposa Isabella Brancaccio.
171
Ibid., Patrizio Napolitano.
172
Ibid., morta nel 1573, baronessa di Casignano.
173
Ibid., morto il 05/09/1575, Barone di Casignano e Patrizio Napolitano.
174
Ibid., morto il 02/03/1607, Patrizio Napolitano.
136
118
Lucia Lopriore
175
Ibid., sposa Luigi della Marra.
Ibid., sposa 1° Giovan Camillo Saraceno; 2° Fabio Sifola; 3° Fabrizio Dentice.
177
Ibid., Barone di Casignano e Toritto , titoli ceduti ai discendenti e Patrizio Napolitano, m. 29/06/1623.
178
Ibid., morta il 15/03/1612, erede del marchesato di S. Lucido, di Giovanni Battista, 2° conte di Serino e
Giovanna Carafa, marchesa di S. Lucido; la sorella Isabella sposerà in seconde nozze Giovan Francesco de’
Sangro, 2° principe di S. Severo, di Paolo e Geronima Caracciolo.
179
Ibid. e http://www.sardimpex.com nato nel 1590 morto il 05/07/1666 marchese di S. Lucido, Patrizio
Napolitano; sp. il 20/06/1619 Alivina Frangipane della Tolfa di Orazio conte di Serino e Diana della Tolfa del
conti di San Valentino, vedova di Giovanni Milano d’Aragona, morta il 23/07/1664.
180
Ibid., nato il 17/06/1597 e morto il 26/08/1669, principe di Viggiano.
181
Ibid., nata il 09/10/1598, monaca “suor Maria” nel Monastero della SS. Trinità dal 1615.
182
Ibid., nata il 02/12/1599, entrò nel Monastero della SS. Trinità nel 1615, con il nome di “suor Beatrice”.
183
Ibid., nato il 29/12/1602. Patrizio Napolitano
184
Ibid., morta il 29/09/1609.
185
Ibid., nata il 03/01/1629, monaca con il nome di M. Cecilia dal 1647.
186
BNNA – Sez. Manoscritti e rari, ms. XVIII.46, c. 133r. Notizie… cit., e http://www.sardimpex.com capostipite
dei principi di Fondi , 2° marchese di San Lucido dal 1666, barone di Casoria, Casignano ed Olivola che riacquistò
poco prima del 1672, sposò il 13/12/1639 Isabella di Sangro, morì il 25/11/1672.
187
ASNA – Sez. Diplomatica, Archivi Privati, Archivio Privato Serra di Gerace, vol. III, cc. 1200 e 1204 e
2066 morto nel 1672. Patrizio Napiolitano, abate. Cfr. http://www.sardimpex.com .
188
Ibid., nato il 10/01/1624, Patrizio Napolitano.
189
Ibid., nata il 16/01/1625, diviene monaca nel 1645 entrando nel Monastero di Regina Coeli di Napoli.
190
Ibid., nato a Marano il 16/04/1626 morto il 11/05/1699, Patrizio Napolitano; sposa il 18/11/1674 Beatrice d’Afflitto.
191
Ibid., Barbara n. il 12/03/1631, Antonio m. 1694 vescovo di Troia, Giovanna n. il 07/09/1634 e m. 21/11/
1673, sposerà il 15 maggio 1650 Giovan Francesco de Sangro, 4°Principe di S. Severo e duca di Torremaggiore.
192
Ibid., di Tommaso principe di Scanno e Patrizio Napolitano e Giulia d’Afflitto, n. 24/08/1645 m. 17/10/
1709. Cfr. BNNA – Sez. Manoscritti e rari, ms. n. XVIII . 46, c. 133r. Notizie … cit.
193
Ibid., nato il 14/06/1677 m. il 05/11/1764, Partizio Napolitano, sp. il 24/06/1731 Stefania d’Afflitto, dei
principi di Scanno morta il 11/01/1781.
194
Ibid., nato il 10/09/1678, morto il 06/05/1750, Tenente Generale dal 12/04/1737 e Cap. Gen. dal 20/11/
1741. Patrizio Napolitano
195
Ibid., capostipite dei duchi di Sangro dal 1760. Patrizio Napolitano.
196
Ibid., nato il 28/04/1682 m. 29/01/1755. Patrizio Napolitano.
197
Ibid., nato il 12/11/1683 morto il 09/11/1687. Patrizio Napolitano.
198
Ibid., di Antonio duca di Fragnito Patrizio Napolitano e Maria Maddalena Imperiale, di Domenico,
marchese di Latiano, e Maria Teresa Spinola.
199
ASNA, Sez. Diplomatica-Politica, Archivi Privati, Archivio Livio Serra di Gerace, vol. III, c. 1204 e 2066.
200
2° duca di Sangro.
201
Ibid., 6° duca di Salandra, Patrizio Napolitano; nato a Tricarico (MT) il 09/02/1754 e morto a Palermo il
07/10/1810. In alcune fonti appare solo con il nome di Vincenzo in altre solo con quello di Tommaso, poiché
nelle genealogie ufficiali quest’ultimo nome non compare, è probabile che si tratti del terzo nome di battesimo
ampiamente utilizzato dal personaggio.
202
Ibid., di Riccardo di Ettore di Fabrizio, 12° duca di Andria, 4° duca di Castel del Monte, 15°conte di
Ruvo, marchese di Corato, patrizio Napolitano dal 1764, e di Margherita Pignatelli di Monteleone. Casata:
Carafa della Stadera. Cfr. http://www.sardimpex.com
203
Ibid., nata il 09/09/1795, morta il 15/02/1872.
204
Ibid., nata e morta nel 1796.
205
Ibid., nata a Firenze nel 1798 morta a Napoli il 18/01/1874, Dama di Corte delle Due Sicilie, sposa il 10/
09/1817 Nicola Maresca Donnorso 3° duca di Serracapriola e 1° conte di Tronco. n. San Pietroburgo il 13/08/
1790 m. Portici il 17/11/1870.
206
Ibid., nato a Palermo il 10/08/1799 morto a Napoli il 15/01/1805, Patrizio Napolitano.
207
Ibid., nata a Palermo il 02/09/1800 morta a Napoli il 10/07/1859, sposa il 3/07/1822 Francesco Carafa,
duca di Forlì, conte di Policastro e Patrizio Napolitano.
176
119
Appendice
208
Ibid., nato a Napoli il 20/07/1803 morto il 05/02/1861, 3° duca di Sangro, Patrizio Napolitano.
Ibid., nato il 22/05/1805 si ignora la data di morte, Patrizio Napolitano.
210
Ibid., nata a Genova nel 1808 morta a Napoli il 22/11/1855, sposa il 16/05/1832 il conte Francesco de la
Tour-en-Voivre.
211
Nato il 14/07/1797 morto il 14/02/1883.
212
Ibid., di Placido e Francesca del Giudice Caracciolo, 15ª duchessa di Martina Franca, 15ª contessa di
Buccino, nata a San Giorgio a Cremano il 11/10/1805 morta il 30/11/ 1849.
213
Ibid., nata a Napoli il 29/12/1825 morta il 16/11/1909, sposa il 07/06/1848 Giuseppe Caracciolo, 4° duca
di Castelluccio.
214
Ibid., 4° duca di Sangro, nato a Napoli il 27/08/1827 morto ivi il 14/02/1901, 17° duca di Martina, conte
di Buccino e conte di Brienza dal 1881, Patrizio Napolitano. Cfr. http://www.sardimpex.com
215
Ibid., 16° duca di Martina, nato il 29/08/1829 morto nel 1891, sposa il 18/06/1851 Maria C. Caracciolo di
Carlo Luigi duca di Santa Teodora nata il 03/03/1835 m. 08/11/1855, dal matrimonio nascerà Riccardo nato il
3/07/1855, morto il 03/04/1881, Patrizio Napolitano.
216
Ibid., nata il 11/07/1831 morta il 24/09/1835.
217
Ibid., nata il 07/09/1833 morta il 30/05/1840.
218
Ibid., nata il 30/07/1836 morta il 02/10/1874, sposa il 14/02/1855 Luigi Pignatelli della Leonessa principe di Monteroduni, conte di Tuhegl, barone di Gallo e Patrizio Napolitano; nato a Napoli il 23/03/1836
morto ivi il 29/08/1871.
219I
Ibid., nato morto il 18/08/1838.
220
Ibid., nato morto nel 1849.
221
Ibid., di Giuseppe, 8° Principe di Ottajano e Marianna Gaetani duchessa di Miranda, nata a Napoli il 10/
12/1831, ivi morta il 12/06/1879. Cfr. http://www.sardimpex.com
222
Ibid., nato a Napoli il 27/03/1853 morto il 07/02/1872, Patrizio Napolitano.
223
Ibid., nata il 10/05/1854 morta il 14/12/1878.
224
Ibid., nata a Napoli il 09/06/1856 ivi morta il 11/02/1887, sposa il 24/06/1874 Nazario Sanfelice, 11°
duca di Bagnoli e 3° duca di S. Ciprano, di Fabio e Giustina Monforte, nato a S. Giovanni a Teduccio il 07/11/
1854 morto a Napoli il 28/12/1920.
225
Ibid., nata il 01/02/1859 morta il 26/12/1887, sposa il 17/10/1881 Diego Pignatelli d’Angiò di Vincenzo
principe del S.R.I. e Tommasa Pignatelli, nato il 20/11/1855.
226
Ibid., nato a Parigi il 14/06/1861 morto a San Giorgio a Cremano il 18/09/1897, conte di Buccino, sposa
il 18/02/1888 Maria Guevara Suardo di G. Battista duca di Bovino e Carolina Filangieri dei principi di Satriano,
nata a Napoli il 10/02/1867 morta a Roma il 10/11/1931.
227
Ibid., nata a Parigi il 31/04/1863 morta ivi il 15/01/1880.
228
Ibid., nata il 04/10/1864 morta il 23/10/1904, sposa il 06/10/1900 Giulio dei baroni Zezza.
229
Ibid., nato il 17/06/1866 morto a Castellammare di Stabia il 15/09/1911, conte dei Marsi, sposa il 10/01/
1894 Maria Spinelli dei principi di Scalea, di Carlo e Felicita Nolli dei baroni di Tollo, nata il 8/08/1867.
230
Ibid., nato nel 1868 a Parigi e ivi morto.
231
Ibid., nata a Napoli il 21/11/1874 morta il 14/11/1902, sposa il 27/04/1897 Carlo dei baroni Zezza.
232
Ibid., nato a Napoli il 04/04/1889 morto a Roma nel 1978, 18° duca di Martina, 18° conte di Buccino e
conte di Brienza dal 1901, Patrizio Napolitano.
233
Ibid., nato a Napoli il 10/10/1890 morto il 05/05/1972, barone di Mottola e 20° conte di Buccino, sposa
il 10/07/1919 a Venezia, Lydia Franceschini nata a Vittorio Veneto il 13/01/1897.
234
Ibid., nata a Napoli il 23/03/1892 morta a Roma il 29/01/1970; sposa il 20/04/1921 Gian Antonio marchese Monticelli Obizzi, nobile di Crema n. a Milano il 05/10/1890 m. a Roma il 10/01/1965, da cui nasceranno Obizzo e Maruska.
235
Ibid., nata a Portici il 10/09/1893 morta a Roma il 19/03/1943; sposa in prime nozze il 05/02/1919
Michele Avarna dei duchi di Gualtieri Siscaminò, nato a Vienna il 24/10/1888 morto a Nizza il 28/02/1919,
dal matrimonio nascerà Michela. Carolina sposerà in seconde nozze il 28/12/1922 Giovanni dei conti Naselli,
nato a New York il 06/12/1896 morto a Città del Messico il 16/04/1972; dal matrimonio nascerà Maria Amelia
che sposerà Fabrizio Notarbartolo dei duchi di Villarosa da cui nasceranno Carla e Blasco. Le notizie sugli
ultimi matrimoni sono state cortesemente fornite dalla signora Carla Notarbartolo di Villarosa.
236
Ibid., nato a Napoli il 04/01/1897 morto a Roma il 04/08/1972 sposa il 13/10/1932 a Parigi, Angelica de
Gainza nata a Buenos Aires il 19/12/1904 morta a Roma il 03/01/1953. Cfr. http://www.sardimpex.com.
237
Ibid., di Giovanni conte di Mazzarino e Luisa Ruffo dei duchi di Bagnara, nata a Palermo il 03/02/1893
morta a Roma il 07/03/1970. Cfr. http://www.sardimpex.com .
238
Ibid., nato il 03/02/1921, morto il 14/07/1958, Patrizio Napolitano.
209
120
Lucia Lopriore
FONTI DOCUMENTARIE
ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI:
Sez. Diplomatica – Politica:
- Archivi Privati: Archivio Serra di Gerace.
- Repertorio dei Quinternioni Feudali.
- Refute dei Quinternioni.
- Significatorie dei Relevi.
- Cedolari dei Feudi: San Lucido.
ARCHIVIO PRIVATO DELLA COMMISSIONE ARALDICA NAPOLETANA:
- Platea delle Famiglie nuovamente ascritte al Libro d’Oro.
- Libro d’Oro altri Registri di Nobiltà ed Ordini Cavallereschi.
- Platea delle Famiglie Patrizie Napolitane.
ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO:
- Archivio della Consulta Araldica – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
ARCHIVIO STORICO DIOCESI DI ASCOLI S. – CERIGNOLA:
- Reali Siti: Voll. IV e V.
ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA:
- Dogana delle pecore di Puglia, s. I. – Amministrazione del Tavoliere s. II.
BIBLIOTECA COMUNALE DI MARTINA FRANCA:
ARCHIVIO PRIVATO CARACCIOLO – DE’ SANGRO:
- Buccino Generale.
- Successioni.
- Filiberto CAMPANILE, Storia della Famiglia de’ Sangro, dattiloscritto inedito.
BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI:
Sez. Manoscritti e Rari:
- mss. nn. XA . 40 – XA . 41 – XA . 42 – XA . 45 – XIV F 32 – XVII 25 – XVIII . 46.
ABBREVIAZIONI
ASNA:
ASFG:
ASDA:
BCMF:
BNNA:
Archivio di Stato di Napoli.
Archivio di Stato di Foggia.
Archivio Storico della Diocesi Ascoli S. – Cerignola.
Biblioteca Comunale di Martina Franca.
Biblioteca Nazionale di Napoli.
121
Appendice
r. : recto
v. : verso
b. : busta
fasc.: fascicolo
f.:
foglio
c./cc.: carta/e
vol.: volume
voll.: volumi
pag. : pagina
pp.: pagine
duc.: ducato/i
ms./mss.: manoscritto/i
s.: serie
n./nn.: numero/i
segg.: seguenti
op. cit.: opera citata
doc. cit.: documento citato
La pubblicazione della foto del duca di Martina è stata autorizzata dal Ministero per i Beni e
le Attività Culturali e dalla Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli.
La pubblicazione delle foto dei duchi di Sangro è stata autorizzata dal Museo Civico “Gaetano
Filangieri Principe di Satriano” di Napoli.
È tassativamente vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
122
Tommaso Nardella
Una città di “regio patronato” tra due conventi:
frammenti inediti di storia francescana
di Tommaso Nardella
Nel dicembre del 1767 apparve in Napoli una allegazione forense destinata a
modificare i rapporti tra Chiesa e Regno delle Due Sicilie. Redattore fu l’avvocato
viestano Natale Maria Cimaglia, allievo di Pietro Giannone. Il 3 novembre del 1782
Ferdinando IV dichiarò, con real dispaccio, la fine della plurisecolare amministrazione degli abati commendatori dei quali, per quanto ci riguarda, fu il cardinale
Nicola Colonna, principe di Stigliano, che morì in San Marco in Lamis nel 1796.
Se non è agevole, anche per uno storico consumato, ricostruire, in una breve
nota, alcune delle vicende che caratterizzarono nei secoli scorsi la vita dei Santuari
di Stignano e di San Matteo, altrettanto problematica appare la scelta di dati ed
elementi documentaristici utili per la stesura di un profilo storico che non intende
però ridursi ad una arida elencazione di fatti tipici delle cronistorie locali. Occorre
pertanto soffermare l’attenzione su specifici e peculiari aspetti dei due monasteri
per ricavarne un quadro d’assieme che dia un’idea sufficientemente esaustiva del
loro sviluppo dalle origini ai nostri giorni.
Ci pare questo il modo più valido per rivisitare quanto si è detto sui due
conventi francescani con l’apporto di una recente acquisizione, sia pur circoscritta,
di materiale archivistico e bibliografico.
“Da due falde del monte Gargano nasce una valle, non meno spaziosa che
amena, detta comunemente di Stignano, nella quale fra molte altre chiesette, abitate
da esemplari romiti, vedesi innalzato un vago e magnifico tempio dedicato alla madre di Dio e ivi annesso un ben capace convento di padri minori osservanti di San
Francesco”.
L’esemplare essenzialità descrittiva del luogo, dovuta a Serafino da Montorio,
un religioso del XVIII secolo, ha già in sé tutti gli elementi per comprendere come
nell’immaginario collettivo, per usare un’espressione di moda, la valle di Stignano,
unico accesso al Gargano meridionale fino a Monte Sant’Angelo, si è indissolubilmente associata a quella del Santuario che trae le sue origini in epoca medievale.
Il suo nome lo si trova, per la prima volta, in un instrumentum della chiesa di
San Claudio presso “Casale Novum” nell’Archivio di Stato di Napoli proveniente
dal fondo di San Leonardo di Siponto, costituito da ben 474 pergamene. In esso si
fa esplicito riferimento ad un olivetum iuxta olivetum Sancti Nicolaj de Bastia et
iuxta olivetum Sancte Marie in Valle Stiniana.
123
Una città di “regio patronato” tra due conventi: frammenti inediti di storia francescana
L’instrumentum, redatto dal notaio Nicola di San Severo il 21 settembre 1231,
fu sottoscritto dai giudici Rainaldo e Ruggero, dal vescovo Roberto di Volturara e
dai testimoni Nicola de Berardo, Rainaldo, Goffido e dal milite Filippo Longarello.1
Il culto della Vergine nella valle doveva dunque preesistere alla leggendaria
apparizione del 1350 al cieco di Castelpagano, un ventoso casale garganico, di recente parzialmente restaurato, di ben 119 anni. Il mito cede il passo alla storia rimanendo solo come segno di un ulteriore e più vasto incremento della venerazione
mariana oltre gli angusti limiti della provincia. Né giovano altre ipotesi basate su
inquietanti letture “litiche” per pescare le radici di Stignano in epoca addirittura
bizantina.
Ma per rinvenire un altro dato utile alla conoscenza del Santuario occorre
risalire ai primi anni del XVI secolo. Signore di Castelpagano era Ettore Pappacoda,
un nobile napoletano, al cui mecenatismo si deve se, sul finire del 1515, al posto del
modesto oratorio, si costruì una chiesa di severa compostezza rinascimentale.
Nel 1560 chiesa e locali passarono, per volere di Pio IV nelle mani dei
francescani che diedero un impulso di vita nuova al Santuario migliorandone le
precedenti strutture. Risalgono infatti al 1576 la costruzione di un artistico pozzale
attribuito a Giovanni da Troia, in uno dei chiostri della stupenda facciata della chiesa calda colore frumento, del sagrato ad opus incertum cinto da un muretto recentemente distrutto unitamente ad un coro seicentesco in noce composto da 49 stalli
adornati da 160 teste di putti finemente intagliati.
Nel 1628 il barone Troiano Corigliano, feudatario di Rignano, proprietario
di vasti territori nella valle, fece costruire, a fianco della chiesa, un ampio fornice
che gli consentiva di accedere in essa direttamente, nel cui interno venne creato una
specie di minuscolo matroneo onde assistere tranquillamente ai riti religiosi. Ma in
un afoso pomeriggio estivo una terribile scossa sismica arrecava morte e rovina
lasciando i frati superstiti nella più cupa desolazione.2
Anni difficili per una esigua comunità di frati cui pose parziale rimedio, nel
settembre del 1634, la Congregazione dei Religiosi con un suo “placet” per l’istituzione del noviziato nei due conventi.
Si deve al mecenatismo di un cittadino romano, Alessandro Mancino, se il
primo marzo del 1645 stabilì di donare argentei oggetti sacri e una “polizza di cambi” di 1500 ducati al convento di Stignano che raprì le porte per continuare a svolgere la sua missione e per dare asilo ai romei abruzzesi che nel mese di maggio, a
piedi, salivano sul Gargano per rendere omaggio al sacro speco di Monte Sant’Angelo.
Nella biblioteca del convento francescano di San Matteo si conserva una co1
Fortunato COMBRECO, Regesta chartorum Italiane, Roma, Loescher, 1913, p. 118.
Antonio LUCCHINO, Del Terremoto che addì 30 luglio ruinò la città di Sansevero e Terre Vicine, a cura di
Nicola Checchia, Foggia, Cappetta, 1930, p. 49.
2
124
Tommaso Nardella
pia cinquecentesca della “Summae totius theologiae D. Thomae Aquinatis Doctoris
Angelici Fratrum Praedicatorum cum commentariis R.D.D. Thomae De Vio
Cajetani, Cardinalis S. Sisti Venetiis, apud Haeredem Hieronymi Scoti, MDLXXX,
sul cui retro del frontespizio viene dettagliatamente elencato tutto ciò che viene
donato. Un atto di donazione che investe il controllo della Sacra Congregazione
romana e il Vescovo di San Severo per la parte spettante agli addetti all’infermeria
della sopracitata città.
“In Roma a dì di primo di marzo 1645
Don Alessandro Mancini ha donato per amore di Dio, alla Chiesa, e monasterio
di Santa Maria di Stignano nella provincia di S. Angelo, nel Regno di Napoli,
l’infrascritte robbe, e ho pagate le spese, che se faranno per condurle al detto
luoco, dove dimorano i frati di San Francesco dell’osservanza.
La presente somma di San Tomaso, intera in 4 tomi: cioè parte prima, parte
seconda; seconda secondae, et terza parte.
Ricardo di Media Villa nel 4 delle Sententie un tomo
Viola anime di Raimundo Sabbani; con le concordanzie di San Thomas tomo I.
Croce d’argento con il Christo di rilievo indorato, e con il piede della Croce
anco indorato.
Una corona per l’immagine della Madonna d’argento con pietre incastrate.
Due pianete di,damasco fino bianco, con l’arme della Madonna, di san
Bernardino e de...
(Don Alessandro)... Et con custodie, et due manipoli dell’istesso, e due borse
er li corporali.
[ ...] le sopradette cose sono valute di 200 ducati in circa.
E vuole il detto Don Alessandro che le sopradette cose servino, per amor di
Dio, ad honore di queta casa e per uso dei Frati di quel cenobio. E che di là non
debian essere amosse, e caso che fussero amosse ... ... s’intende la detta donatione,
e seguenti cose, con tutti gli altri beni che detto don Alessandro ha fatto alla
detta chiesa, e monastero di Stignano, s’intendano donati alla chiesa et monastero di Santa Maria della Grazia, de Padri Riformati di... li quali li possano
ricuperare da qualsivoglia persone, e luogo, ove si ritroveranno, o fossero stati
occupati.
Et di più, oltre li ducati 200 per prima donati alla detta Chiesa di Santa Maria
di Stignano, dal detto Don Alessandro per amor di Dio, anche ha donati altri
ducati 300. Per fare una scala, che scenda dal dormitorio del detto monastero
alla cucina, per la necessità dei frati, e per la decente comodità dell’osservanza
regolare:
Et del restante far altri .... Alla detta chiesa e monastero et anco per la necessità
dei frati dell’infermeria di Sansevero come appare nella polizza di Cambio del
signor Aloisio Greppo di Roma dirette al signor Francesco di Rinaldi e Fabio
Spartano in Napoli pagabili al sindaco apostolico di San Severo alle quali si
rimette come appare nel libro delle ricevute, d’altre opere pie fatte da don Alessandro alla chiesa di Stignano, e con ......... da Monsignor Vescovo di San Severo
in ordine della Sacra Congregazione a 5 aprile 1638 f. 32, ... ... l’ha firmata. Don
Alessandro Mancini, manu propria.
125
Una città di “regio patronato” tra due conventi: frammenti inediti di storia francescana
Ma le torbide onde politiche degli umani avvenimenti raggiunsero anche questa tranquilla valle.
Cupe figure di sanfedisti e malfattori di vario genere si aggirarono minacciosi tra
i chiostri all’epoca della repubblica partenopea e all’indomani dell’unità nazionale.
Memoranda la domenica pasquale del 1861 per la presenza in chiesa di 60 briganti guidati da Angelo Maria del Sambo, alias Lu Zambro, Nicandro Polignone, alias
Nicandrone, Angelo Raffaele Villani, alias Orecchiomozzo e Agostino Nardella alias
Potecaro, tutti liberati dalle carceri di Bovino dalle autorità borboniche ormai in fuga.
Si intonò il Te Deum laudamus in onore di Francesco II e Maria Sofia e, nello
stesso tempo si imprecò contro Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
A proposito di Polignone occorre dire che fin dal settembre del 1860 terrorizzava la valle di Stignano creando scompiglio e paura anche tra i soldati del genio,
diretti dal capitano Annibale Valentino, ucciso a tradimento dal fratello di
Orecchiomozzo, e addetti all’apertura della rotabile San Severo – San Marco.
Ben nascosto tra una fitta e intricata boscaglia si nascondeva in una piccola
grotta, quasi un guscio d’uovo, nota solo ai suoi familiari. Il 10 aprile 1863 a firma
del prefetto di Foggia apparve in provincia un manifesto a stampa nel quale il De
Ferrari prometteva un lauto compenso a chi catturava vivo o morto “Nicandrone”.
All’alba del 15 aprile due suoi cugini gli vibrarono a tradimento due colpi di scure
in testa. Trasportato al convento spirò sotto l’arco di Stignano. Venne trasportato a
San Marco per essere esposto, a mò di pubblico esempio, nella Noce del Passo, ai
piedi di una seicentesca croce di recente distrutta per un malinteso senso di civiltà.
Questi i nomi della comunità religiosa di Stignano rinvenuti fortunosamente
tra le superstiti carte dell’Archivio Comunale agli albori dell’unità nazionale.3
Superiore – Padre Matteo di Foggia
Padre Ferdinando di S. Nicandro, Vicario
Padre Francescantonio di Castelvecchio
Padre Giuseppe di Manfredonia
Padre Raffaele di San Nicandro
Padre Alfonso di San Nicandro
Laici
Fra Bonaventura di San Marco in Lamis
Fra Angelo di San Marco in Lamis
Fra Giuseppe di Volturino
Fa Gaetano di Lucera
Fra Gabriele di San Marco in Lamis
Fra Domenico di San Marco in Lamis
Fra Giuseppe di San Giovanni Rotondo
Fra Raffaele di Montesantangelo
3
ARCHIVIO COMUNALE DI S. MARCO IN LAMIS, fasc. 19, p. 49.
126
Tommaso Nardella
Fra Ermenegildo di Casalvecchio
Fra Gustavo di Roccaraso
Un lungo, travagliato e drammatico periodo di storia finirà col travolgere nel
suo vortice la comunità francescana espulsa dal convento dalle nuove autorità politiche e successivamente dispersa nei vari comuni della provincia. Per la legge Vacca
del 1866 il convento di Stignano con annesso giardino venne incamerato dal demanio per essere venduto alla famiglia Centola di San Mrco in Lamis che, a sua volta,
superata la fase più acuta di contrasto tra Chiesa e Stato, stipulò con il padre provinciale Ludovico Barbaro un contratto, detto impropriamente di enfiteusi, che
consentirà ai monaci il ritorno a Stignano.4
Gradualmente, pur tra mille difficoltà di varo genere, i nuovi superiori tentarono di rimarginare le ferite che la chiusura e l’alienazione avevano arrecato al Santuario. Nel breve volgere del tempo il convento, per circostanze di vario genere,
venne chiuso.
Durante la prima guerra mondiale ebbe cura della chiesa di Stignano Tommaso
Danzano, un anziano sacerdote locale non in grado di reggere il peso di un simile impegno. Chiesa e convento divennero così ricettacoli di capre e pecore. Nell’ottobre del
1953 l’ultimo erede di Centola donò ai padri francescani il convento con annesso ampio
giardino cinto da una seicentesca muraglia, dono di Pardo Pappacoda, figlio di Ettore.
Diverse e complesse nel tempo le vicende del convento di San Matteo, in
parte già note alla togata storiografia, cui ora si aggiungono inediti frammenti di
vita monastica agli albori del decennio francese.
Il 31 maggio 1806 a Giuseppe Poerio, primo intendente di Capitanata e
contado di Molise, pervenne dal Duca di Cassano Serra, direttore della segreteria di
Stato per gli affari ecclesiastici, una riservata dal seguente tenore: “È mestiere che il
governo sia con verità ed esattezza informato del carattere e condotta dei vescovi,
vicari capitolari delle chiese e dei frati che son compresi nella provincia affidata alla
sua vigilanza. Per ottenere tal desiata e veridica informazione mi dirigo a V.S. Ill.
affinché mi ragguagli riservatamente dei costumi e delle opinioni che godono tutti i
prelati, vicari e monaci, del modo e dello zelo con cui governano le rispettive diocesi e conventi e se la loro condotta sia conforme ai doveri del loro ministero.”5
Nel rapporto settimanale del 19 agosto 1806 così, tra l’altro il Poerio scrive
ad Andrea Francesco Miot, ministro dell’Interno e a Cristofaro Saliceti, ministro di
Polizia: “La generalità dei religiosi scrive con molta circospezione: ma lettere dei
frati sono gravide di malumore circa il presente e di speranze per l’avvenire”.
Nel rapporto del 13 dicembre del medesimo anno il Poerio, confermando
l’opinione del generale Bron “pensa che i religiosi agiscono subdolamente perché
hanno presentimento di una vicina riforma”.
4
ARCHIVIO CENTOLA DI S. MARCO IN LAMIS, fasc. 3, b. 12.
Tommaso NARDELLA, Giuseppe Poerio primo Intendente di Capitanata e del Contado del Molise, in «Archivio Storico Pugliese», LIV, Bari, 2001, p. 120.
5
127
Una città di “regio patronato” tra due conventi: frammenti inediti di storia francescana
Insomma avverte la sensazione di piccole cose “che danno la convinzione
più morale che giuridica”.
Nel medesimo mese il vicario generale di San Marco in Lamis, Carlo De
Carolis, chiede per iscritto a padre Giancrisostomo da Manfredonia, guardiano del
convento di San Matteo, notizie e ragguagli sul numero dei frati e sulle rendite
catastali percepite nell’anno in corso.
Questa la dettagliata risposta del guardiano:6
Reverendissimo Signore padre colentissimo don Carlo De Carolis, vicario generale.
In adempimento di ciò che desidera sapere il Re N.S. sulle rendite del Convento di San Matteo sono a dirle che detto Convento niente ha di certo, per non
avere stabili né possessioni e né contanti ma il tutto dipende dalla pietà dei
fedeli ed in conseguenza non può fissarsi una determinata somma.
Vero è che la provvidenza vi entra giornalmente, ma non può negarsi l’esito
strabocchevole che si fa in dies pel continuo accesso dei poveri mendichi i quali
ascendono quasi in ogni giorno al numero di venti, trenta e altre volte più; oltre
i benefattori che recapitano ai quali de jure è tenuto numero anzitutto conto
per complimentarli. Questo stesso convento di San Matteo è tenuto a tutte le
spese che occorrono in provincia, come sarebbe nelle congregazioni e capitoli
e finalmente nel somministrare il dippiù del vestiario a tutti i religiosi della
medesima provincia; e ciò per dovere, perché siccome il sopraccitato convento
di San Matteo questuando in questi luoghi ove sono altri nostri conventi, toglie
ad essi in parte la sussistenza, con ragione vuole che supplisca a tutte le spese
della provincia, come sopra dissi e che non siano gravati tutti gli altri conventi
della provincia medesima al di più del vestiario ed altra spesa che potrebbe
occorrere. Tanto mi occorre dirle in esecuzione del suo venerato comando.
E con pienezza di stima le bacio la sacra destra.
San Matteo 2 novembre 1806.
Fra Giancrisostomo da Manfredonia
Questi i nomi di frati:
Padre Giovanni Battista di San Paolo – Lettore Filosofo
Chierici
Fra Giuseppe Nicola di Celenza
Fra Francesco di Risceglie
Laici
Fra Felice di Vico
Fra Matteo di Celenza
Fra Tommaso di Celenza
6
ARCHIVIO NICOLA VILLANI DI S. MARCO IN LAMIS, fasc. 3, b. 2.
128
Tommaso Nardella
Fra Francesco di San Marco
Fra Raffaele di Cagnano
Fra Raffaele di Ischitella
Fra Luigi di Monte
Fra Luigi di Foggia
Fra Domenico di San Severo
Fra Michele di Ischitella
Fra Antonio di San Giovanni
Fra Giosafatto di Manfredonia. Impotente.
Terziari
Fra Michelangelo di Santa Agata – Professo
Fra Biagio di San Marco
Fra Matteo di San Marco
Fra Francesco di Ischitella
Fra Francesco di Celenza
Fra Nicola di Cagnano
Fra Matteo di Manfredonia.
Tutti glia alunni per ordine reale si sono ritirati nelle loro case.
Se il decennio francese segnò il tramonto del medioevo7 occorre anche osservare che sia Giuseppe Napoleone che Gioacchino Murat condizionarono, e non
poco, nel regno la vita dei religiosi con una serie di decreti, per cui i frati furono
affidati al controllo dei vescovi e non più a quello dei ministri provinciali.
La rigorosa applicazione della politica giurisdizionalista obbligò i monaci a
“concentrarsi” in pochi conventi dei quali occorreva redigere, da parte dei padri
guardiani, un esatto inventario di beni posseduti. Comprensibile la preoccupazione
del Poerio, primo intendente di Capitanata, sul diffuso malessere dei religiosi.
In Capitanata su 29 conventi appartenenti a diversi ordini religiosi quali minori osservanti, cappuccini, agostiniani, benedettini, carmelitani, scolopi, teatini e
conventuali, ne furono soppressi 19 in base ai decreti del 7 novembre 1806, 13 febbraio 1807 e 7 agosto 1809. Furono venduti beni ecclesiastici con una annuale rendita di 74.210 ducati a 93 acquirenti pari a 3.339.8
7
8
Benedetto CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1925, p. 230.
T. NARDELLA, Giuseppe Poerio primo Intendente di Capitanata…, cit., p. 120.
129
130
Dionisio Morlacco
Industria laterizia a Lucera
di Dionisio Morlacco
Al limite settentrionale dell’aprico e vasto Tavoliere, non lontano dagli ultimi contrafforti dell’Appennino, la città di Lucera si distende sull’ampio declivio
dei suoi tre colli (Monte Albano, Monte Belvedere, Monte Santo), che si presentano
scoscesi a nord e a ovest, in dolce pendio a est e a sud. La sua altitudine è assai
modesta (250 m), ma, per la bassura della campagna circostante, “domina per un
certo raggio sulla pianura”,1 che qui si eleva leggermente e si rastrema tra il Gargano
silvestre e l’azzurra cerchia dei Monti della Daunia.
“Vedetta”, “chiave delle Puglie”, “minacciosa sentinella”, fu definita Lucera
nei secoli scorsi, per la sua felice posizione naturale,2 considerata allora strategica,
per la quale in vari periodi della storia ebbe a svolgere una funzione considerevole
in più settori: militare, economico, civile.
Il suo primo villaggio sorse sul Monte Albano e visse di pastorizia e di agricoltura. Sviluppandosi contribuì alla nascita della civiltà indigena (apula e dauna); accolse e assimilò la cultura delle ondate migratorie (ellenica, greca) e quella sopravanzante
dell’Urbe.3 Divenne così città grande, libera e opulenta, capitale della Daunia, “forte
e potente nelle armi e fiorentissima nella pastorizia e nel commercio”.4
A questa prospera economia di certo non mancò l’apporto consistente di
1
“Il sito occupa una posizione strategica di prim’ordine, e sin dagli albori della storia delle popolazioni
d’Apulia si trova qui una cittadella di capitale importanza” (François LENORMANT, A travers l’Apulie et la
Lucanie. Notes de voyage, Paris, Lévig, 1883, in Viaggiatori francesi in Puglia nell’ottocento, a cura di Giovanni Dotoli e Fulvia Fiorino, Fasano, Ed. Schena, 1989, vol. IV, p.192). I colli di Lucera “dominano tutta la
spianata del Tavoliere” (Pietro EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, St. Tip.
Pierro, 1912, p. 9; per la posizione di Lucera si veda ivi la nota 1). “Suggestiva città elevantesi su di una collina
come una vedetta sulla vasta e assolata distesa di campi” (Ernesto PONTIERI, I fatti lucerini del 1848, Foggia,
Studio Editoriale Dauno, 1940, p. 1).
2
“Lucera è di quelle città che per la loro posizione geografica sono destinate a compiere una determinata
funzione nella vita della loro regione” (P. EGIDI, La colonia saracena..., cit., p. 9). “L’importanza storica di
Lucera si deve in gran parte alla sua posizione eminentemente strategica” (Oreste DITO, Gli ordinamenti
municipali di Lucera del 1407, Trani, T. Vecchi, 1895, p. 5).
3
F. LENORMANT, A travers de L’Apulie..., cit., p. 204.
4
Giuseppe CATAPANO, Lucera nei secoli, Lucera, Ed. C. Catapano, 1972, p. 8. Non pochi scrittori e poeti
dell’antichità accennano alla grandezza di Lucera: Strabone la chiama “antica città dei Dauni”, Aristotele
“luogo notevole”, Orazio “nobile”, Diodoro Siculo “città molto illustre”, e l’Ughelli scrive “civitas adhuc
antiquitatem ostendit, et magis ampla est, quam populosa, siquidem moenia quinque milia passuum ambiunt”
(Ferdinando UGHELLI, Italia sacra, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1717-23, 10 voll., t. 8).
131
Industria laterizia a Lucera
un’attività artigianale sempre più florida, produttrice innanzitutto di manufatti di
creta, della quale replicate conferme son venute dalle fonti storiche e archeologiche:
dovunque scavando, per pubbliche e private opere, il sottosuolo lucerino ha offerto
abbondanti resti in ceramica di vario genere e di diverse epoche, apula e romana
specialmente: vasi apuli e dauni, ceramiche di stile attico, terrecotte architettoniche,
lucerne, grandi anfore vinarie e ancora terme, mosaici, ecc.
I decretati scavi e quelli occasionali segnalarono non pochi siti per la maggiore presenza di oggetti modellati e realizzati in terracotta: all’interno della Fortezza
svevo-angioina sul Monte Albano, ove prima sorgeva una roccaforte (arx) romana;
sul Belvedere, dove fu rinvenuta la “stipe votiva del Salvatore” (1934), e nelle
adiacenze (nell’avvallamento tra il Belvedere e il Monte Albano, dov’era il deflusso
di un’antica sorgente, certamente doveva trovarsi una fabbrica di utensili e di exvoto di argilla): “c’è chi parla di una fornace, di un’officina, o più esattamente, di
una scuola esistente in quella località ricca di argilla”;5 nei pressi della Chiesa di S.
Maria della Spiga (sul Monte Santo), ecc; ma anche al di là del perimetro urbano,6
nelle campagne, dove erano sparse le ville romane.
La natura calcarea del territorio, del resto, ha sempre favorito questa precipua attività della creta in generale. Lucera, infatti, sorge su uno strato di materiale
argilloso,7 che discende dalle propaggini appenniniche e che si venne a formare attraverso lunghe fasi di riscaldamento e di raffreddamento degli strati superiori, protrattesi per tutta l’era terziaria fino alla quaternaria (oltre 70 milioni di anni fa). Le
colline lucerine perciò si formarono in seguito all’accumulo “dei materiali fluitati
dalla parte emersa del sollevamento, in comunicazione con l’Adriatico (...) e di quelli
argillosi che scendevano dalle propaggini appenniniche durante e dopo la colmata
dell’antico mare Dauno, corrispondente all’incirca all’odierno Tavoliere”.8 Esse, in
ogni tempo, rappresentarono una fonte di ricchezza per l’intero territorio, perché
favorirono una cospicua attività laterizia.
Ai menzionati utensili e manufatti di argilla bisogna poi aggiungere altri e
più abbondanti prodotti di laterizio, meno elaborati e più rozzi, ma di certo molto
utili e necessari per la costruzione delle abitazioni e per la realizzazione delle opere
pubbliche, civili e militari, come mattoni, quadri e mattonelle per pavimenti, tegole,
tegoloni, tubi, nella cui produzione Lucera vanta una ininterrotta tradizione, sostenuta dalla facile reperibilità della materia prima, la quale, senza dubbio, rappresen5
Giambattista GIFUNI, Lucera, Urbino, Ed. S.T.E.U., 1937, p. 41.
“Lo spazio di terreno che ai dì nostri occupa Lucera non è che una minima parte di quel vasto suolo su cui
un giorno sorgeva co’ suoi templi, colle sue terme, colle sue piazze, cogli anfiteatri romani, ed in tempo a noi
più vicini, colle sue turrite mura, col suo imponente castello, coi suoi palazzi reali” (da Le cento città d’Italia,
Supplemento al n. 10715 del «Secolo», 25.10.1895).
7
Il poeta latino Orazio, accennando a Lucera, scrive “hunc Lucerinae diem - signa dealbata lapillo” (Epistola), riferendosi appunto alla natura argillosa del suo territorio. Anche il termine “Albano”, col quale si
indica uno dei colli di Lucera, derivato dal latino albus (bianco), indica l’argilla su cui sorge la città, ciò che
ripetono Leandro Alberti, Benvenuto Colasanto ed altri storici.
8
Giorgio DE SANTIS, Le argille subappenniniche di Lucera, articolo del 1976. L’autore era perito capo
dell’Ufficio Minerario Regionale di Puglia.
6
132
Dionisio Morlacco
tò una garanzia certa sia per la crescita della città, che per la sua rifondazione, dopo
la distruzione perpetrata dall’imperatore bizantino Costante II nel 663.9
Del largo uso del laterizio nel tessuto urbano lucerino, sin dall’età classica, si
trova ampia testimonianza nei resti dei superbi edifici della Luceria romana: acquedotto,10 tombe, terme, ponte Gallucci, anfiteatro augusteo, nei quali si constata appunto il predominante impiego di mattoni, mattoncini, quadroni di cotto, tegoloni,
insieme con blocchi di pietra dura (di Apricena soprattutto), squadrati e spesso
lavorati. In particolare tombe formate da tegoloni alla cappuccina furono scoperte
durante i lavori di ampliamento del cimitero (1920) sul Monte Santo, altre tombe a
grotticella (IV sec. a. C.), con chiusure costituite da tegole, vennero alla luce sul
Piano dei Puledri (1985);11 mattoncini, alti 4 cm, si notano nelle residue strutture
delle Terme a Piazza S. Matteo e nell’anfiteatro, dove “le due mura che lo circondavano si avevano lo spessore di palmi cinque tutti di mattoni”.12
Detti manufatti furono impiegati anche nelle epoche successive, soprattutto
quando la città, dopo i momenti di decadenza e di regresso economico e demografico,
tornava a vivere e si ampliava, come avvenne, ad esempio, sotto l’imperatore Federico II, che prescelse Lucera quale vedetta e caposaldo difensivo a settentrione del
suo regno.13 La città era allora poco abitata e in condizioni deplorevoli. Lo stupor
mundi et immutator mirabilis vi trapiantò dalla Sicilia (1223) la colonia militare dei
Saraceni, costituita da decine di migliaia di Arabi, abili nelle armi e nelle attività
agricola e artigianale: tra essi vi erano infatti numerosi bravi muratori, vasai, fornaciai,
che sapevano manipolare l’argilla per creare oggetti in ceramica artisticamente dipinta e per approntare il materiale laterizio necessario all’ampliamento del nucleo
urbano, che si realizzò secondo i canoni dell’urbanistica araba (moschee, regia dello Sceriffo saraceno, ecc.), in quel momento di grande fervore politico, militare e
socio-economico. E fu così che Lucera visse la sua seconda stagione d’oro, dopo il
remotissimo splendore del periodo imperiale romano.
Testimonianza di questa seconda primavera della città resta il fiero rudere del
Palatium federiciano (Cavalleria), poderoso esempio dell’arte e della tecnica militare sveva, che celebra il perfetto connubio tra il laterizio e la pietra dura, in un’opera che sorprende per l’efficacia difensiva e per quell’aura di mistero che scaturisce
9
Cfr. Paolo DIACONO, Historia Longobardorum, 5,7, e Flavio BIONDO, Historiarum ab inclinatione
Romanorum, I,9: “Graeci Luceriam viribus sunt potiti, quam civitatem tunc opulentissimam avidissime
spoliaverunt, et tamquam in solo barbarico non Italiae esset ferro igneque vastatam, solo aequarunt”.
10
“Nel momento in cui visitavo Lucera, era stata scoperta nel terreno tra la città e il castello una condotta
romana di bella costruzione, con volte fatte di mattoni, di cui per un tratto si poteva percorrere il tragitto”
(LENORMANT, op. cit., p. 205).
11
Cfr. Marina MAZZEI, Lucera. Piano dei Puledri: corredi funerari del IV sec. a. C., in «Rivista di Archeologia», VI (1986), 1-2.
12
Così lo storico locale Francesco da Paola Lombardi descrivendo i ruderi dell’anfiteatro nel 1788. Ma
ancora in Domenico LOMBARDI, Schediasma de columnis quibusdam novissima Luceriae detectis, Napoli,
1743, p.13: “amphitheatrum... vix lateritium fecit”.
13
“Era Lucera il centro naturale ove facevano capo le strade dell’Apulia, de’ Frentani, dei Sanniti e la sua
posizione non poteva sfuggire all’oculatezza di Federico II” (O. DITO, Gli ordinamenti municipali..., cit., p. 6).
133
Industria laterizia a Lucera
dalla difficoltà di ritrovare o riconoscere la porta di accesso e dalla memoria di un
segreto passaggio sotterraneo (galleria), che univa la fortezza al centro della città,
andando a terminare nel cosiddetto Pozzo dell’Imperatore. Un’opera che assolse
validamente a “una duplice funzione: all’esterno, quella di un vero e proprio castello, minaccioso ed inaccessibile; all’interno, quella di una fantastica e lussuosa dimora imperiale”.14
Oltre a questo monumento e alla certezza di una fabbrica di vasi arabi nel
castello, in particolare di stoviglie verniciate in modo conforme agli antichi prototipi arabi,15 la presenza di “grotte” (serbatoi idrici scavati nel suolo) al Piano dei
Puledri, e tracce di un acquedotto medievale, realizzato con l’impiego di mattoni e
tegoloni, affiorate durante i sondaggi compiuti per cavare dei pozzi,16 attestano la
continuità della locale attività laterizia.
In quegli stessi scavi si constatò anche il contemporaneo reimpiego del materiale recuperato nelle vicinanze o sottratto alle antiche costruzioni romane ancora
presenti (templi, anfiteatro, ecc.).17
Passata la città (1269) sotto la dominazione angioina, Carlo I d’Angiò, ordinando la ricostruzione del perimetro murario, diede un nuovo impulso all’attività
delle locali fornaci. Il re, infatti, in un suo diploma18 decretava che, per il rifacimento delle mura cittadine, fosse tagliata la legna per cuocere la calce e i mattoni (tam
pro coquendi calcariis, quam mattoncellis necessariis dicto operi) nei boschi intorno
a Lucera e a Fiorentino, nei quali era già solito prendersi la legna sotto gli altri
signori (tempore aliorum dominorum), disposizione questa che conferma da un lato
la consuetudine di “lignare” nei boschi esistenti nel territorio lucerino, dall’altro la
continuità di scavare e lavorare l’argilla del posto.
Contemporaneamente l’Angioino, per rendere più sicuro il possesso della
città, fece costruire il grandioso Castello, con largo impiego di mattoni,19 la cui
produzione in loco e nelle vicinanze doveva essere certamente abbondante, considerato anche che in Lucera viveva una schiera numerosa di manovali, muratori (alcuni in condizione privilegiata),20 mattonai, soprattutto arabi, i quali, però, mal sop14
Nunzio TOMAIUOLI, La Fortezza di Lucera, a cura di Regione Puglia, Ass. P. I. Cultura, CRSEC FG/30
Lucera, Foggia, Ed. Gercap, 1990, p. 29.
15
LENORMANT, op. cit.
16
Giorgio DE VINCENTIS, Relazione sulle ricerche fatte per fornire di acqua potabile la Città di Lucera,
Roma, Tip. Botta, 1882; Vincenzo COLASANTO, Relazione del pubblico pozzo cavato al Piano dei Puledri e del
bacino in esso rinvenuto, Lucera, Tip. Scepi, 1884. Nel 1924, “nell’escavazione di un pozzo fuori Porta S.
Antonio Abate, fu rinvenuto un acquedotto in muratura, coperto di tegoloni messi a due spioventi” (Cfr. «Il
Nuovo Popolo di Capitanata», 1924, 38).
17
I Saraceni distrussero non poche chiese (come quella di S. Pietro in Bagno) per procurarsi materiale da
costruzione.
18
Il documento è inserito nel 3° Rgt. Angioino, f. 66, dell’Archivio di Stato di Napoli.
19
Ma per il muro a scarpata del fossato ordinò di usare tufi a mattoni, perché fosse “pulchrius, honorabilius
et magis utile” (cfr. Arturo HASELOFF, Costruzioni degli Hohensteufen, Leipzig, 1920).
20
L’Haseloff cita il maestro Arditus, provisore della gran torre rotonda del Castello, e Pietro Blundellus,
occupato nei lavori del fossato dello stesso. Altri mastri muratori erano Simone, Roberto da Andria e Giovanni da Salpi.
134
Dionisio Morlacco
portavano l’autorità angioina e continuavano a mostrarsi irrequieti e disubbidienti:
il re, difatti, dovette rivolgersi al capitano saraceno perché obbligasse “alcuni mattonai
di Lucera che, avendo preso denari in conto di mattoni da fornire per la costruzione di una cisterna nel castello, poi si rifiutavano e a consegnare la merce e a restituirne il prezzo”.21
Pochi decenni dopo (1300) ancora il laterizio (mattoni, tegole, ecc.) costituiva il manufatto più usato nelle opere promosse da Carlo II d’Angiò, cioé nella costruzione di civili abitazioni, di conventi, di chiese, in un fervore edile che vitalizzò
la città, a prova del quale restano alcuni tra i più notevoli manufatti lucerini (Duomo, Chiesa di S. Francesco, ecc.); fervore che fu agevolato senz’altro dalla fiorente
attività artigianale e, quindi, dalla presenza di botteghe e di fornaci, alle quali accennano alcuni documenti angioini, come quello significativo del 1301, che enumera le
donazioni regie fatte a Giovanni Pipino di Barletta, resosi meritevole per aver liberato la città dai Saraceni: “Item in ruga Ayrata iuxta portam Casalis Novi, domus
quinque cum fornacibus tribus, in quibus fiebant imbrices” e “item domus due cum
fornace pro faciendis quartariis”. Si trattava di fabbricati, già appartenuti a funzionari arabi (all’Arcadio e a suo figlio), che comprendevano anche piccole fornaci,
forse a conduzione familiare, per la produzione di imbrices (tegole) e di quartarias
(anfore e brocche per gli ortolani e per i contadini). Altri documenti22 menzionano
figulinai, mattonai, piattai, fornaciai.
Le fornaci più grandi, per la produzione dei mattoni si trovavano ubicate in
luogo extraurbano, cioè nell’agro compreso tra Lucera e Fiorentino,23 poi nella
“flumaria Lucerie”, cioé presso il torrente Salsola.24
Per il trasporto dei mattoni si dovettero migliorare le strade e i ponti. Esso
avveniva per mezzo di carri tirati da uno o due bufali, chiamati rispettivamente
tumbarelli e tumbarelli magni.
Anche la calce veniva cotta in Lucera. La lavorazione dell’argilla richiedeva
naturalmente l’impiego dell’acqua, che in città veniva attinta dai pozzi e dalle cisterne, quest’ultime più numerose dei primi, mentre nei luoghi extraurbani veniva
prelevata dai torrenti. Ma l’acqua delle cisterne e dei torrenti pullulava di larve e di
batteri, per cui il duro lavoro dei fornaciai era insidiato dal grave pericolo delle
febbri malariche, triste fenomeno che incalzò come uno spettro questa attività ed
imperversò, per molti secoli, fino alla metà circa del XX sec.25
Altri cenni, benché scarsi, reperibili qua e là negli studi di storia patria, consentono di confermare la continuità dell’attività laterizia lucerina.
21
EGIDI, op. cit., p. 81; Eduard STHAMER, Dokumente zur Geschichte des Kastellbauten Kaiser Friedrichs II
Karle I von Anjou, Leipzig, Hiesermann, 1920, doc. 238 del 5.4.1278.
22
Pietro EGIDI, Codice diplomatico angioino, Napoli, 1912 (cfr. docc. 206 a, 227, 447, 456).
23
A. HASELOFF, Costruzioni degli Hohensteufen..., cit.
24
Ibid.
25
Ibid.
135
136
Gaetano Zenga
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso; l’irreversibile
viaggio verso la morte-in-vita; perché non piangere la morte di una
bambina uccisa da una bomba, nelle poesie di Dylan Thomas:
The force that through the green fuse driver the flower;
Twenty-four years; A refusal to mourn the death,
by fire,of a child in London
di Gaetano Zenga
1. La difficoltà di interpretazione della poesia thomasiana
Si terrà conto che le strutture profonde (il significato latente) della poesia
thomasiana costituiscono grandi incroci di ambiguità, ma rappresentano anche un
elevatissimo tasso di informazioni, proprio perché sono oscure e stupefacenti.
Perciò si cercherà di investigare le strutture profonde per cogliere i loro nuclei seminali (grumi segreti) perché diventino un riconoscibile supporto generativo
delle strutture superficiali (o contenuto manifesto); si utilizzerà la complementarità
tra “occultamento” ed “epifania” per valutare in modo più adeguato l’iterazione tra
strutture profonde e strutture superficiali; si cercherà di seguire l’escursione trasformazionale, compiuta da Thomas, dalle strutture profonde alle strutture superficiali1 per poter comprendere i nuclei tematici.
Si metteranno in rilievo le principali modalità stilistiche come l’ossimoro,la
rima, l’assonanza, l’allitterazione, l’enjambment, la sinestesia, la paronomasia, le
iterazioni sia perché servono a far luce sulle strutture profonde sia perchè costituiscono un aspetto caratteristico della poesia thomasiana.
Il rilievo che sarà dato a queste modalità stilistiche è giustificato dal fatto che
la poesia significa per Thomas soprattutto parole e suoni.Infatti, in Notes on the art
of poetry egli affermò che la poesia lo aveva affascinato per le parole e per i loro
suoni. Il significato non lo interessava come le «forme dei suoni» che le parole producevano nelle sue orecchie, e come i colori e le immagini che i suoni evocavano:
Le parole erano per me, come le note delle campane, il suono di
1
Nella sequenza Altarwise by owl-light l’ambiguità delle strutture profonde permane, perché Thomas ha
lasciato filtrare nel testo troppe strutture profonde precludendo così l’accesso alla simbologia. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un sistema di simboli strettamente «personali» e, quindi, non comunicabili
perché non hanno subito traasformazioni.
137
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
strumenti, i clamori del vento, del mare, e della pioggia...il clop clop
degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli, il fruscio dei rami sui vetri, potrebbero
essere per qualcuno, sordo dalla nascita, che ha miracolosamente trovato il suo
udito. A me non interessava molto ciò che le parole significavano.
Si valuteranno, infine, le potenzialità di significati del linguaggio, perchè esse
sono spesso responsabili dell’oscurità anche tematica della poesia thomasiana.
2. La ricerca di un linguaggio nuovo
Il periodo degli anni in cui Thomas scrive le poesie della prima
stagione,raccolte in Eighteen Poems il volume pubblicato nel 1934, e in Twentyfive Poems, pubblicato nel 1936, è caratterizzato soprattutto dalla ricerca continua
di un linguaggio nuovo, vivo, dinamico, in opposizione a quelllo convenzionale
che il poeta ritiene logoro e statico.
Infatti, in una lettera del 1934, Thomas mostra di essere preoccupato perché
non sa scrivere scene ordinarie della realtà quotidiana:
Vorrei poter descrivere ciò che sto osservando... Molto lontano, accanto alla linea del cielo, tre donne e un uomo stanno raccogliendo molluschi. A centinaia gli
ostricai protestano intorno a loro. Anche qui vicino a me,una folla di donne sta
raschiando la sabbia umida, grigia con i manici frantumati delle caraffe, e pulendo i molluschi nelle sudice piccole pozzanghere... Ma vedi ne sto facendo di nuovo una giornata letteraria. Non riesco mai a rendere giustizia agli infiniti chilometri di melma e sabbia grigia... alle strida da anime spregevoli dei gabbiani e
degli aironi, alle forme delle mammelle delle pescatrici... Non riesco a dare realtà
a queste cose, eppure sono vive quanto me (Lettera a Pamela Hansford Johnson).
Ma è con il linguaggio convenzionale che egli non riesce a dare convincente
espressione alle scene comuni della realtà che osserva. Ecco perché Thomas decide
di cambiare.
Come mostrano le poesie di questi anni, Thomas opera un vero e proprio
rovesciamento delle formule del linguaggio convenzionale perché intende protestare contro la visione statica della realtà riflessa nel linguaggio ordinario che lui
considera una sorta di coltre opprimente che va squarciata con ogni mezzo.
Egli si preoccupa perché l’equilibrio tra pensiero e sensazioni fisiche, il cardine che sorregge la sua poesia, è minacciato dalle parole convenzionali. Al contrario, il suo linguaggio è privo di propri significati convenzionali, ed è costituito da
termini ambigui, distorti, volti ad acquisire potenzialità di significati multipli.
Sin dalle prime poesie, l’uso continuo del paradosso, dello slang, della
paronomasia, della catacresi, di rime assonanti, vocaliche, mostra la necessità avvertita
da Thomas di utilizzare tutti gli strumenti linguistici idonei a garantire un linguaggio
che assicuri convenientemente le rappresentazioni di un universo nuovo e dinamico.
138
Gaetano Zenga
Oltre che per la novità del linguaggio la poesia giovanile thomasiana si distingue perché è sostanzialmente una poesia solipsistica in quanto caratterizzata da
un acentuato soggettivismo.
Come si vedrà il processo di evoluzione, dall’ “io” all’uomo, inizierà con le
poesie di The Map of Love (il volume pubblicato nel 1939), le quali mostrano la
necessità avvertita da Thomas di costruire un rapporto con la realtà esterna , e di
relazionarsi agli uomini del suo tempo,e si compirà gradualmente con le poesie
raccolte in Deaths and Entrances (il volume pubblicato nel 1946).
Una delle tematiche più ricorrenti nella poesia di questi anni è quella della
nascita-morte. Occore però notare che tutte le tematiche sia quelle delle poesie
raccolte in Eighteen Poems che di quelle raccolte in Twenty-five Poems sono presentate in maniera astratta perché non investono il vissuto degli uomini.
3. L’impossibilità della comunicazione
In questo lavoro, Ears in the turrets hear (Orecchie ascoltano nelle torrette)2
contenuta in Twenty – five Poems viene presentata prima di The force that through
the green fuse drives the flower (La forza che nella verde miccia spinge il fiore),
raccolta in Eighteen Poems, soltanto per motivi di opportunità. Infatti, si è ritenuto
anticipare il tema della difficoltà di comunicazione del soggetto lirico rispetto a
quello del grido represso dello stesso soggetto lirico, perché anche il grido represso
esprime una forma di non comunicazione. Come si vedrà, in Ears in the turrets
hear la comunicazione è impedita dai dubbi che tormentano il soggetto lirico, e in
The force that through the green fuse drives the flower il grido represso e quindi la
non comunicazione è causata dallo sbigottimento del soggetto lirico di fronte al
mistero dell’universo. Le due poesie si pongono metaforicamente sullo stesso asse
del processo comunicativo impedito all’origine.
Ears in the turrets hear ripete la stessa situazione di isolamento del soggetto
lirico nella propria torre di parole descritta in Especially when the October Wind
(Specialmente se il vento di ottobre),3 poesia scritta nello stesso periodo.
Il senso di isolamento del soggetto lirico nella propria torre di parole riflette
anche l’ isolamento di Thomas dai poeti della sua generazione come Auden, Spencer
e MacNeice, da una parte dovuto al suo netto rifiuto di ogni problematizzazione
ideologica e dall’altra alla sua ribellione a quanti rifiutano una poesia personale e
favoriscono l’intellettualizzazione del mondo poetico. 4
Thomas si batte invece per una partecipazione attiva del poeta alla poesia che
2
La poesia è datata 17 luglio 1933 e viene raccolta, poi, in Twenty-five Poems.
La poesia fu scritta nell’ottobre del 1934 e raccolta in Eighteen Poems.
4
Per un ulteriore approfondimento sull’atteggiamento di Thomas verso i poeti del suo tempo, cfr. Gaetano
ZENGA, L’evoluzione della poesia di Dylan Thomas: dall’ “io” all’uomo, in «la Capitanata», XLI (2003), 14 (ottobre), pp.187 –189.
3
139
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
gli appartiene, e pone al centro della poesia la personalità del poeta,5 perché questa
diventi la sua poesia. Ecco perché si è detto che la poesia thomasiana della prima
stagione è solipsistica.
Al contrario di T.S.Eliot che definisce la poesia “evasione dalla personalità”,6
Thomas vuole un diretto coinvolgimento del poeta nel tessuto della sua opera.
Ears in the turrets hear è costituita da quattro stanze, rispettivamente di 9,7,9,6
versi e di un distico finale:
Ears in the turrets hear
Hands grumble on the door,
Eyes in the gables see
The fingers at the locks.
Shall I unbolt or stay
Alone till the day I die
Unseen by stranger-eyes
In this white house?
Hands, hold you poison or grapes?
Beyond this island bound
By a thin sea of flesh
And a bone coast,
The land lies out of sound
And the hills out of mind.
No birds or flying fish
Disturbs this island’s rest.
Ears in this island hear
The wind pass like a fire,
Eyes in this island see
Ships anchor off the bay.
Shall I run to the ships
with the wind in my hair,
5
Va comunque chiarito, che anche se Thomas partecipa attivamente all’azione della sua poesia, è al centro
del suo sistema, è se stesso nella sua poesia, non ha una voce individuale in alcuna di esse, l’ “io” della sua
poesia diventa continuamente un “altro”. Soffermandosi sull ‘io indifferenziato nella poesia thomasiana, Vanna
Gentili afferma: “Thomas non parla mai o parla raramente di ‘altri’, né descrive il mondo visibile; ma i processi che registra si riferiscono a un io indifferenziato, privo di qualificazioni psicologiche, che si dilata, protendendo i tentacoli della propria fisicità e del proprio patire, a inglobare la generalità umana e con quella, gli
elementi organici e inorganici del cosmo” (Cfr. Vanna GENTILI, Il mondo rappreso di Thomas, in «Paragone»,
202, 1966).
6
In Tradition and individual talent (1919) Eliot afferma: «il cammino di un artista è un continuo sacrificio
di se stesso, una continua estinzione della personalità». Ne risulta, quindi, un capolgimento della concezione
romantica.Il poeta deve rinunciare a quanto di più personale e sentimentale ha nella sua visione del mondo per
agire in armonia con il suo tempo.
140
Gaetano Zenga
Or stay till the day I die
And welcome no sailor?
Ships, hold you poison or grapes?
Hands grumble on the door,
Ships anchor off the bay,
Rain beats the sand and slates.
Shall I let in the stranger,
Shall I welcome the sailor,
Or stay till the day I die?
Hands of the stranger and holds of the ships,
Hold you poison or grapes?7
La prima stanza svolge il tema dell’isolamento dell’io lirico nella sua casa
bianca e dei dubbi che lo tormentano; la seconda è diversa dalle altre stanze perché
costituisce un momento di pausa e di riflessione sulla pace e sulla tranquillità
dell’«isola»; la terza descrive le navi ancorate al largo della baia e ancora una volta
i dubbi dell’io lirico; la quarta riprende il tema dei dubbi espressi nella prima e nella
terza stanza ma relativi soltanto all’apertura della porta allo straniero e al benvenuto da dare al marinaio; il distico finale riprende, invece, il tema del dubbio espresso
dal verso finale della prima e della terza stanza e relativo, quindi, a ciò che recano le
mani dello straniero e le stive delle navi.
L’io lirico ha una partecipazione attiva nella situazione sia perché è l’autore
dei dubbi che gli impediscono di comunicare, sia perché è lo spettatore attento della
realà esterna.
L’impiego delle funzioni del linguaggio potrebbe far pensare ad una prevalenza della funzione referenziale (o di terza persona) sulla funzione emotiva (o di
prima persona) che rappresenta proprio l’io lirico, visto che il numero dei versi in
cui è presente è superiore a quello dei versi che contengono la funzione emotiva.8
La funzione referenziale si limita a descrivere la realtà ed in modo particolare
quella esterna alla coscienza dell’io lirico, perciò la realtà fenomenologica offre lo
7
“Orecchie ascoltano nelle torrette / Mani brontolano alla porta, / Occhi negli abbaini vedono / Le dita sui
lucchetti. /Aprirò, o resterò / Solo fino alla morte / Senza esser visto da occhi stranieri, / In questa bianca
casa? / Mani, portate / Grappoli o veleni? / Oltre quest’isola cinta / Da un magro mare di carne / E da una
costa d’osso, / I campi si stendono oltre il suono / E le colline oltre la mente. / Né uccelli né pesci volanti /
Disturbano il riposo di quest’isola. / Orecchie in quest’isola ascoltano / Passare il vento come un rogo, /
Occhi in quest’isola vedono / Navi ancorarsi oltre la baia. / Correrò verso le navi / Con il vento fra i capelli /
O resterò fino alla morte / Senza mai dare il benvenuto ad un marinaio? / Navi, portate grappoli o veleni? /
Mani brontolano alla porta, / Navi gettano l’ancora oltre la baia, /La pioggia batte sulla rena / E sulle ardesie
del tetto. / Lascerò entrare lo straniero? / Darò il benvenuto al marinaio? / O starò chiuso fino alla morte? /
Mani dello straniero e stive delle navi, / Portate grappoli o veleni?”.
8
Per
le funzioni del linguaggio cfr. Roman JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1980
1
(1961 ), pp.186-191.
141
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
spunto per la riflessione dell’io lirico, che agisce di conseguenza, affermando così il
suo ruolo primario nell’azione.
Quanto alla distribuzione della funzione referenziale, la poesia presenta un
parallelismo strutturale tra la prima, la terza e la quarta stanza. Infatti, i primi quattro versi della prima e della terza stanza, come i primi tre versi della quarta stanza
presentano soltanto la funzione referenziale.
Il fatto significativo è che in queste tre stanze la funzione referenziale introduce sempre la funzione emotiva e ne costituisce, come si vedrà, il correlativo psicologico.
La seconda stanza presenta soltanto la funzione referenziale che al pari della
funzione referenziale delle altre stanze rappresenta un rilevante riferimento psicologico per il soggetto lirico.
La funzione emotiva è espressa dal pronome di prima persona “I” (7 occorrenze: due nella prima stanza, due nella terza e tre nella quarta), che rappresenta il
soggetto lirico, e dall’aggettivo possessivo di prima persona “my” (1 occorrenza
nella terza stanza), riferito anch’esso al soggetto lirico.
L’uso della prima persona implica un coinvolgimento diretto e attivo dell’io
monologante che nelle stanze in cui è presente entra in azione subito dopo aver
riflettuto sulla realtà circostante, descritta con la funzione referenziale, con impeccabile precisione, possiamo dire, di natura cronometrica, alla stregua di un attore
che dopo una pausa di riflessione inizia puntualmente il suo monologo: al quinto
verso nella prima e nella terza stanza, al quarto verso nella quarta.
È proprio la continua presenza della funzione emotiva a mettere in risalto il
profondo stato di nevrosi che tortura l’io lirico monologante. Si nota subito che la
prima, la terza e la quarta stanza, come per la distribuzione della funzione
referenziale, presentano una specularità anche per la distribuzione della funzione
emotiva. Le due funzioni risultano strettamente legate fra loro in ogni stanza, dove
la funzione emotiva viene presentata, come si è appena visto, subito dopo quella
referenziale, sulla quale si innesta.
La prima stanza mostra subito il ruolo preminente dell’io lirico monologante. Essa si articola in due parti: la prima (i primi quattro versi) presenta la realtà
esterna, la seconda (dal quinto al nono verso) presenta l’io lirico in azione. È significativo che nei primi quattro versi, organi del corpo umano come le orecchie, le
mani, gli occhi, le dita siano presenti come “personaggi veri” che svolgono un ruolo
importante per il soliloquio del soggetto lirico.
Non è un caso che il soggetto lirico si rivolga alle mani come al suo
interlocutore attribuendo loro il pronome di seconda persona nel sintagma iterato
“hold you poison or grapes?” (v. 9 e 33).
Nella prima stanza le orecchie e le mani, gli occhi e le dita sono coinvolti a
coppie rispettivamente nella sensazione auditiva espressa dalle voci verbali hear
(v.1) e grumble (v.2) e in quella visiva espressa dalla voce verbale see.
Queste sensazioni fungonono come strumenti che fanno percepire alla coscienza dell’io lirico la realtà esterna alla casa bianca, sorretti dall’arcatura della
142
Gaetano Zenga
percussione allitterativa del fonema gutturale duro/g/ in grumble (v.2)/gables (v.3)/
fingers (v.4) e dall’assonanza Ears hear (v.1).
Anche l’enjambment che ricorre tra i versi1-2, 3-4 concorre a focalizzare sia
la sensazione auditiva che quella visiva. E ancora, la sinestesia9 “hands grumble”,
che personifica le mani, serve ad enfatizzare che non c’è alcuna comunicazione tra
l’io lirico e l’Altro all’esterno (l’estraneo, lo straniero); si può udire, però, soltanto
il “ brontolio delle mani” di quest’ultimo che figurativamente potrebbe significare
la sua insitente domanda per entrare.
Sebbene questi organi siano usati in senso generale e indeterminato, si comprende subito che le orecchie e gli occhi10 appartengono alla persona espressa dal
pronome personale “I”, soggetto sia di “unbolt” e “stay” (v.5) che di “die” (v.6),
che rappresenta il soggetto lirico tormentato dal dubbio se aprire la porta o rimanere solo fino alla morte. Invece è evidente che le mani che “brontolano” sulla porta,
come è stato appena visto, e le dita sui lucchetti appartengono all’estraneo che è
fuori della porta, presente in questa stanza come “occhi estranei” (v.7).
L’io lirico entra in azione al quinto verso con due attacchi enfatici: “Shall I
unbolt” e “or (shall I) stay /Alone”, che esprimono due dubbi: se aprire la porta
all’estraneo o rimanere solo fino alla morte. Il verbo unbolt nel suo significato di
“togliere la spranga” mette in risalto, con ironia, il senso di insicurezza del soggetto
lirico che considera la realtà esterna soltanto come minaccia.
L’enjambment che ricorre tra i versi 5-6, 6-7, 7-8 serve ad enfatizzare ulteriormente i due dubbi precedenti.
La paronomasia day die (v.6) costituisce un significativo ossimoro che sottolinea il senso della vita (che significa anche comunicazione) in “day” e il senso
della morte (che significa anche non comunicazione) in “die”.
Il “non aprire” la porta giustapposto al “rimanere solo” fino alla morte esprime un’equivalenza: infatti, il soggetto lirico sa che aprire la porta vuol dire iniziare
la comunicazione e quindi non rimanere solo; sa anche che se non ha il coraggio di
farlo subito non lo farà più e quindi rimarrà esiliato per sempre nella solitudine
della sua “casa bianca”.
Tuttavia, questi due dubbi non costituiscono i dubbi chiave della poesia in
quanto essi sono causati da quello più atroce espresso dall’attacco enfatico “Hands,
hold you poison or grapes?”(v.9).
È molto evidente che il dubbio principale è quello riferito ai “grappoli”e/o ai
“veleni”, portati dalle mani dello straniero o, come si vedrà, dalle stive delle navi. I
“grappoli” e i “veleni” costituiscono un altro significativo ossimoro, enfatizzato
9
Thomas mostra una particolare inclinazione per questa figura retorica, si pensi, ad esempio, alle mani che
«indicano» (nel senso che vedono), alle orecchie che«mormorano» e «vedono», alle mani che «vedono» in
When all my five and country senses see, e al dire che ha un «colore» in Once it was the colour of saying.
10
Gli occhi del verso 7 appartengono, invece, allo straniero, come è esplicitamente indicato da “strangereyes”.
143
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
dalla percussione allitterativa del fonema bilabiale sordo /p/ che caratterizza proprio poison e grapes, ma anche due importanti metafore.
Infatti, i “grappoli” esprimono metaforicamente i doni, simboli del bene, che
potrebbero essere portati al soggetto lirico, come segni di simpatia, di amicizia, di
pace e perciò favorirebbero la comunicazione con l’Altro; i “veleni”, al contrario,
sempre a livello metaforico, indicano in maniera chiara gli strumenti del male, dell’offesa che potrebbero essere portati allo stesso soggetto lirico dall’esterno e costituirebbero una minaccia, un rischio, quindi un ostacolo insormontabile alla comunicazione.
È proprio questo dubbio sui “veleni”, infatti, che impedisce, come è stato già
individuato, all’io lirico di uscire dal suo isolamento (“shall I unbolt” v.5), per aprire la porta allo straniero o, come si vedrà, per dare il suo benvenuto al marinaio
(“(shall I) welcome no sailor” v.24 e “Shall I welcome the sailor” v.30).
L’opposizione metaforica grappoli-veleni rappresenta l’effetto della tensione su cui si articola tutta la composizione.
Infatti, il sintagma verbale reiterato “hold you poison or grapes?”, con cui
terminano la prima stanza, la terza e il distico finale, serve proprio ad enfatizzare il
dubbio principale dal quale dipendono tutti gli altri dubbi.
Nella seconda stanza la funzione emotiva è soltanto allusa, il soggetto lirico
non entra direttamente in azione come nella stanza precedente o in quelle successive, in quanto nel descrivere «l’isola», che, come si vedrà, rappresenta la propria
coscienza, egli si ritiene così soddisfatto dalla serenità e dalla tranquillità che trova
in essa, da non essere tormentato da alcun dubbio.
Questa stanza , come è stato già osservato, costituisce un momento di pausa
e di riflessione, ma possiamo dire anche di oblio, sia pure momentaneo, della realtà
esterna, in opposizione allo stato di angoscia e di inquietudine che caratterizza le
altre stanze: l’io lirico svolge il ruolo dell’osservatore attento, che, come si vedrà,
scruta la propria coscienza.
L’enjambment, che ricorre tra i versi 10-11, 11-12, 13 -14, serve a presentare
in un quadro unico di tranquillità, “di là da quell’isola”, la proiezione dei campi e
dei colli non sfiorati da alcun suono o da “pensiero umano”.
La funzione dell’enjambment è enfatizzata dalla percussione dell’arcatura
allitterativa della bilabiale sonora /b / in beyond/bound/by/ bone (vv.10-11-12) e
dalla percussione della sequenza allitterativa della consonante liquida / l / in land/
lies (v.13); l’enjambment tra i versi 15-16, in linea con il primo enjambment, connota allo stesso modo, la quiete e la pace dell’ «isola», messe in risalto anche dalla
percussione allitterativa della spirante sorda / f / in flying/fish (v.15) e dall’arcatura
dell’assonanza birds/disturbs (vv.15-16).
La stanza presenta anche rime oblique come: quella tra bound (v.10), sound
(v.13) e mind (v.14); quella tra flesh (v.12) e fish (v.15); quella tra coast (v.13) e rest
(v.16). Sono rime che a loro volta stabiliscono rime abbracciate tra le due parti della
stanza separate dalla pausa lunga al verso 14, ed assicurano una forte saldatura strutturale-semantica tra le parti stesse.
144
Gaetano Zenga
Inoltre, l’arcatura delle assonanze lies/island (vv.13-16) e mind/flying/ (vv.1415) segna sia una ulteriore coesione tra le due parti della stanza, separate dalla
pausa al verso 14, sia il correlativo fonico dell’atmosfera di calma e di serenità, che
rappresenta l’elemento caratterizzante della stanza stessa.
La saldatura e la coesione dei versi, assicurate dall’impiego dell’ enjambment,
dell’allitterazione e dell’assonanza, in questa stanza, permettono che la serenità dei
campi, dei colli e dell’isola formi un contrasto evidente con il tormento e l’inquietudine che caratterizzano la prima , la terza e la quarta stanza.
La terza stanza si articola in due parti divise specularmente come nella prima
stanza: la prima (i primi quattro versi) presenta ancora la realtà esterna, la seconda
(dal verso 21 al verso 25) mostra di nuovo l’io lirico in azione.
Le due stanze (la prima e la terza) mostrano un parallelismo strutturale che si
innesta su un parallelismo semantico-concettuale; questi parallelismi sono puntualmente enfatizzati da una serie di iterazioni.
Anche in questa stanza le orecchie, gli occhi appartengono al soggetto lirico e
come nella prima stanza sono rispettivamente soggetti di una sensazione auditiva espressa
dalla voce verbale “hear” e di una sensazione visiva espressa dalla voce verbale “see”,
che ricordano alla coscienza del soggetto lirico monologante la realtà fenomenica vicina, rappresentata dal vento, che “passa come un rogo” (v.18) e una realtà esterna lontana, dalla quale provengono le navi ancorate al largo del golfo (v.20).
Queste sensazioni vengono rappresentate, sia pure con qualche variante, con
due iterazioni significative: “Ears in this island hear”(v.17) che ripete “Ears in the
turrets hear” (v.1); “Eyes in this island see(v.19) che rimanda a “Eyes in the gables
see” (v.3).
Come nella prima stanza, le stesse sensazioni vengono focalizzate dall’enjambment che ha luogo tra i versi17-18, 19-20; inoltre la sensazione auditiva viene enfatizzata dall’iterazione dell’assonanza Ears/hear (verso 1 e 17) oltre che dall’arcatura dell’assonanza island /like (vv.17/18), e la sensazione visiva è messa in risalto
dall’assonanza eyes /island(v.19).
La descrizione della realtà fenomenica (con le relative sensazioni che in essa
hanno luogo) offre all’io lirico lo stimolo per la sua riflessione come nella prima stanza.
All’inizio della seconda parte della stanza, ancora una volta, l’io lirico entra
puntualmente in azione ponendosi i dubbi con due attacchi enfatici: “Shall I run”
(v.21) e “or (shall I) stay till the day I die” (v.23).
Il primo è l’iterazione del sintagma verbale “Shall I unbolt” (v.5): i due
sintagmi, che strutturalmente presentano soltanto le varianti run e unbolt, costituiscono un perfetto parallelismo semantico-concettuale: il “correre” (verso le navi) a
livello profondo (connotativo) ha lo stesso significato di “aprire la porta”, i due
verbi presentano un rapporto di trasposizione figurale perché entrambi prefigurano
l’inizio di una comunicazione del soggetto lirico con l’Altro (in questo caso il marinaio), per uscire dal tunnel della propria solitudine.
Il secondo è l’iterazione puntuale, sia pure con l’omissione di alone, dell’enunciato “or (shall I) stay / Alone till the day I die” (vv.5-6) e, quindi, enfatizza di
145
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
nuovo il rischio di un isolamento completo e duraturo del soggetto lirico, se questi
non decide di iniziare una comunicazione con gli altri esseri umani.
Anche qui la paronomasia day die rappresenta un ossimoro che mette in risalto, ancora una volta il senso della vita e della morte, con le potenzialità significative dei due termini rispetto alla comunicazione, già osservate.
A questo punto è chiaro che gli attacchi enfatici, finora individuati, focalizzano
l’incapacità del soggetto lirico di prendere una decisione perché è ossessionato dai
dubbi, dai quali non riesce a liberarsi; è chiaro che le sensazioni auditive e visive
sono strettamente legate ai dubbi della coscienza: sono sensazioni impresse nel
subconscio che affiorano alla coscienza del soggetto lirico, come una sorta di nevrosi ossessiva, ogni volta che deve decidere se aprire la porta per “fare entrare lo
straniero” o se deve correre a “salutare il marinaio”.
Il dubbio principale espresso dall’attacco enfatico “Ships, hold you poison or
grapes?” (v.25) è una iterazione puntuale di “Hands, hold you poison or grapes?”(v.9).
L’unica variante è rappresentata dall’interlocutore scelto dal soggetto lirico: nel
sintagma della prima stanza il soggetto lirico ha come interlocutore le mani (personificate), nel sintagma della seconda stanza si rivolge alle navi (personificate), come
suo nuovo interlocutore. A livello semantico – concettuale i due sintagmi enfatizzano
lo stesso atroce dubbio del soggetto lirico: le minacce dal mondo esterno, che ostacolano la comunicazione.
La quarta stanza mostra un parallelismo strutturale e semantico –concettuale
con la prima e la terza stanza: la prima parte (i primi tre versi) presenta la realtà
fenomenologica, la seconda parte (i rimanenti tre versi) mostra l’io lirico che entra
in azione con i suoi attacchi enfatici.
A differenza delle due stanze precedenti (prima e terza) che nei primi versi
presentano soltanto una sensazione auditiva e una sensazione visiva, questa stanza
presenta due sensazioni auditive, espresse da “Hands grumble on the door” (v.26) e
da “Rain beats the sand and slates” (v.28), e una sensazione visiva, espressa da “Ships
anchor off the bay” (v.27).
Poiché le sensazioni, come è stato già osservato, sono impresse nel subconscio
del soggetto lirico ed affiorano alla sua coscienza , come una sorta di nevrosi ossessiva,
ogni volta che è tormentato dai dubbi, l’aumento delle sensazioni, in questa stanza,
mostra che il tormento causato dai dubbi è cresciuto in intensità.
La stanza è sostanzialmente la continuazione delle situazioni della prima e
della terza stanza perché si articola su versi iterati11 di quete stanze; infatti, soltanto
il verso 28 “Rain beats the sand and slates” non è iterato.
11
L’impiego continuo delle iterazioni spiega l’importanza che Thomas attribuisce ad esse: egli vuole ottenere parallelismi fonici; vuole assicurare una compattezza strutturale tra le stanze; vuole conferire unità psicologica a tutta la poesia. In merito all’importanza delle iterazioni, qualche anno dopo, Heinrich Lausberg affermava: “le figure della ripetizione arrestano la corrente dell’informazione e concedono il tempo di «gustare»
emozionalmente il contenuto dell’informazione che viene appunto accentuato e posto in evidenza per l’importanza che deve assumere” (Heinrich LAUSBERG, Elemente der literatischen Rhetoric, Munchen, Max Hueber
Verlag, 1949, trad. it., Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1969, p. 241).
146
Gaetano Zenga
I primi due versi iterati “Hands grumble on the door” e “Ships anchor off
the bay”, che troviamo rispettivamente nella prima e nella terza stanza e che si
riferiscono a situazioni che si svolgono in luoghi diversi ( la porta della casa e il
golfo dell’isola), fanno capire che il soggetto lirico è rimasto sempre nello stesso
luogo, nella “casa bianca”, dove, per la prima volta, ha udito “le mani brontolare”,
e dalla quale ha visto “le navi gettare l’ancora”.
Siamo di fronte alla stessa stessa situazione di paralisi e di immobilità delle
altre stanze: il soggetto lirico è semmpre solo nello stesso posto e non prende alcuna decisione.
Anche gli attacchi enfatici “Shall I let in the stranger” (v.29) e “ Shall I welcome
the sailor “(v.30) confermano questa situazione di paralisi e di immobilità: il soggetto lirico è rimasto nello stesso luogo a rimuginare i propri dubbi.
Questi due attacchi, a livello profondo (connotativo), esprimono lo stesso
concetto, ossia lo stesso atroce dubbio: se il soggetto lirico “deve lasciare entrare lo
straniero” o se deve “dare il benvenuto al marinaio” per iniziare la comunicazione
con l’Altro. L’equivalenza di significato dei due sintagmi verbali è suffragata dalla
presenza di un solo attacco epilogante espresso dall’enunciato “Or stay till the day
I die” (v.31) che presenta per entrambi i sintagmi precedenti una sola alternativa: la
prospettiva temporale futura della solitudine fino alla morte, che è messa in rilievo
dall’enjambment che ricorre tra i versi 30-31, ed è enfatizzata dalla percussione
allitterativa dei fonemi dentali / t / e / d/.
I sintagmi “ Shal I let in the stranger” e “Shall I welcome the sailor” costituiscono con i sintagmi “Shall I unbolt” (v.5) e “Shall I run” (v.21) il paradigma del
dubbio della comunicazione di questa poesia. Tutta la stanza presenta una forte
unità psicologica, per la presenza attiva, come si è detto, del soggetto lirico nella
situazione , con i suoi attacchi enfatici “shall I let in” e “shall I welcome”, anche se
nei primi tre versi è caratterizzata da enunciati lapidari e grammaticalmente separati fra loro e dai versi successivi, che rimandano agli enunciatiti presenti nei primi
quattro versi della prima e della terza stanza, anch’essi separati dai versi successivi.
Infatti, l’arcatura delle assonanze door/anchor (vv.26-27), bay/rain/slates/
stranger/sailor/stay/day (vv.27-31) e l’arcatura della serie allitterativa del fonema sibilante sordo/s/ in sand/slates/stranger/sailor/stay (vv.28-31), che costituiscono un’unica ed efficace tramatura fonica, non solo connotano la saldatura dei versi fra loro ma
enfatizzano ancora come il soggetto lirico venga spinto in una definitiva spirale
regressiva, terrorizzato dal “borbottio” delle mani sulla porta, dal “suono delle sirene
delle navi”, dal “continuo scroscio della pioggia” sulla rena e sulle ardesie del tetto, i
cui frenetici rumori rappresentano il correlativo sonoro della sua coscienza inquieta.
La coscienza dell’io lirico terrorizzato è così confusa che sembra scomparire
nell’oscurità, che la avvolge, che la isola completamente dagli altri esseri umani, e nella
quale non si intravedono spiragli di luce per una possibile comunicazione futura.12
12
Il tema dell’oscurità che avvolge la coscienza dell’io lirico fino al punto da farla svanire nel nulla viene
svolto con un chiara ed efficace immagine anche da Thom Gunn, poeta contemporaneo di Dylan Thomas, in
147
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
Nel distico finale la saldatura dei versi prodotta dall’enjambment costituisce
la memoria forte dell’origine del dubbio principale, enfatizzato dall’arcatura
dell’assonanza stranger/grapes e dalla percussione allitterativa della fricativa
glottidale / h/ in hands/holds/hold.
La poesia mostra una compattezza strutturale, assicurata, come si è visto, da
versi iterati, da una straordinaria tramatura fonica di assonanze, allitterazioni,
paronomasie e dall’impiego continuo dell’enjambmen (tutte modalità modalità
stilistiche che caratterizzano questa poesia), che permette ad ogni stanza di esprimere in maniera omogenea il dilemma della coscienza dell’io lirico che non ha il
coraggio di prendere una decisione definitiva per vincere la sua solitudine.
Inoltre, l’uso continuo dell’enjambment13 nella poesia mostra che Thomas
vuole attenuare lo scarto con la lingua parlata, dando un tono più naturale alla voce
del soggetto lirico, e desidera in particolar modo trasmettere emozioni difficilmente contenibili nei limiti imposti dal verso.
A questo punto occorre sottolineare che gli occhi e le orecchie che, come è
stato osservato, appartengono all’io lirico, sono presentati senza alcuna connotazione
che faccia capire in maniera inequivocabile la loro appartenenza e quindi anche essi,
sul piano denotativo (o superficiale), rappresentano la realtà esterna, come le mani
e le dita dello straniero. Questa precisazione fa comprendere il particolare atteggiamento assunto dal soggetto lirico verso i propri occhi e orecchie.
Il modo distaccato con cui il soggetto lirico parla del suo corpo, come se
fosse diviso da esso, - “Ears in the turrets hear”, “Eyes in the gables see”- ricorda
Prufrock di The Love Song Of J.Alfred Prufrock14 di T.S. Eliot.
Prufrock, infatti, si frantuma figurativamente per via della sua schizofrenia
che fa di lui un “oggetto diviso”, quando afferma: “Though I have seen my head
(grown slightly bald) brought in upon a platter”.15 (v.82)
Questa separazione dal corpo appare ancora più evidente allorché Prufrock
riflette sui giudizi che la gente esprimerà sul suo invecchiamento: “(They will say:
‘How his hair is growing thin’)”16 (v.41), “(They will say: ‘But how his arms and
legs are thin’).”17 (v.44)
Human Condition. Infatti, in questa poesia l’io lirico fa esperienza dell’oscurità rappresentata dalla nebbia
che lo avvolge e lo isola dai suoi simili e lo fa sentire “una capocchia di spillo”, ossia un punto infinitesimo : a
mere/ pin point of consciousness (vv.14-15 “una semplice capocchia di spillo della coscienza”).
13
Gli equivalenti italiani «spezzatura» e «inarcatura» mostrano sia la funzione di rottura del parallelismo
tra metro e sintassi sia l’inarcarsi del tono della voce. I poeti romantici considerarono l’enjambment come
simbolo della liberazione dalle regole neoclassiche. Per un ulteriore approfondimento sulla funzione
1
dell’enjambment cfr. Giuseppe G. CASTORINA, Note di poetica inglese, Manfredonia, Atlantica, 1983 (1979 ),
pp. 62-66.
14
Scritta nel 1910-11, fu pubblicata nella rivista americana «Poetry» nel 1915 e successivamente nella
raccolta Prufrock and Other Observations del 1917.
15
“Sebbene abbia visto il mio capo (che comincia un po’ a perdere i capelli) portato su un vassoio”.
16
“(Diranno: ‘Come diventano radi i suoi capelli’)”.
17
“(Diranno: ‘Come son diventate sottili le sue braccia e le sue gambe’)”.
148
Gaetano Zenga
La nevrosi ossessiva del soggetto lirico di Ears in the Turrets hear e la schizofrenia di Prufrock, responsabili della frantumazione figurale dei loro personaggi,
richiamano i montaggi e gli smontaggi della pittura coeva.18
Inoltre, va sottolineato, che in ogni stanza l’entrata in azione del soggetto
lirico è enfatizzato dall’attacco anaforico “shall I” seguito da infinito verbale (vv.5,
21, 29 e 30), che da una parte manifesta la propria esitazione ed angoscia, dall’altra
mette in risalto la propria incapacità di agire.
Questa incapacità di agire strettamente connessa all’indecisione del soggetto
lirico ricorda ancora una volta la stessa incapacità di Prufrock, quando questi si
interroga con l’attacco percussivo: “Then how should I begin... ?”19 (v.59)
Anche per sottolineare il suo dubbio principale, il soggetto lirico si serve
dell’attacco enfatico, espresso in forma molto colloquiale: “hold you poison or
grapes?” (vv.9, 25 e 33).
Come le funzioni del linguaggio, anche i tempi impiegati nella composizione
sono due, il presente e il futuro, e sono in linea con il tema dominante in quanto
mettono in rilievo una situazione di staticità, di paralisi che caratterizza l’incapacità
di decidere e di agire del soggetto lirico.
Il presente non è riferito ad una particolare occasione ed è quindi un presente
atemporale che indica che le azioni, compresa quella relativa ai “veleni” e ai “grappoli”, non hanno sviluppo e si ripetono da tempo sempre allo stesso modo.
Il futuro stesso non ha una prospettiva temporale perché connota la trasposizione di un’azione presente, non risolta, in un futuro nel quale l’azione stessa resterà certamente senza alcuna soluzione in quanto presentata in forma di dubbio, a sua
volta scaturito da un altro dubbio che è quello principale, relativo ai “veleni” e ai
“grappoli”.
La puntuale ricerca dei parallelismi, delle simmetrie, da parte di Thomas,
fino a includere le funzioni del linguaggio e i tempi, si estende anche al piano spaziale,
non solo nella giustapposizione tra spazio interno e spazio esterno, ma anche nella
divisione di ciascuno spazio in due spazi.
Impiegando lo schema topologico del Lotman20 possiamo dire che nella composizione vengono presentati i seguenti spazi: quello interno protetto della «casa
bianca» (IN1), che indica sicurezza ed è quindi spazio amico, in opposizione agli
spazi esterni nemici, quello prossimo che circonda la casa (ES1) e lo spazio esterno
alluso, lontano (ES2) dei mari e dei paesi da cui arrivano le navi.
18
Si pensi soprattutto alle tele dei pittori più rappresentativi del cubismo, come Pablo Picasso e Georges
Braque, caratterizzate dalla disintegrazione della prospettiva, dalla frantumazione e dalla scomposizione delle
figure in forme geometriche.
19
“E allora come dovrei cominciare...?”
20
Per i concetti di spazio interno (IN) e di spazio esterno (ES), cfr. Jurij Mihajlovic LOTMAN, Il metalinguaggio
delle descrizioni tipologiche della cultura, in Jurij Mihajlovic LOTMAN - Boris A.USPENSKIJ, Tipologia della
cultura, Milano, Bompiani, 1975, pp. 145-181.
149
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
Gli spazi esterni sono ostili, perché indicano sospetto, minaccia, rischio, insicurezza e quindi sono responsabili del dubbio dominante.
Chiudendosi in (IN1) il soggetto lirico manifesta il suo assoluto rifiuto o
incapacità di uscire all’esterno o di fare entrare “lo straniero” per comunicare.
Il termine «isola», che nella seconda stanza è messo significativamente in rilievo come: “this island bound/By a thin sea of flesh/And a bone coast” (vv. 10-13),
merita una particolare considerazione perché sul piano connotativo rappresenta un
altro spazio interno (IN2) che si sovrappone a quello della casa (IN1). Infatti, l’«isola»
indica la metafora della coscienza21 del soggetto lirico e i sintagmi nominali “a thin
sea of flesh” (v. 11) e “a bone coast” (v. 12) rappresentano insieme la metafora del
corpo dello stesso soggetto lirico perché entrambi costituiscono l’involucro della
sua coscienza: il corpo costituito di carne e di ossa.
Ancora una volta, il soggetto lirico assume nei confronti della propria coscienza lo stesso atteggiamento distaccato mostrato verso gli occhi e le orecchie. La
divisione del soggetto lirico dalla propria coscienza è messa in risalto dal deittico
this che enfatizza il termine island sia nella seconda che nella terza stanza.
Comunque, l’isola – coscienza connota, come la casa, uno spazio amico, particolarmente caratterizzato dal riposo assoluto perché “No birds or flying fish/
Disturbs this island’s rest” (vv. 15-16) e nel quale, proprio come nella casa, il soggetto lirico si rifugia per sfuggire alle minacce del mondo esterno.
Thomas mostra una visione pessimistica sul tema della comunicazione: l’io
lirico non solo ha paura di comunicare, ma i suoi dubbi rimangono tali perché non
offrono alcuna possibilità di soluzione.
L’isolamento, la solitudine, l’assoluta volontà di non comunicare dell’io lirico caratterizzano anche il giovane Thomas, che, come si diceva all’inizio, si isola
nella sua torre di parole perché si ribella al modo di fare poesia dei poeti della sua
generazione. È opportuno sottolineare che anche se il poeta è «chiuso in una torre
di parole», quella torre rappresenta per lui la sua identità fisico-spirituale.
Infatti, a conferma di ciò, qualche anno dopo la composizione di Ears in the
Turrets Hear così scriveva Thomas a Vernon Watkins: “ritirato nella tua torre puoi
conoscere e imparare del mondo esterno più di chi sta fuori, mischiato così intimamente e inestricabilmente al fango e alla gente odiosa... e ai quattro maledetti sudici
venti” (lettera del 1936).
21
L’interpretazione del termine «isola» come coscienza trova un sicuro aggancio con lo stesso termine usato
da Thomas in una lettera a Pamela Hansford Johnson del 1933, in cui scrive: “Per il tramite della mia piccola
isola legata da ossa ho imparato tutto ciò che so; ho tutto sperimentato e tutto sentito. Tutto ciò che scrivo è
inseparabile dall’isola”. Anche se in questa lettera l’isola indica il corpo e i sensi del poeta, ciò dimostra , tuttavia,
che egli non usa il termine nella sua accezione geografica. Perciò, non ci si deve meravigliare che in Ears in the
Turrets Hear Thomas possa usare lo stesso termine con il significato di coscienza, sul piano connotativo. L’ambiguità del linguaggio di Thomas e quindi l’oscurità della sua poesia dipende anche dal fatto che lo stesso
termine non presenta sempre lo stesso significato in poesie diverse. Ad esempio, in Light breaks where no Sun
Shines, poesia datata 20 novembre 1933 in Buffalo Notebook e poi raccolta in Eighteen Poems, dove Thomas
affronta il problema dell’intuizione creativa, è l’alba che rappresenta la coscienza umana.Non concordo con
l’interpretazione di Roberto Sanesi che, nel suo commento critico a Ears in the Turrets Hear, definisce l’isola “un
aperto simbolo dell’uomo” (cfr. Roberto SANESI, Dylan Thomas, Milano, Garzanti, 1977, p.119).
150
Gaetano Zenga
È evidente, quindi, che la metafora dei “veleni” della composizione significa
per Thomas soprattutto minaccia per la sua poesia, egli teme che la sua poesia possa
essere “contaminata” dal mondo dei poeti del suo tempo e perciò evita di comunicare con loro.
A questo punto la «casa bianca» può essere vista come metafora per la poesia:
il colore bianco può significare la purezza della poesia di Thomas in opposizione a
quella dei poeti del suo tempo, dalla quale egli teme che venga contaminata.
Nel periodo della sua giovinezza, Thomas mostra questo atteggiamento di
repulsione non soltanto verso gli altri poeti ma anche verso la società. In una lettera
del 1932, all’amico scrittore Trevor Hughes, egli afferma: “Vorrei amare l’umanità,
ma demoni divoratori di cadaveri, vampiri, squartatori di donne, stupratori di bambini, ubriaconi tutti verruche, mezzani e finanzieri passano accanto alla finestra,
diretti Dio sa dove e perché”. È la reazione del giovane Thomas alla società, è il
segno della sua paura per il mondo quotidiano fatto di uomini e donne ordinari.22
In I dreamed my genesis 23 (Sognai la mia genesi), una poesia di questo periodo, che è il dettato dell’ ipertensiva reazione di Thomas alla società, il poeta manifesta indignazione per l’orrore della realtà contemporanea, frutto del mondo tecnologico. Si pensi al sogno del narratore che si rivela una grande delusione per la
terribile meccanizzazione del mondo tecnologico in cui viene a trovarsi il neonato:
I dreamed my genesis in sweat of sleep, breaking
Through the rotating shell, strong
As motor muscle on the drill, driving
Through vision and the girdered nerve (vv.1-4).24
Infatti, l’atto con cui il neonato viene al mondo ha poco di umano poiché
somiglia alla messa in moto del motore di una automobile con il suo «guscio rotante» e il suo «trapano».
I passi testé esaminati, scritti nello stesso periodo di Ears in the turrets hear e
che mettono in risalto il disgusto verso la società e la ribellione di Thomas
all’establishment letterario del suo tempo, spiegano perché si è parlato di nevrosi
ossessiva che aggredisce il soggetto lirico, ogni volta che è tormentato dal dubbio di
22
Nelle poesie della maturità, l’atteggiamento di Thomas verso l’umanità è completamente diverso perché
egli mostra di comprendere e di amare gli uomini. Infatti, nelle poesie scritte dopo quelle raccolte in The Map
Of Love, pubblicato nel 1939, come The Hunchback in the Park (Il gobbetto del parco), Among Those killed
in the Dawn Raid was a Man aged a hundred (Fra le vittime dell’incursione dell’alba c’era un uomo di
cent’anni), A Refusal to mourn the Death, by Fire, of a Child in London (Rifiuto a piangere la morte tra le
fiamme di una bambina di Londra), Thomas si muove nella direzione di drammatizzare il proprio rapporto
con l’esterno, con gli altri che ora egli guarda con simpatia e persino con tenereza, abbandonando il suo
atteggiamento di poeta solipsista. Queste poesie, come altre scritte in questo periodo, si caratterizzano come
flusso di vita e di entusiasmo umano. Si pensi alla celebrazione dell’amore come sentimento di fratellanza
universale in This Side of the Truth (Questo lato della verità).
23
Scritta in novembre o nei primi di dicembre del 1934, per essere inclusa in Eighteen Poems.
24
“Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, rompendo / Il guscio rotante, potente come il muscolo / Di
un motore sul trapano, inoltrandomi / Nella visione e nel nervo travato”.
151
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
decidere se aprire la porta “per fare entrare lo straniero”, se correre a “salutare il
marinaio” e quindi se deve comunicare con l’Altro o se, al contrario, rimanere rinchiuso nella sua “torre di avorio” fino alla morte senza comunicare con alcun essere umano.
In senso lato, a livello figurale, la poesia può essere considerata un profondo
esame psicologico del subconscio umano, nell’età moderna. In questa ottica, i dubbi, che attanagliano il soggetto lirico, possono costituire il risultato di una profonda
crisi esistenziale dell’uomo moderno fatta di ansie, di angosce e di frustrazioni, per
cui egli si rinchiude in se stesso, nella sua coscienza, temendo ogni forma di comunicazione con i propri simili.
4. Il grido represso del poeta di fronte al mistero dell’universo
In Ears in the turrets hear, come si è visto, Thomas affronta il tema dell’impossibilità di comunicazione per il poeta, in The Force that through the green fuse
drives the flower (La forza che nella verde miccia spinge il fiore)25 scritta nello
stesso periodo,26 egli si interroga sul mistero dell’universo, alla luce dei processi di
vita, nascita e morte, rigenerazione e distruzione che investono sia la natura che gli
aspetti fisici e psicologici dell’uomo, processi tanto cari a Thomas e che già caratterizzano le poesie della raccolta di Eighteen Poems pubblicata nel 1934.
La poesia si sofferma sul fatto che tutta la vita vegetale e animale è soggetta
alle stesse regole della natura e che tutte le cose crescono, invecchiano, decadono e
muoiono. Thomas vide nei processi della biologia una sorta di magica trasformazione che produce unità dalla diversità e continuamente egli cercò nella sua poesia
un rituale poetico per celebrare questa unità come mostrano i primi due versi di
questa composizione: The force that through the green fuse drives the flower /
Drives my green age.
Inoltre, in The force that through the green fuse drives the flower, Thomas
mette in risalto il senso di unità che lega l’uomo ai vari processi della natura e l’identità
di tutte le forme di vita. Il flusso di immagini che si susseguono con grandissima
rapidità, il continuo movimento dalla natura all’uomo, dalla morte alla vita, trasmettono il senso della preminente unità della vita dell’universo.
Tuttavia, come si vedrà, la poesia oltre a mostrare la stretta relazione tra i
processi di crescita, di distruzione e di morte, che investono sia il mondo naturale
che l’uomo, mette soprattutto in risalto il mistero del mondo e l’impossibilità per
25
Datata 13 ottobre 1933 in Buffalo Notebook, raccolta in Eighteen Poems.
Anche se Ears in the turrets hear è raccolta in Twetnry –five Poems, il volume di poesie pubblicato nel
1936 e quindi posteriore a Eighteen Poems, pubblicato nel 1934, che contiene The force that through the green
fuse drives the flower, occorre notare che in Buffalo Notebook la prima poesia è datata luglio 1933, mentre la
seconda è datata ottobre 1933. Sono quindi le date delle due poesie in Buffalo Notebook che mostrano la loro
contemporaneità di scrittura.
26
152
Gaetano Zenga
l’uomo di conoscere le cause oscure che lo governano. È proprio il mistero dell’universo che mette in crisi il soggetto poeta e non gli permette di esternare il suo
grido di dolore o di immensa gioia.
Il grido che rimane represso nella coscienza del soggetto lirico costituisce il
tema principale della poesia.
Occorre sottolineare che la struttura dell’intera poesia è molto più complessa di quanto possa apparire a primo acchito: da una parte il lettore è coinvolto
dall’atmosfera di incantesimo creata dal ritmo,27 da una sintassi semplice e ripetitiva
che è in linea con lo scorrere indifferibile di una forza invisibile, impersonale, universale, dall’altra è proprio questo globale determinismo a creare l’effetto di tensione perché la voce del soggetto lirico lo controbatte caparbiamente , levandosi sul
flusso travolgente della stessa forza misteriosa.
Oltre al ritmo, altri aspetti caratteristici della poesia sono la novità del linguaggio, costituito spesso anche dall’impiego di parole con significati multipli,28 e
la forza delle immagini.
Il linguaggio è impiegato come medium per illudere continuamente il lettore
ad un immediato contatto con l’esperienza percettiva.
La poesia è costituita da quattro stanze di cinque versi ciascuna e da un distico
finale:
The force that through the green fuse drives the flower
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer.
And I am dumb to tell the crooked rose
My youth is bent by the same wintry fever.
The force that drives the water through the rocks
Drives my red blood; that dries the mouthing streams
Turns mine to wax.
And I am dumb to mouth unto my veins
How at the mountain spring the same mouth sucks.
The hand that whirls the water in the pool
Stirs the quicksand; that ropes the blowing wind
Hauls my shroud sail.
And I am dumb to tell the hanging man
How of my clay is made the hangman’s lime.
27
Il ritmo è assicurato dall’impiego prevalente del giambo, unità metrica formata da una sillaba debole e da
una forte. Una sequenza di giambi dà luogo a versi il cui ritmo è assai vicino a quello della lingua di ogni
giorno. Thomas, infatti, voleva che la sua poesia riproducesse il ritmo della lingua parlata.
28
Si pensi, ad esempio, al termine fuse (v.1) nei suoi significati di fiore, miccia, esplosione (per via di blasts
(v.12) “fa scoppiare”).
153
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
The lips of time leech to the fountain head;
Love drips and gathers, but the fallen blood
Shall calm her sores.
And I am dumb to tell a weather’s wind
How time has ticked a heaven round the stars.
And I am dumb to tell the lover’s tomb
How at my sheet goes the same crooked worm.29
Ciò che colpisce immediatamente l’occhio del lettore è il parallelismo strutturale, molto evidente, nella disposizione dei versi e della punteggiatura. Infatti, il
terzo verso di ciascuna stanza è più breve degli altri e inoltre presenta, come ogni
quinto verso, una pausa lunga costituita dal punto fermo.
La pausa lunga del terzo verso segna uno stacco tra ciò che l’io lirico percepisce nella realtà esterna e dentro di sé, come nelle prime tre stanze, o soltanto nella
realtà esterna, come nella quarta stanza, e lo sbigottimento per ciò che scopre che lo
rende “muto”.
E ancora, tra il primo e il secondo emistichio del secondo verso delle prime
tre stanze ricorre una pausa di lunghezza media ,che serve ad enfatizzare l’opposizione tra due stati d’animo del soggetto lirico: il senso di gioia goduta dallo stesso
soggetto lirico perché considera l’energia della natura, fonte di movimento, di crescita, quindi di vita e il senso di delusione sofferto allorché la sua coscienza scopre
che la stessa energia è responsabile di distruzione e di morte.
L’opposizione tra questi due stati d’animo del soggetto lirico è determinata
proprio dal mistero che governa il mondo, personificato dalla forza universale ed
invisibile.
Le numerose pause, nella loro disposizione speculare all’interno delle stanze,
rappresentano, quindi, altrettanti momenti di riflessione e di sbigottimento del soggetto lirico per ciò che la sua coscienza percepisce dentro di sé o nella realtà che lo
circonda.
Il deittico that che caratterizza il primo verso delle prime tre stanze è
giustapposto al deittico that, con il quale inizia il secondo emistichio del secondo
verso di ciascuna di queste stanze dopo la pausa, e che sottintende the force nelle
prime due stanze e the hand nella terza stanza.
29
“La forza che nella verde miccia spinge il fiore/ Spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici
degli alberi / È la mia distruttrice. / E sono muto per dire alla rosa reclina che piega la mia giovinezza la stessa
febbre invernale./ La forza che spinge l’acqua tra le rocce / Spinge il mio rosso sangue; quella che prosciuga le
correnti alla foce / Le mie trasforma in cera./ E sono muto per urlare alle mie vene/ Che alla fonte montana
succhia la stessa bocca./ La mano che fa vortici nell’acqua dello stagno/ Muove le sabbie mobili; quella che
imbriglia i venti / Spinge la vela del mio sudario./ E sono muto per dire all’impiccato / Che della stessa mia
creta è fatta la calce del boia./Le labbra del tempo s’attaccano dove la fonte sgorga;/Amore goccia e si rapprende, ma il sangue versato/Addolcirà le ferite di lei./ E sono muto per dire alle intemperie/ Come il tempo ha
scandito un cielo attorno agli astri./ E sono muto per dire alla tomba dell’amante/ Che verso il mio lenzuolo
striscia lo stesso tortuoso verme.”
154
Gaetano Zenga
L’eco anaforica costituita dai due deittici e la loro giustapposizione all’interno delle tre stanze enfatizzano il contrasto e la contraddizione tra ciò che viene
affermato nel primo verso e nel primo emistichio del secondo verso e ciò che viene
dichiarato nel secondo emistichio dello stesso verso e nel terzo verso.
L’iterazione dell’enunciato And I am dumb to tell (to mouth), che ricorre al
penultimo verso di ogni stanza e al primo verso del distico finale, rappresenta non
solo il punto di tensione di ogni stanza e del distico finale ma di tutta la poesia:
l’impotenza razionale, l’incapacità per il soggetto poeta di fornire ua spiegazione
delle forze oscure che governano l’universo.
Le funzioni del linguaggio usate nella composizione sono soltanto la funzione referenziale e la funzione emotiva.
Con quella referenziale viene descritta la realtà del mondo naturale e alle
volte anche quella dell’uomo come: the hanging man (v.14), the hangman’s lime
(v.15), her sores (v.18) e lover’s tomb (v.21).
La funzione emotiva è espressa dal pronome di prima persona I (5 occorrenze), che rappresenta il soggetto lirico, e dai possessivi di prima persona my (8 occorrenze) e mine (1 occorrenza) riferiti, anche essi, al soggetto lirico.
Alla speculare disposizione delle pause corrisponde anche una speculare distribuzione delle funzioni linguistiche. Infatti, le due funzioni linguistiche si susseguono l’una all’altra con sistematica simmetria, soprattutto nelle prime due stanze:
il primo e il secondo enunciato dei primi tre versi della prima e della seconda stanza
iniziano con la funzione referenziale e terminano con la funzione emotiva espressa
dal possessivo my o mine.
Il primo enunciato della terza stanza presenta soltanto la funzione referenziale,
ma il secondo enunciato della stessa stanza contiene puntualmente il possessivo di
prima persona.
Il penultimo verso di ogni stanza e il primo verso del distico finale iniziano
con la funzione emotiva espressa dal pronome personale I, enfatizzato, poi, dal
possessivo di prima persona my/mine, nello stesso verso o in quello successivo, che
è, tuttavia, assente nella quarta stanza dove ricorre solamente il pronome I al penultimo verso.
La presenza continua della funzione emotiva, anche attraverso i possessivi
my e mine, mostra il coinvolgimento diretto del soggetto lirico, in maniera quasi
sistematica, in ogni enunciato della poesia.30
Il coinvolgimento diretto del soggetto lirico serve a spiegare la sua funzione
30
Siamo di fronte ad una modalità omodiegetica, collegata ad una prospettiva interna, per cui il soggetto
lirico si inserisce completamente e con partecipazione attiva nella situazione; si pensi come, in tutte le strofe e
nel distico finale, l’iterazione del verso “And I am dumb to tell” esprima inequivocabilmene questo
coinvolgimento diretto e attivo del soggetto lirico. Non c’è, quindi, “distanza” narrativa tra l’io personaggio
e la situazione. Per un ulteriore studio dei concetti narratologici di punto di vista o prospettiva o focalizzazione
interna ed esterna, di distanza, e delle modalità omo ed eterodiegetiche, relative alla voce del narrante, cfr.
Hermann GLOSSER, Narrativa, Milano, Principato,1981, p. 64 e segg.
155
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
di spettatore attivo, in quanto osserva attentamente, e di attore passivo, in quanto
subisce profondamente i processi di vita, nascita, crescita, rigenerazione, distruzione e morte, dei quali non riesce a fornire una spiegazione razionale.
Infatti, sono proprio i possessivi di prima persona ad essere utilizzati dal
soggetto lirico per mettere in relazione, di volta in volta, i processi di crescita, di
decadimento o di distruzione della natura con quelli del proprio corpo o del proprio destino mortale espresso da my shroud sail (v.13), e per mettere in risalto l’identità di tutte le forme di vita in quanto tutte soggette all’azione della forza invisibile
e universale.
La quarta stanza, quasi interamente dominata dalla funzione referenziale, è
l’unica in cui l’io lirico non paragona il mondo della natura alla propria condizione, ma prende atto di ciò che osserva per esprimere il proprio sbigottimento che lo
“rende muto”, incapace di esternare il proprio grido, come nelle altre stanze.
Questa è anche l’unica stanza in cui i primi tre versi non presentano gli stessi
processi in opposizione che coinvolgono direttamente l’io lirico,31 come nelle altre
stanze, ma evidenziano una situazione di immobilità, di paralisi, nella realtà
fenomenica, situazione della quale egli non è protagonista e che è giustapposta all’attività dell’amore passionale nel mondo umano.
Nei primi tre versi della prima stanza è la vita vegetale che viene posta in
relazione con la vita dell’uomo, sia per la crescita che per la distruzione.
Sono le iterazioni del lessema attributivo green, nei sintagmi the green fuse
(v.1) e my green age (v.2), e della voce verbale drives, nei sintagmi verbali drives
the flower (v.1) e drives my green age (v.2), che enfatizzano il senso della crescita e della vita, sorretto nel primo verso, The force that through the green fuse
drives the flower ,dalle percussioni allitterative32 della spirante sorda / f / e della interdentale sonora espressa dal digramma / th /; mentre la voce verbale
blasts (v.2) e il sostantivo destroyer (v.3) mettono in risalto la distruzione, anche con l’apporto dell’arcatura della serie allitterativa della vibrante sonora /
r/ che si estende dal secondo al terzo verso... that blasts the roots of trees /Is my
destroyer.
Il contrasto tra vita, crescita, giovinezza, rovina e aridità, è enfatizzato sia
dall’arcatura delle assonanze green, green, trees (vv.1-2) che da quella della percussione allitterativa della dentale sonora / d / in drives, drives, destroyer (vv.1-3).
Inoltre, il lessema attributivo green è anche il simbolo dell’energia che assicura il rigoglio vegetale nel primo verso e quello della giovinezza nel secondo,
31
Nei primi tre versi, quindi, notiamo una modalità eterodiegetica che si collega ad un punto di vista (prospettiva) esterno, e ciò costituisce la “distanza” narrativa tra l’io personaggio e la situazione e mette in risalto
che tale situazione è subita, anche se soltanto per un istante, dall’io lirico, che appare come soggetto passivo.
32
Paolo Valesio in uno studio sull’allitterazione ha sottolineato l’efficacia del termine tedesco Stabreim
(rima a pilastro) per un “rapporto di somiglianza-differenza” con la rima; ha inoltre mostrato l’importanza
dei nessi consonantici sp, st, sc, sk (Cfr. Paolo VALESIO, Strutture dell’allitterazione, Bologna, Zanichelli, 1967,
p. 26 e segg.).
156
Gaetano Zenga
mentre la voce verbale blasts indica l’aridità che colpisce sia gli alberi perché “scoppiano le radici”,33 che il soggetto lirico.
Il distico finale della stanza presenta di nuovo la relazione tra la vita del
mondo vegetale e quella dell’uomo.
Qui il senso dell’invecchiamento è messo in risalto sia dai participi passati
crooked e bent (vv.4-5), riferiti rispettivamente a rose e a youth, che dall’arcatura
dell’assonanza crooked /youth; inoltre, crooked e bent manifestano la sottile ironia
di Thomas perché crooked indica che la rosa ha perso la sua freschezza, il suo rigoglio, e bent che la giovinezza è stata piegata dal peso degli anni.
Tale ironia viene colta nella chiara allusione all’attività sessuale, che pervade
la stanza.
Infatti, i termini green fuse (v.1) e flower (v.1) costituiscono insieme una evidente metafora dell’attività sessuale; la loro giustapposizione, a green age, conferma tale attività, che è sorretta dalla voce verbale drives,34 che esprime materialmente
lo svolgersi della stessa attività sessuale; l’io lirico è consapevole che l’attività sessuale è in atto, perché è assicurata dalla freschezza e dall’energia, e che la procreazione assicura a sua volta la continuità della vita.35
Anche il sintagma the crooked rose giustapposto all’ enunciato my youth is
bent è una chiara allusione all’attività sessuale, ancorché per enfatizzarne la cessazione. L’ io lirico ora sa che la cessazione dell’attività sessuale, causata dalla wintry
fever che ha curvato la rosa e ha piegato la giovinezza, determina anche l’arresto
nella continuità della vita.36
Egli sfrutta abilmente il senso di devastazione del tempo espresso nel mondo
vegetale dalla rosa “reclina’’ e nel mondo umano dalla “giovinezza piegata’’ per
33
L ‘aridità che colpisce le radici degli alberi e il soggetto lirico in questa poesia, rimanda a due versi ben
noti della prima sezione della Waste Land di T.S. Eliot: “What are the roots that clutch, what branches grow
/ Out of this stony rubbish?” (vv.19-20), (Quali sono le radici che si afferrano, quali rami crescono/ Da queste
macerie di pietra?), in cui viene messo in risalto lo stesso problema dell’aridità che investe sia la terra desolata
che i suoi abitanti.
34
La giustapposizione green fuse/flower sorretta da drives, a livello denotativo(superficiale), indica
l’inseminazione nel mondo vegetale assicurata dal fiore e quindi continuità della vita, attività che si svolgono
parallelamente alle stesse che hanno luogo nel mondo umano ed espresse dal sintagma verbale Drives my
green age.
35
Nel commento critico a The Force that through the green fuse drives the flower, Roberto Sanesi afferma
che “il sesso è in un certo modo il deus ex machina del ciclo vitale” (cfr.R. SANESI, Dylan Thomas..., cit., p. 63).
36
Anche le altre poesie scritte nel periodo della giovinezza e raccolte in Eighteen Poems sono caratterizzate
dalla relazione tra i cicli perpetui e i processi di nascita e morte, rigenerazione e distruzione sia nella natura che
nella configurazione fisica e psichica dell’uomo, e dal sesso. Quindi la stretta relazione, che si coglie sin dalla
prima stanza e continua in quelle successive di The force that through the green fuse drives the flower, tra i
processi di crescita ,di trasformazione, di corruzione, di decadenza tra il mondo naturale e quello dell’uomo,
nonché l’enfatizzazione dell’attività sessuale, possono essere comprese nel giudizio critico espresso da Derek
Sanford su All all and all the dry worlds lever (Tutto tutto e tutto gli aridi mondi sollevano), poesia di questo
periodo, raccolta anche in Eighteen Poems. Il critico, infatti, afferma che All all and all the dry worlds lever si
incentra sulle relazioni panteistiche tra la natura e l’uomo: il sesso è la leva del mondo perché senza di esso le
cose rimarrebbero aride. Cfr. Derek STANFORD, Dylan Thomas,London, Spearman, 1954.
157
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
giustapporre la mancata fioritura della rosa all’impotenza sessuale dell’uomo nella
vecchiaia.
Quindi, il soggetto lirico, che rappresenta tutta l’umanità, è talmente
esterrefatto che la misteriosa forza che fa crescere lo stelo del fiore e sostiene la
sua giovinezza è la stessa che fa disseccare gli alberi e fa deperire il suo fisico, da
non riuscire ad esprimere il suo profondo smarrimento e quindi il suo grido di
ribellione al suo interlocutore: la natura, rappresentata dalla crooked rose. In termini comunicativi, il messaggio che il soggetto lirico vorrebbe inviare alla “rosa
reclina’’ non giunge alla “destinataria’’, rimane al “mittente’’ perché c’è un ostacolo alla comunicazione: la comunicazione non si realizza, assume la forma di
grido represso.37
Sin da questa stanza, si può notare che Thomas, oltre a sfruttare gli effetti
delle immagini, delle tramature foniche, dei significati multipli delle parole, delle
metafore, per mettere in risalto l’opposizione tra fertilità, vita, crescita, giovinezza
e aridità, distruzione, ricorre anche a due catene isotopiche contrastanti.
Infatti, la catena isotopica della fertilità, della vita, della crescita, comprende
termini come: force, green fuse, flower, drives, green age; mentre la catena isotopica
dell’aridità, dell’invecchiamento, della corruzione, include termini come: (force) that,
blasts, destroyer, crooked rose, bent, wintry fever.
Le isotopie contrastanti rappresentano il mistero delle forze oscure che governano l’universo, e costituiscono, quindi, il sentiero sicuro che porta al grido
represso dell’io lirico.
Anche nelle altre stanze, come si vedrà, Thomas presenta questa disposizione speculare di due catene isotopiche in opposizione.
Nei primi tre versi della seconda stanza, come nei primi tre versi della stanza
precedente, la vita del mondo naturale è relazionata alla vita dell’uomo.
Infatti, il lessema water (v.6), che rappresenta il mondo naturale ed è simbolo
di movimento, di energia, di vita, perché disseta e nutre, è messo in relazione al
corpo dell’io lirico rappresentato dal sintagma my red blood (v.7), anch’esso espressione di movimento, di energia e di vita, perché il “sangue” è nutrimento delle cellule umane.
Il senso della vita è enfatizzato dall’iterazione della voce verbale drives (vv.67), che indica movimento, con il quale viene assicurata la dinamica della vita stessa,
e dall’arcatura della sequenza allitterativa della vibrante sonora / r / in The force
that drives the water through the rocks/ Drives my red blood (vv.6-7).
Il contrasto tra movimento, vita e immobilità, paralisi, morte, è enfatizzato
dalle voce verbale drives (v.6) e dai sostantivi water (v.6) e blood (v.7) che indicano
il paradigma del movimento, della vita e quindi costituiscono la perfetta antitesi
37
Nella teoria della comunicazione, i soggetti coinvolti nel processo comunicativo sono il mittente (chi
emette il messaggio) e il destinatario (chi riceve il messaggio), mentre il rumore è qualsiasi disturbo che non
permette la realizzazione della comunicazione, e che può riguardare o il mittente o il destinatario o il canale
usato per la comunicazione .Cfr. Umberto ECO, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, p. 17 e segg.
158
Gaetano Zenga
delle voci verbali dries (v.7), turns (v.8) e del sostantivo wax (v.8), che rappresentano
il paradigma della immobilità, della morte.
Il distico finale ripropone, come nella prima stanza, la relazione dei processi
che investono il mondo naturale e quello dell’uomo, questa volta, però, non per
annunciare l’invecchiamento, ma l’immobilità totale, la fine di ogni forma di vita,
espresse con violenza espressionistica dalla voce verbale sucks (v.10).38
Qui l’interlocutore dell’io lirico è il suo corpo, rappresentato da my veins ,al
quale, per via del suo stupore, non riesce a comunicare il suo grido di ribellione,
perché la stessa misteriosa forza che spinge l’acqua fra le rocce e il sangue nelle sue
vene ha procurato ‘succhiando’ soffocamento e morte.
Inoltre, questo è l’unico distico in cui il verbo tell, nell’enunciato iterato And
I am dumb to tell, è sostituito dal verbo mouth che è una permutazione (conversion)39
del sostantivo mouth, ma è anche l’unica volta che l’interlocutore del soggetto lirico è il corpo del soggetto lirico stesso.
L’uso del verbo mouth, che ricorda, comunque, sempre l’organo bocca, rende con molta concretezza l’impossibilità di comunicazione del soggetto lirico perché la sua bocca è rimasta paralizzata al punto che non può articolare alcun suono
che possa raggiungere le ‘sue vene’. La preposizione unto mette in risalto, in senso
negativo, il percorso del suono dalla bocca alle vene, in quanto l’azione non ha
avuto luogo.
E ancora, il verbo mouth e il sostantivo mouth costituiscono un ironico gioco di parole, un vero e proprio pun. Infatti, se pensiamo che il sostantivo mouth è
sinonimo di force (v.6) siamo di fronte all’equazione: quella forza (mouth v.10) che
ha prosciugato le sorgenti, che ha trasformato il sangue del soggetto lirico in cera,
ha paralizzato la sua bocca per non farlo parlare (to mouth v.9).
Sfruttando appieno la funzione del termine mouth come sostantivo e come
verbo, e la sinonimia tra ‘bocca’ e ‘forza’, Thomas riesce a rappresentare in maniera
molto efficace il grido di dolore represso dell’io lirico.
L’impossibilità per l’io lirico di comunicare con il proprio corpo è enfatizzato
dall’arcatura della percussione allitterativa della consonante nasale bilabiale sonora
/ m / in And I am dumb to mouth unto my veins/ How at the mountain spring the
same mouth sucks (vv.9-10).
In questa stanza l’isotopia della vita e del movimento include termini come:
force, water, red blood, drives; mentre l’isotopia dell’immobilità totale, della paralisi è espressa da termini come: (force) that, dries, turns, wax, same mouth, sucks.
Il distico finale della stanza mostra come l’efficacia complessiva di una poesia
38
L’azione espressa dalla voce verbale sucks fa prefigurare la forza universale invisibile come un mostruoso
vampiro gigante che ‘succhiando’ l’acqua delle sorgenti e il sangue dell’uomo provoca soffocamento e morte.
39
Conversion è il termine tecnico usato per definire il procedimento di word-formation, che dà forza,
vitalità e brio alla lingua e che consiste nell’usare senza alcuna modifica morfologica un verbo come nome
(walk, a walk ), un aggettivo come verbo (dirty, to dirty), un aggettivo come nome (bitter, a bitter), un nome
come verbo (mouth, to mouth). (Cfr. G. G. CASTORINA, Note di Poetica Inglese..., cit., p. 217).
159
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
come questa abbia a che fare con il particolare uso che Thomas fa del linguaggio.
Qui l’efficacia del suono è parte integrante del senso, una funzione del linguaggio,
come è stato già osservato, come medium per illudere continuamente il lettore ad
un immediato contatto con l’esperienza percettiva.
La terza stanza, a differenza delle precedenti, non inizia con il termine force,
ma con il termine hand che è suo sinonimo, come il termine mouth (v.10) della
seconda stanza.
Inoltre, questa stanza presenta un’altra differenza con le precedenti perché,
come è stato notato, il primo enunciato contiene soltanto la funzione referenziale e
ciò non permette di coinvolgere il soggetto lirico negli effetti positivi prodotti dalla
forza invisibile nel mondo naturale.
Al contrario, come nelle stanze precedenti, il secondo enunciato coinvolge
direttamente il soggetto lirico negli effetti negativi causati dalla stessa forza nel mondo
fisico: that ropes the blowing wind/ Hauls my shroud sail (vv.12-13).
Tutta l’energia vitale della forza universale è messa in risalto dall’arcatura
dell’assonanza delle voci vebali whirls (v.11) e stirs (v.12).
La voce verbale ropes, che è una permutazione del sostantivo rope, viene sfruttata dal soggetto poeta per la creazione di una meravigliosa immagine visiva che
raffigura la forza universale che lega i venti con una fune: that ropes the blowing
wind (v.12).
Anche il sintagma verbale “hauls my shroud sail” (v.13) costituisce un’altra
splendida immagine visiva in quanto rappresenta la forza misteriosa che spinge la
vela (ricavata dal sudario) della barca40 dell’uomo, nell’indifferibile viaggio 41 verso
la morte.
La permutazione ropes, anche se nel suo significato esprime immobilità, soltanto a livello denotativo (o superficiale), è in contrapposizione alla voce verbale
hauls,42 che nei suoi significati di trascinare, trasportare, rimorchiare indica movimento.
Tuttavia, poiché il sintagma verbale “hauls my shroud sail” (v.13) rappresenta la metafora della morte, la voce verbale hauls, in questo contesto, a livello
connotativo (o profondo), è in linea con il significato di ropes che con l’azione di
legare i venti determina con la loro immobilità la loro fine(morte). Infatti, il significato profondo di hauls è trascinare ineluttabilmente verso la morte che è immobilità.
40
È una barca allusa, simbolica. L’idea della barca è suggerita proprio dal termine composto shroud sail
(vela del sudario), che può essere interpretato come sineddoche per la barca.
41
Il senso del viaggio verso la morte, espresso da hauls my shroud sail, ricorda a shroud for a journey (v.4,
“un sudario per un viaggio”) di Twenty-four years, poesia inviata a Vernon Watkins il 24 ottobbre 1939,
raccolta, poi, in The Map of love, il volume di poesie pubblicato nello stesso anno.
42
Nella traduzione ho preferito il termine “spinge”, perché, a mio avviso, rende con efficacia il senso della
vela del sudario che viene trascinata verso la morte dalla forza universale. Altri traduttori hanno scelto voci
verbali come “regge”, “tende” o “issa”, che mi sono sembrate riduttive, in quanto non rendono l’idea del
viaggio dell’uomo verso la morte.
160
Gaetano Zenga
Tra le voci verbali ropes e hauls si stabilisce, quindi, un rapporto di trasposizione figurale: l’io lirico come i venti, viene figurativamente legato (immobilizzato)
nel suo sudario e trascinato verso la morte.
Il distico finale di questa stanza non presenta più una relazione tra il mondo
naturale e quello dell’uomo in quanto il tema della morte riguarda soltanto l’uomo:
the hanging man, che a sua volta rappresenta l’umanità. Cambia anche l’interlocutore
dell’io lirico che non è né il mondo vegetale, the cooked rose della prima stanza, né
il corpo dello stesso io lirico, my veins della seconda stanza, ma l’umanità, the hanging
man.
Il secondo verso del distico finale, How of my clay is made the hangman’s
lime, enfatizza ancora il tema della morte dell’uomo, espressa dal termine clay 43 e
dal suo sinonimo lime e che ha il suo correlativo fonico nella sequenza allitterativa
della nasale bilabiale sonora / m /.
La sinonimia tra clay e lime è un sottile gioco di parole, che mette in risalto
che tutti gli uomini rappresentati dal soggetto lirico e dal boia sono fatti della stessa
‘creta’ e perciò soggetti alla stessa morte.
A livello connotativo (profondo) e nelle sue accezioni religiose, il termine
‘creta’ viene sfruttato da Thomas per esprimere il ciclo vita-morte. Infatti la ‘’creta’’
non è soltanto sinonimo di cenere, di polvere e perciò di morte, ma è anche simbolo della vita perché ricorda la polvere del suolo con la quale fu creato l’uomo.44
In questa stanza, il soggetto poeta ha scelto di considerare la terribile condizione del destino umano legato alla morte, l’indifferibile viaggio della vita dell’uomo verso la morte, rappresentato metaforicamente, come si è visto, dal sintagma
verbale “hauls my shroud veil”.
Il grido di dolore represso è senz’altro il più intenso e profondo di cui fa
esperienza il soggetto lirico perché si riferisce alla ribellione alla morte.
Il senso di ribellione alla morte diventa molto più significativo, perché il soggetto lirico, dopo aver considerato in generale il destino dell’uomo legato alla morte espresso da “hauls my shroud veil”, si sofferma in particolare sulla morte violenta: il boia che ammazza un suo fratello.
A livello connotativo (profondo), considerata anche la presenza del termine
biblico clay, il tema della violenza può ricordare al soggetto lirico il primo esempio
di assassinio tramandato dalla Bibbia: Caino che ammazza suo fratello Abele.
È proprio la violenza dell’uomo sul proprio fratello a rendere più profondo
il dolore del soggetto lirico e non permettergli di esprimerlo con un grido.
43
Considerati i vari significati che ogni termine può avere nel linguaggio simbolico di Thomas, si può
certamente ritenere che clay è un termine religioso usato come sinonimo di polvere, cenere. Nel linguaggio
religioso la cenere è ciò che resta del corpo umano dopo la morte; da qui simbolo della morte: divenir cenere,
morire. Le Ceneri ricorrono il primo giorno di quaresima in cui il sacerdote impone sulla fronte dei fedeli un
pò di cenere come segno di penitenza, ma anche come ricordo della trasformazione in cenere alla fine della
loro vita terrena: mercoledì delle ceneri.
44
Cfr. Genesi 2, 7 “allora Jahve Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò sulle sue narici un alito
di vita”.
161
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
Si spiega così perché questa volta il soggetto lirico sceglie come suo interlocutore l’umanità sofferente: l’impiccato, la vittima del boia.
In questa stanza l’isotopia della vita, del movimento, comprende termini come:
hand, water, whirls, stirs; mentre l’isotopia dell’immobilità totale, è rappresentata da
termini come: (hand) that, ropes, hauls, shroud, hanging man, clay, hangman’s lime.
La quarta stanza può essere definita un momento di riflessione ottimistica
dell’io lirico che si accorge del potere dell’amore come unica e valida giustificazione
della vita e della sopravvivenza: il fatto che la vita continui in quanto il processo di
generazione nell’uomo e nella natura non viene mai meno, mostra che una volontà
benefica è nel cuore dell’universo.
Questa volta, come si vedrà, il grido represso del soggetto lirico è grido di
gioia immensa.
Il primo verso, “The lips of time leech to the fountain head” (v.16), è un’audace immagine metafisica: le labbra del tempo che succhiano alla fonte che sgorga.
È un’immagine che configura, a livello figurale, una simbiosi tra il tempo e
l’acqua: il tempo ha bisogno dell’acqua per tenersi in vita e l’acqua ha bisogno del
tempo per continuare ad esistere.45
L’immagine è la celebrazione della continuità della vita, sorretta dalla presenza del tempo, che è considerato come dimensione dell’esistenza umana.
La voce verbale leech è la permutazione del sostantivo leech (sanguisuga)
che viene sfruttata per rappresentare in maniera realistica le labbra del tempo che,
come una sanguisuga, s’attaccano e succhiano alla fonte.
L’enunciato “Love drips and gathers” (v.17), è un’immagine cruda che esprime, in termini fisico-biologici, il risultato dell’azione dell’accoppiamento sessuale:46 il liquido organico che “gocciola” e si “rapprende”.
L’attacco enfatico espresso dai due accenti forti dello spondeo “Love drips”
e l’accento forte sulla gutturale dura /g/ della voce vebale “gathers”, secondo elemento del giambo “and gathers”, rappresentano, da una parte, il correlativo fonico
di una immagine violenta, dall’altra, costituiscono un invito al lettore ad una maggiore attenzione e partecipazione.
Anche l’enunciato successivo “the fallen blood /shall calm her sores” (vv.1718) costituisce un’altra immagine cruda dell’atto sessuale che descrive in termini
realistici l’azione del sangue che lenirà le ferite della donna amata.
Nella sequenza giambica l’azione viene enfatizzata dalla presenza dell’accento forte sulle parole chiave, come blood, calm, sores.
45
Questa immagine metafisica si fonda quindi sul sillogismo tra tempo e acqua, che ricorda quello usato
da John Donne in A Valediction: Forbidding Mourning, dove l’immagine del compasso rappresenta i due
amanti e l’estensione dell’amore: Our two souls therefore, which are one,/ Though I must go, endure not yet
/A breach, but an expansion, like gold to airy thinnes beat./ If they are two, they are two so /As stiff twin
compasses are two (vv.21-26. “Le nostre due anime perciò, che sono una sola, / sebbene io debba andare, non
soffrono per nulla, / una separazione, ma una espansione, / Come l’oro battuto in sottilissime foglie della
consistenza dell’aria. / Se esse sono due, sono due come / Le rigide gemine branche del compasso sono due”).
46
Il termine love va, quindi interpretato, a livello fisico, come l’atto sessuale di due amanti in tutti i suoi
aspetti e dettagli fisiologici.
162
Gaetano Zenga
Il distico finale di questa stanza è un distico diverso, nel suo significato, da
quello delle stanze precedenti perché lo sbigottimento che impedisce al soggetto
lirico di esprimere il suo grido di gioia è causato dallo stupore che prova per la
grande ed intensa passione con la quale gli uomini continuano ad amare e per l’armonia che regola l’infinità dell’universo: “a heaven round the stars” (v.20); quindi,
tutta la stanza mostra un atteggiamento ottimistico dell’io lirico. Nelle stanze precedenti, al contrario, come è stato notato, lo sbigottimento impedisce all’io lirico di
esprimere il suo grido di ribellione per i processi di distruzione e di morte, e perciò
in queste stanze il grido di ribellione represso rivela un atteggiamento pessimistico
del soggetto lirico.
Anche se, a differenza delle altre stanze, qui la forza universale è soltanto
allusa, mai nominata, la sua presenza è avvertita nel suo operare nel tempo:47 “The
lips of time leech to the fountain head” (v.16) e “time has ticked a heaven round the
stars” (v.20).
Di certo, se la forza misteriosa, come è stato già osservato, è vista come volontà benefica nella stanza, assistiamo ad un rapporto di trasposizione figurale tra
tempo e forza stessa.
Nell’ultimo verso, in particolare, la voce verbale has ticked e il morfema di
comparazione avverbiale how possono esprimere insieme la saggezza con la quale,
la forza “ha scandito il tempo” della sua azione nella costruzione dell’universo.
Tutto il verso presenta un’immagine visiva di rara bellezza, in linea con il
messaggio positivo di questa stanza. L’immagine celebra l’armonia dell’universo,
raffigurato con le stelle che si muovono liberamente nel suo spazio infinito senza
mai scontrarsi.
L’interlocutore dell’io lirico, come nella prima stanza, è il mondo naturale
rappresentato da weather’s wind (v.19).
Il distico finale della poesia presenta l’associazione tra amore e morte espressa dal sintagma the lover’s tomb (v.21).
Il grido di ribellione represso è legato di nuovo alla morte come nella terza
stanza. Ancora una volta è proprio il soggetto poeta che fa esperienza della morte,
esperienza confermata dalla presenza del lenzuolo funebre che lo avvolge nella tomba, e che ricorda il sudario della terza stanza.
Il sintagma the same crooked worm è una cruda immagine macabra che descrive il verme che divora il corpo putrefatto dello stesso soggetto lirico, e che ricorda il sintagma the crooked rose della prima stanza.
I due sintagmi sono entrambi legati al processo di corruzione, di distruzione,
in senso fisico, con la differenza che mentre la “rosa reclina’’ è l’agente passivo di tale
47
Nella stanza il tempo è considerato nella prima parte, come dimensione temporale limitata in quanto misura
dell’esistenza e in particolar modo di quella umana - The lips of time leech to the fountain head—, nella seconda
parte come eternità - time has ticked a heaven round the stars. È in questa ottica temporale diversa che si inserisce
la considerazione della forza universale come volontà provvidenziale perché nel tempo relativo all’esistenza umana essa assicura l’amore e quindi la procreazione, e nel tempo-eternità si preoccupa dell’armonia dell’universo.
163
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
processo, infatti “reclina’’ sottolinea la mancanza di vigore della pianta destinata a
deperire, il “verme tortuoso’’ ne è l’agente attivo, poiché “tortuoso’’ esprime il vigore
con il quale l’animale aggredisce la carne del cadavere, azione messa in risalto dal
deittico goes che regge la preposizione at che in questo caso indica ostilità.
La straordinaria giustapposizione figurale, anche se a distanza, tra i due sintagmi,
non è affatto casuale, perché certamente Thomas, maestro degli effetti delle immagini, nel chiudere la poesia con l’immagine the same crooked worm , ha voluto richiamare l’attenzione del lettore sull’immagine the crooked rose della prima stanza.
Non è neppure casuale che il soggetto lirico abbia scelto come interlocutore
l’ “amante’’, che è la personificazione della “tomba dell’amante”.48 Infatti, il soggetto lirico vorrebbe esprimere il suo grido di dolore per la macabra scena che si
svolge all’interno della tomba, ma non riesce. Egli non riesce a spiegarsi razionalmente come possano sussistere nello stesso mondo un sentimento nobile come
l’amore e la sudicia, repellente volgarità del verme che si satolla della carne putrefatta, espressione della morte umana.
Comunque, è proprio il ricordo dell’amore che rende meno dura, al soggetto
lirico, la morte stessa.
Se il grido represso, causato dal mistero dell’universo, costituisce, come è
stato già detto, il punto di tensione di The force that through the green fuse drives
the flower, è opportuno notare che anche in altre poesie, scritte nello stesso periodo
di questa poesia, Thomas si interroga sull’impotenza razionale.
Ad esempio in Why east wind chills (Perché levante gela), poesia scritta nel
1933, Thomas affronta di nuovo il tema del mistero del mondo e viene a trovarsi
ancora di fronte all’impossibilità per l’uomo di conoscere la profondità del mondo con le sue cause.
La poesia presenta un moltiplicarsi di domande simili ai perché dei bambini
che rimangono senza una risposta esauriente. L’unica risposta sarà ‘una risposta
nera’, ossia il mistero assoluto:
Why east wind chills and south wind cools
Shall not be known till windwell dries
And west’s no longer drowned
In winds that bring the fruit and rind
Of many a hundreds falls;
Why silk is soft and the stone wounds
The child shall question all his days,
Why night-time rain and the breast’s blood
Both quench his thirst he’ll have a black reply (vv.1-9).49
48
La “tomba dell’amante” è una metonimia nella quale il nome del contenente, la tomba, viene usato per il
contenuto, l’amante.
49
“Perché levante gela e austro rinfresca / Non sarà conosciuto finché il pozzo del vento non dissecchi / E
l’ovest non resti più immerso / Nei venti che recano il frutto e la corteccia / Di centinaia di cadute; / Perché la
seta è soffice e la pietra ferisce / Il fanciullo si chiederà ogni giorno, / Perché pioggia notturna e sangue di
mammella / Tutti e due lo dissetano, avrà una nera risposta”.
164
Gaetano Zenga
Anche il sonetto IV di Altarwise by owl-light (Come altare al lume di civetta), pubblicato nel 1935, presenta una serie di domande che danno per scontato una
risposta di impotenza da parte della ragione umana:
What is the metre of the dictionary?
The size of genesis? the short spark’s gender?
Shade without shape? The shape of Pharaoh’s echo?
(My shape of age nagging the wounded whisper).
Which sixth of wind blew out the burning gentry?
(Questions are hunchbacks to the poker marrow).
What of a bamboo man among your acres?
Corset the boneyards for a crooked boy? (vv.1-8)50
Il dilemma enunciato in The force that through the green fuse drives the flower
e che non trova una risposta adeguata, per cui il soggetto lirico non riesce ad esternare il suo grido, caratterizza un pò buona parte della poesia thomasiana della
prima stagione, che spesso presenta il tema della futilità del sapere, una sorta di
risposta ironica all’impotenza della ragione umana.
5.L’irreversibile viaggio verso la morte-in-vita.
Le poesie di The Map of Love, il volume di poesie pubblicato nel 1939, al
quale appartiene anche Twenty-four years (Ventiquattro anni), mostrano l’interesse di Thomas di addentrarsi nella vita degli uomini del suo tempo.
Il poeta cerca un linguaggio che si oppone al soliloquio, operando, infatti,
una scelta in favore del superamento di una poesia solipsistica: la vecchia “torre’’
(in cui si era isolato) si è trasformata in un “campanile’’ che si allunga su se stesso
per tuffarsi nella vita, come in The spire cranes (Il campanile si allunga).
Siamo di fronte ad una drammatizzazione dell’itinerario individualizzato del
poeta, del suo soliloquio, nel senso di coinvolgimento di una più vasta area di esperienza, dell’intento di incominciare a rivelare come il “me stesso” sia i “me stessi”,
vittime di una tragica realtà, come dirà qualche anno dopo in Ceremony after a fire
raid (Cerimonia dopo un bombardamento): Myselves /The grievers / Greve / Among
the streets burned to tireless death (vv. 1-4).51
Il motivo della morte in opposizione alla vita che, in The force that through
the green fuse drives the flower, come si è visto, è anche responsabile del grido di
dolore represso del soggetto lirico, permane e viene approfondito in Twenty-four
50
“Qual è il metro del dizionario? La misura / Della genesi? Il genere della breve scintilla? / Ombra
informe? Forma dell’eco del Faraone/ (La mia forma d’età che molesta il bisbiglio ferito ). / Quale sesto di
vento spense i brucianti possidenti? / ( le domande sono gobbe per il midollo dell’attizzatoio). / Che dire di
un uomo di bambù fra i tuoi acri di terra? I recinti di ossa sono un busto per un ragazzo contorto?”
51
(“Me stessi / Coloro che piangono / Piangono / Fra strade arse sui roghi di instancabile morte”).
165
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
years (poesia scritta da Thomas in occasione del suo compleanno),52 alla luce di
questo nuovo modo di fare poesia da parte di Thomas, soprattutto nell’intento di
costruire un rapporto con il mondo degli uomini.
Però, il tema vita-morte, che è certamente uno dei più ricorrenti della poesia
thomasiana e soprattutto di quella della prima stagione, assume in Twenty-four
year,come si vedrà, il significato metaforico di morte- in- vita.
In questa poesia Thomas cerca di descrivere ogni fase del processo della vita,
iniziando dalla prima esperienza di vita del nascituro nel grembo materno, per concludere con il viaggio indifferibile dalla vita verso la morte.
Sul tema di fondo della poesia costituito proprio dal processo della vita dal
grembo materno alla tomba, si innesta la concezione della nascita come iniziazione
alla morte, ma anche, come si vedrà, della morte come rigenerazione, rinascita.
Twenty –four years è una poesia breve di nove versi, che consiste di tre enunciati principali e di un quarto che possiamo definire sussidiario:
Twenty- four years remind the tears of my eyes.
(Bury the dead for fear that they walk to the grave
in labour).
In the groin of the natural doorway I crouched like a tailor
Sewing a shroud fora journey
By the light of the meat-eating sun.
Dressed to die, the sensual strut begun,
With my red veins full of money,
In the final direction of the elementary town
I advance for as long as forever is.53
I tre enunciati principali hanno una disposizione speculare: il primo, “Twentyfour years remind the tears of my eyes”(v.1), annuncia il compleanno; il secondo, “In
the groin of the natural door way I crouched like a tailor / Sewing a shroud for a
journey “(vv. 3-4), mette in rilievo l’attività del nascituro nel grembo materno; il terzo,
“I advance for as long as forever is” (v.9), descrive il viaggio verso la meta conclusiva.
La disposizione speculare di questi enunciati va vista nel fatto che essi sono
collegati fra loro anche se il primo può sembrare avulso dagli altri due. In realtà
l’annuncio lapidario del compleanno, contenuto nel primo enunciato, ha luogo nel
ricordo delle lacrime, e quindi crea l’atmosfera di tristezza che pervade anche gli
altri due enunciati.
52
La poesia fu inviata a Vernon Watkins il 24 ottobre 1939, tre giorni prima del compleanno del poeta; fu
raccolta poi in The Map of Love, pubblicato lo stesso anno.
53
Ventiquattro anni rammentano le lacrime degli occhi./ (Sotterra i morti per paura che vadano alla tomba
in travaglio) /Nel vano della porta naturale stavo accosciato come un sarto /A cucire un sudario per un viaggio / Alla luce del sole mangiatore di carne. / Vestito per morire, il sensuale incedere iniziato, / Con le mie
rosse vene zeppe di soldi , / Nella direzione conclusiva della città elementare, / Io vado avanti quanto è lungo
il sempre”.
166
Gaetano Zenga
L’occasione del compleanno diventa triste riflessione sulla nascita che è strettamente ed ineluttabilmente legata alla morte.
Il quarto enunciato, “Bury the dead for fear tha they walk to the grave in
labour” (v.2), che costituisce una sorta di “epigrafe’’ fuori testo, per il suo significato, è decisamente in linea con gli altri enunciati.
La funzione linguistica prevalente è quella emotiva, rappresentata dal pronome di prima persona I (2 occorrenze) e dall’aggettivo possessivo my (anche 2 occorrenze). Ciò significa che l’io lirico è direttamente coinvolto nelle azioni come
protagonista. Infatti, egli si serve di un flash-back, per evocare la sua vita fetale nel
grembo materno54 e di un flash-forward per prefigurarsi e descrivere il suo viaggio
verso la tomba.
Il secondo verso presenta la funzione conativa nella seconda persona singolare dell’imperativo esortativo del verbo bury. Comunque, è sempre l’io lirico ad
essere coinvolto direttamente anche in questa azione, in quanto soggetto attivo dell’esortazione.
È significativo, che il verso d’apertura, in una poesia che celebra il compleanno e che fa generalmente prefigurare un’atmosfera di festa, faccia riferimento alle
lacrime degli occhi del soggetto lirico, e che il secondo verso presenti termini come
“morti’’ e “tomba’’.
Questi termini contenuti nell’ “epigrafe’’ rappresentano una sorta di premessa al tema della morte strettamente legato al tema della vita e spiegano anche il
perché delle lacrime del verso precedente: sono lacrime che ricordano al soggetto
lirico, proprio nel giorno del suo genetliaco, l’ineluttabilità della morte.
Infatti, nei versi successivi, viene subito presentata l’immagine del nascituro
che prima ancora di venire al mondo è intento a cucire il suo sudario del viaggio
verso la morte: “Sewing a shroud for a journey” (v. 4).
A livello connotativo si stabilisce un rapporto di trasposizione figurale tra i
“morti’’ e il “sudario’’: in opposizione, ma anche in complementarità con i termini
“compleanno’’ (termine mai nominato ma alluso) e “viaggio’’, che sono espressione
di vita, ma anche presagio di morte.
La similitudine, presente nell’enunciato “I crouched like a tailor/Sewing a
shroud” (vv. 3-4), che paragona il soggetto lirico, ancora nel grembo materno, a un
sarto, mette in risalto la perizia con la quale il nascituro cuce il suo “sudario’’ di
morte.
Il soggetto poeta vuole affermare che ogni nascituro conosce perfettamente
come cucire il proprio sudario in quanto obbedisce ad un istinto naturale congenito: l’atto di cucire diventa così un gesto meccanico per tutti i nascituri.
54
Anche in The tombstone told when she died (La lapide diceva quando è morta), poesia inviata a Vernon
Watkins nel 1938, l’io lirico adulto racconta la sua esperienza vissuta da nascituro, quando vede proiettato,
come in un “film accelerato’’, sul “muro mortale’’ dell’utero materno il suo sudario di morte: I who saw in a
hurried film /Death and this mad heroine / Meet once on a mortal wall “(vv. 21-23) Io che vidi in un film
accelerato /La morte e questa folle eroina /Incontrarsi una volta sopra un muro mortale”.
167
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
La sottile ironia di Thomas si coglie nel duplice significato del termine shroud
inteso, a livello denotativo (superficiale), come lenzuolo funebre, e a livello connotativo (profondo), come corpo, sudario dello spirito.55
Si stabilisce così un rapporto di trasposizione figurale tra il corpo, sudario
dello spirito, e il lenzuolo funebre, in quanto il lenzuolo funebre alla morte avvolgerà il corpo che in vita avvolge lo spirito.
Il fatto che un termine possa avere più significati, come è stato visto più volte
per Ears in the turrets hear e per The force that through the green fuse drives the
flower, costituisce una caratteristica del linguaggio thomasiano,56 che è un linguaggio privo dei propri significati convenzionali, fatto di termini ambigui distorti, volti ad acquisire nuove potenzialità di significati multipli.57
Il doppio senso di un termine permette a Thomas di usare la sua sottile ironia, si pensi, ad esempio, al duplice significato di journey (v.4), che indica sia il
viaggio dal grembo materno alla vita, che il viaggio dalla vita verso la morte, o ai
vari significati di labour (v.2), che può indicare pena, fatica, travaglio. Infatti, è proprio il significato di labour come travaglio, che fa pensare alle doglie del parto,58 in
linea con il tema nascita-morte della poesia.
Si consideri, inoltre, il duplice significato di groin (v. 3) nell’espressione “In
the groin of the natural doorway”: evidente metafora per il ventre materno nell’atto della nascita, resa più esplicita dal fatto che groin, oltre al significato di ingresso,
vano, ha anche quello di inguine. Questa metafora rappresenta, quindi, la continuità figurale di labour, del verso precedente, nel significato di “doglie del parto’’.
E ancora il termine doorway, specificato dal lessema attributivo natural , per
la sua valenza doppia sul piano connotativo, costituisce un’immagine centrale della
poesia.
Infatti, impiegando lo schema topologico di Lotman, possiamo vedere che
“la porta naturale” conduce a due spazi principali: quello interno protetto dell’utero materno (IN) e quello esterno amico della vita (ES1). Ma, “la porta naturale”
oltre che alla vita si apre ad un altro spazio esterno nemico (ES2) mai nominato,
eppure costantemente presente a livello profondo, quello della tomba. In questa
ottica spaziale, la vita assume il significato di aspettativa della morte.
Un’altra immagine centrale, con valenza doppia sul piano connotativo (profondo), è costituita dal lessema tailor (v.3). Infatti, sul piano detonativo (superficiale),
55
Il termine shroud, con questo particolare significato di corpo come sudario dello spirito, che riguarda il
nascituro nel grembo materno, ricorda: I, born of flesh and ghost (v.37 “Io, nato di carne e spirito”), di Before
I knocked (Prima che io bussassi), poesia che Thomas compose nel 1933, e che tratta anche il tema della
nascita legata all morte.
56
Per un ulteriore approfondimento del linguaggio thomasiano, cfr. G. ZENGA, L’evoluzione della poesia di
Dylan Thomas: dall’ ‘io’ all’uomo..., cit., pp.190-191.
57
Elder Olson ha criticato le forzature del linguaggio operate da Thomas, perchè, a suo giudizio esse non
gli consentono di capire se un termine è inteso in senso letterale o metaforico. Cfr.Elder OLSON, The poetry of
DylanThomas, Chicago, The University of Chicago Press,1954.
58
Nel linguaggio corrente, l’espressione to be in labour significa avere le doglie.
168
Gaetano Zenga
tailor significa soltanto il “sarto’’, mentre sul piano connotativo il “sarto’’ è il “feto
rannicchiato’’ intento a cucire e allo stesso tempo si identifica anche con la “Parca’’
che recide il filo della vita.59
Se “sarto’’ può avere il significato di “Parca” è perché si stabilisce un rapporto di trasposizione figurale tra “sarto’’ e “sudario’’ nel significato di lenzuolo funebre e quindi di morte.
Le tramature dei rapporti di trasposizioni figurali, stabilitesi tra i “morti” e il
“sudario’’, tra il “corpo, sudario dello spirito’’ e il “lenzuolo funebre’’, tra il “sarto’’
e il “sudario”, oltre ai significati duplici e a volte anche multipli di alcuni termini,
servono ad enfatizzare il tema chiave vita-morte e a rafforzare la coesione tra gli
enunciati.
Il sintagma Dressed to die (v.6) è la continuazione del senso espresso dal lessema
shroud (v.4), del quale può essere considerato sinonimo in forma di perifrasi.
Però, mentre l’io lirico, parlando del “sudario” che egli cuce da nascituro all’interno del grembo materno, fa riferimento, con ironia, ad un generico viaggio (anche se è molto evidente che è il viaggio verso la morte, come fa pensare il “lenzuolo
funebre”, egli non lo specifica) che egli farà nel futuro, dopo aver lasciato il grembo
materno. L’unica determinazione concernente il viaggio è che esso avverrà: By the
light of the meat-eating sun (v.5). Al contrario, quando egli riferisce di essere “Tutto
elegante per morire”, non solo fa capire di essere fuori del grembo materno, ma indica anche il suo “sensuale incedere” verso la “meta conclusiva, la città elementare”.
Il termine composto meat-eating sun è un neologismo creato da Thomas ed
è metafora per la morte-in-vita: a livello denotativo il termine indica gli uomini
uccisi dal calore intenso del sole, ma a livello connotativo rappresenta la vita come
inferno: tutti i mali della vita moderna.
L’espressione “With my red veins full of money”(v.7) è una chiara metafora
del benessere che esprime la sottile ironia con la quale Thomas mette in risalto
l’inutilità del denaro di fronte alla morte, anche se si tratta di morte-in-vita. Tale
ironia si coglie anche nel fatto che, sul piano denotativo, il lessema veins, significa
parte del “corpo, sudario dello spirito”, mentre sul piano connotativo indica il
soppanno del “sudario”, inteso come “lenzuolo funebre”.
Il significato di veins, come “imbottitura di soldi”, rimanda di nuovo al sarto che
l’ha confezionata e che nel suo ruolo crudele di “Parca” ne ha deciso la distruzione.
La vita si identifica per ogni uomo con l’ “I advance” (v.9) ossia l’ “incedere
da solo” nel proprio vestito verso la morte.
In questa ottica, il vivere si riduce, quindi, ad un andare avanti per “quanto è
lungo il sempre” come esplicitamente afferma l’io lirico nell’ultimo verso, enfatizzando ironicamente il finito “sempre” della vita stessa.
A livello connotativo, però, il viaggio della vita verso “la meta conclusiva, la
città elementare” va visto verso una fine che è un principio, in quella “direzione del
59
Per l’interpretazione del “sarto’’ come “feto rannicchiato’’ e come “Parca’’, cfr. Francesco BINNI, Dylan
Thomas, Firenze, La Nuova Italia (Il Castoro), 1972.
169
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
principio” che è il titolo di un racconto, uno splendido poème en prose di Thomas.
È significativo che i racconti scritti da Thomas in questo periodo, sette dei
quali volle includere in The Map of Love, presentino le stesse tematiche, gli stessi
simboli delle poesie, la stessa relazione tra sogno e realtà, ed infine la stessa intensa
aspirazione di vivere in un mondo migliore ed innocente.
Si consideri, ad esempio, in The Visitor l’esperienza di Peter, che morendo
vive la continuità tra vita e morte, e l’illusione da morto di essere vivo o da vivo di
essere morto.
Se il viaggio della vita si muove verso una fine che è un principio, il senso
unico originario, obbligato del viaggio verso la morte, in Twenty-four years, acquisisce, quindi, un doppio senso, in quanto la morte non rappresenta il ramo finito
della vita, ma il suo nuovo inizio e quindi la sua rinascita.
A questo punto, il tema chiave della poesia, la nascita come inizio della morte, l’equivalenza womb-tomb (utero-tomba), che Thomas mutuò da John Donne,
va inquadrato in una interpretazione più profonda della poesia stessa.
Per comprendere il vero significato dato da Thomas al viaggio verso la morte, possiamo considerare, ad esempio che lo stesso motivo che lega il processo del
vivere al luogo della morte, ricorre anche in Poem on his birthday (Poesia per il
proprio compleanno) scritta molti anni dopo,60 in cui, in merito alla “meta conclusiva”, l’io lirico afferma: Dark is a way and light is a place.../But dark is a long way
(vv.48-63).61
Questi versi possono rappresentare, rispetto alle prime poesie che trattano
anche il tema vita-morte, il progresso graduale, ma continuo compiuto dall’immaginazione poetica(peraltro già ben presente in Twenty-four years), che considera il
viaggio in direzione della “città elementare”: un viaggio che è tenebra e alla fine si fa
luce, sebbene la tenebra duri a lungo.62
Anche se con fatica, però, l’io lirico (in Poem on his birthday) compie con
fiducia questo tragitto: Who slaves to his crouched eternal end / Under a serpent
cloud (vv.31-32).63 Egli, comunque, è consapevole che il tragitto verso la “città elementare” è tenebra, ma quando vi giunge può godersi una luce immensa.
A mio parere, è in questa ottica di tenebra-luce che va visto anche il viaggio
compiuto in Twenty-four years dall’io lirico, in direzione della “città elementare”:
viaggio nella tenebra per la conquista della luce.
La morte, quindi, diventa metafora della morte-in-vita, ossia della morte spirituale dell’uomo moderno, vittima delle sue angosce, delle sue frustrazioni, della
60
La poesia, che è dell’estate del 1951, fu pubblicata in «World Review», n.s. XXXII (1951), ottobre, e
venne poi raccolta in Country Sleep.
61
“La tenebra è una via, la luce è un luogo.../ Ma è una lunga via la tenebra”.
62
I primi segni di questo nuovo percorso immaginativo possono essere già colti in And death shall have no
dominion (E la morte non avrà dominio), poesia scritta nel 1933, in cui viene celebrata la resurrezione ad
opera della natura: il “nulla si crea e nulla si distrugge”.
63
“Egli che si affatica verso l’eterna, rannicchiata fine / Sotto una nuvola serpente”.
170
Gaetano Zenga
sua alienazione, della sua crisi esistenziale,64 causate dalla perdita dei valori etici e
religiosi tradizionali.65
La morte-in-vita rappresenta la “caduta” dell’uomo, in senso biblico, che gli
ha fatto perdere la felicità goduta nell’Eden.
Infatti, è, il simbolismo biblico della creazione, caduta e rigenerazione (redenzione) che informa Twenty-four years.
Non si tratta di una forzatura interpretativa, poiché Thomas ha sempre ammesso che l’intero sviluppo della sua poesia trae ispirazione dal simbolismo biblico.
A ragione, nel suo commento critico a Twenty-four years, Binni osserva con
acutezza: “l’io vive della continuità tra il proprio ingresso nel mondo e la determinazione di patirne tutta la mortalità ma anche di trascenderla nel ritorno all’innocenza originaria”.66
La poesia propone, quindi, metaforicamente il ritorno dell’uomo all’ “innocenza blakiana”, che segna la sua rinascita spirituale, il ritorno alla luce dopo aver
fatto esperienza della tenebra (del male) nel tunnel della morte-in-vita che è tormento, sofferenza.
È un difficile cammino di espiazione, di purgazione, di liberazione dal male
per riconquistare l’innocenza dell’ Eden.
Twenty-four years rivela, quindi,una visione mitica rigeneratrice in linea con
la visione mitica del mondo dei grandi romantici William Blake e Samuel Taylor
Coleridge.
È proprio questa visione mitica che informa la poesia di Thomas a connotare
la sua vocazione romantica e a distinguerlo dai poeti contemporanei che, a suo giudizio, mostrano un’inclinazione neoclassica.
La visione mitica rigeneratrice di Twenty-four years, oltre a presentare delle
affinità con gli stati di innocenza e di esperienza celebrati da Blake,67 si coniuga
idealmente con il tema del viaggio di espiazione compiuto dal vecchio marinaio, in
The rime of the ancient mariner di Coleridge, dopo aver fatto esperienza del male,
uccidendo soltanto per capriccio l’albatro.
64
L’idea del viaggio metaforico dal grembo materno verso la morte–in-vita è già espressa da Thomas in una
lettera del 1934 in cui descrive la vita come prigione:«La vita scorre davanti alle finestre e io la odio ancor di
più di minuto in minuto [...] Vedo i bambini non ancora nati faticare su per la salita entro le loro madri,
battendo contro il lastrone imprigionante dell’utero, senza rendersi conto che è una più presuntuosa prigione
quella in cui vorrebbero emergere...» (Lettera a Pamela Hansford Johnson).
65
T. S. Eliot in The Waste Land mostra grande stupore che tanti uomini siano colpiti dalla morte in vita: A
crowd flowed over London Bridge, so many, / I had not thought death had undone so many (vv.63-64). “Una
gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, / Che io non avrei mai creduto che morte tanta ne avesse
disfatta”.
66
F. BINNI, Dylan Thomas..., cit., pp. 56-57.
67
William Blake in Songs of Innocence e in Songs of experience presenta rispettivamente i due opposti stati
dell’animo umano: l’innocenza e l’esperienza. L’innocenza è la condizione di suprema felicità e libertà, si
identifica con lo spirito puro della fanciullezza, e ha come simbolo l’agnello; l’esperienza, che significa esperienza del male e della schiavitù, causati dalle leggi e dalle istituzioni dell’uomo, ha come simbolo la tigre.
171
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
Alla luce del viaggio di espiazione che continua fino alla “città elementare”
dove avrà inizio la rinascita dello spirito, si comprendono meglio alcuni aspetti
della poesia. Il sudario che accompagna il soggetto lirico dalla vita alla morte può
esser visto come la metafora di tutti i mali che gli hanno causato il dramma della
morte-nella-vita; le lacrime ricordate dal soggetto lirico nel giorno del suo compleanno sono l’espressione concreta della sua sofferenza causata dalla sua crisi esistenziale, dalla sua morte- in-vita. E ancora, si può tentare un’interpretazione dell ‘ambiguo enunciato “Bury the dead for fear they will walk to the grave in labour” (v.2),
la cui ambiguità è enfatizzata dall’assonanza dei due termini chiave grave /
labour,considerando il lessema grave sia come termine del viaggio della morte-invita che come inizio della rinascita.La necessità di sotterrare i morti-in-vita perché
non arrivino alla tomba con le “doglie”, può essere interpretata come: tenere sepolta la coscienza dei morti-in-vita, perché la sua purificazione si compia in maniera
completa nel tempo, così la rinascita alla vita spirituale non avvenga con tormento,
ma sia un graduale risveglio.
6. Perché non piangere la morte di una bambina uccisa da una bomba
A refusal to mourn the death, by fire, of a child in London (Rifiuto di piangere la morte tra le fiamme d’una bambina di Londra)68 appartiene a Deaths and
Entrances, il volume di poesie pubblicato nel 1946.
La poesia segna il passaggio del motivo della morte-in-vita dell’umanità, trattato in Twenty-four years, alla descrizione di una morte reale: una bambina uccisa da
una bomba a Londra durante un bombardamento della seconda guerra mondiale.
È significativo che A refusal to mourn the death,by fire, of a child in London,
come Among those killed in the dawn raid was a man aged a hundred (Tra le vittime dell’incursione all’alba c’era un uomo di cent’anni)69 e Ceremony after a fire
raid siano state scritte in occasione dei bombardamenti di Londra e presentino,
quindi, il tema della morte legato all’avvenimento storico della seconda guerra
mondiale.
Di certo, lo scoppio della seconda guerra mondiale non lasciò indifferente
Thomas che con le poesie scritte in occasione dei bombardamenti volle manifestare
la sua partecipazione alle sofferenze degli uomini.
Le poesie di Deaths and Entrances, da una parte, mostrano l’indignazione di
Thomas per la tragedia della guerra e per ogni forma di violenza del mondo moderno, ma dall’altra, anche molta serenità interiore che gli permette, come si vedrà, di
celebrare l’amore come sentimento di fratellanza universale in This side of the truth
68
La poesia fu inviata a Vernon Watkins con una lettera del 28 marzo 1945, fu pubblicata in «New Republic»,
CXII (1945), 20 (14 maggio), e venne successivamente raccolta in Deaths and Entrances.
69
La poesia fu pubblicata in «Life and Letters To-day», XXX (1941), 48 (agosto), e venne poi raccolta in
Deaths and Entrances.
172
Gaetano Zenga
(Questo lato della verità)70 e di esaltare l’innocenza della fanciullezza in Fern Hill
(Colle delle felci).71
Quindi anche l’evento bellico contribuì all’evoluzione della poesia thomasiana
che si fece meno solipsistica nei confronti del mondo e manifestò l’esigenza di rivolgersi ad un pubblico più vasto, nell’intento di costruire una relazione con gli uomini.
Le poesie scritte successivamente a quelle pubblicate in The Map of Love
mostrano che la tematica si è ampliata e non insiste più sul motivo quasi esclusivo
della morte-in-vita trattato spesso in maniera astratta. Al contrario, in queste poesie il motivo della morte è legato a persone viste realmente vivere o morire.
Possiamo dire che il processo evolutivo della poesia thomasiana, cui si è fatto
cenno in precedenza a proposito delle poesie di The Map of Love, si è gradualmente compiuto, anche se la tecnica compositiva non rivela cambiamenti notevoli.
A refusal to mourn the death,by fire, of a child in London, è una poesia breve,
costituita da quattro sestine che presentano uno schema di rima alternata (abcabc,
defdef, gbigbi, bcbbcb):
Never untill the mankind making
Bird beast and flower
Fathering and all humbling darkness
Tells with silence the last light breaking
And the still hour
Is come of the sea tumbling in harness
And I must enter again the round
Zion of the water bead
And the synagogue of the ear of corn
Shall I let pray the shadow of a sound
Or sow my salt seed
In the least valley of sackcloth to mourn
The majesty and burning of the child’s death.
I shall not murder
The mankind of her going with a grave truth
Nor blaspheme down the stations of the breath
With any further
Elegy of innocence and youth.
Deep with the first dead lies London’s daughter,
Robed in the long friends,
70
La poesia fu inviata a Vernon Watkins il 28 maggio 1945, pubblicata in «Life and Letters To-day », XLVI
(1945), 95 (luglio) e raccolta in Deaths and Entrances.
71
La poesia fu pubblicata la prima volta in «Horizon», XII (1945), 70 (ottobre) e venne poi raccolta in
Deaths and Entrances.
173
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
The grains beyond age, the dark veins of her mother,
Secret by the unmourning water
Of the riding Thames.
After the first death,there is no other.72
La poesia è un lamento funebre per la morte di una bambina, che il soggetto
poeta forse non conosceva, uccisa durante un bombardamento di Londra.
La bambina non è descritta né fisicamente né psicologicamente, probabilmente perché il soggetto lirico si rifiuta di piangere la sua tragica morte. Gli unici tratti
che la distinguono sono: “la maestà della sua morte” (v.13) causata dal fuoco (come
viene specificato dal titolo e dal verso 13); il luogo della morte, Londra (che viene
indicato nel titolo e nel verso19); il luogo di sepoltura (definito nei versi 19 e 23).
Il tema chiave della poesia è costituito dal rifiuto del soggetto lirico di piangere la morte tragica della bambina; tale rifiuto è sostenuto dall’idea che la morte
significa ritorno di tutte le cose, animali, vegetali, umane alla loro prima origine, in
quella “oscurità primordiale”, che come si vedrà, rappresenta la personificazione
della forza che dà la nascita e la vita a tutte le creature viventi.
La prima impressione offerta dalla poesia è la fredda e sorprendente indifferenza dell’io lirico di fronte all’orrore di una bambina che muore bruciata dalle
fiamme di una bomba, ma si vedrà che non è così.
Le funzioni linguistiche impiegate sono quella emotiva, espressa dal pronome di prima persona I (3 occorrenze), che rappresenta il soggetto lirico, e dal possessivo my (1 occorrenza) anch’esso riferito al soggetto lirico, e quella referenziale
o di terza persona che descrive la realtà del mondo naturale e il luogo di sepoltura
della bambina.
Anche se a primo acchito la poesia mostra una disposizione speculare delle
funzioni del linguaggio nelle stanze, in quanto la prima e la quarta stanza presentano soltanto la funzione referenziale, come la seconda e la terza presentano soltanto
la funzione emotiva, occorre dire che l’azione del soggetto lirico investe anche la
prima stanza come conferma il lungo periodo che si estende dal primo al tredicesimo
verso e unisce, senza alcuna pausa, la prima, la seconda e l’inizio della terza stanza.
Infatti, è il soggetto lirico che fa una dichiarazione definitiva: egli non piangerà
mai la morte della bambina finché non si verificheranno certe condizioni, che sono
quelle espresse chiaramente da: all humbling darkness / Tells with silence...(vv.3-4).
72
“Mai, finché il buio che la specie umana / Uccelli bestie e fiori /Genera e tutto umilia non racconti / Con il
silenzio l’ultima luce apparsa / E l’ora della quiete /Sarà giunta dal mare che cadrà imbrigliato / E io dovrò
rientrare nella sferica / Gerusalemme della perla d’acqua / E nella sinagoga della spiga di grano,/ Mai lascerò
pregare l’ombra d’un suono o spargere / Il mio seme salato / Nella minima valle d’un saio per piangere / La
maestà e le fiamme della morte di questa bambina. / Io non massacrerò / L’umanità della sua fine con una grave
verità / Né starò a bestemmiare la via crucis del fiato / Con un’altra / Elegia d’innocenza e giovinezza. / Giù, con
i primi morti, giace la figlia di Londra, / Dei lunghi amici rivestita, / I grani senza età, le oscure vene di sua madre,
/ Segreta presso l’acqua che non piange / Del galoppante Tamigi. / Dopo la prima morte, non ce ne sono altre”.
174
Gaetano Zenga
È significativo che l’annuncio che farà “l’oscurità primordiale”(darkness) sarà
un annuncio che avverrà “nel silenzio”. Il silenzio, infatti, sarà in linea con l’annuncio stesso in quanto riguarderà la fine del mondo (quando cesserà ogni forma di
vita, di attività, e non ci saranno più suoni o rumori di alcun genere), caratterizzata
da due immagini apocalittiche : la scomparsa definitiva della luce “the last light
breaking” (v.4) e lo sprofondamento del mare “the sea tumbling in harness” (v.6).
Il soggetto lirico intende dire che “non piangerà mai” per la morte di un
essere umano finché nel mondo non ci sarà buio completo e il mare non sarà scomparso con le sue maree (condizioni essenziali per il suo pianto).
D’altro canto, la presenza dell’io lirico anche nella prima stanza è confermata
dalla posizione dell’avverbio never (v.1) che si trova in questa stanza , ma che regge
il sintagma verbale “shall I let pray” (v.10) della seconda stanza, e costituisce con
esso un attacco enfatico a sostegno della ferma intenzione dell’io lirico stesso: il
netto rifiuto di piangere “the majesty and burning of a child’s death” (v.13).
Il periodo lungo, di tredici versi, introdotto da never e continuato poi da
until (v. 1)crea l’atmosfera di unità che rispecchia l’atteggiamento dell’io lirico verso la tragedia della bambina uccisa da una bomba.
La prima stanza costituisce la prolessi dell’azione dell’io lirico annunciata
nella seconda stanza dalla proposizione principale “shall I let pray” e mette in rilievo l’importanza del ruolo del lessema darkness, l’ “oscurità primordiale”.
Infatti, il lessema darkness (v. 3), che è il soggetto di making (v.1), di fathering
(v.3) e di humbling(v.3), è la metafora che indica l’ “oscurità primordiale”,
personificazione della forza responsabile dell’origine e della fine della vita (come la
forza di The force that through the green fuse drives the flower), forza che è genesi
ed apocalisse, alla quale ritornano tutte le cose dopo la loro morte.
Questa interpretazione è possibile per il duplice significato che viene ad assumere il termine darkness in quanto soggetto delle voci verbali making e fathering che
indicano rispettivamente creazione e riproduzione (e perciò conferiscono a darkness il
significato di forza generatrice) e della voce verbale humbling che esprime la metafora
della morte (e quindi trasmette a darkness il significato di forza distruttrice) in quanto
sul piano figurale indica con ironia l’umiliazione subita da tutte le cose viventi, allorché
vengono distrutte, proprio come se fossero state sconfitte da un avversario.
Il senso della genesi, della vita espresso da making e fathering, ha come
correlativo sonoro l’omofonia dell’assonanza delle due voci verbali, la sequenza
allitterativa espressa dalla bilabiale /m / in mankind making e dall’arcatura allitteativa
espressa dalla spirante sorda / f / in flower fostering.
È opportuno notare che Thomas affronta il tema della morte e della rinascita
anche in And death shall have no dominion, in cui descrive il ritorno dell’uomo al
mondo dal quale proviene, e la sua resurrezione fisica e spirituale:
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
175
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again; (vv. 2-7)73
Il poeta afferma che i morti con le loro “ossa spolpate” si ricongiungeranno
al vento e alle stelle in una rinascita comune; l’uomo può essere vuoto nello spirito
alla sua morte, ma subito dopo risorgerà spiritualmente sano.
I versi mostrano la complementarità fra questa poesia e A refusal to mourn
the death, by fire, of a child in London.
I primi tre versi della seconda poesia, proprio per i significati di creazione, di
riproduzione e di morte conferiti rispettivamente dalle voci verbali making, fathering
e humbling a darkness, stabiliscono una relazione tra la morte e il rinnovamento
ciclico della natura.
Anche le voci verbali breaking (v.4) e tumbling (v.6), come humbling, esprimono il senso della distruzione e dell’apocalisse ed indirettamente sono legate a
darkness, perché è quest’ultima che deve annunciare che queste azioni apocalittiche
hanno avuto luogo.
A questo punto è opportuno sottolineare che proprio il paradigma dell’apocalisse costituito dalle voci verbali humbling, breaking e tumbling, permette di vedervi un’allusione dell’io lirico al Giudizio universale, allusione che gli consente di
affermare che nessun uomo deve piangere la morte di un altro essere finché non ci
sarà il Giudizio universale, con il quale “la morte non avrà più dominio”.
Il senso di distruzione espresso da breaking e tumbling ha come correlativo
fonico il martellamento dell’arcatura allitterativa della sibilante sorda / s / in tells,
silence, last, still, sea, harness e della liquida /l/ in tells, last, light, still, tumbling.
Thomas usa quindi due catene isotopiche contrastanti: quella della vita espressa
da making e fathering e quella della morte espressa da humbling, breaking e tumbling.
È significativo che le metafore della vita, della morte o della distruzione siano espresse da forme gerundive, la cui omofonia delle assonanze mette in risalto la
loro somiglianza o opposizione di significato, e stabilisce, comunque, un forte legame tra loro.
La speculare disposizione delle forme gerundive, la speculare disposizione
della rima, il cui schema “abcabc” stabilisce una rima abbracciata, le arcature
allitterative, l’uso continuo dell ‘enjambement, mettono in risalto l’unità e la coesione della prima stanza, ed enfatizzano il ruolo dell’ “oscurità primordiale”.
La seconda stanza si incentra sull’azione principale dell’io lirico espressa dai
sintagmi verbali “Shall I let pray” (v.10) e “or (shall I ) sow” (v.11) che si collegano
all’infinito to mourn (v.12).
73
“I morti nudi saranno una cosa / Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente; / Quando le loro ossa
saranno spolpate e le ossa pulite scomparse, / Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;/ Benché impazziscano saranno sani di mente, / Benché sprofondino in mare risaliranno a galla”.
176
Gaetano Zenga
Le due immagini “And I must enter again the round / Zion (vv.7-8) e “And
the synagogue74 of the ear corn” (v.9) sono immagini di chiara ispirazione biblica e
di grande importanza religiosa.
Anche “the least valley of a sackloth” (v.12), che è la metafora della peniten75
za, rappresenta un’altra immagine biblica e religiosa.
I termini water e corn, che hanno valenza positiva, perché rispettivamente
simboli della rigenerazione e della vita, e dell’abbondanza, si oppongono metaforicamente al paradigma della distruzione e dell’apocalisse costituito da humbling,
breaking e tumbling della stanza precedente.
La sinestesia “the shadow of a sound” (v.10) che a livello connotativo indica
il minimo sforzo (l’ombra) per articolare una parola (suono), legata al sintagma
verbale “Shal I let pray” dipendente da never, ma che si collega, come si è visto,
anche a to mourn, forma una sola metafora per significare che il soggetto lirico non
ha alcuna intenzione di piangere per la bambina.
I termini sow, (salt) seed, valley fanno pensare, a livello denotativo, al “seminare il seme (salato) in un campo” per “un futuro raccolto”. Tenendo presente che
il sintagma my salt seed (v.11) è metafora per lacrima e che tutto l’enunciato “or sow
my salt seed /In the least valley of sackloth” (vv.11-12) dipende da never, si comprende che il soggetto lirico enfatizza con queste immagini l’inutilità del pianto e
della penitenza, perché seminare il “seme salato” nelle valli (pieghe) del saio (l’abito
della penitenza e del dolore) non produce alcun frutto per il futuro; che l’inutilità
del pianto ha come correlativo fonico la percussione allitterativa della sibilante sorda /s/.
Il rinvio del pianto significa effettivamente il suo annullamento; il soggetto
lirico intende dire che ci sarà un tempo in cui il piangere per la morte di un essere
umano non sarà più avvertito come opportunità pertinente. Ciò avverrà quando
l’atteggiamento dell’umanità verso la morte colmerà il vuoto esistente tra il processo organico naturale e l’interpretazione sociale di esso.
Inoltre, occorre notare che le immagini che rappresentano simboli religiosi
tradizionali, e che coinvolgono direttamente l’io lirico hanno una valenza altamente ironica. L’ironia dell’io lirico è espressa dalla voce verbale must che indica che,
entrare a Gerusalemme e nella sinagoga, indossare il “saio della penitenza”, sono
doveri morali, riti sacri imposti dalla tradizione.
Di certo, il soggetto lirico non accetta gli imperativi morali imposti dalla tradizione, egli lascia chiaramente intendere che: non andrà a Gerusalemme, né entrerà nella
sinagoga, né indosserà il “saio della penitenza” per compiangere “la maestà e le fiamme
della morte di questa bimba” (v.13). Infatti, egli è convinto della inadeguatezza dei riti
religiosi e dei pianti funebri tradizionali, per celebrare la morte della bambina.
74
La sinagoga, il termine che designa sia l’assemblea che il luogo di culto dell’ebraismo, fu istituita dopo
l’esilio babilonese (586-538 a.C.). Essa rappresenta il decentramento del culto, prima imperniato e incentrato
nell’unico tempio di Gerusalemme, reso possibile e necessario soltanto nell’esilio e nella diaspora.
75
Si pensi alla penitenza di S. Giovanni Battista nel deserto.
177
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
È proprio l’orrore della guerra che rivela al soggetto lirico l’inopportunità
dei simboli religiosi.
A livello profondo, l’atteggiamento del soggetto lirico mostra una velata ma sottile allusione, alla dissacrazione di questi simboli da parte dell’uomo, ogni volta che si
rende responsabile di guerre, di tragedie, le cui vittime sono spesso esseri innocenti
come la bambina uccisa dalla bomba (che la società vorrebbe piangere). Si può avere
anche l’impressione che il soggetto lirico intenda dire che i simboli religiosi vengano
strumentalizzati dagli uomini per giustificare immani tragedie come la guerra.
Thomas aveva fatto sua la lezione di W. Blake che in Songs of experience aveva
affermato che le leggi e le istituzioni del tempo (Chiesa inclusa) erano responsabili dei
mali della società76 e soprattutto della distruzione dell’innocenza del bambino.
Ora possiamo comprendere perché, in questo periodo, mentre Thomas prova
orrore per la violenza della guerra, scrive poesie che sono l’esaltazione dell’amore,
della fratellanza o dell’nnocenza, in opposizione all’istinto di distruzione e di morte.
Infatti, in This side of the truth, dedicata al figlio Llewylin, Thomas celebra
con estrema delicatezza il sentimento dell’amore:
And all your deeds and words,
Each truth, each lie,
Die in unjudging love (vv.34-36).77
L’amore viene considerato come sentimento di fratellanza universale, con il
quale si possono neutralizzare tutte le forme di rottura o di divisione.
Fern Hill, poesia scritta nello stesso anno di This side of the truth, rappresenta l’esaltazione del paesaggio dell’innocenza della fanciullezza:
Now as I was young and easy under the apple boughs
About the lilting house and happy as the grass was green,
The night above the dingle starry,
Time let me hail and climb
Golden in the heydays of his eyes,
And honoured among wagons I was prince of the apple towns (vv.1-6).78
Sono proprio il sentimento della fratellanza universale e lo stato dell’innocenza della fanciullezza, celebrati in queste poesie, che spiegano l’atteggiamento
del soggetto lirico, in A refusal to mourn the death, by fire, of a child in London, nei
confronti dei simboli religiosi e dei riti dissacrati dall’uomo.
76
Cfr. nota 67.
“ E ogni tuo atto o parola, / Ogni verità, ogni menzogna, / Muoiono nell’amore che non giudica”.
78
“Quando ero giovane e ingenuo sotto i rami del melo / Presso la casa armoniosa e felice come l’erba era
verde,/ La notte alta sulla valletta stellata, / Il tempo mi lasciava esultare e arrampicarmi/ Dorato nel fulgore
dei suoi occhi,/ E fra i carri ero il principe onorato delle città di mele”.
77
178
Gaetano Zenga
Per il soggetto lirico, continuare ad usare questi simboli e riti comuni, significherebbe profanare la “maestà” stessa della morte della bambina e la forza immortale della sua innocenza.
La terza stanza contiene due attacchi enfatici “I shall not murder” (v.14) e
“Nor (shall I ) blaspheme” (v 16) che costituiscono specularmente l’eco anaforica
degli attacchi enfatici “(Never) shall I let pray” (v.10) e “Or (shall I) sow” (v.11)
della seconda stanza e servono a enfatizzare l’atteggiamento negativo del soggetto
lirico verso simboli e riti religiosi tradizionali.
Il sintagma with a grave truth (v.15) indica una verità molto grave: la morte
tragica della bambina vittima innocente di quella violenza che secondo il soggetto
lirico ha dissacrato i simboli religiosi tradizionali. È una verità che la bambina si
porta nella tomba, come lascia intendere l’espressione “of her going with a grave
truth”; verità per la quale il soggetto lirico prova immenso dolore.
Tuttavia, per il soggetto lirico questa grave verità viene sublimata dalla sua
visione della morte: il ritorno, nel tempo, di tutte le cose viventi al mondo naturale
dal quale provengono.
Ciò può spiegare anche il motivo per cui l’io lirico non intende “opprimere
l’umanità” rinfacciandole “la grave verità”: i suoi errori (le guerre), che rendono,
perciò, inutili i suoi riti (il pianto per le vittime innocenti). Il rifiuto categorico
dell’io lirico “I shall not murder / The mankind of her going with a grave truth” ha
il suo correlativo fonico nella percussione allitterativa della nasale bilabiale sonora
/m/ e delle gutturali dure /k / e / g/.
Il simbolismo religioso è espresso dal sintagma “the stations of the breath”
(v.16), una evidente metafora della via crucis, ma “le stazioni del fiato” indicano
anche la metafora della vita in generale ed in particolare le sofferenze patite dalla
bambina mentre veniva bruciata dalle fiamme della bomba.
Ciò dimostra, ancora una volta, che il soggetto lirico non è indifferente alla
tragica morte della bambina, ma sente pietà per le sue sofferenze fisiche e le paragona alla via crucis del Cristo.
Questa nuova immagine religiosa rappresenta la continuazione delle immagini: “Gerusalemme”, la “sinagoga” e la “minima valle del saio”.
Di certo, il soggetto lirico intende affermare la superiorità sacra delle “stazioni del fiato” della bambina sulla tradizione delle stazioni della via crucis, come
della “perla d’acqua” sulla Gerusalemme consacrata dalla tradizione e della “spiga
di grano” sulla sinagoga, anch’essa consacrata dalla tradizione.
Si ha l’impressione che il soggetto lirico consideri tutti questi simboli e riti
religiosi invenzioni umane basate sull’ipocrisia e create per confondere i veri credenti e perciò non sono utili a ricordare la memoria della bambina morta tragicamente.
Ecco perché egli usa termini lapidari come murder e blaspheme coniugati al
negativo per affermare anche (oltre a quanto è stato già detto in merito al rifiuto di
opprimere l’umanità) che se egli continuasse ad usare i simboli e i riti religiosi tradizionali “massacrerebbe” l’umanità o “profanerebbe” le stazioni della via crucis.
179
L’impossibilità di comunicazione; il grido represso...
L’impiego della metafora della via crucis significa che il soggetto poeta ha
rispetto per la passione del Cristo sul Calvario, ma considera , il rito religioso delle
stazioni della via crucis una ipocrita strumentalizzazione, in contraddizione con le
sofferenze della bammbina vittima innocente della guerra.
Nella seconda stanza l’io lirico esprime il suo netto rifiuto di piangere per la
bambina morta, in questa stanza, invece, si rifiuta di comporre “any further / Elegy
of innocence and Youth”( vv.17-18).
La composizione di una nuova elegia rappresenterebbe chiaramente la profanazione della tenera età e dell’innocenza della bambina e delle sue “stazioni del
fiato”.
I termini murder (v.14) e further (v.17) costituiscono una rima obliqua con i
termini flower (v.2) e hour (v.5) della prima stanza e stabiliscono, quindi, una rima
abbracciata tra le due stanze, che mette in rilievo il loro legame psicologico: l’io
lirico, infatti, ha sempre presente il ruolo dell’ “oscurità primordiale” alla quale,
come si è visto, ritorneranno tutte le cose dopo la morte, ruolo messo in rilievo,
proprio nella prima stanza, dall’immagine apocalittica della fine del mondo.
La quarta stanza, o meglio i primi cinque versi di essa sono dedicati interamente al luogo di sepoltura della bambina. Il lessema attributivo deep nel suo significato letterale di profondo fa pensare piuttosto ad una fossa e non ad una tomba,
come luogo di sepoltura della bambina, e deve probabilmente trattarsi di una fossa
comune scavata come, tante altre, per l’occasione, durante la guerra, come fanno
pensare il sintagma “robed in the long friends” (v.20) (il corpicino della bambina
coperto dai cadaveri “più lunghi” degli altri morti) e il lessema attributivo secret
(22).
La bambina, come indica appunto secret, non è stata sepolta in un luogo pubblico, in un cimitero, ma in luogo appartato, “segreto”: forse proprio una fossa
comune scavata presso il Tamigi.
Il primo verso “Deep with the first dead lies London’s daughter” mette ancora una volta in risalto il tema chiave della poesia: il ricongiungimento della bambina ai primi morti per partecipare con essi alla comune rinascita finale, avvenimento che trova il suo correlativo fonico nella percussione della sequenza allitterativa
espressa dalla dentale sonora / d /.
I lessemi friends (v.20) e grains (v.21) meritano un’attenta considerazione per
i loro particolari significati: il primo esprime con estrema delicatezza i compagni di
sventura della bambina, anche essi vittime della guerra e perciò “amici” resi tali
dalla sorte; il secondo può avere una duplice valenza, infatti, può semplicemente
significare i “granelli di sabbia o di terra” che ricoprono la bambina sepolta, ma è
più probabile che indichi i “chicchi di grano”, che stabiliscono, quindi, un evidente richiamo al “grano” e all’ “acqua” della seconda stanza.
Così, i “chicchi di grano” con l’ “acqua” e il “grano” possono costituire un
unico asse paradigmatico della rigenerazione e quindi della rinascita della bambina.
L’interpretazione di grains come “chicchi di grano” è suffragata dalla locuzione
beyond age, metafora per l’eternità (immortalità): la rigenerazione (rinascita) dei
180
Gaetano Zenga
“chicchi di grano” è proiettata nell’eternità, in linea con l’ immortalità della bambina.
L’espressione “ the dark veins of her mother” (v.21) rappresenta l’unico tratto fisico di distinzione della bambina in quanto descrive appunto il “colore scuro
delle sue vene” che ricordano quelle di sua madre.
L’immagine “the unmourning water / Of the riding Thames “(vv.22-23)
rispecchia lo spirito della poesia, perché mette in risalto che anche la natura condivide con il soggetto lirico l’idea dell’inutilità di piangere per la bambina morta.
Come per la terza stanza anche per questa la rima rimanda ancora alla prima
stanza. La novità rispetto alla terza stanza è che ci sono soltanto due tipi di rime,
entrambe collegate con la prima stanza, e che una di queste è collegata anche con la
terza stanza stessa.
Infatti, i termini friends (v.20) e Thames (v.23) che fra loro costituiscono un
rima obliqua, a loro volta stabiliscono una rima obliqua con i termini darkness (v.3)
e harness (v.6) della prima stanza e quindi una rima abbracciata. Invece i termini
daughter (v.19), mother (v.21),water (v.22) e other (v.24) costituiscono una rima
abbracciata con i termini murder (v.14) e further(v.17) della terza stanza e con i
termini flower (v.2) e hour (v.5) della prima stanza.
La rima abbracciata unisce, quindi, a livello psicologico, questa stanza alla
terza e alla prima e si può dire anche alla seconda stanza considerato il lungo periodo che lega saldamente la prima alla seconda. Ciò a riprova della coesione fra le
stanze e l’unità psicologica che le pervade tutte, per mettere in risalto il motivo
chiave della poesia: il rifiuto di piangere per la bambina morta tragicamente, perché
la morte non è fine ma rinascita.
L’ultimo verso “Dopo la prima morte, non ce ne saranno altre”, che rimanda
alla “grave truth” (v.15) in quanto afferma perentoriamente il principio dell’eternità, ha una risonaza e un ascendente sia per il credente che per il non credente proprio, perché suggerisce un credo nella vita eterna.
A refusal to mourn the death, by fire, of a child in London è certamente una
poesia sull’immortalità e come And death shall have no dominion è caratterizzata
dalla fede nella resurrezione fisica e spirituale dopo la morte.
Con l’ultimo verso, quindi, il soggetto lirico esorta il lettore ad un’attenta
riflessione sulla morte nella prospettiva dell’eternità.
Alla luce della fede nella rinascita,nella resurrezione, si comprende il perché
del rifiuto del soggetto lirico di piangere per la morte della bambina: ella è felice ora
perché è ritornata al principio cosmico, ed è entrata nell’eternità.
Secondo il soggetto lirico, soltanto quando l’umanità considererà la morte in
questa nuova visione di fede nell’immortalità, potrà liberarsi di riti tradizionali
inutili come il pianto; soltanto allora il sentimento di compassione per i morti diventerà decisa affermazione della loro continua rinascita dopo la “prima morte”.
181
182
Cristanziano Serricchio
Le Stele Daunie e la tradizione antiomerica
della Guerra di Troia
di Cristanziano Serricchio
Documenti protostorici del più grande interesse anche per i riflessi letterari
sono costituiti dalle Stele Daunie che aprono una luce nuova sulla vita e la morte dei
nostri antenati indoeuropei del III-II millennio a. C. Lo scrittore greco Licofrone
vide una selva sterminata di stele funerarie infisse sui dossi sabbiosi delle dune nella
piana di Siponto lungo il Candelaro e il Cervaro, fra Cupola a Coppa Nevigata.
Vaste necropoli distrutte e disperse dal tempo. Sulle sue orme il geniale archeologo
Silvio Ferri ne ha rinvenute e interpretate circa duemila, intere e frammentarie. Attualmente si possono ammirare a Manfredonia nel castello svevo-angioino sede del
Museo archeologico nazionale.
Tali singolari monumenti, databili fra l’VIII e il VI secolo a. C., documentano, attraverso un linguaggio per immagini, lo sviluppo autonomo della civiltà daunia.
Essi, come scrive lo stesso scopritore, costituiscono “il prezioso anello mancante
nella vuota protostoria mediterranea, una eccezionale scoperta destinata ad aprire
nel mondo dell’archeologia spiragli di cultura paneuropea.” Si tratta di lastre rettangolari antropomorfe in pietra calcarea, decorate sulle due facce e sui bordi con
ornamenti e armi e sormontate da teste a forma allungata, che venivano infisse verticalmente sulle tombe.
Ad esse i Dauni primitivi, provenienti dal mondo tracio-illirico, affidarono
la memoria delle loro vicende di vita e di morte legate alla tragica guerra decennale
e alla difficile odissea. Vi incisero miti e credenze religiose ed escatologiche, scene
erotiche e domestiche, momenti di caccia, di pesca, di lavoro e di vita quotidiana,
immagini terrificanti relative al culto dei morti e alla vita d’oltretomba, animali
fantastici, mostri infernali, rappresentazioni di Ercole Tricorne di origine centroeuropea, un pantheon mitico dei Dauni, i segni di una religione orfica aspirante
attraverso il sacrificio umano all’immortalità.
Fra i ricami e gli ornamenti delle stele femminili, e al di fuori della spada e
dello scudo di quelle maschili, gli ignoti artisti ed esperti incisori dauni seppero
rappresentare inoltre la notevole varietà di uccelli e di animali presenti in laguna e
sulla montagna garganica. Ma oltre ai molteplici aspetti socio-economici, culturali e religiosi della società protostorica del Tavoliere, essi, ispirandosi a tradizioni tipiche di popoli stanziati nel Mediterraneo orientale e a trasposizioni di rac183
Le Stele Daunie e la tradizione antiomerica della Guerra di Troia
conti forse più antichi di quelli omerici, seppero rappresentare su numerose stele,
con incisioni di estrema suggestione spesso evidenziate da colori, episodi della guerra
di Troia che i loro antenati avevano combattuto contro i Greci a fianco dei Troiani,
come l’inganno del cavallo, Ilio che brucia, Priamo davanti ad Achille per il riscatto
di Ettore.
Questa comunione di vicende, miti, riti e credenze giustifica l’originaria
provenienza, secondo Ferri, alla fine del II millennio a. C. di correnti migratorie
dall’Oriente Egeo, e più propriamente dal mondo traco-troiano, al quale i Dauni
della piena età del Ferro si rivelano strettamente legati raffigurando sulla selva di
stele delle necropoli sparse nella laguna di Siponto le consuetudini, i miti, i fatti
più vivi della loro storia. I Dauni, secondo Ferri, erano quasi certamente di origine tracia, come traci erano i troiani, legati al popolo trace dei Paviones, il cui
simbolo era il pavone raffigurato in centinaia di stele. Molto numerose sono infatti le raffigurazioni riferibili al ciclo troiano e in particolare a episodi centrali
dell’Iliade, che presentano però cose e persone in campo troiano e dal punto di
vista troiano, traco-anatoliche e dunque anti-achee. Si pone pertanto il problema
antiomerico nella interpretazione delle stele riscontrabile anche nelle ceramiche
ad esse legate.
Numerose sono le rappresentazioni del cosiddetto “Riscatto di Ettore”,
costituite per lo più da un uomo seduto o in piedi con la lira, da uomo o donna
che tende a lui le braccia in atto di preghiera, ancelle che recano doni sul capo,
uomini con alti copricapi conici di fattura orientale. È evidente il riferimento al
racconto del XXIV libro dell’Iliade: Priamo, solo, va da Achille e implora il
rilascio del corpo del figlio. Nelle varianti Achille, seduto o in piedi, ha sempre
la lira; ma in Omero egli suona la lira solo nel libro IX, 185 sgg., quando irato
non vuole più combattere, mentre nel XXIV, 472 sgg., siede a mensa quando
Priamo si presenta supplice alla sua tenda. In altre stele Priamo in piedi è più
alto di Achille, espressione forse di mentalità antigreca. In un’altra, fuori dalla
tradizione omerica, è rappresentata una donna sola con alta tiara orientale che
offre con la mano sinistra una borsa rigonfia d’oro e alza la destra in atto di
preghiera verso Achille seduto con la lira eptacorde. Forse è Ecuba, cui si fa
cenno nell’Iliade (XXII, 341 e 351), quando Ettore morente auspica che “il padre e la madre” offrano dei doni. Ma per Omero è il vecchio Priamo che si reca
nel campo greco, non Ecuba.
Fuori dalla tradizione omerica sono altre stele. In una Achille è seduto con la
lira sulle ginocchia davanti a una teoria di sei donne con grosse anfore in testa, in
basso si intravede fra essi un corpo disteso, forse il cadavere di Ettore. In un’altra
l’eroe è rappresentato sempre seduto con la lira fra tre donne che recano doni e tre
uomini con il lungo copricapo anatolico. Questi però non sono Mirmidoni, ma
troiani che scortano il regale barbuto Priamo di fronte ad Achille nel campo greco,
dove secondo il racconto omerico solo l’intervento di Hermes ha potuto consentire
al vecchio sovrano di entrare. È evidente che questi artisti dauni seguono il mito
184
Cristanziano Serricchio
troiano secondo versioni ignote di canti traco-troiani, non achei, e cioè eolo-ionici,
alcuni dei quali adattati e immessi nella versione omerica.
Ma la più suggestiva e spettacolare rappresentazione del riscatto di Ettore è
data da una stele quasi intera che presenta uno schema arcaico delle figure con viso
a becco d’uccello e profilo prognato: quattro uomini a sinistra col copricapo sirohittito e cinque donne a destra che reggono sul capo una cesta con covate di pavoni,
ma “questi pavoni, scrive Ferri, non sono omerici”. Al centro siede un uomo senza
barba, Achille, che regge sulle ginocchia la lira ed ha la bocca aperta come per cantare. Priamo tiene con la mano uno dei montanti della lira; la prima delle donne più
bassa di Priamo ma più alta delle altre, forse Ecuba, tiene l’altro. Solo una versione
“troiana” della guerra poteva fare entrare nel campo greco una scorta di ben nove
persone, mentre per quella “omerica” è l’intervento di Hermes che consente a
Priamo, solo, per ordine di Zeus di accedere alla tenda di Achille nel campo dei
Mirmidoni. Ma Ferri va oltre nella sua esegesi: le prime tre donne sono più alte
delle ultime due. Le tre donne regali sono Ecuba, Andromaca, la terza probabilmente Elena, le altre sono ancelle. Nell’Iliade è la moglie Andromaca che piange sul
cadavere di Ettore riportato in città (XXIV,725); segue la madre Ecuba (XXIV,748);
infine Elena (XXIV,762) cognata dell’eroe e nuora della famiglia regale. Ma Elena
greca, rapita da Paride troiano, non sarebbe mai potuta entrare nel campo greco
senza essere riconsegnata al marito legittimo. È pertanto da ritenere che per i Dauni,
di origine tracia, Elena sia anch’essa una donna troiana libera di recarsi nel campo
nemico con Priamo per il rilascio del corpo di Ettore e di fare ritorno a Troia senza
alcun pericolo (Fig. 1).
Le Stele Daunie dunque attesterebbero l’esistenza di una “guerra troiana”
ben diversa da quella “omerica”, che i Dauni giunsero dalla Tracia e che UtisOdisseo era un Trace, come Ziumites-Diomedes, re dei Bìstoni, da non identificare con l’eroe omerico creazione dei Greci. Del resto il ricordo di Diomede è
molto vivo nella Daunia, dove secondo la leggenda Diomede fondò numerose
città, e in particolare nelle Isole Tremiti, da lui dette “Diomedee”. In queste isole
dell’Adriatico il mitico eroe è sepolto e qui sul sepolcro piangono i compagni con
lui venuti da Troia e tramutati in uccelli. È l’Odissea tracia primigenia che ha
preceduto quella greca, per cui la guerra troiana sarebbe una vicenda dinastica
tracia, rivissuta dal punto di vista troiano e non greco, come la potevano vedere i
Lyki, i consanguinei d’Anatolia, bellicosi alleati di Priamo (Iliade, canto XII). Del
resto da Reso, re della Tracia, e dai suoi cavalli venuti in aiuto di Troia, dipendeva
il destino della città. Fu proprio Diomede tracio, sdoppiato nell’omonimo acheo,
ad ucciderlo assieme con Utis-Odisseo in origine tracio. I Dauni, traci anch’essi,
portarono con sé, dopo vari secoli, il ricordo di quella guerra affidando alle stele
la loro memoria storica.
Un noto esempio della visione antiomerica della guerra di Troia è dato dal
Troikòs di Dione di Prusa, secondo il quale è Achille che viene ucciso da Ettore e gli
sconfitti non sono i troiani ma i greci che lasciano come offerta il cavallo ad Atena
185
Le Stele Daunie e la tradizione antiomerica della Guerra di Troia
e fuggono per mare da Troia. Anche i testi Diktys Cretensis e Dares Phrygius contengono una visione antiomerica, trattata da P. M. Frazer.1
Anche la città di Troia che brucia è rappresentata con dimensioni ridotte a un
semplice castello, e questo potrebbe far pensare più che a una guerra tra popoli
diversi, greci e troiani, a uno scontro tra fazioni, tanto più che i vincitori non occuparono il territorio di Troia ma lo abbandonarono presto per fare ritorno a casa.
Ciò troverebbe conferma anche nelle stele dedicate al cavallo di Troia. In una è
rappresentata l’entrata del cavallo in città per calmare l’ira di Athena. Il cavallo sul
carro ha la testa all’ingiù privo di vita perchè ligneo e una dimensione normale
senza alcuna insidia. Solo un ripensamento successivo, di ispirazione omerica, ha
fatto aggiungere il disegno di una grossa pancia con dentro nascosti alcuni guerrieri. Nella stessa stele coesisterebbero dunque la versione troiana e quella omerica
della guerra di Troia, per cui “il riscatto”, che si ripete in questi monumenti funerari
molto frequentemente, ha lo scopo non solo delle esequie e della sepoltura, ma
quello di liberare l’anima del defunto, segno della religiosità di un popolo che seppe
esprimere nel mondo delle stele non solo l’ethnos ma la mentalità religiosa
protostorica, la fede nell’aldilà concepito come un mondo vivo non disgiunto da
quello terreno (Fig.2).
Fig. 1.
1
Fig. 2.
R. M. FRAZER, The Trojan War, Bloomington, Indiana University Press, 1968.
186
Cristanziano Serricchio
Si può concludere che queste stele, esistenti in un’insula della laguna della
Daunia fra Siponto e Salpia, le città fondate da Diomede, vengono a costituire, secondo l’ipotesi di Silvio Ferri, un “romanzo di Troia”, indipendente da Omero, che
è una versione tramandata da gente tracia, amica ed alleata dei troiani, di un’epoca
più antica del testo “pisistrateo” di Omero scritto per esaltare la potenza ellenica,
“una curiosa Iliade molto umana e pedestre se si vuole, ma non priva di altissimo
interesse storico.”
187
188
Rosanna Curci
Dalla parte di Anne: il sequestro di William Moens
nel diario della moglie
di Rosanna Curci
Un peculiare diario di viaggio ottocentesco è English travellers and Italian
Brigands. Più che descrizione di un’esperienza turistica, infatti, esso è il resoconto di un
romanzesco rapimento, ad opera dei briganti, subito dal viaggiatore William Moens
durante il suo tour in Italia, intrapreso insieme alla moglie Anne Walters, sposata il 4
agosto1864.1 Il viaggio in Italia, come afferma Madeleine Merlini, può essere considerato come un “protratto viaggio di nozze”,2 durante il quale William, uomo d’affari, ma
animato da una vivacissima curiosità, con interessi che andavano “ben al di là del chiuso
orizzonte della Borsa”, 3 voleva esercitarsi nel suo nuovo hobby, la fotografia.
Giunti in Italia, precisamente a Palermo, il 12 gennaio 1865, i coniugi visitarono con relativa tranquillità le estremità meridionali d’Italia fino al 15 maggio,
giorno del rapimento. William fu rilasciato dopo circa tre mesi (il 25 agosto), durante i quali Anne rimase sola, tra apprensioni e paure, a gestire i rapporti con le
autorità italiane e inglesi, per sollecitare iniziative che facilitassero il rilascio. Tornato in patria, la curiosità che la narrazione di questa esperienza aveva suscitato tra i
connazionali spinse il Moens a pubblicare queste pagine, che non hanno “pretensions
whatever to literary merit of any sort” 4 (Trad.: “alcuna pretesa di meriti letterari di
qualsiasi sorta”), con lo scopo soprattutto di far conoscere agli inglesi la vita quotidiana dei briganti italiani. Per la maggior parte si tratta di appunti scritti a posteriori
e non di annotazioni prese in Italia, che il Moens volle integrare con alcuni estratti
del diario della moglie che gettano luce su “what my friends were doing for me
outside my prison” 5 (Trad.: “ciò che i miei amici stavano facendo per ottenere la
mia liberazione”). Prese forma in questo modo “un racconto affascinante e veritiero che si offre quale forma documentaria di prima mano e motivo di riflessione
storiografica”.6 Il libro rappresenta, però, anche un altro tipo di testimonianza,
1
Cfr. Madeleine MERLINI, Presentazione, in William MOENS, Briganti italiani e viaggiatori inglesi, Milano,
TEA, 1997.
2
Ibid., p. 5.
3
Loc. cit.
4
Williams MOENS, Preface, in English travellers and Italian brigands, London, Hurst & Balckets, 1866,
vol. I, p. VI.
5
Ibid.
6
M. MERLINI, Presentazione… cit., p. 15.
189
Dalla parte di Anne: il sequestro di William Moens nel diario della moglie
quello di una donna sola, in questo caso non per sua volontà, ma strappata con la
violenza alla sicurezza di un sereno viaggio accanto a suo marito, che si ritrova a
dover mettere alla prova tutto il suo coraggio e la sua capacità di far fronte a difficoltà, imprevisti, questioni burocratiche e politiche di ogni tipo, mentre l’impulso
sarebbe solo quello di lasciarsi andare e di sfogare nelle lacrime le proprie angosce.
Motivato da cause antiche e profonde, il fenomeno del brigantaggio meridionale era stato esacerbato dalla delusione seguita al passaggio garibaldino, prima, e
all’accentramento amministrativo, poi. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica
dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei
disordini, che in pochi mesi assunsero le dimensioni di una vera propria guerriglia. In
Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono, nell’estate del 1861, a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi.
Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma
ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre, che tentavano, per
mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. Il grosso
delle bande era costituito da braccianti, contadini salariati esasperati dalla miseria;
accanto ad essi lottarono anche ex-garibaldini sbandati, ex-soldati borbonici e numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. I briganti non furono criminali comuni, come pensava la maggior parte degli italiani, ma un esercito di ribelli che, al di
fuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli
nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato
una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Come scrisse “The Atlantic
Monthly”, commentando la pubblicazione del libro del Moens, il brigantaggio italiano è una questione molto semplice: “Given a starving, beaten, superstitious population,
in a mountainous country, destitute of roads, and abounding in easy refuges and
inaccessible hiding-places, and you have a brigandage naturally. Given centuries of
weak, cruel and corrupt government, and you have the perpetuation of brigandage
inevitably”7 (Trad.: “Prendete una popolazione affamata, prostrata e superstiziosa,
in un paese montuoso, privo di strade e pieno di comodi rifugi e nascondigli inaccessibili, e avrete il brigantaggio naturalmente. Prendete secoli di governo debole, crudele e corrotto e avrete la perpetuazione del brigantaggio inevitabilmente”). Lo Stato
italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue
manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: nel 1863 oltre 120.000 soldati, quasi la
metà dell’esercito italiano, erano impegnati nella lotta al brigantaggio.8 Nel 1865 l’epoca
del brigantaggio era ormai alla fine: una delle poche bande ancora attive era proprio
quella capeggiata da Giacomo Manzo, rapitore del Moens.
7
«The Atlantic Monthly», 1866, October, vol. 18, Issue 108.
Per le notizie sul brigantaggio, cfr. Tommaso PEDIO, Brigantaggio meridionale (1803-1863), Cavallino di
Lecce, Capone Editore, 1997.
8
190
Rosanna Curci
Il 15 maggio, dunque, i coniugi Moens, accompagnati da un’altra coppia inglese, gli Aynsley, nutrendo eccessiva fiducia nelle rassicurazioni che da più parti
avevano ricevuto sull’assoluta assenza di pericoli lungo la via che da Salerno li avrebbe
dovuti condurre a Paestum, adeguatamente controllata dai militari, intrapresero il
viaggio che doveva preludere al sequestro. La descrizione delle ore che precedono
il terribile evento spetta al diario di Anne, che registra come, tra il serio e il faceto,
l’ombra dei briganti aleggiasse sin dall’inizio sugli ignari viaggiatori, non solo per il
“feeling of melancholy […] a foreshadowing […] of some coming sorrow” 9 (Trad.:
“sentimento di malinconia […] un presentimento […] di un dolore imminente”)
che investiva la donna intenta a guardare dalla carrozza il paesaggio boscoso e denso di possibili nascondigli, ma per il colloquiare scherzoso che si faceva a bordo
sull’argomento dei briganti stessi: “we talked and laughed about the brigands just
as careless unthinking people talk about their own death, never realizing the
possibility of its being at hand”10 (Trad.: “discutevamo e ridevamo a proposito dei
briganti esattamente come persone spensierate alludono alla propria morte, senza
immaginare che possa verificarsi da un momento all’altro”). Non va dimenticato,
infatti, che briganti e banditti erano elementi cardine di quel gusto del pittoresco
che, sulla scia di Salvator Rosa, Claude Laurrain e del romanzo gotico, i viaggiatori
inglesi venivano a cercare nel nostro paese nell’Ottocento. Per molti viaggiatori i
briganti non erano che figure leggendarie, elemento folcloristico, che al massimo
poteva aggiungere un pizzico di rischio e un po’ di gusto romantico al loro viaggio.
Come una doccia fredda giunge, quindi, per Anne, il grido della signora Aynsley:
“Here really are the brigands at last!11 (Trad.: “Ecco veramente i briganti!”). I fantasmi si trasformano in figure reali, pronte a minacciare sul serio l’incolumità dei
viaggiatori con il fucile puntato. I due uomini vengono invitati a scendere dalla
carrozza e a seguire i briganti, mentre Anne, che con il coraggio della disperazione
cerca di andar dietro al marito, è riaccompagnata indietro e convinta a rimanere lì in
attesa di William che, le viene detto, sarà liberato di lì a un quarto d’ora. La natura
femminile prende però, presto, il sopravvento: “Once back in the carriage, my head
reeled, and I nearly fainted”12 (Trad.: “Tornata alla carrozza, ebbi un giramento di
testa e mi sentii sul punto di perdere conoscenza”). Dopo circa mezz’ora, non essendosi visto nessun movimento, le due signore si fanno accompagnare presso
Battipaglia, il paese più vicino. La reazione del governo locale appare subito lenta e
disorganizzata: i militari tardano a muoversi e la notizia del sequestro stenta ad
essere comunicata alle autorità: “We determined, not withstanding our dusty
condition, to drive direct to the General’s at Salerno. […] We trusted that the General
would be able to give us some news of our husbands; we never for a moment suspected
that we should be the first persons to convey the intelligence of their capture, after
9
W. MOENS, English Travellers and Italian Brigands…, cit., p. 106.
Ibid., p. 107.
11
Loc. cit.
12
Ibid., p. 109.
10
191
Dalla parte di Anne: il sequestro di William Moens nel diario della moglie
seventeen hours had elapsed since it took place”13 (Trad.: “Non sopportando l’incertezza della nostra condizione, decidemmo di recarci subito dal Generale a Salerno.
[…] Speravamo che il Generale potesse darci notizie dei nostri mariti, mai sospettando che saremmo state noi le prime ad informarlo del sequestro, ben diciassette
ore dopo che era avvenuto”). Mentre viene spedito un telegramma a Firenze per
avvertire il governo italiano, viene meno per Anne anche il conforto che può derivare dal condividere con qualcuno la medesima pena: una lettera avvisa la signora
Aynsley che suo marito è stato liberato e la raggiungerà presto. Il più cupo sconforto invade Anne quando, all’indomani, Mrs. Aynsley si precipita nella sua stanza per
comunicarle che anche William è stato liberato, per scoprire che non è vero subito
dopo, mentre l’amica è già tra le braccia del marito. Il signor Aynsley, spiega Anne,
è stato liberato perché possa facilitare il pagamento del riscatto. Probabilmente i
briganti avevano assalito il loro gruppo pensando che fosse quello di Lord Pembroke,
che, secondo un telegramma che avevano ricevuto da Roma, doveva recarsi a Paestum
proprio lo stesso giorno. Pensavano, dunque, di poter ricavare da questo sequestro
un lauto guadagno. Mr. Aynsley e William avevano invece cercato di convincerli di
essere solo egli artisti squattrinati e, perché la loro tesi potesse stare in piedi, occorreva ora che ci si comportasse in modo adeguato. Le due signore e il prigioniero
liberato si recano immediatamente a Napoli, dove Mr. Aynsley aveva detto ai briganti che avrebbe tentato di racimolare il denaro per il riscatto, e dove prendono
alloggio nel poco confortevole Hotel de Genere (un albergo migliore avrebbe potuto dare nell’occhio). All’insaputa di Anne, vengono inviati diversi telegrammi a
suo nome a Lord Palmerston, ai suoi parenti e ad alcuni amici inglesi di William. “I
feel as if I were in some horrible dream”14 (Trad.: “Mi sembra di vivere in un orribile incubo”) – scrive Anne il 20 maggio – “I am sure they may well say of us when
we return to England, what the Florentines said of Dante – That’s the man who has
been with the brigands and that’s the wife who has been in the Inferno”15 (Trad.:
“Sono sicura che diranno di noi quando torneremo in Inghilterra ciò che i fiorentini dicevano di Dante – Ecco l’uomo che è stato con i briganti e quella è sua moglie
che è stata all’inferno”). Viene permesso a William di mandare delle lettere a sua
moglie, la prima in inglese, le altre in italiano, perché possano essere controllate dai
briganti. Tra le rassicurazioni e gli incoraggiamenti ad avere fede in Dio non mancano gli inviti a fare pressione sul governo inglese e a inviare telegrammi: “make as
good a bargain as you can”16 (Trad.: “cerca di contrattare al meglio possibile”). Il
riscatto richiesto ammonta a 8.500 sterline: “I entreat you to send the money directly.
Try all the means possible. Go to all my country-people, to the English consul and
the Italian government”17 (Trad.: “Ti supplico di mandare il denaro immediata-
13
Ibid., p. 112.
Ibid., p. 293.
15
Ibid., p. 294.
16
Ibid., p. 297.
17
Ibid., p. 301.
14
192
Rosanna Curci
mente. Tenta tutti i mezzi possibili. Rivolgiti ai miei concittadini, al console britannico e al governo italiano”). Gli inviti si fanno sempre più pressanti, mentre possiamo immaginare l’effetto che dovevano avere sull’animo già angosciato di Anne parole come queste: “He says that if that sum is not send directly, my life is lost. He
will cut off my head, and send it to you without pity”18 (Trad.: “Dice che se non li
riceve entro un breve termine, la mia vita è perduta. Mi decapiterà senza pietà e ti
manderà la mia testa”). È comprensibile che ella scriva: “My husband’s letters make
me distracted when I think of them”19 (Trad.: “Il solo pensiero delle lettere di mio
marito mi fa impazzire di dolore”). Le difficoltà aumentano perché il pagamento
del riscatto deve avvenire in modo che le autorità non ne vengano a conoscenza,
pena vent’anni di prigione.
Naturalmente anche i giornali italiani e inglesi si interessano alle vicende del
sequestro, ed Anne si vede costretta ad inviare una lettera al “Times”, per controbattere i commenti che giungono dall’Inghilterra, che mettono in dubbio la crudezza
della vita con i briganti; ella è decisa, al contrario, a far conoscere la realtà terribile che
emerge dalle lettere del marito. Tuttavia è difficile per lei trovare il coraggio di farlo:
“and yet I was frightened at my own boldness in – writing to the Times!”20 (Trad.:
“Ero tuttavia spaventata dalla mia audacia: scrivere al Times!”). Mentre le trattative
continuano, avvalendosi della mediazione del signor Visconti, proprietario terriero
di Giffoni, rapito tempo addietro anche lui, e quindi conoscitore dei modi di fare dei
briganti, Anne riceve in albergo la visita di un uomo, che si crede inviato dai briganti
allo scopo di scoprire le reali condizioni economiche dei Moens. Avvisata della sua
visita, Anne ha il tempo di prepararsi: “I had many lectures given me to appear bold
and indifferent, so that the brigands might not extort much through my fears. I
fortunately wore my hat, which concealed the tears which constantly came into my
eyes” 21 (Trad.: “Mi avevano detto di far finta di essere indifferente e determinata, in
modo che i briganti non fossero incoraggiati dalla mia paura ad alzare il riscatto. Per
fortuna il mio cappello nascondeva le lacrime che mi riempivano gli occhi in continuazione”). Intanto comincia a sentire in modo sempre più forte il dolore della solitudine, ed è perciò felicissima quando è informata che suo cognato, Hugh Cowe, è in
arrivo dall’Inghilterra: “Only those who have been so long in trouble amongst strangers,
and separate from their own kith and kin, can understand the pleasure with which I
now found that I had an old friend at my side”22 (Trad.: “Solo chi si è trovato in
difficoltà tra estranei, lontano da amici e parenti, può capire la mia felicità nel sapere
di avere un vecchio amico al mio fianco”). Intanto, il 28 giugno, i signori Aynsley
lasciano Napoli, e Anne si trasferisce in una pensione dove, spera, potrà sentirsi meno
sola che in albergo. Ben presto anche suo cognato è costretto a rimpatriare: “I well
18
Ibid., p. 300.
Ibid., p. 302.
20
Ibid., p. 314.
21
Ibid., p. 315.
22
Ibid., p. 317.
19
193
Dalla parte di Anne: il sequestro di William Moens nel diario della moglie
remember accompanying him to the steamer to see the last of him. I could not but
wonder whether I should ever again be starting with my husband for dear old
England”23 (Trad.: “Mi ricordo bene come mi sentivo mentre lo accompagnavo al
piroscafo per vederlo per l’ultima volta. Mi chiedevo se sarei mai rimpatriata per la
mia cara vecchia Inghilterra insieme a mio marito”). Ora che non ha più il sostegno
dei suoi amici e di suo cognato, il ruolo di Anne diviene sempre più attivo; il 17 luglio
scrive: “I went to the Questor, who advised me to go myself to Salerno, and try and
find out the brother of Manzo” 24 (Trad.: “Sono andata dal Questore, che mi ha consigliato di recarmi io stessa a Salerno e mettermi in contatto direttamente col fratello
di Manzo”). Accompagnata da una signora con cui ha fatto amicizia alla pensione, e
scortata da un agente in borghese, Anne si reca dal “brother of the man who had
caused all my grief”25 (Trad.: “fratello di colui che aveva causato tutte le mie sofferenze”), ma non riesce neppure a convincerlo a consegnare una sua lettera per William.
Tornata dal Questore, questi le suggerisce di mandare emissari a Roma, probabilmente, nota la Merlini, riferendosi agli ambienti dell’emigrazione borbonica, che le
autorità italiane ritenevano coordinassero il brigantaggio. Anche questo piano, però,
non sortisce alcun effetto. Qualcosa incomincia a muoversi quando, la sera del 31
luglio, Anne, nel frattempo trasferitasi ospite a casa della nuova amica Mrs. T. ad
Ischia, e fuori per una passeggiata con i figli di quest’ultima, è richiamata con urgenza
a casa, per ricevere la notizia che c’è stata una sparatoria e due briganti sono stati
catturati. Il 2 agosto, poi, riceve la visita dell’ex-capo brigante Talarico, il quale accresce la sua ansia, sottolineando come William si trovi in una situazione di grave pericolo, perché i briganti non lasceranno mai che i soldati lo prendano vivo. Secondo
Talarico, invece, deve essere Anne stessa a consegnare il denaro, perché i briganti non
oseranno fare del male ad una donna: “I determined to go, as I could get no pass from
the Government, and had lost all hopes of the authorities being able to help me”26
(Trad.: “Decisi di andare, visto che non riuscivo ad ottenere un lasciapassare dal governo e che avevo perso ogni fiducia nell’assistenza delle autorità”). Il signor Bonham,
però, cui Anne riferisce questa decisione, “held up his hands in horror, and said that it
was folly – madness!” 27 (Trad.: “alzò le mani inorridito e disse che era una follia –
pazzia!”), irremovibile di fronte all’insistenza di Anne: “I told him I was not afraid of
the brigands; the only obstacle to our messengers was his soldier”28 (Trad.: “Ribattei
che non avevo paura dei briganti; l’unico ostacolo ai nostri messaggeri era la presenza
dei suoi soldati”). Il generale La Marmora “sent a gentleman also who told me horrible
stories about the brigands’ treatment of women”29 (Trad.: mi spedì anche un signore
23
Ibid., p. 49.
Ibid., p. 56.
25
Ibid., vol. II, p. 58.
26
Ibid., p. 253.
27
Ibid., p. 260.
28
Loc. cit.
29
Ibid., p. 261.
24
194
Rosanna Curci
che raccontò un gran numero di storie raccapriccianti a proposito di ciò che i briganti
facevano alle donne”). Il 21 agosto, finalmente, giunge una lettera di William, che
avverte che le 3.000 sterline che da giorni si cercava di far pervenire ai briganti sono
state consegnate. Anne è felicissima, ma allo stesso tempo teme di restare ancora una
volta delusa: “This is a fearfully exciting day! Will they keep faith and release him?” 30
(Trad.: “È una giornata terribilmente emozionante. Manterranno la parola e lo rilasceranno?”). Ma nella notte tra il 25 e il 26 queste paure vengono definitivamente
cancellate dalla splendida notizia: “At half past three I was awoken by the joyful
tidings that my husband was free”31 (Trad.: “Alle tre e mezza fui svegliata dalla gioiosa notizia che mio marito era libero!”).
Il riscatto pagato, alla fine, suddiviso in diverse rate, fu di 30.000 ducati, pari
a 5.100 sterline. Manzo, suo cugino Manzitiello ed altri tre compagni della banda si
consegnarono al Prefetto di Salerno il 4 marzo del 1866; Manzo fu condannato ai
lavori forzati a vita, mentre gli altri ebbero l’ergastolo, in cui fu commutata l’iniziale condanna a morte. Fuggiti dal penitenziario di Chieti nel 1871 e ricostituita una
nuova banda, Manzo e Manzitiello, infine, furono uccisi dalle forze dell’ordine,
presso Avellino, il 20 agosto del 1873.
Il soggiorno dei Moens in Italia si chiuse, così, felicemente. L’impressione
che portarono in patria a proposito delle genti meridionali, però, non poté evidentemente essere positiva. Se da un lato, infatti, essi non mancano di ringraziare le
autorità locali, dall’altro numerosi sono anche i rimproveri e gli appunti al comportamento del popolo, all’omertà soprattutto: la gente che passa accanto alla loro
carrozza il giorno del sequestro e, pur rendendosi conto di quel che sta accadendo,
ignora e prosegue il suo viaggio, così come i delitti che restano impuniti anche quando
hanno avuto tanti testimoni, suscitano l’indignazione di entrambi. Inevitabili diventano allora i confronti con la società inglese, che spingono Anne ad osservare
quando, circa due mesi prima del rapimento di William, i Moens non riescono,
nonostante i loro sforzi, ad avere notizie più precise sul sequestro di un siciliano,
avvenuto da poco: “I could not help thinking of the storm of indignation that would
be excited in England were any gentleman in North Devon or Wales, or even in
Ireland, to be unceremoniously separated from his family, and forced to pay half or
perhaps all his fortune to be restored to them” 32 (Trad.: “Non potevo fare a meno di
pensare alla tempesta di indignazione che si sarebbe sollevata in Inghilterra se un
signore fosse stato strappato ai suoi cari nel nord del Devon oppure nel Galles o
persino in Irlanda, e costretto a pagare metà o forse l’intera sua fortuna per essere
restituito loro”). A tratti Anne riconosce che anche il governo ha le sue responsabilità, ed avanza persino fantomatiche proposte per risolvere il problema: “Italians
are constantly being carried off to the mountains by the brigands, and the
30
Ibid., p. 264.
Ibid., p. 265.
32
Ibid., vol. I, p. 28.
31
195
Dalla parte di Anne: il sequestro di William Moens nel diario della moglie
Government leaves them quietly to their fate. I am convinced that if a different
plan were pursued, and the ransom levied on the province where the outrage took
place, brigandage would soon be at an end”33 (Trad.: “Degli italiani vengono in
continuazione rapiti e portati sulle montagne dai briganti e il governo li abbandona
tranquillamente al loro destino. Sono convinta che se il governo seguisse una diversa strategia e facesse pagare il riscatto agli abitanti della provincia in cui è avvenuto
l’oltraggio, il brigantaggio giungerebbe presto a una fine”).
Indipendentemente dalle questioni legate al brigantaggio e alla delinquenza,
anche nelle pagine di diario che precedono il sequestro, mille sono i difetti che Anne
riscontra nel popolo italiano. I siciliani, ad esempio, hanno la tendenza a sputare:
“This dirty habit joins all the Sicilians, from nobles to lazzarones” 34 (Trad.: “Questa
sudicia abitudine accomuna tutti i siciliani, dal nobile al lazzarone”). Tutti gli italiani,
poi, sono deprecabili per la superficialità con cui sono disposti a sacrificare ogni cosa
pur di poter ostentare un lusso che in realtà non si possono permettere: “The Italians
outvie one another in the gaudiness and bad taste of their carriages […] My English
friends tell me that many of the owners of these gay carriages have not a decent room
to receive a friend in” 35 (Trad.: “Gli italiani fanno a gara nell’ostentazione e nel cattivo gusto delle loro carrozze […] I miei amici inglesi mi informano che molti dei
proprietari di queste carrozze variopinte non hanno una stanza decente per accogliere un amico”). Inoltre i siciliani e gli inglesi residenti a Palermo non usano frequentarsi, e i secondi “complain that the former are such a narrow-minded set; they think
there is no place in the world like Sicily, and no people to be compared to the Sicilian”
36
(Trad.: “si lamentano della mentalità ristretta dei primi, i quali pensano che non ci
sia nessun posto al mondo come la Sicilia, né popolo paragonabile ai siciliani”). Ampiamente diffusa, poi, è la pigrizia, che si aggiunge a modi sgarbati: “The shopkeepers
pass their lounging at their shop-doors, scarcely caring to serve a customer, and not
taking the trouble to bring him different articles for selection” 37 (Trad.: “I negozianti
passano il loro tempo ad oziare davanti alla porta, senza preoccuparsi di servire il
cliente e senza prendersi il disturbo di portargli articoli tra I quali scegliere”). La
vicinanza con i meridionali sembra per Anne fonte di fastidio e di disagio. Quando
attraversa in piroscafo il tratto di mare che separa Napoli da Ischia, tra i passeggeri
che soffrono per il mare agitato, ella si deve lamentare con il capitano: “The manner
of Italian peasants under these circumstances is sufficient of itself to cause illness in an
Englishwoman”38 (Trad.: “Il comportamento dei contadini italiani in una simile situazione basta già per far star male una donna inglese”).
33
Ibid., p. 296.
Ibid., p. 11.
35
Ibid., p. 14.
36
Ibid., p. 11.
37
Ibid., pp. 16-17.
38
Ibid., vol. II, p. 60.
34
196
Rosanna Curci
Così, mentre le pagine del marito che descrivono i briganti portano il segno
di una forte carica umana, per il modo in cui egli riesce a stabilire un rapporto con
i suoi rapitori, tanto da farlo “entrare a pieno diritto tra i viaggiatori degni di essere
ricordati”,39 Anne appare molto meno comprensiva e tollerante. Tocca forse a noi
lettori saper tenere conto dell’esperienza terribile cui ogni ricordo dell’Italia, inevitabilmente, per lei si legava, gettando una luce negativa anche su momenti che probabilmente, non fosse accaduto quel che accadde, ella avrebbe ricordato e descritto
in maniera diversa. L’esperienza di Anne Moens, in ogni caso, si segnala non certo
per la sua sensibilità di viaggiatrice, quanto piuttosto per il modo in cui seppe far
fronte all’improvvisa condizione in cui si venne a trovare, forzata ad uscire dal ruolo tradizionale di moglie per entrare in quello di donna unprotected (“non protetta”), tanto più sola perché in compagnia della sua angoscia.
39
MERLINI, op. cit., p. 13.
197
198
Tommaso Palermo
Il ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino.
Studio codicologico, paleografico, testuale
di Tommaso Palermo
1. Analisi dell’ornamentazione
Il ms. Casin. 218 presenta un apparato ornamentale comprendente 158 iniziali decorate e numerose iniziali semplici; le prime evidenziano (fra le cc. 1-70) il
primo lemma di ogni gruppo alfabetico del Glossarium ab Abeston ad Zacharias e
dell’Interpretatio nominum hebraeorum di Eucherius, quelle semplici, invece, gli
altri lemmi. La presenza di diversi spazi bianchi, destinati a lettere poi non più
eseguite, ed i contorni di lettere non più colorate, rimarcano l’incompiutezza del
corredo ornamentale. Il binione (cc.71-74) presenta soltanto una grande A iniziale
decorata (c. 74r) e iniziali semplici alternate nel disegno. Le iniziali semplici sono
opera dello stesso scriba: successivamente sono state colorate di verde, arancio intenso (tinta accesa e coprente poiché ricca di pigmento), giallo (in gran parte sbiadito quasi fino a scomparire), giallo (in gran parte sbiadito quasi fino a scomparire),
rosso (ne restano tracce impercettibili), non solo per un effetto decorativo ma anche per facilitare la ricerca dei lemmi.
Le iniziali decorate si possono suddividere in otto grandi, trentacinque medie e centoquindici piccole (alla misurazione in mm segue l’indicazione del numero
di linee di scrittura occupate dall’iniziale):
Grandi: 8 (Abeston c. 1r, mm 47x 35, 7 ll.; Aonia c. 9r, mm 43x 25, 3 ll.;
Catholicus c. 14r, mm 45 x 30, 5 ll. (Tavola XVI); Ilia c. 34v, mm 45 x 10, 7 ll.; Pascha
c. 46v, mm.50 x 29, 8 ll.; Q [?] c. 52v, mm. 40 x x30, 7 ll,; Samaria c. 56r, mm 40 x 30,
6 ll. (Tavola XX); Abestos c. 72r, mm 90 x 70, 9 ll.).
Medie: 35, in media mm 30 x 20 (Actualis c. 2v, 4 ll.+ margine superiore della
pagina; Adonai c. 4r, 5 ll. (Tavola XIV); Aeternus c. 5r, 4 ll.; Aficit c. 6r, 6 ll. (Tavola
XIV); A(?) c. 6r, 4 ll.; Alcides c. 6v, 5 ll.; Apostolus c. 9r, 5 ll.; Arcanum c. 9v, 5 ll.;
Athleta c. 10v, 6 ll.; Aula c. 11r, 5 ll. (Tavola XIV); Bacchum c. 12r, 4 ll. (Tavola XV);
Beati c. 12v, 4 ll.; Biblipula c. 12v, 4 ll.; Buda c. 13r, 5 ll. (Tavola XV); Brattea c. 13v,
mm 30 x 24, 2 ll. (Tavola XVI); Brocca c. 13v, mm 30 x 24, 1 l. (Tavola XVI); Caeleps
c. 15r, 5 ll.; Consecrat c. 17v, 5 ll.; Crapula, c. 19v, 4 ll. (Tavola XVII); Crepundia c.
19v, 4 ll.; Cleronomus c. 20r, mm 35 x 25, 2 ll. (Tavola XVII); Cliens, c. 20r, 4 ll.
(Tavola XVII); Diversorium c. 23r, 2 ll. + margine superiore della pagina (Tavola
XVIII); Effatur c. 24v, 4 ll.; Ganeo c. 31v, 4 ll. (Tavola XIX); Habenae c. 32v, 4 ll.
199
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
(Tavola XIX); Intemperium, c. 36v, 5 ll.; Isaurum c. 37r, 5 ll.; Irritum c. 37r, 4 ll.; Ita,
c. 37r, 5 ll.; Pumilios c. 52r, 6 ll.; Rationator, c. 54r, 5 ll.; Scatebre c. 56v, 4 ll.; Tabes c.
65r, 6 ll.; Zetas c. 69r, 4 ll.).
Piccole: 115, in media mm 15 x 10, da 1 a 4 ll. ( Axus c. 11v, Boas c. 13r,
Bracata c. 13v, Citato c. 15v, Cocula c. 16v, Collegium c. 17r, Comitus c. 17r,
Coram c. 19r, Culleus c. 19r, Crignodis c. 20r, Chroma c. 20v, Cloes c. 20v, Cruor
c. 20v, Clupeum c. 20v, Dragma c. 21r (Tavola XIX), Decus c. 21r, Domata c. 24r,
Dumtaxat c. 24r (Tavola XIX), Egregius c. 25r, Eculeus c. 25v, Elementum c. 25v,
Elatus c. 25v, Elisei c. 26r, Evangelium c. 26r, Eedacitates c. 26v, Eoo c. 26v, Empos
c. 26v, Ergastulum c. 27r, Epimenia c. 27v, Fabete c. 29v, Kartago c. 37r, Latomus
c. 37v, Libo c. 38v, Locuples c. 39r, Luculentum c. 39r, Memphiti c. 40v (Tavola
XX), Naviter c. 41r, Nectar c. 41v, Nibairus c. 42r, Noxius c. 42v, Numisma c. 43r,
Oboediens c. 43v, Occipit c. 44r, Odeporicum c. 44r, Olympiacus c. 44v, Omelia c.
44v, Officina c. 45r, Opacus c. 45v, Orbita c. 46r, Osanna c. 46r, Pelebs c. 48v,
Pepigit c. 49r, Pelicanus c. 49r, Peripetasma c. 49r, Pernix c. 49r, Pessum c. 49v,
Plectrum c. 49v, Praestigia c. 50r, Pius c. 50v, Privignus c. 50v, Poa c. 51r, Posteritas
c. 51r, Prodolor c. 51r, Propheta c. 51v, Prorsus c. 51v, Portae c. 52r, Plusculum c.
52r, Questio c. 52v, Quivi c. 53r, Quinque c. 53v, Quo minus c. 53v, Religionis c.
54r, Religiosus c. 54r, Ridicularius c. 55r, Robur c. 55r, Rubro c. 55v, Sambuci c.
56r, Sancio c. 56r, Tantisper c. 65r, Trabea c. 65r, Taria c. 65v, Tedae c. 65v,
Tetrarchae c. 66r (Tavola XX), Thibon c. 66r, Thyasus c. 66v, Tiara c. 66v, Triboli
c. 66v, Tolleno c. 66v, Terebinthus c. 67r, Vates c. 67r (Tavola XX), V[?] c. 67r,
Vehemens c. 67r, Vena c. 67v, Vernulae c. 67v, Vernacula c. 67v, Velites c. 67v,
Vespillo c. 68r, Vetulco c. 68r, Virecta c. 68r, Vibrat c. 68r, Visuperum c. 68r, Viget
c. 68v, Viola c. 68v, Vigavisse c. 68v, Zacharias c. 69r, Zacharias candelabrum c.
69r, Adonai c. 69r, Beniamin c. 69v, Cain c. 69v, Dothalm c. 70r, Elom c. 70r,
Fatue c. 70v, Galilei c. 70v, H[?] c. 70v, Ioho c. 70v).
La realizzazione di queste iniziali è successiva alla trascrizione del testo
originale e si deve ad artisti diversi; la maggior parte di esse è stata tracciata a
penna con inchiostro nero, apparentemente diverso da quello della scrittura. Alcune si sovrappongono alle linee di scrittura, altre sono tracciate su rasura di una
lettera precedente e ventiquattro mostrano solo il profilo. Inoltre mentre alcune
sono contemporanee alle aggiunte di poco posteriori alla mano A, sei iniziali sembrano attribuibili ad un intervento più tardo. La decorazione delle iniziali comprende principalmente tre tipologie: lettere zoomorfe, vegetali, geometriche. Le
lettere zoomorfe prevedono la realizzazione dell’immagine di un animale a figura
intera o in protome. Esempi di iniziali zoomorfe a figure intera sono la C di
Catholicus (c. 14r, tavola XVI) e quella di Crepundia (c. 19v, tavola XVI), dove la
lettera è rappresentata da un pavone con la coda ricurva ed una palmetta nel becco; la medesima soluzione della figura ritratta di lato ricorre nella E della glossa
Empos (c. 26v), realizzata come un cane con la testa e le zampe protese in avanti .
Nella A di Aficit (c. 63r vedi tavola XIV), la figura di un pavone con le zampe
sollevate costituisce, invece, l’asta sinistra della lettera; quella della A di Actualis
200
Tommaso Palermo
(c. 2v) e di Alcides (c. 6v) viene disegnata, invece, tramite la figura di un serpente.
Dal becco di una protome animale fuoriesce l’asta destra della A di Aeternus (c.
5r). La D della glossa Diversorium (c. 23r, tavola XVIII) presenta, invece, il trattino superiore della lettera minuscola rappresentato da una pantera a mezzo busto con le zampe anteriori sollevate mentre quelle inferiori si fondono con l’intreccio dell’occhiello.
Le iniziali geometriche rivelano la prevalenza di intrecci e nodi. Gli intrecci
sono di due tipi: uno si presenta compatto e ben serrato, costituisce l’intero disegno
della S squadrata di Samaria (c. 56r, tavola XX), sagoma l’asta orizzontale della A di
Abeston (c. 1r) e della L di Locuples (c. 39r), tesse l’occhiello della Q quadrangolare
di Q[?] (c. 52v) e riempie, infine, l’asta verticale della V di Vates (c.67r, tavola XX);
l’altro tipo è a maglie rade e meno compatte fra loro, come nel caso dell’asta orizzontale di Luculentum (c. 39r) o del riempimento della I di Ita (c. 37r). Nella Q di
c. 52v, l’asta verticale è costituita da sette nastri paralleli e sottili che vengono incrociati da un unico nastro ondulato. Gli intrecci risaltano su fondi scuri talvolta
perlinati, come nella D di Diversorium (c. 23r, tavola XVIII) e nella P di Pascha (c.
46v). Sotto la D di Dragma (c. 21r, tavola XIX) si intravede una D cancellata con
l’occhiello ad intrecci su sfondo perlinato. La C di Cleronomus (c. 20r, tavola XVII)
è costituita da un intreccio molto libero realizzato a penna.
I nodi si presentano stellari a punte aguzze, come la pancia della B di Brattea
(c. 13v) o la L di Libo (c. 38v), oppure a punte arrotondate, come la B di Brocca (c.
13v, tavola XVI), specialmente per il riempimento delle aste: si vedano le glosse Ilia
(c. 34v), Intemperium (c. 36v), Pumilios (c. 52r), Rationator (c. 54r), Ridicularius (c.
55r) e Scatebre (c. 56v). La O di Osanna (c. 56r) è realizzata tramite un unico nodo
a quattro punte arrotondate su sfondo perlinato. La O di Oboediens (c. 43v), invece, tramite un gioco di intrecci che lega quattro nodi a cuore: i terminali si presentano foggiati a palmetta e a volute simmetriche e opposte.
La soluzione adottata nella maggior parte delle iniziali vegetali è quella in cui due
mezze foglie d’acanto, simmetriche e affrontate, annodate in alto o al centro, costituiscono le A aperte (Adonai c. 4r e tavola XI, A[?] c. 6r, Apostolus c. 9r, Atleta c. 10v, Aula
c. 11r e tavola XIV), le C (Citato c. 15v, Copula c. 16v, Collegium c. 17r, Comit c. 17r e
tavola XV, Crapula c. 19v e tavola XVII, Cliens c. 20r e tavola XVII) e le E (Egregius c.
25r, Evangelium c. 26r, Eoo c. 26v). Le due mezze foglie d’acanto della C di Comit (c.
17r, tavola XVIII) si presentano sagomate, al centro, a mo’ di teste beccute affrontate.
L’occhiello della D di Dumatxat (c. 24r, tavola XIX) e della O di Omelia (c. 44v) è
sostituito da un fiore, come quello racchiuso nella Q di Questio a c. 52v.
L’unica lettera figurata presente nel codice è la Q minuscola di Quinque a
c. 53v: l’occhiello della lettera è costituito da una testa maschile, il tratto verticale discendente dal lungo collo della stessa figura. Vergata a penna con inchiostro nero, questa lettera apre una aggiunta testuale vergata in maniera distintiva
in tre linee e appare coeva al periodo di confezionamento del codice. La E capitale di Effatur a c. 24v presenta il contorno perlinato. Il corpo della A di Abeston
alla fine del codice (c. 72r) è diviso in scomparti alternativamente vuoti e riempiti di
201
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
intrecci, mentre i puntali sono a mezza foglia d’acanto; dal tratto di congiunzione si
libera una testa di serpente che si mangia la coda; dal terminale superiore, invece,
realizzato con un intreccio a nodi, si liberano lateralmente due testine animali. Aggiunte più tarde sono la B di Bacchum (c. 12r, tavola XV), le due B di c. 13r, la D di
Dragma (c. 21r, tavola XIX), la G di Ganeo a c. 31v (Tavola XIX) e la H di Habenae
a c. 32v (Tavola XIX): vergate sulla pergamena con inchiostro nero, sono arricchite
agli apici da riccioli, palmette e mezze foglie d’acanto.
***
Il valore del glossario Casin. 218, dal punto di vista dell’ornamentazione è
senza dubbio significativo: nonostante costituisca un’opera di fruizione scolastica,
il codice offre una rassegna delle trasformazioni del periodo capuano che, attraverso varie testimonianze (dal Casin. 175 al Casin. 269), si articola in una significativa
sperimentazione graduale fatta di innovazione ed arricchimento. Il codice monumento della storia cassinese, il Casin. 175, apre questa stagione: lo stile del suo
miniatore, quel “modo di colorire a tinte piatte e disgregate”,1 l’elaborazione della
pagina di apertura del codice (prima scena di dedica cassinese ed esempio per le
scelte di abati dell’XI secolo come Teobaldo e Desiderio), con “l’irrigidimento della linea, l’ispessimento dei contorni che isolano le figure sul fondo della pergamena,
la drastica riduzione dei volumi” 2 segnano più che una rottura con i precedenti
linguaggi, una scelta propria dello scriptorium capuano. In esso si consolida quindi,
attraverso un felice mélange di influenze, un alto livello culturale favorito dai lasciti
che avranno eco negli ambienti latino e greco dell’Italia meridionale per tutto il X
secolo. L’insieme delle innovazioni introdotte testimonia fondamentalmente un
passaggio da un linguaggio arcaizzante ad uno più ricco e dinamico. Gli elementi
zoomorfi, per esempio, si presentano adattati, in maniera integrale o parziale (secondo un uso che ha i suoi precedenti nella miniatura carolina), alla forma della
lettera ma in crescente dinamismo: presentano le zampe protese, la coda in avanti,
sono spesso collegati ad elementi vegetali. Il repertorio faunistico, che rivela tangenze
nei coevi lavori dei marmorari campani, non è più quello stirato e smembrato dei
manoscritti irlandesi e viene arricchito da modelli orientali, di uccelli, cani, pantere
e serpenti; secondo una tesi proposta dal Bertelli3 e ripresa dalla Orofino4 questi
1
Pietro TOESCA, Reliquie d’arte a San Vincenzo al Volturno, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per
il Medioevo e Archivio Muratoriano», 1904, 25, p. 72.
2
Giulia OROFINO, I codici decorati dell’Archivio di Montecassino, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, [s.d.] 2 voll.: vol. I, p. 26.
3
Carlo BERTELLI, Situazione dell’arte in Italia, in Il secolo di ferro: mito e realtà del secolo X, Settimane di
studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, (Spoleto 19 aprile 1991), Spoleto, presso la sede del
Centro, 1991, pp. 689-690.
4
G. OROFINO, I codici decorati…, cit., p. 26.
202
Tommaso Palermo
elementi entrano nel vocabolario figurativo tramite la mediazione di stoffe, oreficerie, smalti e oggetti di esportazione come quelli che l’abate Giovanni ebbe modo
di ammirare nella Costantinopoli del Porfirogenito, nel 915. Le cornici e gli sfondi perlinati, inoltre, palesano un chiaro richiamo all’arte orafa: la Orofino raffronta infatti una miniatura del Casin. 97 con la croce in lamina d’oro di Santo
Stefano Menecillo, abate del monastero di San Salvatore a Corte di Capua e vescovo di Caiazzo dal 979, oggi custodita presso la cattedrale di Caiazzo.5 Gli intrecci, di origine insulare, sono strutturati da pochi nastri di diverso colore in una
giustapposizione come in uno smalto cloisonné, che permette di capirne la costruzione, mai eccessivamente complicata. La testa maschile barbuta (Quinque c.
53v), inoltre, è un motivo ampiamente diffuso nella miniatura merovingica ed
insulare: già presente nel contesto cassinese nell’VIII secolo, diventerà tipico della produzione capuana del X secolo latina e greca, ed andrà a costituire una caratteristica dei manoscritti della scuola di Bari dopo esservi giunta per tramite campano-cassinese.6
Il fermento di questi elementi incontra poi la sapiente elaborazione di
Giaquinto, collaboratore di Aligerno e nuovi motivi subentrano nel già ricco repertorio: si pensi alle palmette e alle foglie trilobe contornate a dentelli o piumate, ai
fondi neri a dischi, perle o quadratini colorati su cui risaltano gli intrecci. Nel passaggio tra fase capuana e nuova età cassinese il Casin. 269 testimonia pienamente la
maturazione avvenuta: qui Giaquinto supera ogni rigidità nell’elaborare gli elementi
geometrici, zoomorfi e vegetali, conferendo al corredo ornamentale una intensa
vitalità e un dinamismo di eredità insulare, ma perfettamente permeato attraverso
l’importante stagione capuana.7
2. Analisi musicale
Dall’analisi testuale del manoscritto Casin. 218 è emersa la presenza di cinque notazioni musicali, una a c. 71v (Tavola XXII) e quattro a c. 74r (Tavola XXIII);
si tratta di brevi inserimenti, sicuramente delle probationes pennae. La notazione di
c. 71v, vergata con inchiostro nero, si inserisce in uno spazio bianco lasciato fra le
glosse uxorus e utique; le altre sono presenti tutte a c. 74r: le due notazioni superiori
sono vergate con inchiostro marroncino, quelle inferiori con inchiostro nero. Queste brevi notazioni sono del tipo neumatico in uso autonomo nell’area beneventana
nel X secolo. La notazione neumatica è la forma medievale più antica per rappresentare graficamente un testo musicale e le notazioni musicali presenti nel glossario
Casin. 218 sono dette neumatiche in quanto costituite da un accostamento di parti-
5
Ibid., I, p. 27.
Loc. cit.
7
Ibid., I, pp. 28-29.
6
203
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
colari segni, detti neumi (dal greco νευµα = segno), che avrebbero avuto origine,
secondo la tesi più accreditata (quella del paleografo musicale G. Sunyol)8 dalla
trasformazione degli accenti grammaticali in uso nell’oratoria greca e latina. Tali
neumi vengono disposti sopra il testo ed in uno spazio privo sia di righi musicali
(notazione in campo aperto o adiastematica) sia di chiave di tonalità; solo in una
fase successiva verranno introdotti i righi musicali e la chiave di tonalità (notazione
cosiddetta “diastematica”). I neumi non rappresentano solo gruppi di note musicali, ma hanno innanzitutto funzione chironomica, ossia fungono da segni mnemonici
per i cantores che conoscono una data melodia, impartita loro oralmente, in quanto
riproducenti i movimenti della mano del maestro.
Il cantore è quindi l’unico a conoscere la melodia ed i neumi gliene ricordano
l’andamento ascendente o discendente ed i vari effetti fraseologici, espressivi o ornamentali. Questa forma di notazione non indica gli intervalli che determinano la modalità maggiore o minore attualmente in uso poiché all’epoca non esisteva una tonalità precisa ed il canto era regolato sulla voce dell’interprete; uguali deficienze riguardano il ritmo della composizione che non può essere ricavato dall’analisi dei neumi.
La forma dei neumi è un elemento importante per l’identificazione della loro
area geografica di utilizzo ed il Sunyol ne ha steso una mappatura per quindici tipi
di notazioni neumatiche. Le notazioni del Casin. 218 appartengono al tipo detto
“beneventano” (Tavola XXI); gli studi più autorevoli in merito a questa notazione
si devono al già citato studioso spagnolo, nel 1925 e, più di recente, allo studioso
inglese Thomas Forrest Kelly.9 Nel Casin. 218 è presente solo una notazione con
relativo testo mutilo, a c. 74 r, della quale si leggono le parole: “[…]turi maneat sca
le na”. A causa della presenza esigua di questa parte testuale non è possibile indicarne uno o più brani liturgici di appartenenza: tuttavia, considerando i contesti storico-culturali gravitanti intorno alla formazione del codice, questi preziosi elementi
possono essere collegati direttamente con la cultura liturgico-musicale del “canto
beneventano” che interessò le zone di Benevento, Capua e centri diversi del territorio medio e alto campano dal VII-VIII sino alla seconda metà del X secolo. E’ quasi
scontato, inoltre, che la prima area extra campana direttamente interessata a questo
fenomeno fosse Montecassino, per i suoi rapporti diretti con la realtà religiosa, politica e culturale di quei territori (si pensi agli stretti rapporti con il monastero di
Santa Sofia in Benevento).10
8
Gregori M. SUNYOL, Introduccion a la Paleografia musical gregoriana, Monserrat, Abadia de Monserrat,
1925.
9
Thomas Forrest KELLY, The Beneventan Chant, Cambridge, Cambridge University Press, 1989.
10
Sulla presenza del canto antico beneventano in codici cassinesi vedasi: T. F. KELLY, The Beneventan, cit.,
pp 30-32; sui rapporti tra l’area beneventana e Montecassino, cfr. ibid., pp. 32-40.
204
Tommaso Palermo
3. Conclusioni
Il glossario Casin. 218, nell’insieme dei suoi elementi qui studiati, costituisce
una testimonianza evidente della maturazione scrittoria ed ornamentale della cultura grafica benedettina nella sua fase capuana. A conclusione del presente lavoro,
si possono confermare sia la localizzazione precisa del centro di produzione del
manoscritto nel monastero di San Benedetto in Capua, sia una datazione compresa
fra il 915 ed il 925.
Frutto dell’operosità messa in atto in questa città, ove la comunità benedettina si trasferisce mantenendo viva la scuola d’insegnamento grammaticale e
lessicografico di Paolo Diacono,11 il glossario Casin. 218 è parte dell’eredità di una
produzione manoscritta comprendente, come già detto, anche opere di autori: Igino,
le cui favole si conservano solo nella zona beneventana (Ms. Monac. Lat. 6437,
unico rappresentante della tradizione medievale), Solino e Marziano Capella, la cui
sola traccia nell’area beneventana è rappresentata dal Casin. 332.12 Capua testimonia quindi una vitalità ed una maturità che, anche se non le conferiscono il valore di
centro primario per la trasmissione della cultura antica al pari di Napoli,13 ne fanno
un centro dinamico – e non solo per la cultura campana - che fungerà da base solida
per i frutti dei gloriosi abbaziati futuri. All’ambiente culturale benedettino, inoltre,
non mancano di essere legati Ausilio ed Eugenio Vulgario, che fecero scuola nell’attivissima temperie della Napoli del vescovo duca Atanasio II (876-898) e del
duca Giovanni III. La cultura libraria di Capua e Napoli è quindi singolarmente
gemellata, soprattutto nei rapporti che questi due centri hanno con la gloriosa
Costantinopoli a cavallo fra IX e X secolo, quella degli imperatori Costantino VII
Porfirogenito (913-959) e di suo figlio Romano II (945-963).14
Il Porfirogenito, sovrano bibliofilo e autore di svariate opere, promosse una
eccezionale attività scientifica e la redazione di opere storico-geografiche e praticodidattiche in una fase splendente per la civiltà bizantina;15 presso di lui si recarono
l’arciprete napoletano Leone (inviato con un incarico prettamente di carattere
bibliofilo dai duchi Giovanni e Marino)16 nonché l’abate della comunità benedettina di Capua Giovanni I, nel 915.17 Ciò porta a considerare Capua come una fucina
importante per la elaborazione di linguaggi e soluzioni che trovano nel glossario
Casin. 218 un sicuro esempio.
11
Guglielmo CAVALLO, La trasmissione dei testi nell’area beneventano-cassinese, in La cultura antica nell’occidente latino dal VII all’XI secolo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo
(Spoleto 18-24 aprile 1974), Spoleto, presso la sede del Centro, 1975, tomo I, p. 371.
12
Ibid., pp. 371-373.
13
Ibid., pp. 375-383.
14
OROFINO, op. cit., p. 26.
15
Georg OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1968, pp. 245-246.
16
G. CAVALLO, La trasmissione…, cit., p. 377.
17
OROFINO, op. cit., p. 26.
205
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Gli studi citati su questo manoscritto hanno accresciuto il valore dello stesso:
questo lavoro di ricerca vuole costituire, a suo modo, un ulteriore apporto. Restano
aperte nuove prospettive e si profilano possibili percorsi di ricerca come quello, ad
esempio, orientato verso l’identificazione del glossario teanense di cui il Casin. 218
è copia o un raffronto fra le varie mani dell’intera produzione capuana; infine la
ricerca delle parti mancanti appartenenti ai vari glossari che costituiscono l’attuale
Casin. 218 custodito presso l’Abbazia di Montecassino.
206
TAVOLE
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola I - Esilio dei monaci cassinesi verso Teano e Capua nel periodo 883-949.
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Tommaso Palermo
Tavola II – Attuale prospetto e particolare del portale della chiesa di San Benedetto in Teano.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola III – Pagina di apertura del codice Casin. 175 con la chiesa di San Benedetto in
Capua.
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Tommaso Palermo
Codici del periodo teanense (883-896)
Fanno parte del patrimonio librario della comunità tutti i codici antichi portati in salvo dall’abbazia di Montecassino; successivamente confluiti nel patrimonio costituitosi a Capua, faranno ritorno nella nuova abbazia di Montecassino nel
949. Molti codici andranno distrutti nell’incendio dell’896, è il caso dell’autografo
della Regula. Da un glossario scomparso, realizzato a Teano nel 908/9, è stato poi
realizzato a Capua il Casin. 218, ultimato sicuramente a Teano è invece il Casin. 3.
Codici del periodo capuano (915-949)
Codici realizzati a Capua:
Casin. 175: Commentario di Paolo Diacono alla Regula di San Benedetto.
(915-934)
Vatic. Lat. 5845: Collezione di Canoni.
(strette affinità col precedente,
forse 915-934)
Casin. 97: Opere di medicina.
(915949)
Casin. 218: Glossari e l’Interpretatio nominum haebreorum di Eucherio
(915-925)
Casin. 332: De nuptiis philologiae et Mercurii di Marziano Capella.
(915-949)
Clm 6437: frammenti di una copia delle Fabulae di Igino.
(915949)
Bamb. Can. 1: Opere di medicina.
(915949)
Casin. 269: Libri XVII-XXII dei Moralia in Job di Gregorio Magno e Tabulae
paschales (vergato tra Capua e Montecassino, 949-950/1)
Acquisizioni per il patrimonio liturgico:
Giovanni I dona libras sexcentas e fornisce l’abbazia di Codicem missalem
cum tabulis argenteis deauratis, evangelium quoque opere simili […], codices
ecclesiasticos totius anni diversos
Tavola IV – Codici del periodo teanense.
211
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola V – Montecassino, novembre 1943: Monaci e soldati della Divisione Corazzata Göering
preparano il prezioso carico di codici, documenti e opere a stampa. In basso, i resti dell’abbazia
di Montecassino dopo il massiccio bombardamento americano del 15 febbraio 1944.
212
Tommaso Palermo
Tavola VI – Tavola raffigurante la disposizione delle carte pergamenacee del Casin. 218.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola VII – Direzione dei solchi guida (in neretto sono quelli diretti).
214
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Tav. VIII – Schemi di rigatura.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola IX – Misura in millimetri degli schemi di rigatura.
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Tavola X – Codice Casin. 218, particolare di c. 54 r.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XI - Mano A, particolare di c.51v; mano B, particolare di c. 43v.
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Tavola XII – Mano C, particolare di c. 60r; mano D, particolare di c. 71v.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XIII – Mano E, particolare di c. 72v; mano F, particolare di c. 8r.
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Tavola XIV – Aficit c. 6r, Aonia c. 9r, Adonai c. 4r, Aula c. 11r.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XV – Bacchum c. 12r, Boas c. 13r, Buda c. 13r.
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Tavola XVI – Brattea c. 13v, Brocca c. 13v, Catholicus c. 14r, Crepundia c. 19v.
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Tavola XVII – Crapula c. 19v, Cliens c. 20r, Cleronomus c. 20r.
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Tavola XVIII – Comit c. 17r, Diversorium c. 23r, Domata c. 24r.
225
Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XIX – Dumtaxat c. 24r, Dragma c. 21r, Ganeo c. 31v, Habenae c. 32v.
226
Tommaso Palermo
Tavola XX – Memphiti c. 40v, Samaria c. 56r, Tetrarche c. 66r, Vates c. 67r.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XXI – Tavola dei più comuni neumi della notazione beneventana.
228
Tommaso Palermo
Tavola XXII - Descrizione della notazione neumatica a c. 71v.
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Il ms. Casin dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Tavola XXIII – Facsimile delle notazioni neumatiche di c. 74r con relativa descrizione.
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Giuseppe De Matteis
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore,
valido esempio della letteratura serbo-croata
di Giuseppe De Matteis
Anzitutto è bene puntualizzare e chiarire qual è lo scopo o gli obiettivi che
intendono realizzare le due realtà culturali tra le due sponde dell’Adriatico: quella
serbo-croata e quella italiana.
La progettualità che le due Università (le italiane e quelle serbo-croate) perseguono sono: la promozione della conoscenza reciproca della cultura e della storia
dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo e, in particolare, sul mare Adriatico;
inoltre, la promozione della creatività e della diffusione transnazionale della cultura, nonché della circolazione degli autori (poeti e scrittori), degli artisti e di altri
professionisti ed operatori culturali, nonché delle opere, dando soprattutto risalto
a scrittori ed artisti emergenti e alle diversità culturali, in un rinnovato scambio di
esperienze e di contatti umani, tali da interrompere la stagnazione dell’isolamento;
la condivisione e valorizzazione del patrimonio culturale comune; la promozione
di un dialogo interculturale e di uno scambio reciproco tra le culture europee e
quelle non europee; e, infine, il riconoscimento esplicito della cultura in quanto
fattore di integrazione sociale e di cittadinanza.
L’iniziativa, in sostanza, si propone, come risultato, di migliorare l’accesso e
la partecipazione alla cultura del maggior numero possibile di persone, specie in
una realtà, come quella odierna, decisamente votata ad accogliere il fenomeno della
globalizzazione.
Basta guardarsi attorno per vedere quante iniziative, quanti Convegni, quanti progetti, in numerose città italiane e straniere, tendono oggi ad organizzarsi per
rendere fattibile, a qualsiasi livello, il dialogo e la comunicazione culturale, premessa indispensabile questa per assicurare la convivenza pacifica nel mondo.
Lo sviluppo della cultura, è cosa nota ormai, intesa come luogo privilegiato
di incontro e dialogo, dell’arte, della letteratura e dell’interscambio dei popoli europei e del Mediterraneo in spirito di tolleranza, rispetto reciproco e di pace, è
ormai una necessità improrogabile, alla quale non si possono voltare le spalle.
L’insieme dei contributi culturali che i vari Relatori del Convegno terranno
e che saranno poi raccolti e pubblicati negli “Atti” (pur partendo da esperienze
legate ai propri luoghi di vita, al proprio patrimonio culturale e letterario), permetterà di allargare gli orizzonti a valori universali come la ricchezza dello scambio di culture, lingue e nazionalità, in spirito sempre di tolleranza, di integrazione
231
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore
e di pace, non sarà mai troppo ripeterlo, tra i popoli di Europa e del Mediterraneo
tutto.
Con spirito di amicizia, dunque, fratellanza e reciproca scoperta di patrimoni e comuni eredità culturali ed affettive, in nome soprattutto della letteratura può
essere ripercorso un cammino di conoscenza e scambio di ideali di pace, tolleranza
e convivenza interetnica.
Prima di leggere il mio contributo su Dragan Mraovic, il noto poeta e traduttore slavo, mi preme osservare che gli ultimi decenni del 2000 hanno rappresentato,
specie per la Croazia, la Serbia, il Montenegro, per buona parte, insomma, dei Paesi
balcanici, una seria e valida stagione della poesia. Nel giro di pochi mesi, infatti,
alcuni tra i più significativi poeti della Repubblica jugoslava, alla fine degli anni ’60,
congedarono alle stampe alcuni volumi, che incontrarono subito il favore della critica, perché considerati di notevole interesse per tutta la lirica jugoslava, che ha
continuato successivamente ad assumere un suo particolare tono di ricerca anche in
questi ultimi anni.
Al centro di una serrata analisi di quei testi poetici si trovano, infatti, l’uomo
e i vitali problemi che sono propri della civiltà contemporanea, mentre il linguaggio
si sviluppa in una forma viva e coerente, che trae le sue radici da nuove considerazioni linguistiche e stilistiche.
In questa linea di grande valore troviamo, ad esempio, il volume Poesie scelte,
edito a Zagabria, che è un po’ la summa delle opere di Slavko Mihalic, dal 1956 fino
agli anni settanta circa.
L’autore coglie con toni neoromantici, essenziali, stringati ma assai pregnanti,
la sostanza oggettiva delle sensazioni, penetrando in esse con un linguaggio estremamente rarefatto, scarno, che mira a porre in evidenza le preoccupazioni di Mihalic,
che sono essenzialmente di ordine morale e alle quali egli sottopone il mondo che
gli sta attorno; a questo autore non manca la nota sarcastica, che è posta accanto ad
interrogativi pieni di angoscia, rendendo ancora più crudele il senso della vita. Questo
atteggiamento lo si ritrova specie nelle sue prime prove poetiche, mentre in tempi
più vicini a noi Mihalic ha preferito propendere verso toni ottimistici che, comunque, non nascondono la sua naturale aggressività, l’arma forse più potente di questo
poeta, amante e costruttore di un verso robusto e ritmico armonioso. I suoi temi
preferiti sono la paura, l’amore, l’angoscia; questo suo credo poetico lo si trova
coerentemente espresso in Amore per una terra reale, quando il poeta dichiara “nel
passato non credo / l’avvenire se batterà a questa porta / verrà respinto…”.
Ma tra i poeti che, in un certo senso, preannunciano le istanze portate avanti
poi con convinzione ed autorevolezza da Dragan Mraovic, si ricordano pure Milivoj
Slavicek, con il volume Sonetti, poesie d’amore e altre poesie, dove il verso si costruisce quasi sua sponte, affidandosi al colloquio per chiarire le proprie idee e per sottolineare certi aspetti del suo discorso, tramutando la cronaca in pensieri e in considerazioni che affondano la loro radice nell’essenza delle umane ambasce.
Spesso questo poeta parte da un ambiente chiuso, angusto, una stanza ad
esempio, un’osteria, per poi allargare i suoi concetti a qualcosa che va oltre lo spa232
Giuseppe De Matteis
zio, confondendosi in una realtà sofferta ed amata, nella quale passato e presente si
alternano forse senza alcuna speranza.
Si legga, ad esempio, Notte tra il 31 dicembre ed il 1° gennaio, dove Slavicek
osserva, con personale sintetismo di spirito e di respiro, di frasi interposte e di parole fra parentesi, con toni sì leggeri o aerati, ma comunque sottesi di significati
profondi, il canto dell’uomo che è, nello stesso tempo, individuo egocentrico ed
esaltato compagno di tutti, del poeta che senza sosta chiede e risponde a se stesso e
agli altri dei complessi valori del mondo e delle cose effimere che circondano ed
abbagliano gli uomini d’oggi: “Sono rimasto in camera. Lento il tempo mi scorre
accanto / perché sa che non si può nuocere come nemmeno io o lui. / Siamo due
fenomeni ugualmente anonimi / e possiamo a lungo guardarci negli occhi / mentre
in silenzio avveniamo”; e ancora: “Bisogna vedere se capiamo veramente la nostra
speranza, mentre così corriamo o guardiamo questo correre / (fino a quando non
consumiamo il nostro tempo). Però è difficile affermare (parlo di questa speranza o
corsa) che essa non sia la parte più umana dell’assurdo”.
Così anche in Viaggio (oppure una qualche notte), dove il poeta, stremato
dal “male di vivere” e in cerca di uno spiraglio di luce, di speranza e di salvezza,
esclama con accenti struggenti: “Sì, forse avremo ancora qualcosa da dire / ed allora
scriveremo qualcosa simile ad una lettera, oppure cercheremo qualche porta / o
parleremo a noi stessi, una notte, nella nostra stanza che conosciamo tanto bene”.
Alla generazione più anziana appartengono, invece, Drago Ivanisevic e Iure
Franicevic – Plocar, rispettivamente autori di due importanti raccolte poetiche che
hanno conferito robustezza e valore alla più matura produzione poetica degli ultimi decenni del ‘900: I giochi degli dei o il deserto d’amore, Colombi e trombe.
Di Drago Ivanisevic, dalmata, ci limitiamo a dire che egli, dopo aver pubblicato diverse sillogi di poesie e di teatro, dopo aver fatto conoscere in Jugoslavia,
attraverso perfette e belle traduzioni – riproduzioni poetiche, Giuseppe Ungaretti,
Paul Eluard e Federico Garcia Lorca, è stato il primo a portare in Croazia i fermenti e le istanze del movimento artistico del Surrealismo.
Nelle sue poesie egli esprime la preoccupazione di una solitudine che lo dilania
e lo uccide. Le sue parole costituiscono il resoconto di una lotta che egli quotidianamente combatte contro la vita, che pure ama fortemente, non in nome di se stesso, è evidente, ma di tutti. Da qui scaturisce una ricerca inquieta, un senso di morte
che dilaga su tutto, arrivando fino alla ribellione più aperta verso cose e sentimenti,
un grande desiderio di raggiungere la meta di un amore che, però, è irraggiungibile
e che sprofonda nel buio delle notti per meglio sottrarsi alle richieste dell’uomo,
pur credendo sempre il poeta nell’uomo, nel suo ingegno, nella sua costante operosità.
Jure Franicevic – Plocar in Colombi e trombe si rivolge più direttamente all’uomo della strada, per ricercare le ragioni della sua esistenza. I suoi versi sono
guidati dalla pacatezza, ma sono accompagnati spesso da strani rumori, a volte assordanti: essi mirano ad illustrare una vita trascorsa tra rocce e mare, tra rami contorti di olivi e lunghe grida di gabbiani.
233
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore
Questo poeta, i cui testi, durante la Resistenza jugoslava, chiamavano a raccolta i suoi concittadini contro i nazifascismi, in tempi più vicini a noi (anni ’60-‘70)
si sposta sul versante dell’introspezione psicologica: vuole penetrare nei meandri
della vita, per scoprirne i segreti, in quelle piccole cose cioè che danno turbamento
e tremore ma che tuttavia confortano e leniscono il dolore; egli osserva, infatti:
“Col gesso ricopriamo le ossa rotte. / Gli errori e le sconfitte di ieri che ci avvelenano / le intonachiamo con un riso più duro. / E così piano rammendiamo e chiudiamo / i nostri cuori e le nostre anime”. Dopo aver combattuto, dopo aver sentito ed
assistito a tante brutture, il poeta cerca un momento di quiete, e lo trova accanto
alla sua donna, che comprende tutti i suoi problemi, aiutandolo a superare i suoi
tormenti: “A tutti dì che sono stanco, solo stanco, molto stanco/ come un vecchio
olivo, come la soglia della prigione, come il palo della forca. // E non piangere,
Daniela, ti prego. / Abbassa la tenda e sii la mia buona anima nel buio”.
Ma il discorso sugli autori serbi potrebbe ancora continuare e certamente
presenterebbe nuovi interrogativi ed istanze di grande interesse ed attualità, specie
sul versante dei contenuti trattati, ad esempio dalla poetessa Desanka Maksimovic,
che trova ispirazione soprattutto nel tema del “planetario affratellamento tra i popoli del mondo”, come ha affermato il critico Daniele Giancane, attento registratore, informatore e propagatore in Italia dell’iter evolutivo della poesia serbo – croata
e montenegrina (si vedano i molti numeri della rivista culturale e letteraria «La
Vallisa» da lui diretta a Bari da molti anni, che dà precisa e puntigliosa contezza dei
molti poeti e scrittori dell’area adriatica).
E tra l’adesione al senso della quotidianità e l’interrogativo esistenziale si
muove anche Slobodan Rakitic, i cui esiti appaiono intrisi di significative “forme
simboliche”, sottese da “lieve malinconia”, sia individuale che storica.
Ad affidare la sua scrittura poetica alla metafora è anche Bogdanovic, attraverso la quale tecnica riesce egli “a superare l’osservazione della realtà superficiale
ed esteriore”, realizzando a volte una forma scrittoria lievemente ironica, a volte
contrassegnata da toni sarcastici.
E tra gli autori emergenti degli ultimi due decenni incontriamo anche il Puslojic,
che ha saputo darci una sapiente ed equilibrata miscelatura di elementi sacri e profani;
e, ancora, Vojvodic che sperimenta un “verso più variegato e complesso” con propensione ben chiara verso forme narrative e prosastiche: in lui predomina l’incontro
tra la cultura europea e una particolare inclinazione verso un costante avvicinamento
al senso di profonda umanità e al “candido sentimento dell’amore”.
Negli ultimi anni, insomma, il panorama culturale e letterario (specie in direzione poetica) dei serbi – croati, e della poesia balcana in generale, è stato caratterizzato da un desiderio sempre più esplicito di avvicinamento all’Europa, si è cioè
aperto “a spazi più ampi per una ricerca di dialogo, per un confronto di culture”,1
senza, tuttavia, nascondere che tutti questi nuovi poeti si dibattono tra le anse del
1
Cfr. Daniele GIANCANE, Sulla poesia jugoslava: gli autori serbi, in «La Vallisa», V (1986), 13 (aprile), p. 5.
234
Giuseppe De Matteis
dubbio, della tormentata ricerca esistenziale, ma manifestando anche una grande
volontà di essere presenti nella realtà sociale del proprio tempo.
In questa nuova temperie poetica, crediamo debba essere collocata e analizzata la figura di Dragan Mraovic, poeta e traduttore di grande levatura umana e
culturale.
Nato nel 1947 a Novi Sad, in Serbia (Jugoslavia), laureato in lingua e letteratura italiana e in francese presso la Facoltà di Lingue di Belgrado, ha scritto soprattutto poesie per adulti e per bambini e ha tradotto dall’italiano, in italiano e dal
francese. Autore di oltre cento libri in Jugoslavia e in Italia, di cui più di dieci sillogi
di poesie, due libri tradotti dal francese, oltre cinquanta tradotti dall’italiano e il
resto tradotto in italiano.
Ricordiamo solo le sue traduzioni più importanti in serbo: La Divina Commedia dantesca, Le opere scelte del Leopardi, il Decamerone del Boccaccio, le opere
di Gabriele D’Annunzio, quelle dello scrittore Raffaele Nigro, di Daniele Giancane,
di Anna Santoliquido e di Giuliana Morandini; quest’ultima triade di scrittori e
critici appartiene al gruppo della rivista barese “La Vallisa”.
Mraovic ha vinto anche molti premi letterari, sia in Jugoslavia che in Italia.
Le sue opere sono state tradotte in italiano, inglese, bulgaro, armeno e greco. Egli
vive abitualmente a Belgrado e temporaneamente anche a Bari.
Tra le raccolte poetiche più note ed apprezzate di Dragan Mraovic vanno
ricordate: Verso spighe (1977), La mano per il sogno (1981), La venuta nel ricordo
(1982), Le voci della linea di confine (1983), Evviva il primo amore (1989) e L’arazzo, trilogia quest’ultima pubblicata nelle Edizioni “La Vallisa” di Bari.
Su Evviva primo amore, Daniele Giancane, docente di letteratura per l’Infanzia all’Università degli Studi di Bari ed esperto di Pedagogia infantile, ha stilato
una chiara ed esaustiva Prefazione, esplicativa dei significati contenuti in questo
volumetto di poesie per l’infanzia. Va precisato che fu proprio questa silloge che
fece conoscere l’autore slavo e lo studioso italiano Giancane. Da allora si stabilì fra
i due un’intensa frequentazione di stima e di amicizia che permise, anche attraverso
le belle edizioni della “Vallisa” appunto, una sempre più ampia conoscenza della
figura e delle opere dell’autore slavo.
Lamentando Giancane l’assenza di una linea poetica orientata all’infanzia in
Italia, fatta eccezione per i soli Pezzani, Rodari, Scjaloia, Piumini e Orengo, egli
afferma che Dragan Mraovic “avrà sicuramente fortuna a trattare, in chiave poetica,
delle marachelle e delle mille diavolerie” compiute dai bambini.
“Il diritto alla felicità si sposa in queste poesie con la serietà dei significati,
che si muovono lungo due versanti”: quello sociale (vedi le numerose poesie contro
la guerra, la droga, l’inquinamento, l’anelito alla giustizia e ad un maggiore senso
della democrazia) e quello interiore, di cui Dragan mette originalmente a fuoco
“soprattutto i primi sentimenti d’amore” dell’animo infantile. Ma è chiaro che nel
testo si evidenziano anche altri elementi come “una vena a volte malinconica e addirittura struggente per il tempo che fugge per non ritornare mai più: il rapporto
adulti – bambini è qui di grande tenerezza ed autenticità, per cui persino le poesie
235
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore
dedicate alla maestra o alla mamma risultano vere e commoventi”. E sempre Giancane
conclude, accennando alla “scelta di campo chiara”, fatta in direzione metricostilistica dall’autore serbo in questa silloge poetica per l’infanzia. “La rima è qui
essenza della poesia, che si vuole trasformare in suono, musica, vuole lasciare un’eco
nel cuore dei giovanissimi lettori. Mercé la rima, la poesia si fa anche gioco, filastrocca o giocattolo poetico, come affermava Gianni Rodari, che insegna senza parere, che fa riflettere e sognare non solo i bambini ma anche quel poco o tanto di
fanciullo che è restato in noi”.2
Ma è giusto fornire qui una esemplificazione, anche se minima, di qualche
testo poetico significativo di questa silloge. In Contro la guerra, ad esempio, il poeta slavo così scrive: “Chi provoca una guerra è ammalato / e con le buone o cattive
va curato. // Lo metterei a letto e ci dovrebbe restare / finché solo alla pace non
cominci a pensare.”
Oppure, La democrazia: “la democrazia non è una rosa, / ma essere amici /
anche se non pensiamo / la stessa cosa. // La democrazia / non è una decorazione /
sul petto, / ma quando tra noi / c’è un reciproco rispetto”. E, ancora: “Tanti difetti
umani in circolazione / si eliminano con la buona educazione. // Tante parole belle,
dette di cuore, / trasformano ogni odio in amore. // Se proprio insisti: la buona
educazione / vuol dire più uomo meno scimmione!” (La buona educazione).
E, infine: “la vita è come le onde, / ora su ed ora giù, / c’è chi raggiunge le
sponde, / c’è chi t’ama e chi non t’ama più. // La vita è un miracolo splendente, /
essa gira come una trottola. / La vita non è materiale, essa si sente; e ricorda: la vita
è una sola” (La vita).
Più spessore lirico è presente nella raccolta L’erba del mio volto, dove notiamo la presenza di un discorso poetico più ampio, strutturato dignitosamente in
forma semplice e chiara ma con robustezza e profondità di argomentazioni.
Mraovic è egli stesso autore e traduttore del suo sentire e cerca, pertanto, di
attutire accenti e ritmi del testo originale per avvicinarli il più possibile al gusto
italiano, in modo tale da non provocare disorientamento nei nostri lettori, abituati
ormai, da un secolo circa, alle forme aperte e libere della versificazione metrica e
stilistica della poesia italiana contemporanea; la rima è davvero sovrana in questa
silloge: Mraovic riesce con piena padronanza a giocare con le parole di una lingua
non sua, pur conservando nell’insieme la tradizione metrica della poesia jugoslava.
E, più che dalla forma (e qui si può concordare con il giudizio espresso da Serena
Caramitti), l’interesse del poeta è stimolato dalle numerose immagini che popolano
queste liriche, metafore efficaci e immediate: “gli esseri umani sono gocce di pioggia con diritto di luccicare una sola volta; un ricordo sgradito che ritorna è un cane
randagio. E la capacità di creare immagini porta più lontano la fantasia del Poeta, lo
fa vivere in un tempo senza tempo, gli fa “ricordare” quando non era ancora nato”.3
2
3
Cfr. Daniele GIANCANE, Prefazione, in Evviva il primo amore di Dragan Mraovic, «La Vallisa», VIII (1989).
Serena CARAMITTI, La poesia di Dragan Mraovic: un ponte sull’adriatico, in «La Vallisa», VIII (1989), 20, pp. 22.
236
Giuseppe De Matteis
Un tema molto presente nella raccolta L’erba del mio volto è il pensiero della
morte che attanaglia il poeta e che sottende un po’ dovunque la materia poetica di
questo libro. Proprio nella poesia che dà il titolo alla raccolta, Mraovic scrive: “Sarò
una mica celeste in eterno germe. / Sarò anch’io il fratello di qualche verme. // Si
sazierà di me un bel pesce di fiume / ed il chiaro di luna gli farà lume // Sarò aria,
sarò terra, sarò l’erba pagana, per qualche mucca da latte, // sarò una genziana. //
Ma quella mucca cornuta con tanto di pelo folto, / non saprà mai di brucare l’erba
del mio volto”.
Ma il pessimismo viene mitigato in Mraovic da una ventata di speranza ed egli
cosparge il suo volto di erba, con estrema semplicità e naturalezza, per cui incontriamo qui versi leggeri, che suggeriscono messaggi di bontà e che si fanno portatori di
altrettanti buoni auspici per il nostro futuro. Si leggano, a tal proposito, le poesie Non
chiedermi, La mia poesia più bella, Vanja e Presso il Po, costruite sul contrasto di temi
essenziali ed ineludibili come l’amore e il dolore, la vanitas vanitatum e il trascorrere
del tempo terreno proiettato sempre e velocemente verso la morte, la triste, e tragica
a volte, condizione di sofferenza dell’uomo, combattuto da mille problemi e contraddizioni: “Non vedo più i sentieri amati / nell’immensità dell’azzurro marino. / I miei
desideri si sono placati / e la mia mente tende al declino. // Non chiedermi ora come
mi sento. / …” (Non chiedermi); o: “Presso il Po l’inverno non è quello vero. / Non
c’è neve né il vento soffia forte. / Ma è falsa anche l’erba del sentiero / dove incontro
la mia ennesima morte…” (Presso il Po); e, infine: “Considerandomi ormai morto, /
la Morte, la più tenace tra le mie amiche, / mi ha invitato nel mio orto / per fare
l’amore sul letto di ortiche….”(L’amore con la morte).
Questa di Mraovic è, dunque, una scrittura che resta sostanzialmente legata
ai toni dell’ironia, anzi all’autoironia, e che si nutre di immagini metaforiche per
chiarire il pensiero e il messaggio dell’autore.
Alla base di tutto c’è, però, sempre, una costante atmosfera di malinconia; è
evidente che ad incidere molto in questa direzione è stata la lezione di povertà, di
dolore, di rabbia, (per l’insensatezza degli uomini che hanno amato la guerra anziché la pace), che ha alimentato la mente e il cuore di quelle esagitate e sfortunate
popolazioni balcane, costrette a subire sulla propria pelle sofferenze e brutture di
ogni specie.
Certo, l’esperienza della guerra ha generato dolore, ma anche la voglia di prodigarsi sempre per il bene dell’umanità. Da qui scaturisce, anzi, quella forte vicinanza
o affinità tra poesia e vita in Mraovic: in entrambe le realtà si specchia lo stupore del
fanciullo e la responsabilità di chi avverte le ansie e il senso profondo della speranza in
un avvenire migliore, sostanziato di pace e di fratellanza universale.
Da un’attenta lettura de L’erba del mio volto scaturisce la vera personalità,
forte e delicata, del poeta Mraovic, che sa interrogarsi sui grandi temi esistenziali:
cos’è la vita, perché esiste il congedo definitivo dell’uomo da questo mondo e qual
è veramente il destino di ognuno di noi.
Ha osservato giustamente Enrico Bagnato, in un passo della sua nota
introduttiva a questa importante silloge di Mraovic, che “Il panico sgomento che
237
Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore
coglie il poeta di fronte alla gran puttana” (ossia la morte) – come egli dice -, non gli
impedisce da ultimo di acquietarsi nella virile accettazione, segnata a tratti da soprassalti religiosi, che col disfacimento il corpo diventi fratello dei vermi, o una
cosa, o che l’erba spuntata dal suo volto bruchi ignaro un ottuso ruminante […]. E
grande spazio in queste liriche hanno anche i temi della dignità umana, dei valori di
relazione tra individui, l’appello a informare a coraggio le sincerità, i rapporti
intersoggettivi, l’invito a gettar via la maschera per essere solamente e autenticamente se stessi”.4
La nota fondamentale presente nella raccolta L’erba del mio volto è il pessimismo, un pessimismo “rabbioso e ribelle”, che è quasi un inno al Nulla, come ha
giustamente osservato Angelo De Leo nella sua nota introduttiva alla raccolta di
Mraovic. Si tratta, in fondo, di una rabbia che indurrà il poeta a vendersi “a chilo e
a metro”, pur di far tacere gli stupidi per salvare pensieri e parole, che altri vorrebbero “incatenare”.
Se, pertanto, ci si vuole salvare, occorre una maschera e allora il poeta è costretto a trasformarsi in pagliaccio. Il grande interrogativo che Mraovic si pone è se
rimane, oltre la maschera, l’uomo oppure, oltre l’uomo, la maschera, il pagliaccio. È
un dubbio atroce per il poeta, che viene superato e vinto solamente dalla consapevolezza critica che è più stimolante, per un uomo, una vita di errori che non di
rinunce. Solo in questo senso il poeta può affermare il suo “essere uomo”, il suo
titanismo, l’intera sua personalità e umanità. E, al termine del suo argomentare intorno a questo assillante problema, Mraovic afferma: se la “vita è fatta di menzogne, / di piccolezze, / di cenere di cicche”, allora nocesse est mentire! Non c’è salvezza. E questa, è evidente, è la conclusione amara a cui giunge il poeta. In queste
sue riflessioni, affidate al “guizzare sorprendente di immagini e di metafore ad ogni
momento”, osserva opportunamente Daniele Giancane, si evince un contenuto lirico che è come “un andirivieni tra il senso della nullità dell’esistenza e della morte
incombente, e brevi squarci illuminati da rammemoramenti d’amore, emergenti
nostalgie, lampi di giovinezza trascorsa, adesione al mondo degli affetti, in cui l’amicizia gioca un ruolo fondamentale”.
Ma Dragan si rende perfettamente conto che la tristezza e il pessimismo cozzano con il necessario anelito dell’uomo al senso della speranza; per questo nel suo
discorso il poeta invoca il riscatto dell’uomo che è prostrato dal dolore con rinvii a
poeti e scrittori che pure hanno riconosciuto e cantato la dignità e il valore della vita
umana, da Esenin a Dante, da Sofocle a Camus, da Sartre a Penna, perfino col richiamo ad autori noti della letteratura russa del secondo Novecento.
E Anna Santoliquido ha giustamente concluso che, imbroccata questa strada,
la poesia di Dragan Mraovic assume il significato catartico di un “canto”: “non
vincono la morte e il baratro, ma le nuvole di speranza” che accompagnano il cammino dell’uomo.
4
Enrico BAGNATO, Intervento critico su Dragan Mraovic a L’erba del mio volto, Bari, Vallecchi, 1988, p. 8.
238
Giuseppe De Matteis
Con la raccolta di poesie L’arazzo (Edizioni Vallisa), Dragan Mraovic nel
2002 dichiara di congedarsi, temporaneamente, dall’Italia, ripromettendosi poi di
tornarci a vivere ancora. Egli saluta i suoi cari amici baresi, in particolare tutto il
gruppo della Vallisa, e tesse di se stesso un ritratto a tutto tondo, riccamente
composito, in cui sembrano essere presenti i suoi sentimenti, la sua passionalità, il
suo istinto. Egli ha sempre creduto e continua a credere ancora che la vera poesia è
quella che nasce spontaneamente e che ha la possibilità di affermarsi e di incidere
sulla gente solo se riesce ad essere immediatamente e istintivamente comunicativa.
Se non realizza questi risultati, non è poesia.
Anche in questa importante raccolta poetica Mraovic affronta le tensioni esistenziali, quelle poetiche e il privato quotidiano presenti nelle sue precedenti raccolte. Qui, forse, è più palese che altrove il sentimento struggente delle cose, del
tempo che passa rapidamente e macina ogni cosa senza pietà, con un realismo e una
crudezza assoluti: “Dove vorresti andare? Il tempo vola…./Mentre l’inquietudine
e l’angoscia ti impregnano il cuore, / io sto costruendo i nidi celesti nelle tue pupille
belle / lo so, è vero, sto inventando le bugie peggiori, ma, amore, / volente o nolente,
io ti seguirò sino alle stelle”. (Ti seguirò sino alle stelle).
L’assillo dal quale è dominato il poeta, ripetiamo, è sempre quello che nasce
dal suo rapporto con l’idea della morte; eppure egli è ubriaco d’amore per la vita, è
innamorato delle cose belle del mondo e gode dello spettacolo meraviglioso della
natura. Ma la lotta con e contro la morte resta centrale nel suo discorso poetico: si
tratta di una lotta senza tregua, disperata, rabbiosa, anche se egli è pienamente consapevole che bisogna ineluttabilmente accettarla come una donna fatale, come
un’amante, pur sapendo in cuor suo di volerla beffare, ma di doverne subire nello
stesso tempo la fatale sorte. “Sarebbe bene – afferma il poeta – fare le corna alla
Morte”, invocando scongiuri contro di essa.
Dell’artista, del poeta, potrà restare solo la memoria, così come sostenne il
Foscolo (alla poesia, quella vera, universale, era affidato, infatti, il ricordo e il senso
dell’eternità: “la poesia vince di mille secoli il silenzio”, così nei Sepolcri). Anche
Dragan Mraovic confida in questa eternità, nel conservare il suo messaggio poetico
ed artistico alle generazioni future, “identificandosi, racchiudendosi, in un simbolo
di eternità” rappresentato dal cigno intessuto in un antico arazzo (arazzo che dà il
titolo al libro): “essere il cigno dell’arazzo / per sfuggire alla Signora Morte”.5
È, come si può notare, questa di Dragan Mraovic, una delle voci più belle del
ricco e variegato patrimonio poetico e letterario serbo di questi ultimi anni: egli è
un poeta vero, dalla corposa e cospicua produzione.
Il suo linguaggio è tra i più semplici e chiari, con versi senza infingimenti e
simulazioni, sempre orientato a sdrammatizzare le vicende amare che attanagliano
5
Enrico BAGNATO, Un arazzo per saluto, in «La Vallisa», XXI (2002), 61 (aprile), p. 101. A questo segue
anche la puntuale analisi de L’arazzo, di Gaetano Bucci, stesso numero di «La Vallisa», pp. 103-110.
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Un ponte tra due mari: Dragan Mraovic, poeta e traduttore
la vita umana; semmai è necessario osservare che sono versi pregni di rabbia sottile
e violenta allo stesso tempo, rabbia che il poeta decanta utilizzando, di volta in
volta, una sottile e caustica vena di ironia. È poesia vivissima di avvenimenti, ricchissima di suggestioni. Mraovic sa narrare in chiave poetica il quotidiano ma giovandosi di un abile gioco di emozioni, intuizioni, di sussulti del cuore e della mente; la sua poesia è sostanzialmente bilanciata tra amore e dolore, scandagliata nei
meandri della coscienza e della memoria, per proporsi come voce originale, autentica, costituita di versi sobri ed essenziali, che sanno comunicare seri messaggi di
umanità e di vita.
Una nota importante, come appendice di questo saggio, è quella relativa a
Mraovic come traduttore non solo di autori notissimi della letteratura italiana (la
Divina Commedia di Dante, opere scelte del Leopardi, il Decamerone del Boccaccio,
alcune opere del D’Annunzio e di altri autori, soprattutto pugliesi, viventi) ma anche di traduttore in lingua italiana di varie sue recenti raccolte poetiche, edite tutte
dalla casa editrice Vallisa di Bari e delle quali si sono chiarite le istanze dell’autore
nel nostro saggio.
Bisogna anche dire che a facilitare la traduzione dei suoi testi poetici nella
nostra lingua è stata soprattutto la dimestichezza e la frequentazione quasi costanti
di Mraovic con l’Italia e con la nostra lingua, specie negli ultimi dieci anni, facendo
di Bari quasi la sua sede preferita per il lungo contatto di amicizia e stima avuto con
gli amici del gruppo della “Vallisa”.
La traduzione in serbo dei classici italiani operata dal Mraovic è perfetta,
proprio perché egli conosce benissimo le due lingue e soprattutto perché è dotato
di una sensibilità particolare, ricca di umanità e finezza, quasi sempre tesa a rendere
in pieno i sentimenti degli autori scelti per la traduzione, senza travisare né la sostanza né la musicalità del testo. La resa in lingua serba dei nostri classici, si sa, resta
sempre un’impresa di difficile realizzazione, specie se non è accompagnata da una
grande sensibilità e da un livello culturale alto; e nel nostro poeta è certo che queste
due doti sono profondamente radicate in lui; per questo le sue traduzioni, o in
serbo o in italiano, sono felicemente riuscite. Mraovic conosce bene la letteratura
classica antica e nello stesso tempo si è avvicinato molto ai poeti italiani e stranieri
contemporanei, condividendone i contenuti e anche non pochi aspetti formali e
stilistici, filtrando ed assimilando di essi gli esiti poetici migliori, per approdare poi
ad un linguaggio lirico di alta levatura ed ottenendo unanimi consensi di pubblico e
di critica nazionale ed internazionale.
Nell’operazione di traduzione Mraovic ha tenuto sempre presente la necessità di far coincidere l’antico testo con la dimensione della nostra parola, “rinnovando in essa – come bene osservava a suo tempo Salvatore Quasimodo traducendo
i lirici greci – non tanto l’estrinseco disegno della ubicazione metrica, quanto invece quella più intima ed essenziale sintassi che si nasconde sotto le forme prestate ad
ogni poeta dal tempo”. Tutto il suo lavoro di interprete e traduttore si può dire che
consiste essenzialmente in un paziente ed oculato scandaglio della coscienza per la
scoperta dei “grumi lirici” aldilà delle ragioni veramente tecniche e stilistiche, che
240
Giuseppe De Matteis
spesso impediscono una lettura “aperta” del testo, la quale lasci spazio ad un’operazione di riscrittura o di “ricreazione” vera e propria sia sul versante umano che su
quello sentimentale.
Condotto secondo questa linea maestra, il sondaggio di Dragan Mraovic è
servito, a nostro avviso, a far ritrovare la voce autorevole e sempre attuale dei nostri
migliori autori classici in perfetta sintonia con la sensibilità contemporanea.
A noi non resta che sorprenderci di fronte al fatto che gli antichi poeti, tradotti in maniera egregia dall’autore serbo, egli stesso autorevolissimo poeta bilingue, posseggano ancora oggi voci calde e presenti e ci meravigliamo, positivamente
è chiaro, che Mraovic abbia saputo cogliere, nei testi da lui tradotti, tante vive
ragioni per effondersi in accostamenti pensosi e in lirismi di particolare risonanza
per noi, uomini contemporanei, abitatori di un mondo per tanti aspetti arido ed
assente, nel quale siamo costretti, purtroppo, a vivere.
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Attività della Biblioteca
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Marianna Iafelice
Marche dei tipografi e degli editori
del XVII secolo (Milano-Venezia)
di Marianna Iafelice
Il termine marca tipografica indica “l’illustrazione presente nel frontespizio,
e talvolta nel colophon, eseguita mediante le tecniche di incisione su un blocco di
legno (ma nel Settecento è comune su rame), contenente una o più figure e accompagnata, spesso, da iniziali, frasi o motti che ne completano il significato. Con essa
si intende segnalare l’editore, il libraio, il tipografo, il promotore dell’opera o l’autorità che ha voluto la pubblicazione. La marca è dunque un elemento di presentazione dell’opera, e di individuazione di un ruolo e di una funzione editoriale”.1 Di
conseguenza si può dire che la marca tipografica è un contrassegno d’origine che
con il tempo diventa contrassegno di qualità, e che trova il suo più diretto antecedente nella cosiddetta ‘marca d’acqua’ o filigrana.
Com’è noto la filigrana “è l’impronta di un disegno in filo metallico che il
fabbricante di carta fissava sulla forma”;2 e la sua finalità era soprattutto quella per
i fabbricanti di carta, di distinguere il loro prodotto da quello dei concorrenti. La
tipologia più antica di filigrana è costituita dalle iniziali dei cartai usate come contrassegno specifico del produttore, e se dapprima il marchio era tracciato sulle balle
della carta per contrassegnare appunto e distinguere la produzione dei vari cartai,
in seguito “gli stampatori e i mercanti, per la comodità di enumerare e identificare
le varie partite, usarono nominare quei marchi di provenienza come marchi di qualità. È possibile, anzi molto probabile, che ciò abbia indotto alcune cartiere ad adottare gli stessi segni adoprati da altri”.3 Piano piano, quindi proprio le tipologie dei
segni si andarono diversificando fino ad indicare al cliente oltre alla provenienza, il
formato, la qualità della carta e il nome del cartaio fabbricante.
1
Valentino ROMANI, Bibliologia. Avviamento allo studio del libro tipografico, Milano, Sylvestre Bonnard,
2000, p. 82.
2
Dove la forma è “la cassetta quadrangolare, lunga e larga quanto il foglio di carta che si vuol fabbricare. È
una sorta di telaio, internamente rafforzato dai colonnelli, che sono sottili stecche, parallele, calettate per
coltello contro due fianchi opposti, alta circa tre dita: superiormente coperto di fili d’ottone, sottili, paralleli,
vicinissimi, detti vergelle, questi per maggior fortezza, attraversate a squadra da alcuni maggiori fili, chiamati
filoni, paralleli distanti l’uno dall’altro circa due dita”. Giacinto CARENA, Prontuario di vocaboli attenenti a
parecchie arti, ad alcuni mestieri, a cose domestiche, e altre di uso comune per saggio di un vocabolario metodico della lingua italiana, Napoli, Stamperia e Cartiere del Fibreno, 1854, p. 90.
3
Roberto RIDOLFI, Le filigrane dei paleotipi: saggio metodologico, Firenze, Olschki, 1957, p. 18.
245
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Partendo da questi presupposti è possibile affermare che un’evoluzione analoga è riscontrabile anche per la marca tipografica, la cui funzione iniziale sembra essere
in un certo senso la stessa della filigrana, cioè quella di contrassegnare il fabbricante.
La “contromarca” infatti, la cui origine è da mettere in relazione con l’uso assai antico, di adoperare come filigrana le iniziali dei cartai, è la più antica tipologia di marca,
anche se poi il ripetersi di filigrane molto simili anche per fabbricanti diversi suggerì
di adoperare le iniziali solo come contromarca abbinata a una figura tipica, contrassegno specifico del produttore. La marca diventa così un vero e proprio segno pubblicitario indirizzato anche ad un pubblico di non leggenti, non solo un contrassegno
d’origine quindi, ma anche un elemento per l’editore rappresentativo della qualità
che ne avrebbe assicurato le vendite. Il simbolo più antico usato per le marche, nell’età degli incunaboli e cioè fino al primo quarto del sedicesimo secolo, è rappresentato dal cerchio con croce, una simbologia che fondeva il potere temporale rappresentato dal globo e il potere spirituale rappresentato dalla croce, che dall’identificare le
partite di carta, passerà poi per estensione ad indicare il libro vero e proprio.
E se ormai il Cinquecento viene considerato il secolo d’oro per le marche tipografiche4 nel diciassettesimo secolo Giuseppina Zappella ritiene che il trionfo del
concettismo barocco, snatura la vera sostanza della marca, assoggettandola al gusto
del tempo, esaltando nell’impresa tipografica l’emblema con i suoi molteplici significati a scapito sia della fantasia che dell’eccentricità presente nelle marche di epoca
rinascimentale,5 tanto che “molto spesso i frontespizi sono le cose più interessanti in
questi volumi e più cura sembrano avere ricevuto rispetto alle altre illustrazioni”.6
“La diffusa decadenza del libro secentesco contrasta con la frequente
appariscenza della “facciata”: frontespizio e antiporta (talvolta l’uno e l’altra insieme) divorziano dall’interno del volume, anche se non quanto la moderna sopraccoperta, giacchè continuano a far parte del libro, di cui sono la prima carta.
Nel Seicento si attribuisce importanza alla parte esteriore del libro proprio
perché si vuol dare risalto alla presentazione, alla sua veste, sia pure in contrasto
con la negligente confezione dell’insieme”.7 In questo secolo uno dei tre tipi di
frontespizi classificati da Barberi quello con decorazione (marca -stemma-vignetta-ritratto-cornice) ospita una marca che è ormai il più delle volte emblematica e
che rappresenta il primo e più frequente elemento decorativo, in un frontespizio
tipografico. Essa occupa uno spazio più o meno grande, ed è “ancora propriamente
tale, cioè indicativa di un determinato tipografo o editore, soprattutto nelle grandi
dinastie d’industriali del libro”.8
Se nel XVI secolo, la celebrazione della nuova arte, quindi avveniva con questi contrassegni la cui varietà era alquanto sorprendente, e che rappresentavano “un
4
Giuseppina ZAPPELLA, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del cinquecento, Milano, EDB, 1998, p. 5.
Ibid.
6
David BLAND, A history of book illustration, London, Faber and Faber, 1958, p. 144.
7
Francesco BARBERI, Il frontespizio nel libro italiano del Seicento, Milano, Il polifilo, 1969, 2 voll., p. 49.
8
Ibid., p. 58.
5
246
Marianna Iafelice
inno orgoglioso alla gloria immortale che solo i prodotti più singolari dell’ingegno
umano possono sperare di conseguire”,9 anche nel secolo successivo, assistiamo al
fenomeno per cui chi adoperava una marca, non sempre usava lo stesso segno in
modo uguale. Questa infatti, con il tempo poteva arricchirsi di elementi e particolari sempre nuovi, mentre in alcuni casi era possibile avere pure “marche composite”,
formate cioè da vari simboli posti all’interno di una cornice a testimoniare il costituirsi di società editoriali, anche occasionali per la stampa di opere di grande mole
soprattutto giuridiche o mediche, o di società tra due soli contraenti, la cui insegna
comune riproduce insieme le marche tipiche di ognuno. Basti pensare alla marca
utilizzata dalla Società dell’Aquila che si rinnova, una Società editoriale per la stampa
di testi giuridici che fu attiva a Venezia e che nel 1584 era composta dai Giunta10,
dagli eredi di Bernardino Magiorino, da Francesco De Franceschi, Francesco Ziletti,
Giovanni, Andrea, Girolamo e Damiano Zenaro, Felice Valgrisi, gli eredi di
Girolamo Scoto, Giovanni Varisco, e infine gli eredi di Melchiorre Sessa il vecchio.
Nel 1587 Giovanni Varisco, Damiano Zenaro, gli eredi di Girolamo Scoto e quelli
di Melchiorre Sessa il vecchio abbandonarono la precedente società per costituirne
un’altra con la stessa denominazione, che mantenne la marca dell’Aquila che becca
una roccia (fig. 1) modificandola con l’aggiunta, ai quattro angoli nella cornice,
delle insegne dei soci, dove infatti sono collocate le imprese di Scoto (Grazie), Varisco
(sirena), Sessa (gatta) e Zenaro (salamandra).11
Fig. 1
9
Giuseppina ZAPPELLA, Le marche dei tipografi..., cit., p. 5.
Si tratta di Lucantonio il giovane, Filippo il giovane, e Bernardo il giovane.
11
Stamparono per la Società Gaspare Bindoni il vecchio, i Guerra, Domenico Farri, Giovanni Varisco,
Alessandro Griffio, Pietro Dusinelli, Girolamo Polo. Carlo Maria SIMONETTI, La Società dell’aquila che si
rinnova: appunti su consorzi editoriali a Venezia nel Cinquecento, in Bibliografia testuale o filologia dei testi a
stampa? Definizioni metodologiche e prospettive future.Convegno di studi in onore di Conor Fahy, (Udine,
24-25-26 febbraio 1997), a cura di Neil Harris, Udine, Forum, 1999, pp. 219-268.
10
247
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
La marca di uno stesso tipografo inoltre poteva avere dimensioni diverse a
seconda del formato del volume e quando questo si verificava, il più delle volte con la
presenza di due marche nello stesso libro, accadeva sovente che queste ultime inoltre
potevano differenziarsi di poco nei particolari o nella cornice che le ospitava.
Anche nel XVII secolo come nel secolo precendente, tutti gli elementi figurativi presenti all’interno di queste erano costituiti da segni mitologici (fenice, salamandra), dalle divinità pagane (Vulcano, Giunone ecc.), dai santi, dagli eroi, anche
se non mancavano i fiori (giglio) o i frutti (pigna),12 come pure capita non di rado
di imbattersi in riprese da parte di editori-tipografi di marche e motti già in precedenza usati da colleghi, basti pensare alla colomba posata su un trimonzio usata
dagli Imberti ripresa da Federico Albirelli (Venezia 1594), o l’albero di ulivo con
motto su nastro avvolto attorno al tronco, usata da Andrea Baba che a sua volta la
riprendeva da Ludovico Avanzi (Venezia 1556-1576). E se Napoli anche per questo
volgeva in maniera quasi costante lo sguardo a Venezia, accadeva pure che fosse
assai frequente questa forma di “riuso” da parte di editori e tipografi d’oltralpe.
Capitava poi che in tempi differenti e con motti diversi venisse utilizzato solo lo
stesso soggetto da tipografi di città diverse, tanto che in una ipotetica classifica,
potremmo affermare che soggetti chimerici come la salamandra, la fenice o la sirena
bicaudata occupano i primi posti, sia in Italia che oltre confine. L’ animale chimerico che più di ogni altro esprimeva il desiderio di una gloria non passeggera di queste botteghe, la salamandra, se già fu ampiamente usato nel XVI secolo in esecuzioni diverse da Plinio Pietrosanto, da Giulio Cesare Cagnacini, e da Giovanni e
Damiano Zenaro, di Venezia con il motto Virtuti sic cedit invidia, solo per citarne
alcuni, sarà utilizzato pure dagli eredi di Damiano Bartolomeo Rodella fino al 1643
e poi ripreso con identico motto in forme più elementari e meno elaborate a Milano
da Melchiorre Tradate, e senza motto a Roma da Filippo De Rossi. A Parigi ritroviamo la salamandra nei frontespizi di Denis Moreau con il motto Timentibus
Deum nil dest accolta da una elegante e sobria cornice al cui centro in basso abbiamo uno scudo ovale con le iniziali sormontate da croce tripla. Mentre a Ginevra
Chouet Pierre II, dal 1607 al 1648 accanto alla corona con fioroni utilizzata tra gli
altri già da Samuel de Tournes,13 in alcune sue edizioni utilizza pure la salamandra
ma inserita in una cornice molto più elaborata e complessa.
Assai diffuso è pure l’utilizzo della sirena bicaudata, infatti se si escludono le
sofisticate e nitide rappresentazioni dei Varisco di Venezia o quella decisamente
elementare di Francesco Valvasense (1688), è presente pure nello Speculum regulari
di Silvestro Bartolucci pubblicato a Venezia da Marco Guarisco nel 1627. A Bologna la ritroviamo nel 1687 con gli eredi di Antonio Pisarri mentre a Napoli verrà
utilizzata non da sola sia da Lazzaro Scorriggio che da Camillo Cavallo.
12
V. ROMANI, Bibliologia..., cit., p. 82.
Verrà usata pure da Philippe Albert, Alexandre Pernet, Jean Antoine, da Lorenzo Pasquati e da Pietro
Antonio Alciati.
13
248
Marianna Iafelice
Prima di concludere vogliamo ricordare che non mancano in questo secolo
nemmeno le cosiddette “marche parlanti” o per usare un’espressione della Zappella
“allusive”, cioè immagini rappresentanti l’oggetto a cui si collega il nome degli editori tipografi come nel caso della torre usata da Turrini, dell’agnello per il milanese
Federico Agnelli o del cavallo per il napoletano Camillo Cavallo.
Il mondo e lo studio delle marche tipografiche del XVII secolo è come si
evince anche da queste brevi pagine, ancora tutto da studiare, da scoprire e soprattutto da scrivere. Per mancanza di spazio abbiamo volutamente tralasciato la ricca e
complessa realtà napoletana con le sue tante contraddizioni o quella di città come
Padova, Firenze, Bologna e Roma, a cui rimando in un futuro assai prossimo per
completare quest’ analisi che non può e non ha assolutamente la pretesa di considerarsi una sorta di piccolo censimento ma che al contrario va vista come una panoramica nel mondo inesplorato degli ambiti della grafica complementare del libro antico e in particolare del libro del seicento.
Fig. 2
Agnelli, Federico <1669-1698>
Agnus Dei: un agnello pasquale seduto su un libro chiuso (il libro dei sette
suggelli) stringe nelle zampe anteriori una croce a cui è legato uno stendardo recante il motto: Ecce Agnus Dei. (Fig. 2)
L’agnello è simbolo di mansuetudine e d’innocenza.14 Hall ritiene che “l’agnello fu adottato dai cristiani come simbolo del Cristo nella sua missione sacrificale.
L’immolazione di un ariete in luogo di Isacco, che riflette una fase storica dello
sviluppo delle società primitive in cui la vittima umana viene sostituita con quella
animale, fu interpretata come prefigurazione del sacrificio di Cristo che si offrì in
luogo di ogni uomo. [...] L’immagine dell’agnello che poggia le zampe anteriori su
un libro che sta sulle ginocchia di Cristo è tratta da Apocalisse (5,6-14). È attributo
del temperamento flemmatico”.15
14
Guelfo GUELFI CAMAIANI, Dizionario araldico compilato dal Conte G. Guelfi Camajani, Milano, Hoepli,
19212, p. 23, n. 24.
15
James HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano, Longanesi, 1983, pp. 32-33.
249
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
Bidelli, Giovanni Battista <1610-1677>
Un gatto con la testa di faccia e con un topo in bocca. In una cornice ovale. In
basso al centro, iniziali GBB sormontate da doppia croce (esecuzioni varie) (Fig. 3,
Fig. 4, Fig. 5)
Il gatto è emblema d’indipendenza, vigilanza e destrezza.16
Bordone, Girolamo <1598-1619>
Tre alberi in fascia, la composizione è posta su un prato, lungo il tronco dell’albero centrale: Velascus. In una cornice figurata. Motto su un nastro: Crescit
occulto (Orazio, I, ode XI, vers 45). (Fig. 6). L’albero simboleggia la sublimità di
concetto indirizzato ad imprese gloriose.17
Fig. 6
16
17
G. GUELFI CAMAIANI, Dizionario araldico..., cit., p. 317, n. 425.
Ibid.
250
Marianna Iafelice
Fig. 7
Fig. 8
Comi, Giovanni Giacomo <1604-1643>
Agnus Dei: un agnello seduto su un libro chiuso tiene tra le zampe anteriori
una croce a cui è legato un vessillo, con motto: Ecce Agnus. In cornice figurata
(esecuzioni diverse). (Fig. 7, Fig. 8)
Nell’iconografia cristiana l’agnello è accompagnato dalla croce, dall’aureola
cruciforme e dallo stendardo della Resurrezione. L’iconografia dell’adorazione dell’agnello deriva da Apocalisse (7,9-17).18
Fig. 9
Fig. 10
Fig. 11
Marelli, Giuseppe < 1671- 1
La Fortuna: una donna in mare su un globo con vela spiegata al vento. In una
cornice figurata. In basso due stemmi contenenti le iniziali GM e GPC sormontate
da croce (esecuzioni diverse). (Fig. 9, Fig. 10, Fig. 11) Motto: Bonae fortunae.
18
HALL, op. cit., p. 32.
251
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
La fortuna è rappresentata generalmente su di una ruota di carro o su un
globo con una vela al vento. Il globo è il suo attributo più consueto, globo su cui sta
seduta o in piedi e se inizialmente stava a simboleggiare la sua instabilità, per la
mentalità rinascimentale, diventa il simbolo del mondo su cui essa estende il suo
dominio. Il globo però essendo pure l’attributo dell’Occasione, fa si che quest’ ultima può essere vista anche come un prodotto della Fortuna.19
Fig. 12
Fig. 13
Fig. 14
Monza, Ludovico <1646-1692>
Un putto bendato, a cavallo dell’aquila di Giove con folgori tra gli artigli,
con la mano destra sparge fiammelle e con la sinistra tiene le redini. In cornice
figurata, in basso al centro, iniziali LM sormontate da croce (Esecuzioni diverse).
Motto su un nastro: Hinc micat inde ferit. (Fig. 12, Fig. 13, Fig. 14)
La figura del bambino spesso alato, che si ritrova con frequenza nelle opere
rinascimentali e barocche nel ruolo sia di spirito angelico che di messaggero dell’amore, come soggetto sacro in qualità di angelo, godette di massimo favore soprattutto nel periodo della Riforma Cattolica.20
Fig. 15
19
20
Fig. 16
Fig. 17
Ibid., pp. 180-181.
Ibid., p. 342.
252
Marianna Iafelice
Piccaglia, Giovanni Battista <1601-1637>
Una fenice rivolta al sole, tra le fiamme. La composizione poggia su un globo
alato o su un’anfora, con le iniziali GBP. (Fig. 15, Fig. 16)
In una esecuzione l’anfora è sorretta da due mostri caudati con la testa di
satiro (esecuzioni diverse). Motto su un nastro: Della mia morte eterna vita i vivo.
Sotto, su un altro nastro: Semper eadem. (Fig. 17)
Usata dai cristiani come simbolo della Resurrezione di Cristo, venne inizialmente raffigurata nelle sculture funerarie, divenendo poi rara nell’arte sacra.21 “Emblema di longevità, di fama imperitura, di nome senza macchia. E della classe degli
animali favolosi e gli antichi difatti avevano la credenza che la fenice fosse un uccello immortale. Nello scudo si rappresenta di profilo, sopra un rogo chiamato immortalità [...]. La fenice leggendaria e fantastica, aveva per sua dimorai deserti dell’Arabia e viveva più secoli [...] Quando il meraviglioso uccello sentiva prossima la
fine, si costruiva il nido mediante rami imbalsamati con dittami e aromi e quivi si
infiammava e si consumava ai raggi del sole. Un uovo si formava dalle sue ossa, e
nasceva un’altra fenice, di cui la precipua cura era di trasportare a Heliopolis, sull’altare del sole, le spoglie consunte della progenitrice. Altri sostennero la fenice
nascesse dalle proprie sue ceneri. Il nome deriva dal greco phoinix (Rosso), per il
fatto che i fenici furono i primi a scoprire la porpora [...] I cristiani presero la fenice
a segnacolo di Resurrezione”. 22
Fig. 18
21
22
Ibid., p. 173.
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 280-281, n. 374.
253
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Tradate, Agostino <1593-1607>
Salamandra coronata giacente in mezzo al fuocofra le iniziali AT. (Fig. 18)
“Animale chimerico. Nel blasone è sorta di lucertola; il collo lungo la lingua
e la coda terminante in uno strale; sempre di profilo e sopra i tizzoni ardenti, da cui
si sprigionano le fiamme [...]. Si credette che già la salamandra potesse vivere nel
fuoco e ne ravvivasse l’ardore, ma si fece confusione fra la Salamandra e gli spiriti
con cui gli alchimisti riferivano simbolicamente il potere del fuoco quale elemento.
Questi spiriti o Genii si rivelavano assai raramente e solo a pochissimi iniziati.
Francesco I a significare l’amore suo ardente prese per divisa la Salamandra col
motto Nutrisco et estinguo. È simbolo di costanza e di giustizia”. 23
Fig. 19
Tradate, Melchiorre
Salamandra24 giacente in mezzo la fuoco. (Fig. 19)
VENEZIA
Fig. 20
Fig. 21
Fig. 22
23
Ibid., pp. 596-598, n. 775.
Caterina Santoro, la scambia per una volpe con testa voltata indietro. Cfr. Caterina SANTORO, Tipografi
milanesi del secolo XVI, in «La Bibliofilia», LXVII (1965), p. 347.
24
254
Marianna Iafelice
Alberti, Giovanni <1544-1622>
Una Sibilla seduta di profilo tiene un libro aperto con la mano destra e poggia il braccio sinistro su un libro chiuso. In una cornice figurata. Motto: Malis
displicere est laudari. (Fig. 20, 21)
Sibilla seduta con il braccio destro alzato e un libro nella mano sinistra. In
basso: Sibilla. (Fig. 22)
L’antica figura della profetessa che comunicava il responso oracolare del dio,
in epoca cristiana la Chiesa interpretandone i detti come anticipazioni della storia
cristiana, riconobbe dodici Sibille come profetesse della venuta di Cristo, insomma
come le equivalenti pagane dei profeti dell’Antico Testamento. Tra i suoi attributi
il libro è quello più frequente in quanto rappresenta uno dei Libri Sibillini ovvero
le raccolte di sentenze oracolari.25
Fig. 23
Anesi, Gervasio <1625-1640>
Il sole con volto umano contornato da otto raggi serpeggianti. In una cornice
figurata. (Fig. 23).
Raffigurato solitamente con volto umano circondato da raggi che possono
essere dritti o serpeggianti. È emblema di Grazia divina, Sapienza, Provvidenza,
Eternità, è usato nelle marche tipografiche come simbolo di Dio, vita dell’universo,
che con i raggi della sua bontà indirizza gli uomini al bene e alla virtù. È attributo e
personificazione della verità in quanto con la sua luce rivela ogni cosa,26 ma anche
come simbolo di grandezza, di potenza di provvidenza, d’illustre nobiltà, di chiarezza di nome e di magnificenza.27
25
HALL, op. cit., p. 373.
ZAPPELLA, op. cit., pp. 346-347; HALL, op. cit., p. 376.
27
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 659-661, n. 831.
26
255
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 24
Fig. 25
Baba, Andrea <1611-1647>
Un leone rampante poggia le zampe anteriori sul tronco di un albero fruttifero. Paesaggio sullo sfondo. In una cornice figurata. (Fig. 24) Marca già usata a Palermo da Lorenzo Pegolo (1568-1580). 28
Un albero di ulivo. Motto su un nastro attorno al tronco: Pax alit artes. (Fig.
25). Marca già usata con lo stesso motto a Venezia ( 1556-1576) da Ludovico Avanzi.
L’ulivo unitamente al motto simboleggiano la pace, infatti il ramoscello d’ulivo
riportato dalla colomba sull’arca divenne il simbolo cristiano della pace tra Dio e
gli uomini.29
Fig. 26
28
29
Fig. 27
Fig. 28
ZAPPELLA, op. cit., p. 44.
Ibid., p. 262; HALL, op. cit., p. 406.
256
Marianna Iafelice
Baglioni, Paolo - Baglioni Tommaso
Un’ aquila bicipite con una corona tra le due teste. In una cornice figurata.
(Fig. 26, Fig. 27, Fig. 28)
Nell’iconografia medievale alludeva all’Ascensione di Cristo. L’aquila bicipite
a due teste di cui l’una guarda il fianco destro dello scudo e l’altra il fianco sinistro. Si
attribuisce a Costantino, che l’avrebbe assunta allorché nel 330 dell’era volgare trasferì la sede dell’impero da Roma a Bisanzio, volendo mediante quel simbolo dimostrare che egli teneva sotto la stessa corona un impero che aveva due capitali [...]”. In
realtà secondo quando afferma il Bellarmino l’aquila a due teste ebbe origine dalla
divisione dell’impero fatta da Arcadio ed Onorio figli del grande Teodosio. 30
Fig. 29
Fig. 30
Fig. 31
Barezzi, Barezzo <1587-1643>
Un serpente si erge dalle fiamme per mordere l’indice di una mano destra
uscente da nubi. In una cornice figurata (esecuzioni diverse). Marca usata con quest’ultimo motto anche da Girolamo Concordia a Pesaro (1556-1617). Motto: Quis
contra nos. (Fig. 30) Motto: Si Deus pro nobis quis contra nos.(Fig. 29, 31)
Il significato di questa marca era già chiaro nel XVI secolo: chi fa del male
sarà punito, perché le malvagità recano danni solo a coloro che le commettono
richiamando il castigo divino. Per la Zappella quindi in questo caso il serpente (simbolo del male e sinonimo di Satana nella Bibbia, sappiamo bene infatti che Lucifero
per tentare Eva prese proprio le sembianze di una serpe) simboleggia la perfidia
degli iniqui, con una velata allusione forse proprio ai nemici dei tipografi, mentre la
mano che esce dalle nuvole sta a simboleggiare l’intervento divino.31 Va però specificato che il serpente oltre a rappresentare l’immagine della perversità, dell’insidia e
della calunnia, simboleggia pure la grave fatica, per quelle cose che si ottengono con
difficoltà, mentre la mano da sola sta a rappresentare la forza e il coraggio.
30
31
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 47-49, n. 69.
ZAPPELLA, op. cit., pp.338-339; HALL, op. cit., p. 369.
257
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 32
Fig. 33
Bertano, Giovanni Antonio <1570-1612> - Bertano
Due colonne in palo. Motto: Plus ultra. In una cornice figurata (esecuzioni
diverse). (Fig. 33).
In un ovale in alto al centro, un leone rampante sovrastato da un’aquila bicipite.
(Fig. 32).
La colonna da sempre considerata un simbolo di sicurezza e di fermezza,
oltre che di costanza, prudenza e forza. Emblema e motto usato dall’imperatore
Carlo V di Spagna e da Leone X, con esplicito riferimento alle Colonne d’Ercole, le
rupi ai confini occidentali del Mediterraneo che costituivano nell’antichità i limiti
del mondo conosciuto, infatti secondo Gelli “Il motto, si dice, leggevasi sulle colonne che la favola afferma avere Ercole innalzato in Calpe e in Abila per segnare
ivi i confini del mondo. La frase, per altro, è tradizione dell’epoca bizantina”. Sull’impresa di Carlo V questo motto si riferiva all’estensione del dominio dell’imperatore al di la di quei limiti, fino alle Americhe.
Simbolo religioso nell’antichità, rappresentava la forza e la fermezza dello
spirito (Apocalisse, 3, 12) di conseguenza divenne attributo alla Fortezza e anche
alla Costanza.32
Fig. 34
32
Fig. 35
Fig. 36
ZAPPELLA, op. cit., p.123.
258
Marianna Iafelice
Bertano, Pietro Maria <1602-1638>
Una cicogna in volo tiene nel becco un serpente, che porta in cibo al proprio
piccolo. In una cornice figurata. Motto: Pietas homini tutissima virtus. (Fig. 34,
Fig. 35, Fig. 36).
Simbolo della pietà dell’ottimo cittadino ma anche simbolo di riconoscenza.33 Da antiche fonti e dai bestiari medievali derivava la credenza che la cicogna
nutrisse i propri genitori quando essi non erano più in grado di badare a se stessi,
per questo motivo divenne nei secoli successivi emblema di pietà filiale.34
Fig. 37
Fig. 38
Fig. 39
Bertoni, Giovanni Battista <1600-1617>
Un pellegrino errante con il bordone poggiato sulla spalla; paesaggio sullo
sfondo (esecuzioni diverse). In una cornice figurata. (Fig. 37, Fig. 38, Fig. 39)
Impresa cara al duca Federico di Mantova, il pellegrino simboleggia una vita
assai difficile, divenendo quindi allusione di una esistenza tormentata sebbene dominata da una ferrea volontà che spinge a superare le difficoltà. Rappresentato di
solito con un tipico copricapo a falda larga ripiegata nella parte posteriore e tesa a
becco sul davanti.35
Fig. 40
Fig. 41
33
GUELFI CAMAIANI, op. cit., p. 173, n. 237.
HALL, op. cit., p. 102.
35
Ibid, p.323.
34
259
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Bizzardo, Giorgio <1609-1613>
Tre fabbri percuotono con i martelli la medesima incudine. In una cornice.
Motto: Percussum quod tercussum. (Fig. 40, Fig. 41).
Guelfi Camaiani ritiene che il martello che batte sull’incudine “indica una
volontà tenace e irresistibile, vano tentativo di resistenza, animo saldo ed imperterrito”.36
Fig. 42
Fig. 43
Fig. 44
Bonfadino, Giovanni Battista <1592-1619>
Nel giardino dell’Eden, Adamo ed Eva intorno all’albero del bene e del male
accollato dal serpente (esecuzioni diverse). In cornice figurata. Motto: De hoc stipite omnes. (Fig. 42, Fig. 43)
Si riferisce all’episodio della Tentazione contenuto nella Genesi (Genesi, 3
1-7), con l’albero che di solito è un fico o un melo; mentre il serpente è attorcigliato
attorno al tronco, in un’immagine probabilmente derivata, secondo Hall, da quella
precristiana del drago che custodisce l’albero delle Esperidi, oppure vi sta accanto.
Adamo ed Eva solitamente vengono raffigurati in piedi accanto all’albero, con Eva
che coglie o ha appena colto il frutto, oppure, dopo averne staccato un morso, lo
offre ad Adamo.37 Il motto secondo la Zappella evidenzia invece la discendenza
comune di tutti gli uomini da Adamo ed Eva. 38
Una fontana con lo zampillo che fuoriesce da un’ anfora. In una cornice figurata; in alto al centro iniziali ION intrecciate. Motto: Cohibita surgo. (Fig. 44)
La fontana rappresenta sia la dottrina che la beneficenza.39
Dalla fontana scaturisce l’acqua, ed è per che simboleggia secondo Hall, l’origine della vita spirituale e della salvezza: ed è proprio con questo significato che
viene di solito usata come attribuito dell’Immacolata Concezione.40
36
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 409-411, n. 551.
HALL, op. cit., p.28-29.
38
ZAPPELLA, op. cit., p.39.
39
GUELFI CAMAIANI, op. cit., p. 301, n. 404.
40
HALL, op. cit., p.180.
37
260
Marianna Iafelice
Fig. 45
Fig. 46
Colosini, Giovanni Battista <1605-1606>
Tre leoni, dei quali quello al centro, seduto, tiene un giglio nella branca, e gli
altri due sono sdraiati ai suoi lati. Paesaggio sullo sfondo. In una cornice figurata.
Motto: Utinam hic utique. (Esecuzioni diverse) (Fig. 45, Fig. 46)
Il leone considerato il più nobile animale del blasone, simbolo di forza, grandezza, comando e coraggio è in questo caso accostato al giglio araldico considerato
pure “il più nobile dei fiori”.41
Fig. 47
Fig. 48
Fig. 49
Combi, Giovanni Battista <1616-1646>
Due stadere incrociate; ai lati, le lettere Q[M] BI (=Combi?). In una cornice
figurata. (Esecuzioni diverse) (Fig. 47, Fig. 48)
Minerva con l’elmo sulla testa siede appoggiata ad un albero e tiene nella
mano sinistra lo scudo e nella destra la lancia; ai suoi piedi una civetta. In alto al
centro un nastro con la scritta: La Minerva. (Fig. 49)
Minerva, divinità tra le più importanti sia dell’antica Grecia che di Roma, era una
figura benevola, portatrice di civiltà. Figlia di Giove nasce completamente armata dalla
testa. Inizialmente considerata dea della guerra, per il fatto che veniva rappresentata con
elmo, scudo e lancia, diventerà in seguito la protettrice delle istituzioni, in quanto come
dea della guerra al contrario di Marte, che combatteva con scopi distruttivi, combatteva
per difendere la giusta causa. Considerata pure dea della Sapienza, in questo caso veniva rappresentata con una civetta, animale a lei sacro nell’antichità, appollaiata al suo
fianco, mentre l’effige della testa di Medusa rappresentata sullo scudo, gli fu donata
da Perseo in cambio dell’aiuto ricevuto per uccidere quel mostro.42
41
42
ZAPPELLA, op. cit., p. 142.
HALL, op. cit., pp. 279-280.
261
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 50
Fig. 51
Combi, Sebastiano <1582-1615>
Due stadere incrociate (Fig. 50)
Madonna con bambino tra due angeli oranti, all’interno di edicola. In alto
Dio padre, in basso: Lanconeta. (Fig. 51)
Fig. 52
Fig. 53
Combi & La_Noù <1654-1701>
Minerva con l’elmo sulla testa siede appoggiata ad un albero e tiene nella
mano sinistra lo scudo e nella destra la lancia; ai suoi piedi una civetta. In alto al
centro la scritta: La Minerva. In una cornice. (Esecuzioni diverse) ( Fig. 52, Fig. 53)
Fig. 54
Fig. 55
Fig. 56
262
Marianna Iafelice
Dei, Ambrogio & Dei, Bartolomeo fratelli <1609-1619>
Il Leone di San Marco tiene aperto con la zampa il libro del Vangelo con la
scritta: Pax tibi Marce Evangelista meus; sullo sfondo una città fortificata. In una
cornice figurata. (Fig. 54)
Leone di San Marco, con una spada nella zampa destra e nella sinistra il
libro del Vangelo aperto con la scritta: Pax tibi Marce evangelista meus, poggia
sul globo terrestre, sostenuto da un piedistallo con la scritta in greco: Olbyos aei
(Fig. 55).
Il leone alato, uno degli esseri viventi dell’Apocalisse, è per tradizione simbolo e attributo di San Marco, patrono di Venezia. Heinz - Mohr scrive che “Nell’arte cristiana la raffigurazione del leone più diffusa è quella del leone alato, come
simbolo ovvero come attributo dell’evangelista Marco, scelto secondo l’interpretazione del Padre della Chiesa Gerolamo, poiché il Vangelo di marco inizia con l’accenno a Giovanni battista come la voce di uno che grida nel deserto. Da allora il
leone alato di Marco è diventato lo stemma di Venezia”.43
Quattro divinità, ciascuna con i propri attributi: Giove e Giunone in cielo,
sorretti da nuvole, Vulcano nella sua officina, Nettuno in mare. In una cornice ovale. Motto: Numina nomini virtus.44 (Fig. 56)
Marca assai complessa nella sua semplicità, la sua spiegazione è tutta riconducibile agli antichi miti. Giove e Giunone infatti rappresentano l’allegoria del potere dell’amore, in questo caso il dio seduto sul suo giaciglio ha accanto a se l’aquila,
che solitamente ha il fulmine tra li artigli, mentre Giunone ha accanto a se un pavone.45 La dea inoltre porta con se una fascia colorata legata sotto il seno, forse la
“magica cintura di venere” che rendeva seducente chi la portava e che Giunone
aveva avuto in prestito.
Vulcano invece nell’antica mitologia greca e romana era il dio del fuoco ipogeo,
da cui hanno poi preso il nome i Vulcani, ed era anche il fabbro degli dei e degli
eroi. Figlio di Giove e di Giunone, sposò Venere che lo tradì in seguito con Marte.
Si narra che fosse così spiacevole di aspetto quando nacque, che sua madre prese a
odiarlo e finì per scaraventarlo giù dall’Olimpo. Il povero cadde per un giorno
intero, e, quando si fermò si trovò tutto azzoppato sull’isola di Lemno che fremeva
di fuochi nascosti. Là impiantò la sua fucina in un cratere e vi lavorò alacremente
per nove anni, a battere e plasmare il ferro, il bronzo e i metalli preziosi. Stanco
però di affaticarsi sempre al buio, Vulcano cercò un giorno, in una tempesta di
43
ZAPPELLA, op. cit, p. 231.
Usata pure da Giorgio Valentini.
45
La dea porta con sé un pavone, secondo la scena conclusiva della vicenda di Io, quando Argo il gigante dai
cento occhi che Giunone aveva posto a guardia di Io, fu ucciso da Mercurio. In memoria di Argo, Giunone
prese i suoi occhi e li applicò alla coda del suo pavone. (Metamorfosi, I, 721-724). HALL,op. cit., pp. 216-217.
44
263
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
scintille, di risalire nell’Olimpo, e fabbricò un bel trono d’oro da mandare alla madre. Giunone appena si sedette si sentì legata da invisibili fili tanto che nessuno
riuscì a staccarla da un tale sgabello. Richiamato Vulcano, questi accettò di liberarla
a patto di poter tornare nella reggia degli dei con tutti gli onori, ove in seguito
impiantò una grandiosa fucina.
In questa marca la presenza di Nettuno, è riconducibile alle allegorie dei
Quattro elementi dove l’aria è l’elemento sacro a Giunone, che la rappresenta solitamente accompagnata dal pavone, il fuoco è rappresentato da Vulcano e infine
l’acqua rappresentata da Nettuno appunto, dio del mare e dei suoi abitanti, riconoscibile dal suo tridente, un forcone a tre rebbi spesso uncinati.
Fig. 57
Fig. 58
Fig. 59
Deuchino, Evangelista <1600-1630>
Due ancore in palo sono unite da un nastro recante il motto: His suffulta. In
una cornice figurata. In alto, in un ovale inserito nella cornice, tre gigli ed il motto:
Sic inclita virtus. (Esecuzioni diverse) ( Fig. 57, Fig. 58, Fig. 59)
L’ancora rappresenta sia la costanza che la fermezza. L’impresa con il medesimo motto fu scelta alla morte del marito da Isabella da Correggio “perché l’ancora pel suo officio è simbolo di stabilità e di fermezza, Isabella da Correggio volle
riferire che sostenuta dall’amore e dal ricordo del defunto consorte, essa sentivasi
superiore a tutte le debolezze terrene, dalle quali facilmente può essere soggiogata
una donna giovane, bella e per giunta vedova”.46
46
ZAPPELLA, op. cit., p. 52 e GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 35-36, n. 49.
264
Marianna Iafelice
Fig. 60
Fig. 61
Farri, Domenico eredi <1612-1621> - Farri, Pietro <1572-1621> - Farri
Pietro eredi <fino al 1629>
La Carità: una donna tiene un bambino in braccio ed altri due ai lati Su un
nastro la scritta: Charitas. In una cornice ovale. (Diverse esecuzioni, Fig. 60, Fig. 61).
Considerata la principale delle tre virtù teologali come sosteneva San Paolo:
“Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede la speranza e la carità, ma di
tutte più grande è la carità” (I Cor 13,13). Nel corso dei secoli la sua rappresentazione cambia, se infatti con l’arte gotica che ci veniva mostrata una figura femminile
mentre compiva le sei opere di misericordia: dar da mangiare agli affamati, dar da
bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati. In seguito tutto questo fu condensato come afferma James Hall in un
unico atto, vestire gli ignudi: un mendicate che indossa una camicia con accanto la
Carità che regge un mucchio di panni. Quando san Bonaventura nel XIII secolo
estenderà il concetto dell’amore di Dio introducendo l’idea della luce, o meglio di
un fuoco divorante, nell’arte italiana la figura della carità assumerà come attributo
la Fiamma.
Nel XIV secolo, però, forse per derivazione dall’immagine della Virgo Lactans
(una donna che allatta due bambini) apparirà questo nuovo tipo iconografico che
diventerà quello più usuale in tutta Europa : dove in seguito due bambini le si stringeranno attorno mentre uno sarà attaccato al suo seno. 47
Cesare Ripa scriveva: “La Carità [...] terrà nel braccio sinistro un fanciullo, al
quale dia il latte et due altri gli staranno scherzando a’ piedi, uno d’essi terrà alla
detta figura abbracciata la destra mano.
Senza Carità un seguace di Christo è come un’armonia dissonante d’un
Cimbalo discorde et una sproporzione (come dice San Paolo), però la Carità si dice
esser cara unità, perché con Dio et con gli’huomini ci unisce in amore et in affettione,
47
HALL, op. cit., pp. 88-89.
265
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
che accrescendo poi i meriti, col tempo ci fa degni del Paradiso [...] I tre fanciulli
dimostrano che, se bene la carità è una sola virtù, ha non dimeno triplicata potenza,
essendo senz’essa et la fede et la speranza di nessun momento.”48
La Vaccaro ritiene che “la Carità raffigurata in modo canonico deve avere
con sé tre bambini per indicare le virtù teologali, fede speranza e carità, questo
simbolo è stato a volte travisato e la Carità è stata rappresentata con quattro bambini”.49
Fig. 62
Ginami, Bartolomeo< 1600-1607> - Ginami Marco <1616-1654> - Ginami
Tommaso <fino al 1654>
La Speranza: una donna in mare è inginocchiata su un’ancora sostenuta da
un globo, e tiene le mani giunte ed il viso rivolto al cielo.50 In una cornice figurata.
Motto: Spes mea in Deo est. (Bibbia Salmo, 61). (Fig. 62).
Rappresentante una delle tre virtù teologali con la fede e la carità, è simbolo
di evidente origine religiosa. Già ampiamente usata nel XVI secolo questa rappresentazione della Speranza aggrappata ad un’ancora secondo Heinz-Mohr si può
giustificare con il fatto che “L’ancora che rende sicura la nave nel porto, ma che
tiene ferma anche in alto mare durante le tempeste, fin dai tempi antichi è l’immagine della speranza, della fiducia, della salvezza ... per i cristiani divenne ... l’immagine appropriata della speranza del credente nella beatitudine celeste. In questo senso
appare in innumerevoli epigrafi sepolcrali come il simbolo più antico e al tempo
stesso più genuinamente cristiano”.
48
Cesare RIPA, Iconologia overo descrittione di diverse imagini cavate dall’antichità et di propria invenzione, in Roma, appresso Lepido Facii, 1603, pp. 63-64.
49
Emerenziana VACCARO, Le marche dei tipografi ed editori italiani del secolo XVI nella Biblioteca Angelica di Roma, Firenze, Olschki, 1983, pp. 75-76.
50
Gerd HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984, pp. 336
e 352.
266
Marianna Iafelice
Fig. 63
Fig. 64
Giuliani, Giovanni Antonio <1616-1652> - Giuliani Andrea <1650-1680>
Un’aquila ad ali spiegate; sotto, un vaso contenente tre gigli sorretto da una
mano che esce dalle nuvole. (esecuzioni diverse).51 In una cornice figurata. (Fig. 63,
Fig. 64)
Simbolo di forza, di vittoria, di renovatio, di nobiltà e di potere imperiale e in
questo caso accompagnata da tre gigli simboleggianti i fiori più nobili.
Fig. 65
Fig. 66
Fig. 67
Guerigli - Guerigli, Giovanni <1591-1630> - Guerigli, Giovanni eredi
Salvator Mundi: Gesù benedice con la mano destra e tiene nella sinistra un
globo sormontato da una croce. Ai suoi piedi la scritta: Salvator. Paesaggio con
edifici sullo sfondo. In una cornice figurata. (Esecuzioni diverse) ( Fig. 65, Fig. 66)
Salvator Mundi: Gesù benedice con la mano destra e tiene nella sinistra
un globo sormontato da una croce; ai suoi lati due coppie di angeli, di cui quelli
a destra sostengono uno scudo recante le iniziali GG sormontate da doppia
croce. (Fig. 67)
Insegna di bottega del Guerigli e dei suoi eredi.52 Salvator mundi “è uno degli
52
ZAPPELLA, op. cit., p. 190.
267
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
appellativi di Gesù, attribuito a certe sue immagini devozionali diffuse specialmente nella pittura rinascimentale dell’Europa del nord, dove egli compare con in mano
un globo sormontato da una croce, in attitudine benedicente [...]”53
Fig. 68
Guerigli, Giovanni <1604>
Un cervo ramoso saliente su di un monte roccioso con lo sguardo rivolto
verso il sole. In una cornice figurata. Motto: Hinc tela invidiae discerpunt irrita
venti. (Fig. 68)
In araldica il cervo è emblema di longevità, prudenza, innocenza, preghiera e
amore della musica. 54 “Ricorda le cacce signorili indica pure nobiltà antica e generosa. [...] Ma più che nell’arte pagana lo vediamo occupare un posto importante
nell’iconografia sacra [...]. Si ritiene che la raffigurazione simbolica e cristiana del
cervo sia fondata sul versetto del salmo XLI. [...] È animale mobilissimo ed una
leggenda affermava vivesse più centinaia d’anni e fosse privo di fiele”.55
Fig. 69
Fig. 70
Fig. 71
53
HALL, op. cit, p. 360.
ZAPPELLA, op. cit, p. 111.
55
CAMAIANI, op. cit, pp. 164-166, n. 229.
54
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Marianna Iafelice
Hertz, Giovanni Giacomo 1. <1646-1697>
Una nave in mare a vele spiegate. In una cornice figurata. (Esecuzioni diverse, Fig. 69, Fig. 70, Fig. 71)
“Gli antichi Padri della Chiesa e apologeti cristiani paragonano la Chiesa ad
una nave che offre scampo ai fedeli e li porta alla salvazione.”,56 in araldica invece
Guelfi Camaiani sostiene che rappresenta “l’animo forte che resiste alle avversità”.57
Fig. 72
Fig. 73
Fig. 74
Imberti, Domenico <1584-1622> - Imberti, Ghirardo <1600-1641> Societas Disiuncta
Una colomba posata su un trimonzio. In una cornice figurata. Motto: Hinc
silens hinc loquax. (Esecuzioni diverse, Fig. 72, Fig. 73)
La Speranza: una donna sorregge due stemmi, uno con le iniziali DI sormontate da doppia croce, l’altro con una colomba posata su un trimonzio. Motto su un
nastro: Spes mea in Deo est. (Fig. 74)
Usata pure da Federico Abirelli a Venezia nel 1594, in questa posizione in
cui solitamente è raffigurata un’aquila, rappresenta la vigilanza, anche se poi di solito la colomba è il simbolo cristiano dello spirito santo “Ho visto lo spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui” (Giovanni, 1, 32).58
“La colomba nella Sacra Scrittura è ritenuta come simbolo di dolcezza, semplicità innocenza. [...] Nell’arte cristiana primitiva la colomba sta a simbolo del
martirio, della resurrezione, della fedeltà coniugale ed infine della Verginità di Maria, dell’emblema della Chiesa e dell’Ascensione di Cristo. 59
56
HALL, op. cit., p. 296.
GUELFI CAMAIANI, op. cit., p. 446, n. 608.
58
Cfr. ZAPPELLA, op. cit., p. 121; HALL, op. cit., p. 108.
59
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 189-192, n. 256.
57
269
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Giuseppina Zappella ritiene che un esempio significativo di caso in cui l’insegna comune riproduce insieme le marche tipiche di ogni contraente di una occasionale società, è costituito dalla marca di Domenico Imberti in un’edizione del 1600
(Francisco Suarez, Commentariorum ac disputationum in tertiam partem D.
Thomae, Tomus primum,Venezia, Paolo Ugolino e Domenico Imberti, 1600) recante la sottoscrizione “apud Paulum Ugolinum et Dominicum de Imbertis socios”
appare modificata: la figura della Speranza resta immutata ma nello scudo di destre
le iniziali dell’Imberti sono state sostituite con la scena di david che uccide Golia,
nota marca dell’Ugolino. Anche il motto è stato ritoccato per adeguarlo alla nuova
situazione: non più “spes mea in deo est” bensì “spes nostra in Deo est”.60
Fig. 75
Imberti, Domenico
Una colomba posata su un trimonzio. In una cornice ovale. (Fig. 75)
Fig. 76
60
GIUSEPPINA ZAPPELLA, Manuale del libro antico, Milano, Editrice bibliografica, 1996, p. 1194.
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Marianna Iafelice
Imberti, Ghirardo - Imberti, Ghirardo eredi
Una colomba posata su un trimonzio; ai lati iniziali I[M]BTI. In una cornice
figurata. (Fig. 76)
Fig. 77
Imberti, Giuseppe
La Speranza: una donna sorregge due stemmi, uno con le iniziali II sormontate da doppia croce, l’altro con una colomba posata su un trimonzio. Motto su un
nastro: Spes mea in Deo est. (Fig. 77)
Fig. 78
Fig. 79
Fig. 80
Meietti, Paolo <1577-1615>, Meietti, Roberto <1588-1619>,Meietti, Antonio <1625>, Meietti Roberto II <fino al 1685>
Due galli, di cui uno becca in terra chicchi di granturco; al centro la pianta
con le pannocchie. In una cornice figurata. Motto: Non comedetis fruges mendacii.
(Esecuzioni diverse, Fig. 78, Fig. 79, Fig. 80)
271
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Cesare Ripa lo considera un simbolo di studio, di vittoria e di vigilanza in
quanto “[...] si desta nell’hore della notte all’essercitio del suo canto, né tralascia mai
di ubbidire a gli occulti ammaestramenti della Natura, così insegnando a gli huomini
la Vigilanza”61 la Zappella osserva che se nelle marche tipografiche è quasi sempre
una marca parlante,62 in questo caso la figura ha un valore simbolico, chiarito dal
motto: “Il libro va per il mondo a portare la voce del vero” (Saraceni) e il tipografo
ancora una volta trova il modo di celebrare la sua arte “come a ire non vi nutrirete dei
prodotti della menzogna, chè noi vi offriamo cose autentiche e vere” (Samek).63
Fig. 81
Fig. 82
Miloco, Pietro <1612-1644>
La Verità, una donna nuda, flagellata dalla Menzogna, una donna nuda con
elmo e coda di serpente, viene portata via dal Tempo, un vecchio alato con una
clessidra nella mano sinistra. Motto su un nastro: Veritas filia Temporis (Gellio,
Noct. Att. 12, 11,2). In una cornice ovale. (Esecuzioni diverse, Fig. 81, Fig. 82).
Questa stessa marca fu usata con lo identico motto a Venezia da Francesco
Marcolini nel 1534-1559. Rappresentata nei salteri medievali sempre con altre virtù, e benché era sua natura essere disadorna, non fu raffigurata nuda fino al XIV
secolo, quando cominciò a figurare accanto alla misericordia vestita. “Essa assunse
un nuovo ruolo nel XV secolo nella Calunnia di Apelle, e dopo di allora comparve
soprattutto nell’arte profana, divenendo una figura molto popolare nelle allegorie
rinascimentali e barocche. Il concetto della Verità nascosta venne collegato a quello
del Tempo che la rivela (come a dire che la verità prima o poi viene a galla); tale
pensiero era confortato dall’antico detto, noto nel Rinascimento: “Veritas filia
temporis”. Questa è l’origine del tema iconografico in cui la figura allegorica del
tempo toglie il velo che ricopre il corpo ignudo della Verità, talvolta in presenza
delle figure malevole dell’Invidia e della Discordia che si celano in un angolo”.64
61
C. RIPA, Iconologia overo Descrittione di diverse Imagini..., cit., p. 503.
La marca parlante o allusiva è quella in cui vi sono immagini rappresentanti l’oggetto a cui si collega il
cognome dell’editore o del tipografo.
63
ZAPPELLA, Le marche..., cit., pp. 186-187.
64
HALL, op. cit., p. 416.
62
272
Marianna Iafelice
Fig. 83
Fig. 84
Fig. 85
Pinelli, Antonio <1602?-1631>
Un pino in un prato. In una cornice figurata (Esecuzioni diverse, Fig. 83, Fig.
84, Fig. 85)
Considerato da Guelfi Camaiani “uno degli alberi più pregevoli del blasone”
e “indica antica e generosa nobiltà”.65
In questo caso è marca parlante.
Fig. 86
Fig. 87
Poletti, Andrea <1681-1755?>
L’Italia: una donna con una corona turrita sulla testa, uno scettro nella mano
destra ed una cornucopia nella sinistra, siede sul globo terrestre circondata da armi;
alla sua destra un’aquila. In alto un nastro con la scritta: L’Italia.
“Una bellissima donna vestita d’habito sontuoso et ricco, la quale siede sopra
un globo; ha coronata la testa di torre, di muraglie, con la destra mano tiene uno
scettro, ovvero un’asta [...], et con la sinistra mano un cornucopia pieno di diversi
frutti et oltre ciò faremo anco che habbia sopra la testa una bellissima stella. [...]
Dico dunque che bella si dipinge per la dignità et grande eccellenza delle cose, le
quali in essa si dipinge per la dignità et grande eccellenza delle cose, le quali in essa
65
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 528-529, n. 689.
273
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
per adietro continovamente ritrovate si sono e talli tempi nostri ancora si trovano
[...] Si veste d’habito ricco et sontuoso, essendo che in questa mobilissima Provincia
si veggono molti fiumi cupi e laghi, dilettevoli fontane, vene di saluberrime acque
tanto calde, quanto fresche [...]. La corona di torri et di muraglie dimostra l’ornamento e la nobiltà delle città, Terre, Castelli et Ville che sono in questa risplendente
et singolar provincia [...]. Lo scettro ovvero l’asta, che tiene con la destra mano
l’uno et l’altra significano l’imperio et il dominio che ha sopra tutte le altre nationi,
per l’eccellenza delle sue rare virtùnon solo dell’arme, ma ancora delle lettere. [...].
Il cornucopia pieno di varii frutti significa la fertilità maggiore di tutte l’altre Provincie del mondo, ritrovandosi in essa tutte le buone qualità essendo che ha i suoi
terreni atti a produrre tutte le cose che son necessarie all’humano uso [...].”.66
Fig. 88
Fig. 89
Fig. 90
Somasco, Giacomo Antonio <1572-1612>
Un centauro al galoppo con la faretra a tracolla tiene un serpente attorcigliato attorno al braccio destro ed un arco nella mano sinistra; paesaggio montuoso
sullo sfondo. Motto su un nastro: Viribus iungenda sapientia. (Esecuzioni diverse,
Fig. 88, Fig. 89, Fig. 90).
Omero annoverava i centauri tra le creature selvagge con busto e testa umani
e corpo equino, nell’iconografia cristiana simboleggia appunto la doppia natura
(animale e divina dell’uomo).67 Guelfi Camaiani aggiunge che non ha “uno speciale
attributo simbolico generalmente conosciuto” e che “occorrerebbe conoscere le
intenzioni di coloro che lo introdussero nell’arma”.68
Usata nel XVI secolo dai predecessori di Giacomo Antonio Somasco, Giovanni Battista, Giovanni Antonio e Vincenzo, questa marca è stata studiata dalla
Zappella la quale ritiene che: “Il centauro nella sua duplice natura, ferina e umana,
66
RIPA, op. cit., pp. 246-249.
HALL, op. cit., p.98.
68
GUELFI CAMAIANI, op. cit., p. 156, n. 223.
67
274
Marianna Iafelice
bene si presta a incarnare il concetto della forza che, se vuole avere fortuna, come
ammonisce il motto, deve essere guidata dall’intelligenza”. 69
Fig. 91
Fig. 92
Fig. 93
Spineda, Lucio <1598-1630>
L’ Umiltà: una donna nuda schiaccia con un piede la Superbia, un leone. In
una cornice figurata. Motto: Sic omnia cedunt humilitati. (Esecuzioni diverse, Fig.
91, Fig. 92, Fig. 93)
Questa sua marca fu usata precedentemente anche dagli Ugolino e dai
Bonibello.70
Ripa rappresenta l’Umiltà con “una donna colla sinistra mano al petto e con
la destra distesa ed aperta. Starà colla faccia voltata verso al Cielo e con un piede
calcherà una vipera morta [...] e con una testa di leone ferito pur sotto a’ piedi”. Il
Leone sta a simboleggiare la Superbia, che nella scultura gotica è il vizio che le
viene spesso contrapposto. Hall la considera una delle virtù che raramente compaiono nelle allegorie sia sacre che profane.71
69
ZAPPELLA, op. cit., p. 105.
Bonibello Michele, fu tipografo o editore attivo a Venezia, (m. 1596); probabilmente parente di
Marcantonio, visto che entrambi hanno usato la stessa marca tipografica. Bonibello, Marcantonio fu sempre
attivo a Venezia; non si sa se avesse legami di parentela con Carlo e con Bonibello Bonibello, librai all’insegna
della Colombina e con Angelo Bonibello, lavorante nella stamperia di Domenico Nicolini da Sabbio; è invece
più probabile come abbiamo già visto che fosse parente di Michele Bonibello, con cui aveva in comune la
marca tipografica. Di Ugolino, Giovanni Battista sappiamo invece che fu sempre attivo a Venezia. Lavorò sia
da solo che in società con suo fratello Ugolino e con Pietro Dusinelli.
71
HALL, op. cit., pp. 408-409.
70
275
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 94
Fig. 95
Fig. 96
Turrini <1641-1660>
Una torre quadrata merlata alla ghibellina, ai lati due leoni rampanti. In una
cornice. (Fig. 94)
Una torre; sulla sua sommità un angelo suona una tromba da cui esce un cartiglio
con il motto: Deus fortitudo et turis [sic] mea. In una cornice figurata. (Fig. 96)
Una torre; sulla sua sommità, un angelo con un giglio nella mano destra. In
una cornice. (Fig. 97)
La torre nella simbolistica araldica è emblema della forza, della nobiltà perché niuno fino da’ tempi remoti poteva fabbricare torri se non era di illustre e potente famiglia”72 e della vigilanza, simbolo di saldezza, solitamente, e come in questo caso è usata nelle marche come marca parlante.
Fig. 98
Fig. 99
Turrini, Antonio <1609-1619>
Una torre mattonata merlata alla guelfa. In cornice. (Fig. 98)
Una torre mattonata merlata alla guelfa sulla sua sommità, un angelo con un
giglio nella mano destra. In una cornice. (Fig. 99)
Già usata dal Turrini a partire dal 1592.
72
GUELFI CAMAIANI, op. cit., pp. 715-716, n. 899.
276
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Fig. 100
Fig. 101
Fig. 102
Varisco, Giorgio <1598-1611>
Una sirena bicaudata e coronata tiene le due code alzate con le mani. (Esecuzioni diverse). (Fig. 100, Fig. 101, Fig. 102)
La sirena “animale chimerico assai usato nell’arme e si rappresenta fino all’ombelico col corpo di giovine donna ed il resto terminante in pesce. È simbolo di
beltà fallace e lusinghiera”.73 Usata a Napoli in esecuzioni diverse74 da Antonio
Bulifon, (1672-1700), da Camillo Cavallo, e da Lazzaro Scorriggio, fu usata pure
dai bolognesi Longhi e Pisarri.
Fig. 103
Varisco, Giorgio - Varisco, Giovanni & Varisco, Varisco
Una sirena bicaudata e coronata tiene le due code alzate con le mani. In una
cornice figurata.
73
74
GUELFI CAMAIANI, op. cit., p.643, n. 828.
A Venezia la ritroviamo in esecuzioni diverse con Marco Guarisco (1616-1628) e con Francesco Valvasense (1688).
277
Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia)
Fig. 104
Fig. 105
Fig. 106
Vincenzi, Giacomo <1589-1617>
Una pigna. In una cornice figurata. Motto su un nastro attorno al rametto:
Aeque bonum atque tutum. (Esecuzioni diverse, Fig. 104, Fig. 105, Fig. 106)
278
Recensioni
280
Giuseppe De Matteis
Niccolò Forteguerri, Capitoli1
di Giuseppe De Matteis
A cadenze regolari – e perciò causa di piacevoli sorprese – le patrie lettere danno
profili e progetti che colgono la realtà dei tempi cui si rivolgono meglio di ogni altra
forma espressiva e si pongono all’attenzione dei posteri e del fruitore in genere in nuova
e più completa luce. Ne sono un buon esempio i Capitoli di Niccolò Forteguerri, componimenti epistolari di genere satirico, scritti per pochi, fidatissimi amici ed ora
ripubblicati a cura di Carmen Di Donna Principe, già autrice di un volume sullo stesso
personaggio e pubblicato, ormai un ventennio, dalla napoletana Editrice Laurenziana.
Niccolò Forteguerri fu erudito di chiara fama al servizio prima di Papa Benedetto XIII e poi del suo successore Clemenre XII. Acuto critico e censore dell’ambiente papalino, i suoi Capitoli sono una feroce satira di quel mondo e della sua corte.
Nella stessa maniera della corrente erudita napoletana – fortemente anticuriale
più che anticlericale alla maniera francese – il nostro autore sembra essere però
molto lontano dalle prese di posizione, per esempio, di Pietro Giannone e del
Giannonismo a lui succeduto; anzi, andando a studiare gli aspetti contenutistici e
non solo il versante formale dei Capitoli, si può notare come, la struttura della
satira, non esprima solo i contenuti relativi, bensì anche forme non propriamente
satiriche, prima tra tutte l’invettiva, in cui il tono dell’indignatio si sposa alla saggezza discorsiva ed alla verve ironico/satirica. Una invettiva, quindi, di chiara derivazione dantesca e che, però, si sposa tranquillamente ed ottimamente alla lunga
tradizione satirica, prima classica e poi rinascimentale.
Pur non rientrando nei toni accesi del Giannonismo suo contemporaneo, ma
limitandosi alla silenziosa “pasquinata”, lo stesso il materiale esposto è, comunque,
soggetto ai rischi offerti dalla censura vaticana. Negato, infatti, alla lettura dei suoi
contemporanei, l’opera – che abbraccia l’arco di un trentennio (dal 1709 al 1734) –
rimase sostanzialmente inedita poiché, della diverse edizioni a stampa conosciute,
nessuna può essere rapportata all’originale. È la stessa curatrice, per prima, a considerare le opere a stampa qualitativamente inferiori ai manoscritti, vuoi per le molteplici interpolazioni in tutti a vario modo presenti, vuoi per l’incompletezza degli
argomenti nel loro complesso. Essendo invece presenti molti manoscritti, frutto di
stesure anche diverse, è chiaro che li si ritiene più completi ed adatti al lavoro
filologico, così restituendo l’urtext alla sua totale integrità letteraria e storica.
1
Niccolò FORTEGUERRI, Capitoli, nell’edizione critica a cura di Carmen Di Donna Prencipe, Bologna,
Commissione Nazionale per i testi di Lingua, 2003.
281
282
Eugenio Tosto
Giuseppe De Matteis, Una lunga fedeltà
(aspetti e figure della Puglia letteraria contemporanea)*
di Eugenio Tosto
Questo libro di Giuseppe De Matteis pare giungere a proposito in questo
momento della nostra storia nazionale, nel quale da un lato si assiste all’esaltazione
delle energie locali (regionali), dall’altro si nutrono preoccupazioni per le sorti della stessa unità nazionale.
Il problema del rapporto regioni-unità nazionale si era già posto negli anni
Sessanta. Nel lontano 1969 ebbi ad occuparmi (con una recensione sul foggiano «Il
progresso dauno», IV, 13 marzo, p. 3 - diretto dall’onorevole Gustavo De Meo), del
problema del rapporto letteratura delle regioni-letteratura nazionale, sottolineando la necessità di un’armonica convivenza e interazione. Recensivo la pubblicazione, apparsa nel dicembre del 1968, Storia letteraria delle regioni d’Italia, di W. BinniN. Sapegno, editrice Sansoni, Firenze. E indicavo le pagine dedicate alla Puglia (673698), divise in due settori: il primo occupato da un rapido discorso sugli autori e le
opere, il secondo intitolato “Galleria Puglia”, recante fotografie di frontespizi, di
pagine manoscritte, di monumenti, ritratti. L’intento degli autori dell’opera era quello
di avviare un più scandito discorso relativo alla storia letterartia d’Italia e di stimolare l’indagine in estensione e in profondità, perché il quadro della letteratura di
una regione si facesse sempre più chiaro e interessante.
L’appello degli autori andava senza dubbio e senza remore accolto; ed io allora cercai di dare il mio modesto contributo, rivolgendo la mia attenzione (e richiamando quella degli altri) ad autori pugliesi. Fu così che nel 1971 recensii sul
sopracitato foggiano «Il progresso dauno», VI, 17-18 (1-8 maggio), p. 5 -, la pubblicazione della raccolta delle Lettere politiche di Francesco De Sanctis, curata dal
lucerino Gian Battista Gifuni, benemerito bibliotecario della Comunale di Lucera
e studioso insigne. Nel 1974 recensii («Michelangelo», III (1974), ott-dic, p. 73) il
racconto lungo Verginità (1973) di Nino Casiglio di San Severo, già autore del romanzo Il conservatore (1972). Nel 1994 rivendicai la “pugliesità” del poeta
Giacomino Pugliese, stretto collaboratore di Federico II di Svevia (Eugenio Tosto,
Giacomino Pugliese, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche, Napoli,
[s.n.] 1994).
*
Giuseppe DE MATTEIS, Una lunga fedeltà (aspetti e figure della Puglia letteraria contemporanea, Foggia,
Edizioni del Rosone, 2004.
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Giuseppe De Matteis, Una lunga fedeltà
Su questa linea si colloca degnamente e lodevolmente l’opera di Giuseppe De
Matteis, il quale nel corso di quest’ultimo decennio ha sentito la necessità di rendere omaggio ad una nutrita schiera di benemeriti della letteratura italiana, nati, vissuti o, comunque, legati alla Puglia. Una lunga fedeltà (aspetti e figure della Puglia
letteraria contemporanea) è il titolo dell’opera; e io credo che si tratti proprio della
costanza dell’autore nel tener fede al suo proposito di onorare scrittori e poeti
pugliesi. Impegno, che ha avuto inizio ancor prima di questi suoi ultimi interventi
critici, quando nel 1984 pubblicava Cultura letteraria contemporanea in Capitanata,
e che, perciò, è di lunga durata. E bene ha fatto, perché non solo ha dato agli autori
il risalto che si meritano, ma ha anche reso onore alla Terra di Puglia, perché «è
verissimo, che i saggi, ed onorati Cittadini colle lodevoli ed incessanti applicazioni
ne’ studj, e co’ dotti, e chiari parti dell’ingegno loro, rendon via più celebri, e rinomate le Patrie, ov’essi nacquero…».1 Egli prende in considerazione ben trentuno
autori del Novecento (tranne Pietro Giannone del Sei-Settecento, Ruggero Bonghi
dell’Ottocento e Nicola Zingarelli dell’Otto-Novecento), raggruppati secondo la
terra d’origine (Daunia, Gargano, Terra di Bari, Salento), inserendosi, così, nel solco di una nobile e lunga tradizione, che vide critici e uomini di cultura che si adoperarono perché poeti, letterati e artisti della Puglia non fossero dimenticati. Mi riferisco, per esemplificare, a Domenico De Angelis, che nel 1710 pubblicò Le vite de’
letterati salentini, a Giovanni Bernardino Tafuri, che dal 1744 al 1770 pubblicò, in
più volumi, una Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli (comprendendovi,
ovviamente, anche gli scrittori Pugliesi), a Carlo Villani (di Foggia), del quale nel
1904 usciva il ponderoso volume Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, vol. I, cui seguiva, nel 1920, un volume di aggiunte, e a Michele Dell’Aquila, Parnaso di Puglia (Bari, Mario Adda Editore, 1983).
De Matteis ha il merito non solo di avere illustrato l’opera dei singoli autori
pugliesi, ma anche di aver raccolto i suoi scritti su di essi in un unico volume («Ma
più beata [Firenze] che in un tempio accolte/ serbi l’itale glorie»), certamente di più
facile reperibilità che non i singoli articoli sparsi per i vari periodici, serbando, così,
le “glorie letterarie pugliesi”.
Il nostro critico si accosta ai suoi autori con tutto il bagaglio del suo vasto
sapere, che gli consente di collocarli in un quadro culturale nazionale (letterario e
non) e, quindi, di operare quel collegamento regione-nazione, auspicato anche da
vari autori da lui esaminati (Fiorentino, Marti ecc.). Ma il merito più interessante
del De Matteis critico letterario non è tanto quello di accostarsi agli autori e alle
loro opere come preparato ed intelligente ordinatore dell’ attività e dei prodotti
letterari, quanto quello di essere indagatore della personalità del singolo autore,
colta nei suoi ideali, nei moti dell’animo, nei sentimenti più riposti, e vista nel suo
incarnarsi e nel suo articolarsi nelle singole opere. Egli sa condurci per mano nel
1
Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Firenze, [s.n.], 1710, p. 191.
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Eugenio Tosto
loro mondo interiore e farcelo non solo capire, ma anche sentire. All’uopo spesso
non si limita al rilievo analitico dell’interiorità dei poeti, ma conforta il suo discorso
con appropriate citazioni dagli stessi. Si direbbe che egli provi il piacere della scoperta e spesso quello di sentire il proprio animo battere all’unisono con quello del
poeta.
Questo in particolare per la lettura dei poeti, comunque si esprimano: in dialetto o in lingua; ma sempre il suo animo batte per gli ideali sani e le nobili passioni
anche degli altri autori che ci presenta. Insomma De Matteis non è il critico freddo
e distaccato, ma l’uomo partecipe dei moti d’animo dei suoi autori, che condivide i
valori positivi che essi esprimono.
Da qui scaturisce un altro aspetto della penna critica di De Matteis: quello
dell’educatore, che non resta indifferente di fronte alla caduta di certi valori fondamentali nel vivere umano (l’amicizia, l’altruismo ecc.), e che esalta le buone qualità
espressive dei grandi autori del passato (la chiarezza e la semplicità), che rendono
comprensibili i moti dell’animo e ne rivelano la profondità, rispetto al «linguaggio
cifrato» (e quindi oscuro) preferito da poeti dei nostri giorni; linguaggio che è più
idoneo ad allontanare il lettore che ad invitarlo alla comprensione dei sentimenti
che si vogliono esprimere.
Da questo atteggiamento critico in generale deriva il discorso parenetico rivolto ai giovani in un apposito articolo (“I giovani e la poesia”), nel quale, mentre si
mette il dito sul negativo, si indicano le vie per una dignitosa riscossa, quale, per
esempio, la lettura «degli autori classici del passato» e anche dei migliori tra i contemporanei, dei quali tutti il messaggio intimo è sempre valido; e vi è presente anche l’esortazione ai professori a «fare della scuola un cantiere di lavoro creativo, sì
da suscitare profondi interessi, grandi passioni intellettuali, che superino la contingenza scolastica e siano d’insegnamento per la vita futura».
La capacità del De Matteis di analizzare e interpretare i testi, la sua sincera
partecipazione al sentire degli autori, congiunte ad una forma chiara e comprensibilissima per il lettore, suscitano in quest’ultimo il desiderio di un incontro diretto
con i testi.
Ripensando a quanto già detto, non resta che augurarsi che il De Matteis
continui a mantenere la sua «fedeltà» verso gli autori pugliesi e, quindi, a presentarcene altri; e ciò sia per il bene dei lettori che per l’onore della Terra di Puglia e
dell’Italia.
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Gli autori
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Gli autori
Gli autori
Rosanna Curci, nata a San Giovanni Rotondo il 26 giugno 1975, si è laureata
con lode in Lingue e Letterature Straniere. Attualmente frequenta corsi di
specializzazione in didattica della lingua inglese. Particolarmente interessata alla
vita sociale delle donne tra Ottocento e Novecento, ha condotto studi approfonditi
sulle viaggiatrici inglesi nell’Italia meridionale di questo periodo.
Giuseppe De Matteis è nato ad Alberona. Ha insegnato presso le scuole superiori di Foggia e di Bari prima di passare all’Università di Pisa come docente di
Lingua e Letteratura Italiana sino al 1986. Da quell’anno si è trasferito a Pescara
dove gli è stata affidata la cattedra di Storia della critica letteraria e contemporaneamente, la supplenza di Lingua e Letteratura Italiana, insegnamento che attualmente continua a svolgere presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti in qualità di
Titolare.
Collabora a varie riviste letterarie nazionali: («Galleria», «Italianistica»,
«Studium», «Esperienze Letterarie», «Aevum», «Opinioni», «Merope», «Proposte», ecc...). Ha pubblicato numerosi volumi, tra i quali: Cultura e poesia di Vincenzo Cardarelli (1971), Critica, poesia e comunicazione (1978), Il nomade illuso: letture e sondaggi cardarelliani (1983), Cultura letteraria contemporanea in Capitanata
(1984), Dittico pirandelliano (1989), Ragioni e certezze della poesia (1990), La narrativa di Italo Calvino (1991), Lettura di “senilità” di Italo Svevo (1992), Edizione
critica dell’opera omnia (poesie dialettali) di Giacomo Strizzi (1992), Il segno e l’enigma (itinerario poetico) di Michele Urrasio (1993), protagonisti della cultura letteraria meridionale (1993), Il fantastico nel Decamerone (1996), Lettura dei “postuma”
di Olindo Guerrini (1996), Sondaggi foscoliani (1998), Manzoni e altri studi (1999),
Istanze della narrativa italiana contemporanea (2002), Vincenzo Cardarelli.Un sogno: lo stile assoluto (2005), Una “lunga fedeltà”: aspetti e figure della Puglia letteraria contemporanea (2005).
De Matteis ha organizzato e curato da vari anni molti convegni nazionali di
letteratura, tra i quali si ricordano tre convegni su Leopardi, uno su Pietro Giannone
e un convegno di carattere internazionale sul tema: Dante in lettura.
Luana Di Francesco, laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università degli Studi di Chieti, è dottoranda presso la Facoltà di Lingue dell’Università “G. D’Annunzio” di Pescara.
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Gli autori
Antonella Iacobbe si è laureata con il massimo dei voti presso l’Università
degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti – Pescara. È cultore di Letteratura italiana e
di Storia della critica e storiografia letteraria da febbraio 2000 presso l’Università
degli Studi di Pescara e dottoranda all’ultimo anno in Lingua, Testo e Letterarietà
(XIII ciclo) presso la stessa Università. Ha tenuto diversi seminari per la cattedra di
Letteratura italiana.
Dopo varie recensioni ha pubblicato un saggio dal titolo: Lettura gotica dei
Promessi Sposi, Quaderni del Dottorato: Lingua, Testo e Letterarietà, a cura di
Alfonso De Petris (Editrice Itinerari, 2005).
Marianna Iafelice è nata a San Severo nel 1971, si è laureata in Conservazione dei Beni Culturali, Indirizzo dei Beni Archivistici Librari presso l’Università
degli Studi di Udine, per poi specializzarsi a Bari nella catalogazione informatizzata
del libro antico. Ha conseguito il Diploma della Scuola biennale di Archivistica
Paleografica e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Bari.
Ha contribuito alla schedatura degli incunaboli e delle cinquecentine della
Biblioteca Comunale di San Severo, finalizzata alla realizzazione di un catalogo su
cd-rom dal titolo “Gli incunaboli e le cinquecentine della Biblioteca Comunale “A.
Minuziano” di San Severo. Nel 2000 le è stata affidata dalla COMES ATP, la redazione di una ricerca storico, libraria, archivistica da allegare al progetto di ristrutturazione e riqualificazione funzionale dell’immobile di pregio che ospita l’Istituto
Talassografico Sperimentale “A. Cerruti” del CNR di Taranto. È stata docente in
Teorie e tecniche di catalogazione nelle biblioteche, al corso professionalizzante
presso l’Università degli Studi di Foggia Facoltà di Giurisprudenza, anno accademico 2003.
Ha pubblicato sulle riviste «Carte di Puglia», «la Capitanata», «Il Provinciale». Ha effettuato la catalogazione informatizzata del fondo antico della Biblioteca
Provinciale di Foggia, e di recente ha intrapreso la catalogazione informatizzata
delle settecentine della Biblioteca comunale di Ascoli Satriano.
Lucia Lopriore, nata ad Orta Nova (FG) nel 1955, Consulente del Lavoro,
è ricercatrice storica “per vocazione”. È collaboratrice del mensile «Il Provinciale»;
è membro ordinario dell’Associazione “Amici del Museo” di Foggia e del Centro
Studi “G. Martella” di Peschici.
Opera attivamente nel settore della cultura, è autrice dei volumi: Orta Nova
tra ‘700 e ‘900 – Storia, Urbanistica ed Architettura, (Foggia, Bastogi, 1999) ed Il
Camposanto di Orta Nova, genesi e sviluppo, (Foggia, Bastogi, 2000), entrambi
patrocinati dal Comune di Orta Nova.
È inoltre autrice di numerosi saggi sulla storia locale apparsi su varie riviste,
tra cui «Carte di Puglia».
Ha ultimato due monografie rispettivamente dal titolo: Le neviere in
Capitanata – affitti, appalti e legislazione e I duchi di Sangro, storia della famiglia
dalle origini ai giorni nostri.
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Gli autori
Spinta dalla passione per la storia patria continua a ricercare rivolgendo la
propria attenzione, in special modo, verso la ricerca documentale ed inedita, così
facendo spera di contribuire all’arricchimento del patrimonio storico restituendo al
passato ciò che gli appartiene.
Dionisio Morlacco, socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia,
è impegnato in studi e ricerche che illustrano figure, aspetti e momenti del vasto e
plurisecolare patrimonio di storia e civiltà di Lucera, sua città natale. Nella sua
ampia bibliografia, oltre all’assidua collaborazione a giornali e riviste d’ambito locale («Il Centro-Giornale di Lucera», «Fortore») e nazionale («Archivio Storico
Pugliese», «Rassegna Storica del Risorgimento»), si evidenzia la pubblicazione di
saggi e monografie di argomento storico e di recupero delle tradizioni locali, che se
pur si ascrivono al filone della cosiddetta “storia minore” (I Palazzi di Lucera,
1984; Fiere e mercati di Lucera, 1987; Le mura e le porte di Lucera, 1987; Pozzi,
cisterne e spacci per le sete di Lucera, 1991; Bazar Tripoli, 1995; Toponomastica di
Lucera, pubblicata su «Il Centro»), costituiscono pur sempre il substrato (indispensabile) della grande storia, alla quale più direttamente l’autore perviene con i
suoi accurati profili biografici dei Parlamentari lucherini (dal Parlamento del Regno d’Italia alla Repubblica), tra i quali si ricordano quelli di Ruggero Borghi, di
Giandomenico Romano, di Antonio Salandra, ed ancor più quello di Riccardo Del
Giudice, in corso di stampa.
Tommaso Nardella è collaboratore dell’Archivio Storico per la provincia
Napoletana, di Studi Storici meridionali e di Risorgimento e Mezzogiorno. Si interessa di storia meridionale nel periodo risorgimentale, è socio dell’Istituto del Risorgimento romano e della Società di storia patria di Bari. Collabora da mezzo
secolo alle rassegne dei due istituti.
Tommaso Palermo è nato a Roma nel 1976. Nel 2003 si è laureato a Bari in
Codicologia, con la tesi Il ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassimo.
Studio codicologico, paleografico, testuale.
Cristanziano Serricchio è nato a Monte S.Angelo sul Gargano. Laureato in
Lettere presso l’Università di Roma, ha insegnato ed è stato preside nei Licei. Vive
a Manfredonia. Si interessa di studi storici, archeologici e letterari. Ha pubblicato
in tali discipline numerosi saggi. È inoltre autore di diciotto raccolte di poesia fra
cui Stele Daunie, con saggio critico di Oreste Macrì e Poesie, a cura e con introduzione di Giacinto Spagnoletti, una in dialetto, e di quattro opere narrative, fra cui
L’Islam e la Croce, romanzo edito da Marsilio nel 2002, vincitore del premio Palazzo al Bosco, tradotto in lingua serbo-croata. È incluso in diverse antologie e storie
letterarie e collabora a riviste e giornali. Mario Luzi gli ha conferito nel 2003 il
Premio “Una vita per la poesia”.
È presente in diverse storie letterarie e antologie, come Puglia di Michele
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Gli autori
Dell’Aquila, Oltre Eboli la Poesia, Storia della Letteratura Italiana del 900 di Giacinto Spagnoletti, Melodie della terra. Novecento e natura di Plinio Perilli.
È anche autore di numerosi saggi letterari, storici e archeologici, fra cui quelli
dedicati a Siponto antica, alle iscrizioni romane paleocristiane medievali di Siponto,
alla necropoli sipontina, a Federico II e San Leonardo, al De Arte venandi, a Manfredi
e alla fondazione di Manfredonia e altri studi fino al Risorgimento. Recentissimo il
volume Siponto e Manfredonia.
Gli sono stati conferiti numerosi premi in concorsi nazionali, e dalla presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel 1979 il Presidente della Repubblica Pertini,
su proposta del ministro Spadolini, gli ha conferito la medaglia d’oro con diploma
di prima classe quale benemerito della cultura dell’arte e della scuola.
Recentemente ha vinto il Premio “Bayron”, il Premio “Sant’Egidio”, il
“Poseidonia-Paestum”, il Premio di narrativa e poesia “Benedetto Croce”, il Premio di “Poesia Club”. È stato incluso nell’antologia Parole di passo fra 33 poeti per
il terzo millennio, Aragno, nell’antologia Altri Salmi, Gallo e Calzati, e Nuovi poeti
dialettali a cura di Franco Loi, Einaudi.
Luciana Stanziano, si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso
l’Università “G. D’Annunzio” di Pescara.
Eugenio Tosto, è nato a Torremaggiore nel 1925. Laureato in Lettere a Bari,
dopo aver insegnato materie letterarie, è stato preside negli Istituti Magistrali di
Firenze fino al 1990. In pensione per raggiunti limiti di età, vive a Firenze tenendo
vivi i rapporti con Torremaggiore, sua città di origine. Tra le sue pubblicazioni:
Una polemica linguistica agli inizi del Novecento: (Croce e De Amicis), in «Lingua
nostra», vol. 28, 1967, 3 (settembre); Terenzio, Adelphoe, introduzione e commento di Eugenio Tosto, Napoli-Firenze, Il Tripode, 1972; Giacomino Pugliese, in Atti
dell’Accademia di Scienze morali e politiche, CV (1994); San Severo e il brigantaggio
nella narrativa del De Amicis, in «Corriere di San Severo», 15 aprile 1998 e 1° maggio 1998.; Edmondo De Amicis e la lingua italiana, Firenze, Olschki, 2003; Le sanguisughe di Torralta, Foggia, Edizione del Rosone, 2005.
Mariangela Tota si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università “G. D’Annunzio” di Pescara.
Gaetano Zenga, laureato in Lingua e Letteratura Inglese presso l’Istituto
universitario Orientale di Napoli, ha insegnato Lingua e letteratura inglese presso il
Liceo Scientifico “Volta”. Dal 1974 sino al 1978 ha insegnato lingua inglese presso
la Facoltà di Economia e Commercio di Bari. Dal 1978 al 1993 è stato incaricato di
Lingua e letteratura inglese presso l’Istituto cattolico di studi universitari e formazione della Daunia. Dal 1984 al 1986 ha insegnato Lingua inglese presso l’Università della Terza Età di Foggia. Preside negli istituti superiori sino al 2001, ha svolto
attività di docenza ai corsi di abilitazione per docenti. Ha pubblicato: Natura e
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mondo primitivo nei drammi di J.M. Synge (1979) e Studi su John Keats (1980). Ha
pubblicato sulla rivista «la Capitanata» (2001, 11) il saggio Il tema della violenza e
le strutture profonde in Relic di Ted Hughes e nella stessa rivista (2003, 14) il saggio
L’evoluzione della poesia di Dylan Thomas: dall’ ‘io’ all’uomo. È docente a contratto di Lingua inglese presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di
Foggia dall’a.a. 2002/2003.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2006
presso il Centro Grafico Francescano
1a trav. Via Manfredonia - 71100 Foggia
tel. 0881/728177 • fax 0881/722719
www.centrograficofrancescano.it
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