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La coscienza moderna 12 La Fenomenologia è il rito dello Spirito, ovvero dell’inquietudine della “Totalità” l ‘esigenza della quale nell’animo umano non si acqueta in nessun compromesso particolare, ma scarta ogni soluzione (ogni figura) fino a che non raggiunge la piena contemplazione di se stessa. In altre parole, l’uomo, anche se sembra rincorrere ora questo, ora quello scopo nella vita, è felice solo quando “incontra se stesso”. La “Totalità” è dunque bisogno assoluto che si soddisfa solo di se stesso. Il suo motore è etico: è il “non rassegnarsi mai”, il “pánta tolmetéon” di Platone – il “bisogna osare tutto” – che si è sottoposto a tutte le obiezioni possibili del mondo, che ha sperimentato ogni tipo di compromesso, senza esserne mai appagata. La sua forza è la dialettica, che coincide con la parresía, il “dire tutto”, il non tenere nulla, nessuno scetticismo, nessun dubbio, nascosti per timore che ad essi non ci sia risposta. La “Totalità” smaschera spietatamente, con la potenza della dialettica, ogni tentazione della coscienza di fermarsi appagata a qualsiasi altra esperienza che non sia quella della propria potenza. Grazie alla forza indomita della logica dialettica la coscienza giunge, dopo essersi sottoposta ad ogni prova, a “convincersi di se stessa”, cioè alla certezza di essere davvero nient’altro che questo indomito non rassegnarsi a nulla, e a ravvivarsi della propria luce, come l’uno arcaico si ravviva nella parusia spendente del dio. Il racconto dello spirito (fenomenologia) non è una semplice “storia dello spirito”. Che differenza c’è tra storia e Fenomenologia dello Spirito? La storia racconta come le cose sono andate (è storia di “accidenti” cioè di progetti non riusciti, di casualità che si accavallano in un caos apparente), la Fenomenologia, raccontando come sono andate le cose, dice anche che così dovevano necessariamente andare. Che cosa vuol dire “necessariamente”? Che le cose, pur nella continua variazione di ambienti e situazioni sono andate, vanno e andranno sempre così, anche se non sarà mai facile comprenderlo, perché la varietà delle apparenze - come ad esempio il riflesso di un edificio immobile sulla superficie tremula dell’acqua ci dà l’illusione che a riflettersi siano edifici diversi – ci illude che ogni situazione non abbia niente a che fare con altre che sono avvenute o avverranno. Il racconto, la scrittura della Fenomenologia è essa stessa parte della Fenomenologia, è il “fatto dei fatti”: il “fatto” che i fatti, tutti insieme, cooperano a creare, grazie al quale rendendoli a sua volta tutti necessari. E’ il racconto che lo Spirito fa di se stesso attraverso la scrittura del filosofo, al modo che Dio si rivela nella scrittura dei profeti. Che cos’è dunque la Fenomenologia? E’ la celebrazione della potenza dello Spirito. Appunto: il rito (la ripetizione) dell’umano (della ragione) divenuto pienamente in possesso di se stesso e gode di sé, della propria “grazia”, dell’essere donato incondizionatamente a se stesso. Esperienza integrale del tutto che genera integrità. Ma quale è il rapporto tra il tempo necessario del rito e quello casuale della quotidianità (della storia “accidentale” degli accadimenti)? Sono due tempi qualitativamente diversi: il loro rapporto è quello che intercorre tra rigenerazione e logoramento. La quotidianità è il continuo sfarinarsi, logorarsi della potenza assoluta dello Spirito nella varietà (relatività) delle vicende e situazioni, nel cui caotico labirinto il filo della necessità si perde. La quotidianità, come trionfo dell’accidentalità, è l’intricarsi e sfinirsi, cioè la disperazione e lo scetticismo (la mezzanotte) dello Spirito, quanto il “rito” della Fenomenologia ne è la resurrezione. Essa depura l’accidentalità, vince l’apparenza ingannevole che ci svia costantemente nel caos, coglie il filo d’oro della necessità che nella varietà è celato, libera la Totalità da ogni parzialità e la appaga di se stessa. resta sempre l’eccesso del “che è” del mondo, irriducibile, cioè non dialettizzabile. Ci sono altre modalità AlbertoMadricardo–Lacoscienzamoderna2015‐20161di2 della rigenerazione (altri riti): la rivoluzione – e la democrazia che è una rivoluzione senza spargimenti di sangue - l’arte, la scoperta scientifica, i riti “dionisiaci” del carnevale (che celebra la metamorfosi), della discoteca, dello stadio, dei grandi concerti rock (che ricercano la rigenerazione attraverso la scorciatoia dell’annullamento di sé, secondi il principio che: “se non ci sono non ho problemi”). Eppure la coscienza ha ancora, tutto intero davanti a sé l’enigma del mondo. Il rito è purificatore, liberatorio (negativo), ma non positivo (creativo): ristabilisce la potenza umana, ma non stabilisce, non crea nulla. Resta sempre l’eccesso enigmatico dello “os ésti”, del “che è” del mondo rilevato già da Parmenide, irriducibile, cioè non dialettizzabile. E’ più radicale dell’”essere”, perché è anche “non essere”. E’ “il neutro”, l’oscuro inafferrabile mistero che si sottrae al farsi ridurre ad una parzialità dialettica (come l’essere, che si determina come opposto del non essere, i quali, immessi nella Totalità divengono contrari, dalla cui contrarietà ha inizio il movimento dialettico). Esso si nega ad ogni rapporto, anche negativo ma anche ci salva, e questo è il suo “dono” - dallo sprofondamento nello “Happy End”, nella “felicità che perde colpi”, che si stanca di se stessa, a cui la quotidiana banalizzazione della sua ripetizione condanna ogni rito (anche quello della dialettica). La Fenomenologia, in realtà, è ripetizione che si celebra efficacemente una sola volta: quando viene scritta Giunto a se stesso ed avere goduto della propria gloria, lo Spirito “si oltrepassa” per sempre ed incontra “l’altro” che non è fuori della Totalità (perché per ciò stesso ne sarebbe dentro), ma neanche dentro di essa, non dialettizzabile: il grigiore impalpabile e sfuggente, su cui vanno a depositarsi le scorie del logorio quotidiano, che non può mai essere innalzato e portato davanti, faccia a faccia, promosso ad ostacolo che sbarri la strada e susciti per reazione le energie per superarlo: i problemi sentiti ma rimossi, le piccole impotenze, i dubbi, le micro delusioni di ogni giorno che assediano l’integrità della potenza rigenerata e la indeboliscono come un nugolo di microscopici parassiti assediano e logorano fino allo sfinimento un animale forte e vigoroso, minandone la “grande salute” (Nietzsche). Possiamo immaginare una comunità umana “originaria” per la quale la quotidianità non esiste e “tutto è sacro”, cioè tutto ciò che accade e si fa ora è accaduto e si è fatto sempre e sempre accadrà e si farà. Tale umanità originaria sarebbe immune da ogni logoramento, compensando con la crescita della potenza dello spirito il logorio fisico ineluttabile dei suoi membri: i vecchi s’indebolirebbero fisicamente ma diverrebbero sempre più forti (potenti) spiritualmente, al contrario dei giovani, più forti fisicamente ma più deboli spiritualmente. Ma che cosa interrompe la loro vita serena, perché si passa dal tempo necessario (sacro) del rito (della rigenerazione) a quello accidentale della quotidianità (del logoramento)? Alla domanda Kierkegaard risponderebbe. A causa del peccato: il peccato è la caduta dal tempo del rito (della rigenerazione) a quello della quotidianità (del logoramento). Il peccato non ha una ragione fuori di sé – come abbiamo già citato – “il peccato entra nel mondo con il peccato” (non è dialettico). Il peccato è il sempre (non ora) che si scinde dall’ora. “L’ora”, come il guizzo leggero della scintilla dell’integrità, va in cielo, e il “sempre”, pesante e piatto come la stanca abitudine di ogni giorno (come la terra), cade giù. Ma che cos’è il peccato? Un’impazienza, una sbrigatività, un “ora basta” che vuole afferrare l’ora direttamente, strappandolo dal sempre di cui è il cuore. Ma così si afferra un “pugno di mosche”: il sempre noioso e opaco, senz’anima, dell’abitudine, perché l’ora si può dare solo nel sempre e solo chi si assume sulle proprie spalle il secondo può ricevere il primo in dono. In fondo il rito – e anche la Fenomenologia - non sono altro che esercizi di pazienza: raccogliendo su di sé il peso del sempre del (non ora), l’uomo crea lo spazio in cui l’ora divino può ora manifestarsi. AlbertoMadricardo–Lacoscienzamoderna2015‐20162di2